Volantino del collettivo
Si può lasciare in mano ad interessi privati la gestione delle nostre vite?
La crisi economica si sviluppa. Partita dal settore finanziario, essa si è estesa a tutti i settori dell’economia. Le delocalizzazioni e le chiusure di fabbriche ne sono le manifestazioni più evidenti. Anche l’edilizia, per esempio, conosce gravi problemi. Ma le imprese di questo settore sono di taglia ridotta, perciò attirano poco l’attenzione dei mezzi di informazione.
Le bombole di gas
Questa crisi, di cui la borghesia (i proprietari dei mezzi di produzione e del capitale) è responsabile, è pagata dai lavoratori e dai futuri lavoratori di tutti i paesi. Le chiusure di fabbriche, le delocalizzazioni, i licenziamenti, la cassa integrazione e la disoccupazione parziale…, di cui i lavoratori soffrono, non si contano più. La crisi ha come conseguenza un aumento della violenza nei rapporti sociali fra le classi. Nei fatti, questo si traduce, da un lato, in attacchi ripetuti contro le conquiste sociali, ben presto ridotte a niente: volontà di allungare la durata del lavoro (“lavorare di più per guadagnare di più”), aumentare l’età per il pensionamento (67, o anche 70 anni), attacchi al codice del lavoro (lavoro domenicale, ….), ecc. il tutto con un solo scopo: aumentare lo sfruttamento! Dall’altro lato la crisi suscita una volontà dei lavoratori di resistere a questi attacchi, in maniera sempre più combattiva: sequestri dei dirigenti (3M…), scioperi duri con occupazione del luogo di lavoro (Continental…), sviluppo di legami nazionali ed internazionali: incontri dei salariati di diverse fabbriche nella sede centrale del proprio gruppo (Michelin, Caterpillar…) e rapporti con i lavoratori di altri paesi (Continental con la Germania…), e in qualche caso anche la minaccia di far saltare la propria fabbrica per ottenere delle indennità di licenziamento decenti (New Fabris…).
Ma queste lotte sembrano prendere una nuova forma. Molti lavoratori non hanno più speranza di poter conservare il loro posto di lavoro e quindi di mantenere il loro sito industriale. Quello che vogliono è fare in modo che i “piani sociali” (termine tecnocratico per dire licenziamenti in massa) diano loro il massimo di soldi. Così, da una parte, gli azionisti saranno obbligati a sborsare qualcosa di più di quanto avevano previsto; d’altra parte questi lavoratori potranno sopravvivere un po’ di tempo in più nonostante l’esiguità dei sussidi di disoccupazione. Sono dunque le questioni della dignità e delle loro condizioni di vita che essi pongono. Ma non è meno vero che essi, cioè noi siamo in un vicolo cieco.
E dopo, che si fa?
Quello a cui siamo confrontati è una vera crisi di prospettive. Le confederazioni sindacali, con la loro strategia di accompagnamento alla crisi, non offrono nessun mezzo per uscire da questa via senza uscita. Questo mostra che la necessità di organizzarsi in altra maniera, cercando di ricostruire nuove prospettive in rottura con il capitalismo, diventa allo stesso tempo urgente e vitale. Come arrivare a una divisione paritaria delle ricchezze? Come uscire dal dominio degli azionisti e altri piccoli capi che rovinano la nostra vita quotidiana? Si tratta della nostra vita di tutti i giorni, ma anche del divenire dell’umanità, dell’avvenire del pianeta: una scelta di società! Le confederazioni sindacali sono capaci di costruire degli spazi in cui noi possiamo riflettere sul nostro quotidiano, per cominciare a trasformarlo? Si può credere che i burocrati sindacali possano favorire l’immaginazione e la lotta per un futuro in cui la preoccupazione centrale dell’organizzazione sociale diventino i rapporti sociali e non più la ricerca di profitti per una minoranza sempre più avida?
I successi delle grandi manifestazioni del 29 gennaio e del 19 marzo ci danno speranza. E’ d’obbligo constatare che il seguito che ne hanno dato le direzioni sindacali non è stato all’altezza delle nostre aspettative. La maggior parte delle direzioni delle grandi centrali sindacali si sono accontentate di discutere con il governo, di organizzare delle “giornate di azione dura”. Niente di realmente positivo si è concretizzato per rafforzare il campo dei lavoratori e di tutti gli oppressi, per costruire la solidarietà di classe. Questo ha portato logicamente alle sbandate del 26 maggio e del 13 giugno.
Molti fra noi (lavoratori, precari, disoccupati, pensionati, sindacalizzati…), auspichiamo, sussurriamo, gridiamo, agiamo per lo sciopero generale. Ma non viene fatto niente. L’influenza dei burocrati sindacali è ancora efficace! E’ ora vitale darsi delle prospettive rivoluzionarie per farla finita in maniera radicale con la società capitalista. Dobbiamo organizzarci alla base, sviluppare la solidarietà di classe, costruire degli strumenti di lotta per prendere in mano il nostro destino e costruire da subito un altro futuro!
Nelle fabbriche,nei quartieri, negli uffici, costruiamo i nostri comitati, i nostri collettivi e tutte le forme di strumenti di lotta che riterremo opportuni!
Usciamo dalle logiche corporative che ci indeboliscono!
Solidarietà fra tutti gli sfruttati ed oppressi, sindacalizzati o no!
Costruiamo l’unità della nostra classe, distinguendo i no stri compagni dai nostri nemici!
Ne abbiamo abbastanza delle briciole, prendiamoci i forni del pane!
Collettivo Unità alla Base di Tours
I nostri commenti
Questo volantino illustra bene il fatto che la classe operaia, attraverso alcune sue minoranze, non si rassegna alla passività. Essa non accetta le condizioni di sfruttamento a cui la borghesia, il governo e i sindacati vogliono costringerla.
Anche se noi non ne condividiamo tutti i punti di vista o tutte le formulazioni, quello che ci sembra molto interessante in questo volantino è che esso pone chiaramente la questione della prospettiva rivoluzionaria: “E’ ora vitale darsi delle prospettive rivoluzionarie per farla finita in maniera radicale con la società capitalista.” Questa questione è effettivamente il principale problema con cui si scontra oggi il proletariato: “Quello a cui siamo confrontati è una vera crisi di prospettive”. Perciò, come dice il volantino, bisogna prendere coscienza della gravità della posta in gioco: “Si tratta della nostra vita di tutti i giorni, ma anche del divenire dell’umanità, dell’avvenire del pianeta”. E questo pone effettivamente il problema di una “scelta di società”, e noi condividiamo pienamente questa preoccupazione del volantino, una preoccupazione che mostra che questa questione della prospettiva rivoluzionaria comincia a maturare. Il volantino dà un contributo a questo sforzo di coscienza della classe operaia.
In questo quadro, questo testo si pone immediatamente dal punto di vista degli interessi della lotta di classe in reazione alla crisi e agli attacchi brutali portati dalla borghesia. E’ per queste ragioni che esso arriva rapidamente a denunciare il sabotaggio delle lotte operaie da parte dei sindacati: “I successi delle grandi manifestazioni del 29 gennaio e del 19 marzo ci danno speranza. E’ d’obbligo constatare che il seguito che ne hanno dato le direzioni sindacali non è stato all’altezza delle nostre aspettative. La maggior parte delle direzioni delle grandi centrali sindacali si sono accontentate di discutere con il governo, di organizzare delle “giornate di azione dura”. Niente di realmente positivo si è concretizzato per rafforzare il campo dei lavoratori e di tutti gli oppressi, per costruire la solidarietà di classe. Questo ha portato logicamente alle sbandate del 26 maggio e del 13 giugno”.
Gli operai si sono dunque trovati in dei vicoli ciechi. E, come sottolinea il volantino “l’influenza delle burocrazie sindacali è ancora efficace”. Ogni lotta è restata e resta ancora ben chiusa su se stessa, il che non consente agli operai di creare un vero rapporto di forze che porti ad un movimento di più ampia portata. Attraverso le loro reazioni e in questo contesto, “le questioni di dignità e delle condizioni di vita che esse pongono” danno il segno di un potenziale per le lotte future per una risposta più all’altezza degli attacchi attuali.
Al fine di effettuare un passo in avanti per sviluppare la lotta in maniera più efficace, il volantino dà un certo numero di indicazioni politiche molto importanti che si riassumono nella frase: “Dobbiamo organizzarci alla base, sviluppare la solidarietà di classe, costruire degli strumenti di lotta per prendere in mano il nostro destino e costruire da subito un altro futuro!”.
La questione di “organizzarsi” per il proletariato è essenziale. Ma cosa dobbiamo intendere per questa espressione usata nel volantino “dobbiamo organizzarci”? Quali forme di lotta sviluppare?
Pensiamo che queste siano questioni centrali che devono effettivamente essere discusse nella classe operaia e che è necessario precisare, per poterle confrontare e arricchire la riflessione.
Da parte nostra, noi crediamo, in un contesto in cui il proletariato è colpito con forza dalla crisi, che chi difende una prospettiva che metta in discussione il capitalismo deve assumersi un ruolo, necessariamente minoritario, per la preparazione politica all’azione e all’intervento nelle lotte future.
Dopo i primi colpi di martello di una crisi economica destinata a prolungarsi, quando la classe operaia riprenderà il cammino della lotta, dovrà allora riprendere essa stessa in mano le sue lotte, le sue iniziative e la sua creatività, secondo le modalità di una lotta veramente collettiva, in cui le decisioni vengano prese in vere Assemblee Generali, aperte e sovrane. Le future Assemblee Generali, realmente vive, costituiranno il solo e unico mezzo per condurre le lotte in maniera efficace e autonoma. Toccherà ai partecipanti stessi, e non ai sindacati, che paralizzano e sabotano le lotte, decidere quello che è più conveniente fare. Sono gli operai stessi che devono esprimere la loro solidarietà, dentro le lotte e attraverso di esse, in maniera collettiva, inviando, per esempio, delegazioni di massa in altre fabbriche o in altri luoghi di lavoro, al fine di incontrare i salariati per una lotta comune. Sono le iniziative di Assemblee Generali comuni, interprofessionali, aperte, che devono costituire il polmone della lotta! Sarà questa presa in mano da parte degli operai stessi che consentirà una solidarietà attiva, reale, in direzione dei loro fratelli di classe in lotta. Evidentemente, di fronte a questi obiettivi ci saranno numerosi ostacoli. Ed ancora una volta toccherà agli operai, in queste stesse Assemblee Generali discuterne e studiare la maniera per superarli in maniera collettiva. Le Assemblee Generali, non bisogna dubitarne, restano la forma di organizzazione autenticamente proletaria che permette di controllare collettivamente le lotte.Esse costituiscono in qualche maniera gli embrioni dei futuri consigli operai. Questi organi, raggruppando le masse operaie che attraverso di essi si unificano, si ergono come forza rivoluzionaria in vista del rovesciamento del capitalismo. Essi permetteranno il superamento dei rapporti sociali di sfruttamento in vista della creazione di una nuova società.
Per concludere, sottolineiamo che è con questo obiettivo di contribuire alla riflessione iniziata che ci siamo permessi questi pochi commenti.
CCI
(tradotto da Révolution Internationale, organo della CCI in Francia, n°406)
[1] Si tratta di un collettivo che si è costituito, raggruppando elementi giovani e combattivi, il cui nucleo centrale era stato molto implicato nel movimento degli studenti.
Dal 15 al 20 giugno 2009 c’è stato in Germania uno sciopero nel settore dell’educazione. Si è trattato di un tentativo di bloccare con lo sciopero i licei e le università per protestare contro la miseria crescente dell’educazione capitalista. In rapporto all’ambizione dei suoi obiettivi, questo movimento non ha ottenuto che un modesto successo. È rimasto opera di una minoranza. In particolare nella maggior parte dei centri universitari non è riuscito a mobilitare un gran numero di studenti. Anche negli istituti scolastici delle grandi città ci sono state poche informazioni sulle mobilitazioni previste. Tuttavia, nel mezzo della settimana di mobilitazione, questo movimento è riuscito a mettere insieme circa 250.000 manifestanti in più di 40 città. L’importanza di questo movimento risiede nel fatto che una parte della nuova generazione ha fatto la sua entrata sulla scena politica e ha cominciato a fare le sue esperienze di lotta.
La settimana di “sciopero dell’educazione”
La settimana d’azione è iniziata lunedì 15 giugno con delle assemblee generali, soprattutto nelle università. Come nella fase preparatoria, è soprattutto negli istituti più piccoli, come per esempio a Postdam, che la mobilitazione è stata la più forte e la più significativa. In altre parti, le assemblee generali si sono tenute mentre continuavano i corsi. Raramente è avvenuto il blocco delle università, che era l’obiettivo iniziale. In compenso, il lavoro nelle assemblee generali è stato politicamente significativo.
Un dibattito collettivo ha potuto svilupparsi attorno alle formulazioni delle rivendicazioni che sono in parte andate oltre gli interessi puramente studenteschi per esprimere quelli dei lavoratori nell’insieme, come la richiesta di assunzione di decine di migliaia d’insegnanti nelle scuole e nelle università, la trasformazione immediata di tutti i contratti a durata limitata in contratti a durata illimitata o l’appello all’assunzione di tutti gli apprendisti. Inoltre, in molti posti, sono state redatte delle dichiarazioni di solidarietà verso gli operai in sciopero o sottoposti a licenziamenti massicci. Ma anche le richieste centrali del movimento, come il rifiuto di pagare le tasse universitarie, di aumentare la produttività e di selezionare un’elite nel sistema d’istruzione, riassunte nella parola d’ordine della “formazione per tutti”, volentieri interpretate in modo riformista dalla classe dominante, come un desiderio di “miglioramento del sistema esistente”, sono indubbiamente espressione di rivendicazioni proletarie. Il fatto che il capitalismo auspichi degli schiavi salariati stupidi e senza cultura e conceda loro soltanto il minimo di formazione assolutamente indispensabile per il funzionamento del sistema, è stato da tempo messo in evidenza dal movimento operaio socialista. All'inverso dello slogan “We don't need no education” (non abbiamo bisogno di essere istruiti) cantato dai Pink Floyd, la classe operaia ha combattuto fin dalla sua nascita per l’istruzione. Questa tradizione viene ravvivata oggi, con le stesse assemblee generali dove tutti i presenti partecipano attivamente alla formulazione e all’adozione delle rivendicazioni e degli obiettivi del movimento.
In Francia, nel 2006, il movimento nei licei e nelle università è riuscito ad imporre al governo delle rivendicazioni essenziali, perché ha messo subito al centro rivendicazioni proletarie che esprimono gli interessi dei lavoratori nell’insieme; in particolare, il rigetto del CPE, il progetto di legge che rendeva precari tutti i lavori per i giovani. Mentre in Germania nell’ambito della gioventù attiva cresce visibilmente la convinzione della necessità della solidarietà con tutti i lavoratori dipendenti, il movimento resta finora centrato sull’istruzione in particolare. Significa che non si percepisce ancora come parte di un movimento molto più ampio, della classe operaia nel suo insieme. Tuttavia, ci sono i primi segnali della potenzialità di un movimento che vada al di là del quadro delle scuole e dell'istruzione. L'immaturità momentanea del movimento, ma anche il potenziale di maturazione, si sono già manifestati il primo giorno della settimana d’azione. Uno dei punti di cristallizzazione di questa situazione contraddittoria è stata la manifestazione nazionale dei dipendenti degli asili nido di Colonia il 15 giugno. La grande assemblea generale degli studenti dell’università di Wuppertal ha deciso di inviare a Colonia una delegazione, per solidarizzare con i dipendenti degli asili nido. Non è stato possibile realizzare quest’azione soltanto per mancanza di tempo. A Colonia al contrario l'assemblea generale degli studenti non si è resa conto che a distanza di qualche chilometro si trovavano 30.000 scioperanti che dimostravano nelle strade. Quando in seguito si sono accorti di questo, l'assemblea generale, prima dello scioglimento, ha deciso di inviare una delegazione che è riuscita infine a lanciare un appello agli scioperanti e chiamarli alla lotta comune.
Questo conferma che l'idea di una lotta comune è certamente in gran parte diffusa, ma che non svolge tuttavia ancora ovunque un ruolo centrale. A Wuppertal ad esempio, l’università è relativamente piccola mentre la proporzione di proletari fra gli studenti è particolarmente grande. Là, il movimento si è organizzato fortemente sulla base dell’iniziativa degli stessi studenti. Così Wuppertal è stato uno dei pochi posti dove si è prodotto, almeno all'inizio, un grande movimento di sciopero con il blocco dell’università. L’università di Colonia, al contrario, è una delle più importanti della Germania, per provocare un fermento generale sarebbe necessario un malcontento più profondo e più ampio. Inoltre, le grandi città sono le cittadelle degli ambienti riformisti di sinistra che rallentano, con i loro tentativi di produrre artificialmente movimenti, l'auto-iniziativa degli studenti e li rendono diffidenti rispetto ad eventuali iniziative di lotta. Lo sciopero del settore dell'istruzione è stato chiaramente un’azione minoritaria. La lotta per affermarsi sul campo ed anche per far sentire la propria presenza, ha potuto contribuire a restringere il campo di visione alla situazione immediata nell’università.
La seconda importante giornata d'azione è stata mercoledì 17 giugno, quando in tutta la Germania ci sono state manifestazioni di universitari, liceali ed apprendisti. Le mobilitazioni più importanti si sono svolte ad Amburgo, Colonia e soprattutto a Berlino con 27.000 partecipanti. Il numero di partecipanti avrebbe potuto essere di gran lunga più elevato, se si fosse riusciti a mobilitare in modo più ampio i licei. A novembre scorso, già poteva esserci una giornata d’azione dei liceali - spesso attivamente sostenuti da insegnanti e genitori. Si è allora osservato che l’insoddisfazione e la combattività fra i liceali era spesso molto più grande che fra gli universitari. Invece a giugno l’azione della settimana dell’istruzione è stata troppo poco presa a carico dai licei. Questo è legato al fatto che durante questa settimana coloro che si sono attivati hanno utilizzato per così dire un quadro dato in anticipo da parte di un collettivo d’azione composito. Se l’azione fosse partita dagli stessi interessati, difficilmente questi avrebbero scelto di agire nel bel mezzo del periodo d’esame alla fine dell’anno scolastico! Non si deve tuttavia omettere che queste manifestazioni - a volte decise dalle assemblee generali, a volte spontanee - sono state occasionalmente utilizzate per recarsi presso licei o imprese minacciate di licenziamenti o di chiusura e per chiamare alla lotta comune.
La settimana d’azione si è conclusa con una manifestazione nella capitale della Renania Settentrionale - Vestfalia, Düsseldorf, alla quale hanno partecipato alcune migliaia di persone delle città circostanti. Questa manifestazione è stata segnata da due cose: da una parte, dall’atteggiamento, in un certo qual modo duro e provocatorio, della polizia. Occorre ancora aggiungere che i mass media borghesi hanno agitato in modo permanente nel corso di questa settimana d’azione il tema della violenza. La violenza, che si è cercato di far diventare un tema di discussione, per screditare il movimento. La volontà di falsificazione del movimento da parte dei mass media è stata così evidente che alcune assemblee generali hanno deciso di concedere interviste soltanto se il montaggio relativo avesse ricevuto la loro autorizzazione per la diffusione. Esigenza che è stata sistematicamente rifiutata dai media. D’altra parte, lo svolgimento di questa manifestazione si è trovato naturalmente molto meno nelle mani delle assemblee generali rispetto al mercoledì precedente. Si è trovato in quelle di un collettivo composto da diverse forze che agiscono senza alcun controllo della base, e che rappresenta inoltre una specie di compromesso tra vari approcci di pensiero - che non sono stati oggetto di alcun dibattito preliminare. Se citiamo questi fatti non è per difendere la necessità di restare a livello di azioni locali. Vogliamo piuttosto sottolineare che l’estensione ed il raggruppamento geografico d’un movimento rendono necessaria la maturazione corrispondente del suo modo di organizzazione e devono procedere di pari passo con l’autorganizzazione da parte delle assemblee generali. Quando questo non avviene, ci sono dei rischi.
In ogni caso, quando il corteo ha raggiunto la Königsallee – la strada di lusso più nota della Germania – l’azione si è dispersa. Una parte è restata a occupare l’incrocio stradale e voleva così trasformare l’azione in blocco della circolazione finché fosse stato possibile. Fra questi non si trovavano soltanto rappresentanti dei black block, che coltivano l’idea, secondo noi sbagliata, che la violenza in quanto tale è rivoluzionaria. C’erano anche molti giovani frustrati dal fatto che la manifestazione potesse passare inosservata. Erano infatti delusi per la debole risonanza che la settimana di sciopero dell’istruzione aveva avuto. Inoltre, si erano sentiti provocati dall’atteggiamento delle forze dell’ordine. L’altra parte, che aveva avuto la forza di non cadere nella trappola dello scontro con le forze di polizia, aveva esortato gli occupanti dell’incrocio stradale a seguirli, ma alla fine continuò da sola fino al luogo del raduno nella piazza Schloss, lontano dal pericolo, in pieno settore turistico. La manifestazione si è così divisa in due. Quando in seguito arrivò la notizia che la polizia aveva attaccato il gruppo che stava bloccando l’incrocio a Königsallee, l’assembramento fu sciolto ed una parte di esso corse a dar man forte a quelli che venivano attaccati.
Questo incidente rivela – per contrasto- l’importanza delle assemblee generali. Noi non ne facciamo un feticcio. La questione non è la forma delle assemblee generali in sé, poiché se queste restano passive, possono facilmente diventare un guscio vuoto. Il problema è quello della loro capacità di sviluppare una cultura del dibattito e di prendere decisioni in modo collettivo ed autonomo. Il disaccordo a Königsallee, ad esempio, avrebbe probabilmente potuto essere risolto in modo positivo se si fosse discusso sul posto cosa occorreva fare. In situazioni simili, è la saggezza collettiva che può permettere una decantazione delle idee e può riuscire a trovare una soluzione per restare uniti insieme senza esporsi alla repressione.
Il contesto generale degli scioperi nel settore dell'istruzione
Rimane ancora della strada da fare - e la settimana di manifestazioni nel settore dell’istruzione è un piccolo passo in questa direzione. La maggior parte dei partecipanti è cosciente dei propri limiti. Tuttavia, noi siamo convinti che questo passo, anche se piccolo, non è insignificante. Perché significa che i giovani proletari della Germania hanno iniziato a rispondere ai vibranti appelli della gioventù in Francia ed in Grecia. Rispetto ai movimenti in questi paesi, le azioni in Germania restano piuttosto modeste. Ma devono essere comprese nel contesto della necessità per il proletariato tedesco di colmare il suo ritardo (nel 20° secolo, la Germania è stata un anello forte della controrivoluzione borghese e ciò ha un impatto ancora oggi). Ciò è anche legato al fatto che la lotta operaia in Germania si confronta con un nemico di classe particolarmente potente ed abile. Nel 2006 in Francia, il governo ha alimentato la resistenza adottando contro la volontà degli studenti una legge (il CPE) che era un vero attacco generale diretto contro tutta la gioventù proletaria. Il governo della Merkel, che aveva gli stessi piani del governo francese, ha ritirato immediatamente i suoi quando ha visto le proporzioni che prendeva il movimento in Francia. La borghesia in Grecia ha usato l’arma della repressione dura, anche se da mezzo di intimidazione è diventato l’elemento che ha dato fuoco alle polveri per la lotta. È l’assassinio di un giovane dimostrante ad Atene che ha fatto sì che il movimento raggiungesse tale ampiezza e desse l’impulso ad un’ondata di solidarietà nella classe operaia.
Le prime lotte della nuova generazione in Germania sono più modeste ed appaiono spesso meno radicali che in altri paesi. Ma è significativo che là dove prendono un carattere proletario, esse seguono la stessa traiettoria che altrove. Le espressioni di presa di iniziativa, di cultura del dibattito, di capacità d’organizzazione, di creatività e d’immaginazione durante gli ultimi giorni sono state finanche sorprendenti.
È infine importante per la classe operaia nel suo insieme che la sua gioventù abbia ripreso il cammino della lotta. Attualmente, i settori centrali tradizionali della classe operaia sono colpiti da un’ondata di fallimenti di imprese e di licenziamenti massicci mai visti dal 1929. Quest’ondata spaventa e paralizza temporaneamente queste frazioni della classe operaia. Gli operai combattivi dell’Opel, che un tempo reagivano con scioperi selvaggi ed occupazioni di fabbriche contro le minacce di licenziamenti, sono ora spinti a fare i mendicanti nei confronti dello Stato borghese. I dipendenti della catena di grandi magazzini Karstadt, che sono sotto la minaccia di liquidazione dell’impresa, sono spinti a sostenere i loro padroni che adesso prendono essi stessi la parola in occasione di assemblee di protesta e fanno agitazione con il megafono, ma solo per trascinare i dipendenti dietro di loro e per chiedere denaro allo Stato. In questa situazione tormentata in cui gli operai interessati non possono trovare delle risposte immediate, è importante che i settori della classe operaia che sono meno direttamente minacciati dal fallimento del loro datore di lavoro entrino in lotta. Oggi sono i giovani, studenti o apprendisti, ma anche i dipendenti degli asili nido che non solo si difendono ma che hanno iniziato in modo più attivo ad esigere decine di migliaia di assunzioni. Lo fanno non solo per resistere a condizioni di lavoro e d’insegnamento sempre più intollerabili, ma anche come espressione di una lenta maturazione della coscienza sul fatto che oggi la sfida non è soltanto il futuro immediato ma il divenire della società intera. In occasione delle manifestazioni della settimana scorsa, gli universitari scandivano: “Manifestiamo perché ci rubano la nostra istruzione”. E gli studenti di scuola secondaria aggiungevano: “Perché ci rubano il nostro futuro”.
Weltrevolution (21 giugno)
Se da mesi e mesi si sviluppa una lotta tra i precari della scuola che viene completamente oscurata rispetto ad altre avvenute nello stesso periodo è perché questa, per le condizioni in cui si è prodotta, può destare maggiori preoccupazioni alla borghesia in quanto meno facilmente governabile[1]. Innanzitutto le decine di migliaia di lavoratori coinvolti sono decisamente superiori a quelli che hanno scioperato, ad esempio, alla INNSE[2] di Milano o in altre piccole fabbriche. Inoltre si tratta, nel caso dei precari della scuola, di un settore che tradizionalmente ha avuto un rapporto difficile con il sindacato e che ha espresso nella sua storia diversi episodi di lotte organizzate dal basso e di collegamento anche a livello nazionale.
E i precari hanno oggi ben motivo per mobilitarsi in massa e per lungo tempo. Ben 18.000 di loro infatti, dopo anni di incarico, perderanno il lavoro a causa dei più di 45.000 posti tagliati nella scuola dal governo, in parte assorbiti dai pensionamenti. E qui non c’entra niente il mercato, ma solo la volontà del governo di fare cassa per far fronte alla crisi del capitalismo. Un tale attacco, uno dei più importanti tra quelli portati avanti contro un settore di lavoratori negli ultimi tempi, non poteva rimanere senza risposta, visto che quello che è in gioco è la stessa sopravvivenza. Ed infatti, fin dal mese di agosto, i precari si sono mobilitati in varie città d’Italia, dal nord al sud.
Le giornate di mobilitazione sono state tante, con la partecipazione di decine di migliaia di precari (docenti, impiegati, tecnici e bidelli). Dalle occupazioni dei centri scolastici provinciali (gli uffici periferici del ministero dove vengono assegnati gli incarichi), ai sit-in, alle manifestazioni cittadine, passando per le diverse manifestazioni e assemblee nazionali fino a quella del 3 ottobre a Roma, manifestazione oscurata dai mezzi di informazione che si sono concentrati sulla più innocua manifestazione “in difesa della libertà di stampa” ma a cui hanno partecipato da 15 a 20 mila insegnanti[3] e ancora a quella di oggi 23 ottobre.
Queste mobilitazioni, sono state essenzialmente l’espressione di una tradizionale presenza, tra i precari della scuola, della tendenza a cercare un collegamento tra le diverse scuole o le diverse città. Questa ricerca del collegamento per lottare assieme riprende una tradizione che è sempre stata forte nella categoria dei dipendenti della scuola[4] e che, nel caso specifico, risulta essere una conseguenza del fatto che i sindacati, al di là di parole di condanna per i tagli, non hanno fatto niente per combattere i provvedimenti del governo. Non un’ora di sciopero, almeno da parte dei grandi sindacati della scuola, per difendere il posto di lavoro dei precari e le condizioni di lavoro di quelli che hanno la fortuna di averlo ancora: per esempio l’aumento dei carichi derivanti dall’aumento degli alunni per classe, o dell’orario settimanale di lezione, per i docenti, o il maggior carico di lavoro che ricade addosso al personale amministrativo ed ausiliario, che derivano dagli stessi tagli di posti di lavoro che hanno gettato in mezzo a una strada i precari. Per quanto riguarda poi i cosiddetti sindacati di base, anche su questi esiste una notevole diffidenza da parte dei lavoratori della scuola non tanto per le parole d’ordine o i programmi, che sembrerebbero raccogliere, almeno in parte, le rivendicazioni di base del movimento, ma per l’atteggiamento manovriero di questi[5]. In queste condizioni era ovvio che i precari si mobilitassero in maniera autonoma, utilizzando tutti gli strumenti per rafforzare e allargare la propria lotta, dalle manifestazioni all’uso del web per i collegamenti.
Oggi una componente importante di precari si riconosce infatti nel Coordinamento Precari della Scuola, CPS, che è una rete di comitati di lotta e di coordinamenti locali uniti da una piattaforma di lotta e organizzati a livello centrale, nel quotidiano, attraverso un forum[6] e una mailing list interna, e periodicamente attraverso delle assemblee nazionali.
Ma è proprio andando a leggere il dibattito sviluppato dai precari sul loro forum che si possono rilevare alcune fragilità presenti nel movimento che non sono da addebitare ai lavoratori di questo settore ma sono un po’ tipici della fase di lotta in cui ci troviamo. Innanzitutto la difficoltà ad unificare i vari fronti di lotta o ad estenderli: per fare un esempio banale, la lotta dei precari non è riuscita ad estendersi, almeno per ora, agli stessi altri lavoratori della scuola che, come abbiamo visto, subiscono anche loro, in una qualche maniera, le conseguenze dei tagli. L’altro limite importante sono le illusioni ancora esistenti sulla possibilità che i sindacati possano farsi carico dei problemi dei precari, a dispetto della loro stessa esperienza: sul forum infatti è presente tutto un dibattito se chiedere o no l’appoggio dei sindacati, mentre è esperienza di tutti i giorni la tendenza di questi a boicottare la lotta. Nonostante un dibattito a volte anche molto serrato sul forum sul ruolo dei sindacati, resta da chiarire il fatto che se i sindacati hanno questo atteggiamento non è perché hanno dei capi cattivi o peggio perché l’insieme dei sindacalizzati sono delle persone poco di buono, ma perché semplicemente non possono fare altrimenti. Il sindacato è una struttura di mediazione, ma in un’epoca in cui non c’è niente da mediare perché l’esigenza è quella di toglierci tutto, il sindacato, anche quando nasce con le migliori intenzioni, finisce sempre con lo sposare la ragion di stato e per fare gli interessi dei padroni. Ma questo non significa affatto che i singoli iscritti al sindacato siano persone poco affidabili. Non è un caso che spessissimo si ritrova sul forum dei precari il fatto che molte iniziative locali sono state condotte assieme a precari iscritti ai Cobas e lo stesso coordinamento precari della scuola nasce giustamente come momento di unità di tutti i precari e non come una nuova sigla sindacale.
Un ulteriore aspetto su cui sarebbe importante riflettere è come lottare per costruire un rapporto di forza nei confronti del nemico (il governo, la borghesia, lo Stato, …). Infatti, per vincere una battaglia rivendicativa occorre scendere in campo e manifestare la propria forza. Ma appunto qui si pone il problema: che significa manifestare la propria forza, in cosa consiste questa forza? Nel forum abbiamo ritrovato spesso l’idea, soprattutto rispetto alla manifestazione del 3 ottobre scorso - considerata a torto da molti come un fiasco - che la condizione per cui una manifestazione può essere considerata vincente è che riesca ad avere risonanza sui mass media (giornali, televisione); tra l’altro, una parte di discussione ha anche insistito molto sull’importanza che dei rappresentanti del coordinamento potessero parlare dal palco di manifestazioni indette da altri. Tutto questo va bene, ha certamente la sua importanza. Ma quello che forse si trascura è il fatto che la stessa manifestazione è un momento non solo di protesta ma anche di incontro, di solidarietà nel lottare assieme e ancora di controinformazione nei confronti della popolazione. Noi siamo completamente d’accordo con una compagna precaria che, rispondendo a delle obiezioni sulla visibilità della manifestazione del 3 ottobre, ha detto: “difendo a spada tratta la manifestazione di ieri. Il nostro intento non era apparire in tv o sui giornali ma parlare alla gente comune. Di gente comune in quella piazza ce n’era davvero tanta[7]. (…) Il successo della manifestazione di ieri non sta in quello che i giornali dicono o non dicono, sta nell’essere riusciti a ricompattare migliaia di precari che stando tutti insieme hanno ritrovato la voglia e la forza di combattere.” In realtà, una crescita reale del movimento la si può avere soltanto se alla base c’è una comprensione profonda non solo del fatto che si perde il posto di lavoro, che gli stipendi sono bassi, ecc., ma che tutto questo è legato strettamente alla crisi economica attuale, e che questa è legata al modo di gestione della società, in Italia come nel mondo intero. Restare volutamente su una piattaforma esclusivamente “rivendicativa”[8] è alla lunga perdente perché la lotta è di lungo periodo e molti lavoratori, non sostenuti da una comprensione del perché le cose vanno in un certo modo, finiscono un po’ alla volta per rifluire. E’ per ciò che l’unione con altri settori di lavoratori non può che rafforzare la lotta. Non si tratta solo di un rafforzamento numerico, che neanche guasta. E’ soprattutto un rafforzamento politico del movimento perché fa comprendere ad ogni lavoratore e ad ogni categoria di lavoratori che quello che loro stanno passando e subendo nel loro settore non è che un aspetto di una più generale sofferenza dello stato di proletario in una società divisa in classi. Questa comprensione dà all’insieme dei lavoratori una forza rinnovata anche perché lottare assieme, in maniera solidale, dà una carica nuova. E soprattutto è qualcosa che il governo, qualunque esso sia, teme molto perché sa che, quando l’insieme della classe lavoratrice si muove in maniera unita e solidale, non c’è speranza di averla vinta.
CCI 23 ottobre 2009
[1] Vedi a questo proposito l’articolo Solo una lotta unita e solidale consente di resistere agli attacchi [6] pubblicato su Rivoluzione Internazionale n°162, in cui cerchiamo di dimostrare come la borghesia abbia enfatizzato la “vittoria” della INNSE solo per invischiare decine di altre situazioni di lotta nell’impasse della lotta chiusa nella propria fabbrica, isolata da tutto il contesto del resto della classe operaia e della cittadinanza.
[2] Idem.
[3] Vedi l’Unità e la Repubblica del 4 ottobre scorso.
[4] Ultima nel tempo la lotta degli anni 1987 e 1988, in cui i lavoratori della scuola, in maniera completamente autonoma dai sindacati (in quelli che si chiamarono Comitati di Base), e nonostante il loro boicottaggio, riuscirono a mettere in piedi una lotta che non solo suscitò la simpatia di altri settori di lavoratori, ma riuscì anche ad assicurare la chiusura di contratti con aumenti salariali che non si erano mai visti prima, e che non si sarebbero più visti poi. Vedi i n° xxx Rivoluzione Internazionale.
[5] Basti citare il fatto, riportato nello stesso forum dei precari, che il capo dei Cobas scuola, Bernocchi, a proposito della manifestazione del 3 ottobre, ha dichiarato: “Abbiamo deciso di non aderire al corteo degli insegnanti precari della Cgil (…) perché lì c'è una manifestazione per la libertà di stampa ma che non è per la scuola” (sottolineatura nostra), facendo passare per sindacalizzati CGIL il coordinamento dei precari della scuola. Se Bernocchi si riduce a questi trucchetti è perché evidentemente vede nel coordinamento un movimento che, per le sue caratteristiche, si pone oggettivamente come una alternativa cocente al suo sindacato.
[6] Vedere per esempio i seguenti siti: docentiprecari.forumattivo.com/t593-nuova-piattaforma-della-rete-nazionale-precari-della-scuola [7], bru64.altervista.org/forum.
[7] A tale proposito vogliamo fare un veloce commento allo slogan con cui i precari hanno aperto il loro spezzone di corteo: “Vogliono distruggere la scuola pubblica. Io non ci sto” che, coerentemente con le parole della precaria citata, non significano una difesa della scuola in sé, ma una maniera per mostrare al resto della popolazione come gli attacchi portati contro una categoria di lavoratori si riflettano poi inesorabilmente su peggiori servizi resi alla comunità.
[8] Ci riferiamo qui a un certo numero di interventi che insistono sul fatto che si deve partecipare solo a manifestazioni ed iniziative che riguardano la scuola
Per quanto riguarda la pace, l’anno 1991 avrebbe conosciuto l’inizio della guerra nella ex Yugoslavia, che avrebbe provocato centinaia di migliaia di morti nel cuore stesso dell’Europa, un continente che era stato risparmiato da questo flagello da quasi mezzo secolo.
Analogamente, la recessione del 1993, e poi il crollo delle “tigri” e dei “dragoni” asiatici del 1997, seguiti dalla nuova recessione del 2002, che mise fine all’euforia provocata dalla “bolla internet”, hanno eroso sensibilmente le illusioni sulla “prosperità” annunciata da Bush senior.
Ma una delle caratteristiche della classe dominante è di dimenticare oggi i discorsi fatti ieri. Tra il 2003 e il 2007, il tono dei discorsi ufficiali dei settori dominanti della borghesia era improntato all’euforia, con la celebrazione del successo del “modello anglosassone”, che permetteva dei profitti esemplari, dei tassi di crescita del PIL sostenuti e anche una diminuzione significativa della disoccupazione. Non si trovavano parole sufficientemente elogiative per celebrare il trionfo della “economia liberale” e i benefici della “deregulation”. Ma dopo l’estate 2007 e soprattutto durante l’estate 2008, questo bell’ottimismo si è fuso come neve al sole. Ormai al centro dei discorsi della borghesia le parole “prosperità”, “crescita” e “trionfo del liberalismo” si sono discretamente eclissati. Al tavolo del grande banchetto dell’economia capitalista si è istallato un convitato che si credeva di aver espulso per sempre. La crisi, lo spettro di una “nuova grande depressione”, simile a quella degli anni ’30.
2. Secondo le stesse parole di tutti i responsabili borghesi, di tutti gli specialisti dell’economia, compresi i sostenitori più accaniti del capitalismo, la crisi attuale è la più grave che questo sistema abbia conosciuto dopo la grande depressione che iniziò nel 1929. Secondo l’OCSE “L’economia mondiale è preda della recessione più profonda e più sincronizzata degli ultimi decenni.” (rapporto intermedio di marzo 2009). Ci sono anche quelli che non esitano a dire che essa è ancora più grave e che la ragione per cui i suoi effetti non sono così catastrofici come negli anni trenta sta nel fatto che, dopo quel periodo, i dirigenti del mondo, forti di quella esperienza, hanno imparato a far fronte a questo genere di situazioni, in particolar modo evitando la fuga nel ciascuno per sé generalizzato: “Anche se si è talvolta qualificata questa severa recessione mondiale come ‘grande recessione’, si è lontani da una nuova ‘grande depressione’ tipo quella degli anni trenta, grazie alla qualità e all’intensità delle misure che i governi prendono attualmente. La ‘grande depressione’ era stata aggravata da terribili errori di politica economica, dalle misure monetarie restrittive fino alla politica del ‘ciascuno per sé’, espressa dal protezionismo commerciale e della svalutazioni competitive. Viceversa l’attuale recessione ha, in generale, suscitato delle buone risposte”. (ibidem).
Tuttavia, anche se tutti i settori della borghesia constatano la gravità delle convulsioni attuali dell’economia capitalista, le spiegazioni che essi danno, benché spesso divergenti tra loro, sono evidentemente incapaci di cogliere il vero significato di queste convulsioni e la prospettiva che esse annunciano per l’insieme della società.
Per alcuni, la responsabile delle difficoltà acute del capitalismo è la “finanza folle”, il fatto che dall’inizio degli anni 2000 si siano sviluppati tutta una serie di “prodotti finanziari tossici”, che hanno permesso una esplosione di crediti senza garanzia sufficiente di un loro rimborso. Altri affermano che il capitalismo soffre di un eccesso di “deregulation” su scala internazionale, orientamento che si trovava al centro delle “reaganomics” messe in atto dall’inizio degli anni’80. Altri, infine, in particolare i rappresentanti della sinistra del capitale, considerano che la causa profonda sta in una insufficienza dei redditi dei salariati, cosa che costringe questi ultimi, in particolare nei paesi più sviluppati, ad una fuga in avanti nei debiti per poter soddisfare i loro bisogni elementari.
Ma quali che siano le differenze, quello che caratterizza tutte queste interpretazioni è che esse considerano che non è il capitalismo, come modo di produzione, che è in causa, ma questa o quella forma di questo sistema. Ed è proprio questo postulato di partenza che impedisce a tutte queste interpretazioni di andare a fondo nella comprensione delle cause vere della crisi attuale e degli scenari che essa preannuncia.
3. Nei fatti solo una visione globale e storica del modo di produzione capitalista permette di comprendere, di prendere la misura e di individuare le prospettive della crisi attuale. Oggi, ed è questo che viene nascosto dall’insieme degli “specialisti” dell’economia, si rivela apertamente la realtà delle contraddizioni che assalgono il capitalismo: la crisi di sovrapproduzione, l’incapacità di questo sistema di vendere tutta la massa delle merci che produce. Non si tratta di una sovrapproduzione rispetto ai bisogni reali dell’umanità, che sono ancora ben lungi dall’essere soddisfatti, ma sovrapproduzione rispetto ai mercati solvibili, capaci cioè di pagare per assorbire questa produzione. I discorsi ufficiali, così come le misure che vengono adottate dalla maggior parte dei governi, si focalizzano sulla crisi finanziaria, sul fallimento delle banche, ma in realtà quella che i commentatori chiamano la “economia reale” (in contrapposizione all’economia “fittizia”) illustra come stanno le cose: non passa un giorno senza che vengano annunciate chiusure di fabbriche, licenziamenti in massa, fallimenti di imprese industriali. Il fatto che General Motors, che per decenni è stata la prima industria al mondo, debba la sua sopravvivenza al sostegno massiccio dello Stato americano, mentre la Chrysler è ufficialmente dichiarata fallita e passa sotto il controllo dell’italiana FIAT, è significativo dei problemi di fondo che affliggono l’economia capitalista. E, ancora, la caduta del commercio mondiale, la più grave dopo la seconda guerra mondiale e che viene valutata dall’OCSE pari a -13,2% per il 2009, mostra l’incapacità per le imprese a trovare degli acquirenti per la loro produzione.
Questa crisi di sovrapproduzione, oggi evidente, non è una semplice conseguenza della crisi finanziaria, come cercano di far credere la maggior parte degli “specialisti”. Essa risiede negli ingranaggi stessi dell’economia capitalista, come l’ha messo in evidenza il marxismo da un secolo e mezzo a questa parte. Finché la conquista del mondo da parte delle metropoli capitaliste proseguiva, i nuovi mercati permettevano di superare le momentanee crisi di sovrapproduzione. Con il completamento di questa conquista, avvenuto all’inizio del 20° secolo, queste metropoli, e in particolare quella che era arrivata in ritardo alla ricerca di colonie, la Germania, non hanno avuto altra risorsa che attaccare le zone di influenza delle altre, provocando la prima guerra mondiale anche prima che la crisi di sovrapproduzione si esprimesse apertamente. Questa si è invece manifestata chiaramente con il crack del 1929 e la grande depressione degli anni ’30, spingendo i principali paesi capitalisti nella fuga in avanti verso la preparazione della guerra e lo scoppio del secondo olocausto planetario che superò di gran lunga il primo in termini di massacri e barbarie.
L’insieme delle disposizioni adottate dalle grandi potenze all’indomani di questa, in particolare l’organizzazione sotto tutela americana delle grandi componenti dell’economia capitalista, come quella della moneta (accordi di Bretton Woods) e l’attuazione da parte degli Stati di politiche keynesiane, così come le ricadute positive della decolonizzazione in termini di mercati hanno permesso per quasi tre decenni al capitalismo mondiale di dare l’illusione che esso avesse infine superato le sue contraddizioni. Ma questa illusione ha subito un colpo importante nel 1974 con l’arrivo di una violenta recessione, in particolare nella prima economia mondiale. Questa recessione non rappresentava l’inizio delle difficoltà maggiori del capitalismo perché essa faceva seguito a quella del 1967 e alle successive crisi della sterlina e del dollaro, due monete fondamentali nel sistema di Bretton Woods. Nei fatti è dalla fine degli anni sessanta che il neo-keynesianesimo aveva dimostrato il suo fallimento storico come avevano sottolineato all’epoca i gruppi che avrebbero costituito la CCI. Ciò detto, per l’insieme dei commentatori borghesi e per la maggioranza della classe operaia è il 1974 che marca l’inizio di un nuovo periodo nella vita del capitalismo del dopoguerra, in particolare con la riapparizione di un fenomeno che si credeva definitivamente vinto nei paesi sviluppati, lo sciopero di massa. E’ sempre a partire di là che la fuga in avanti nell’indebitamento si è sensibilmente accelerata: allora furono i paesi del Terzo Mondo a trovarsi ai primi posti di questo fenomeno e costituirono, per un certo tempo, la “locomotiva” della ripresa. Questa situazione cominciò a finire all’inizio degli anni ottanta con la crisi del debito, l’incapacità di questi paesi a rimborsare i prestiti che avevano permesso loro in un primo tempo di costituire uno sbocco per la produzione dei grandi paesi industriali. Ma la fuga nell’indebitamento non si arresta là. Gli Stati Uniti cominciano a prendersi il ruolo di “locomotiva” a costo di una crescita considerevole del loro deficit commerciale e di bilancio statale, politica che era loro consentito per il ruolo privilegiato della loro moneta nazionale come moneta mondiale. Se lo slogan di Reagan divenne allora “lo Stato non è la soluzione, ma il problema” per giustificare la liquidazione del neo-keynesianesimo, lo Stato federale americano, con i suoi enormi deficit di bilancio, ha continuato a costituire l’agente essenziale nella vita economica nazionale ed internazionale. Tuttavia, le “reaganomics”, la cui prima ispiratrice fu Margaret Tatcher in Gran Bretagna, rappresentava fondamentalmente uno smantellamento dello “Stato sociale”, cioè un attacco senza precedenti contro la classe operaia che hanno contribuito a superare l’inflazione galoppante che aveva colpito il capitalismo alla fine degli anni settanta.
Nel corso degli anni ’90 una delle “locomotive” dell’economia mondiale è stato costituita dalle “tigri” e dai “dragoni” asiatici che hanno conosciuto dei tassi di crescita spettacolari ma a prezzo di un indebitamento considerevole che li ha condotti alla crisi nel 1997. Nello stesso momento, la Russia “nuova” e “democratica” si è ritrovata anch’essa in una situazione di cessazione dei pagamenti, deludendo crudelmente quelli che avevano puntato sulla “fine del comunismo” per rilanciare in maniera duratura l’economia mondiale. A sua volta la “bolla internet” della fine degli anni novanta, nei fatti una speculazione sfrenata sulle imprese “high tech”, è scoppiata nel 2001-2002 mettendo fine al sogno di un rilancio dell’economia mondiale attraverso lo sviluppo delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione. E’ allora che l’indebitamento ha conosciuto una nuova accelerazione, in particolare attraverso lo sviluppo iperbolico dei prestiti ipotecari sugli immobili in diversi paesi, e in particolare negli Stati Uniti. Quest’ultimo paese ha allora accentuato il suo ruolo di “locomotiva” dell’economia mondiale, ma a prezzo di una crescita abissale dei debiti – in particolare in seno alla popolazione americana – basata su ogni sorta di “prodotti finanziari” che si ipotizzavano esenti dal rischio di cessazione di pagamenti. In realtà, la diffusione dei crediti a rischio non ha affatto abolito il loro carattere di spada di Damocle sospesa sull’economia americana e mondiale. Al contrario, essa non ha fatto che accumulare nel capitale delle banche “attivi tossici” che sono stati all’origine dei fallimenti bancari a partire dal 2007.
4. Così non è la crisi finanziaria che è all’origine della recessione attuale. Al contrario, la crisi finanziaria non fa che illustrare il fatto che la fuga in avanti nell’indebitamento che aveva permesso di superare i problemi della sovrapproduzione non può proseguire all’infinito. Prima o poi la “economia reale” si vendica, perché quello che è alla base delle contraddizioni del capitalismo, la sovrapproduzione, l’incapacità dei mercati ad assorbire la totalità delle merci prodotte, torna in primo piano.
In questo senso, le misure che sono state scelte a marzo 2009, durante il G20 di Londra, un raddoppio delle riserve del Fondo monetario internazionale, un sostegno massiccio degli Stati al sistema bancario in perdita, un incoraggiamento a quest’ultimo a mettere in atto delle politiche attive di rilancio dell’economia a prezzo di un salto spettacolare dei deficit di bilancio, non possono in alcun modo risolvere la questione di fondo. La fuga in avanti nell’indebitamento è uno degli ingredienti della brutalità della recessione attuale. La sola “soluzione” che sia capace di mettere in piedi la borghesia è … una nuova fuga in avanti nell’indebitamento. Il G20 non ha potuto inventare una soluzione alla crisi per la semplice ragione che non ne esistono. L’obiettivo del G20 era evitare il ciascuno per sé che aveva caratterizzato gli anni’30. Esso si proponeva anche di tentare di ristabilire un po’ di fiducia tra gli agenti economici, sapendo che questa, nel capitalismo, costituisce un fattore essenziale in quello che si trova al centro del suo funzionamento, e cioè il credito. Ciò detto, quest’ultimo fatto, cioè l’insistenza sull’importanza della “psicologia” nelle convulsioni economiche, la messa in piedi delle parole di fronte alle realtà materiali, segna il carattere fondamentalmente illusorio delle misure che il capitalismo potrà prendere di fronte alla crisi storica della sua economia. Nei fatti, anche se il sistema capitalista non crollerà come un castello di carta, anche se la caduta della produzione non proseguirà indefinitamente, la sua prospettiva è quella di un infognamento crescente nel suo blocco storico, quella di un ritorno su scala sempre più vasta delle convulsioni che lo affliggono oggi. Da quattro decenni la borghesia non ha potuto impedire l’aggravamento continuo della crisi. Essa parte oggi da una situazione ben più degradata di quella degli anni sessanta. Malgrado tutta l’esperienza che essa ha acquisito nel corso di questi decenni, essa non potrà fare meglio, ma solo peggio. In particolare, le politiche di ispirazione neo-keynesiane che sono state promosse dal G20 di Londra (che sono arrivate fino alla nazionalizzazione della banche in difficoltà) non hanno nessuna possibilità di ristabilire una qualsivoglia “salute” del capitalismo, perché l’inizio delle sue difficoltà maggiori, alla fine degli anni sessanta, proveniva per l’appunto dal fallimento definitivo delle misure neokeynesiane adottate all’indomani della seconda guerra mondiale.
5. Se ha sorpreso la classe dominante, l’aggravamento brutale della crisi capitalista non ha sorpreso i rivoluzionari. La risoluzione adottata dal precedente congresso internazionale[1], prima ancora dell’inizio del panico nell’estate 2007, affermava: “Già da ora (...) le minacce che si addensano sul settore immobiliare negli stati Uniti, uno dei motori dell’economia americana, e che portano in sé il rischio di fallimenti bancari catastrofici, seminano allarme e inquietudine negli ambienti economici.” (punto 4).
La stessa risoluzione distruggeva le grandi aspettative suscitate dal “miracolo cinese”: “Quindi, lungi dal rappresentare un soffio di aria buona per l’economia capitalista, il “miracolo” in Cina e in alcuni paesi del terzo mondo è solo una rappresentazione della decadenza del capitalismo. Inoltre, la totale dipendenza dell’economia cinese verso le esportazioni è fonte di una considerevole vulnerabilità ad ogni calo della domanda degli attuali clienti. Cosa che potrebbe verificarsi duramente dato che l’economia americana è obbligata a fare fronte ai colossali debiti, che attualmente gli permettono di giocare il ruolo di locomotiva per la domanda mondiale. Quindi, proprio come il miracolo delle crescite a due cifre delle tigri e dragoni asiatici del 1997 giunse ad una spiacevole fine, l’attuale miracolo cinese, anche se non ha le stesse origini ed ha margini di gran lunga maggiori a propria disposizione, dovrà presto o tardi confrontarsi con l’impasse storica del modo di produzione capitalistico”. (Punto 6).
La caduta del tasso di crescita e l’esplosione della disoccupazione che ne consegue, con il ritorno forzato nei propri villaggi di decine di milioni di contadini che si erano arruolati nelle imprese industriali per sfuggire a una miseria insostenibile, confermano in pieno questa previsione.
La capacità della CCI di prevedere cosa stava per succedere non deriva da alcun “merito particolare” della nostra organizzazione. Il suo solo “merito” sta nella sua fedeltà al metodo marxista, nella volontà di metterlo in atto in maniera permanente nell’analisi della realtà mondiale, nella sua capacità di resistere con fermezza alle sirene che proclamavano il “fallimento definitivo del marxismo”.
6. La conferma della validità del marxismo non riguarda solo la questione della vita economica della società. Tra le mistificazioni che venivano diffuse all’inizio degli anni ’90 c’era quella dell’apertura di un periodo di pace per il mondo intero. Si metteva avanti che la fine della guerra fredda, la sparizione del blocco dell’est, definito a suo tempo da Reagan come “l’impero del male”, avrebbero messo fine ai differenti conflitti militari attraverso cui si era sviluppato lo scontro fra i due blocchi imperialisti dal 1947. Di fronte a questo tipo di mistificazioni sulla possibilità di pace in seno al capitalismo, il marxismo ha sempre sottolineato l’impossibilità per gli Stati borghesi di superare le loro rivalità economiche e militari, in particolare nel periodo di decadenza. E’ perciò che, già dal gennaio 1990, potevamo scrivere:
“La scomparsa del gendarme imperialista russo, e quella che ne consegue per il gendarme americano di fronte ai suoi principali ‘partner’ di ieri, aprono la porta allo scatenamento di tutta una serie di rivalità più locali. Queste rivalità e scontri non possono, attualmente, degenerare in un conflitto mondiale (…). Tuttavia, a causa della sparizione della disciplina imposta dalla presenza dei blocchi, questi conflitti rischiano di essere più violenti e più numerosi, in particolare, evidentemente, nelle zone in cui il proletariato è più debole”. (Révue Internationale n. 61, Dopo il crollo del blocco dell’est, stabilizzazione e caos).
La scena mondiale non avrebbe tardato a confermare questa analisi, in particolare con la prima guerra del Golfo del 1991 e la guerra nella ex Yugoslavia a partire dall’ottobre dello stesso anno. In seguito gli scontri sanguinosi e barbari non sono cessati. Non si può elencarli tutti, ma si può sottolineare in particolare:
· Il proseguimento della guerra nella ex Yugoslavia che ha visto, sotto l’egida della NATO, un impegno diretto degli Stati Uniti e delle principali potenze europee nel 1999;
· Le due guerre in Cecenia;
· Le numerose guerre che non hanno smesso di devastare il continente africano (Ruanda, Somalia, Congo, Sudan, ecc.);
· Le operazioni militari di Israele contro il Libano e, di recente, contro la striscia di Gaza;
· La guerra in Afganistan del 2001 che è ancora in atto;
· La guerra in Iraq del 2003, le cui conseguenze continuano a pesare in maniera drammatica su questo paese, ma anche sull’iniziatore di questa guerra, la potenza americana.
Il senso e le implicazioni della politica di questa potenza sono stati analizzati da lungo tempo da parte della CCI:
“Certamente, lo spettro di una Guerra mondiale non ha ossessionato ulteriormente il pianeta, ma allo stesso tempo, abbiamo visto il liberarsi degli antagonismi imperialisti e delle guerre locali in cui sono implicate direttamente le grandi potenze, in particolare la più potente, gli USA.
Gli USA, che per decenni sono stati i “gendarmi del mondo”, hanno dovuto tentare di proseguire e rinvigorire questo ruolo a seguito del “nuovo disordine mondiale” che è fuoriuscito dalla fine della Guerra Fredda. Ma nonostante abbiano certamente assunto questo ruolo sulla Terra, essi non l’hanno fatto per puntare a contribuire alla stabilità del pianeta, ma per conservare fondamentalmente la loro leadership mondiale, messa in questione più volte dal fatto che non esisteva più il cemento che manteneva insieme i due blocchi imperialisti – la minaccia del blocco rivale.
Con la definitiva scomparsa della “minaccia Sovietica”, il solo modo con cui la potenza americana poteva imporre la propria disciplina era di contare sulla propria forza, l’enorme superiorità a livello militare. Ma facendo ciò, la politica militare degli USA è diventata uno dei principali fattori dell’instabilità mondiale”. (Risoluzione sulla situazione internazionale, 17° Congresso della CCI, punto 7)
7. L’arrivo del democratico Barak Obama alla testa della prima potenza mondiale ha suscitato molte illusioni su un possibile cambiamento di orientamento della strategia di questa, un cambiamento che permetterebbe l’apertura di “un’era di pace”. Una delle basi di queste illusioni proviene dal fatto che Obama fu uno dei pochi senatori americani a votare contro l’intervento militare in Iraq nel 2003 e che, contrariamente al suo concorrente McCain, si è impegnato per un ritiro delle truppe americane da questo paese. Tuttavia queste illusioni si sono rapidamente confrontate con la realtà dei fatti. In particolare se Obama aveva previsto di ritirare le forze americane dall’Iraq, era per poter rafforzare l’intervento in Afganistan e in Pakistan. D’altra parte la continuità della politica militare degli Stati Uniti è ben illustrata dal fatto che la nuova amministrazione ha confermato nel suo incarico il Segretario alla Difesa, Gates, nominato da Bush.
In realtà il nuovo orientamento della diplomazia americana non rimette per niente in discussione il quadro ricordato prima. Essa continua ad avere l’obiettivo della riconquista della leadership degli Stati Uniti sul pianeta attraverso la loro superiorità militare. Così, l’orientamento di Obama a favore dell’accrescimento del ruolo della diplomazia ha principalmente lo scopo di guadagnare del tempo e rimandare il momento degli inevitabili interventi imperialisti delle forze militari americane che sono, attualmente, troppo disperse e usurate per la simultaneità delle guerre in Iraq e Afganistan.
Tuttavia, come abbiamo spesso ribadito, in seno alla borghesia americana esistono due opzioni per arrivare a questi fini:
· L’opzione rappresentata dal Partito Democratico che cerca di associare finché possibile altre potenze in queste imprese;
· L’opzione maggioritaria tra i repubblicani, che preferiscono prendere l’iniziativa delle offensive militari imponendole, costi quel che costi, alle altre potenze.
La prima opzione è quella che fu adottata alla fine degli anni’90 dall’amministrazione Clinton nella ex Yugoslavia, dove riuscì ad ottenere dalle principali potenze dell’Europa occidentale, in particolare la Germania e la Francia, la cooperazione e la partecipazione ai bombardamenti della NATO in Serbia per costringere questo paese ad abbandonare il Kosovo.
La seconda opzione è tipicamente quella dello scatenamento della guerra contro l’Iraq nel 2003, scatenata contro l’opposizione molto dura della Germania e della Francia associatesi in questa circostanza alla Russia in seno al Consiglio di sicurezza dell’ONU.
Comunque, nessuna di queste due opzioni è stata in grado, finora, di rovesciare la tendenza alla perdita della leadership americana. La politica dell’uso della forza, usata in particolare durante i due mandati di George Bush figlio, ha portato non solo al caos iracheno, un caos ben lungi dal poter essere superato, ma anche ad un isolamento crescente della diplomazia americana, illustrata in particolare dal fatto che certi paesi che l’avevano sostenuta nel 2003, come la Spagna e l’Italia, hanno abbandonato la nave dell’avventura irachena in corso d’opera (senza contare la presa di distanza più discreta del governo di Gordon Brown, rispetto all’appoggio incondizionato portato da Tony Blair a questa avventura). Dal canto suo la politica di “cooperazione”, preferita dai democratici, non permette veramente di assicurarsi una “fedeltà” delle potenze che si tenta di associare alle imprese militari, in particolare perché essa lascia un margine di manovra più ampia a queste potenze per far valere i loro propri interessi.
Oggi, per esempio, l’amministrazione Obama ha deciso di adottare una politica più conciliante verso l’Iran e più ferma verso Israele, due orientamenti che vanno nello stesso senso della maggioranza dei paesi dell’Unione europea, in particolare la Germania e la Francia, paesi che sperano di recuperare una parte dell’influenza che avevano in passato in Iran e in Iraq. Ciò detto, questo orientamento non riuscirà ad impedire che permangano conflitti di interesse maggiori tra questi due paesi e gli Stati Uniti, in particolare nella sfera est-europea (dove la Germania cerca di mantenere dei rapporti “privilegiati” con la Russia), o africana (dove le due fazioni che stanno mettendo a ferro e a fuoco il Congo hanno il sostegno rispettivo della Francia e degli Stati Uniti).
Più in generale, la sparizione della divisione del mondo in due grandi blocchi imperialisti rivali ha aperto la porta all’apparizione di ambizioni di imperialismi di secondo piano che costituiscono dei nuovi protagonisti della destabilizzazione della situazione internazionale. E’ così, per esempio, per l’Iran che punta a conquistare una posizione dominante in Medio Oriente sotto la bandiera della “resistenza” al “Grande Satana” americana e della lotta contro Israele. Con mezzi molto più considerevoli, la Cina punta ad estendere la propria influenza su altri continenti, in particolare in Africa, dove la presenza economica crescente è finalizzata ad insediare in questa regione del mondo una presenza diplomatica e militare, come già sta avvenendo nel conflitto in Sudan.
Così la prospettiva che si presenta al pianeta dopo l’elezione di Obama alla testa della prima potenza mondiale non è fondamentalmente differente dalla situazione che prevaleva finora: proseguimento degli scontri tra potenze di primo e secondo piano, continuazione della barbarie guerriera con conseguenze sempre più tragiche (carestie, epidemie, esodi di massa) per le popolazioni che vivono nelle zone in conflitto. Ci si può anche aspettare che l’instabilità che consegue all’aggravarsi della crisi economica in tutta una serie di paesi della periferia possa alimentare una intensificazione degli scontri fra le cricche militari di questi paesi con, come sempre, una partecipazione delle diverse potenze imperialiste. Di fronte a questa situazione Obama e la sua amministrazione non potranno fare altro che proseguire la politica bellicista dei loro predecessori, come si vede per esempio in Afganistan, una politica sinonimo di barbarie guerriera crescente.
8. Come le “buone intenzioni” affermate da Obama sul piano diplomatico non impediranno al caos militare di proseguire e di aggravarsi nel mondo e alla nazione che egli dirige di essere un fattore attivo in questo caos, il riorientamento americano che egli annuncia oggi nel campo della protezione dell’ambiente non potrà impedire il suo ulteriore degrado. Questo degrado non è questione di buona o cattiva volontà dei governi, per quanto potenti essi siano. Ogni giorno che passa mette un po’più in evidenza la vera catastrofe ambientale che minaccia il pianeta : tempeste sempre più violente nei paesi che fino ad ora ne erano risparmiati, siccità, canicole, inondazioni, scioglimento dei ghiacciai, paesi minacciati di essere ricoperti dal mare … le prospettive sono sempre più nere. Questo degrado dell’ambiente significa anche una minaccia di aggravamento degli scontri militari, in particolare con l’esaurimento delle riserve di acqua potabile che diventerà l’oggetto di nuovi conflitti.
Come dicevamo nella risoluzione adottata al precedente congresso internazionale:
“Perciò, come la CCI mostra da 15 anni, la decomposizione del capitalismo porta con sé serie minacce per l’esistenza umana. L’alternativa annunciata da Engels alla fine del XIX secolo, socialismo o barbarie, è stata una sinistra verità per tutto il XX secolo. Cosa ci offre il XXI secolo come prospettiva è abbastanza semplice: socialismo o distruzione dell’umanità. Questa è la vera posta in gioco cui è confrontata l’unica forza sociale in grado di sovvertire il capitalismo, la classe operaia mondiale.” (Punto 10)
9. Questa capacità della classe operaia di mettere fine alla barbarie generata dal capitalismo in decomposizione, a far uscire l’umanità dalla sua preistoria per aprirle le porte del “regno della libertà”, secondo l’espressione di Engels, si forgia fin da ora nelle lotte quotidiane contro lo sfruttamento capitalista. Dopo il crollo del blocco dell’est e dei regimi cosiddetti “socialisti”, le assordanti campagne sulla “fine del comunismo”, o sulla “fine della lotta di classe”, hanno portato un colpo severo alla coscienza e alla combattività della classe operaia. Il proletariato ha quindi subito un profondo riflusso su tutti e due i piani, un riflusso che si è prolungato per più di dieci anni. Non è che a partire dal 2003 che la classe operaia mondiale ha cominciato a mostrare di aver superato questo riflusso, di aver ripreso il cammino delle lotte contro gli attacchi capitalisti. Da allora questa tendenza non si è smentita e i due anni che ci separano dal precedente congresso hanno visto il prosieguo di lotte significative in tutte le parti del mondo.
Si è anche potuto vedere, in certi periodi, una simultaneità notevole delle lotte operaie a scala mondiale.
Per esempio, all’inizio del 2008, i seguenti paesi sono stati toccati da lotte operaie nello stesso momento: Russia, Irlanda, Belgio, Svizzera, Italia, Grecia, Romania, Turchia, Israele, Iran, Emirato del Barein, Tunisia, Algeria, Camerun, Swaziland, Venezuela, Messico, Stati Uniti, Canada e Cina.
Ancora, si sono viste lotte operaie molto significative nel corso dei due anni passati. Senza pretendere di essere esaustivi, si possono citare i seguenti esempi:
· In Egitto, durante l’estate 2007, dove i massicci scioperi nell’industria tessile hanno trovato la solidarietà attiva da parte di numerosi altri settori (portuali, trasporti, ospedali …);
· A Dubai, nel novembre 2007, dove gli operai edili (essenzialmente degli immigrati) si sono mobilitati massicciamente;
· In Francia, nel novembre 2007, dove gli attacchi contro il trattamento pensionistico provocano uno sciopero molto combattivo nelle ferrovie, con esempi di legami di solidarietà con gli studenti, mobilitati nello stesso momento contro i tentativi del governo di accentuare la segregazione sociale all’Università, uno sciopero che ha svelato apertamente il ruolo di sabotatori delle grandi centrali sindacali, in particolare la CGT e la CFDT, cosa che ha costretto la borghesia a rinnovare il suo apparato di inquadramento delle lotte operaie;
· in Turchia, alla fine del 2007, dove lo sciopero di più di un mese dei 26.000 lavoratori di Turk Telecom costituisce la mobilitazione più importante del proletariato di questo paese dal 1991, e questo nello stesso momento in cui il suo governo è impegnato in una operazione militare nel nord dell’Iraq;
· in Russia, nel novembre 2008, dove importanti scioperi a San Pietroburgo (in particolare alla Ford) testimoniano della capacità dei lavoratori di superare l’intimidazione poliziesca molto presente, in particolare da parte del FSB (l’ex KGB);
· in Grecia, alla fine del 2008, dove, in un clima di enorme malcontento che si era già espresso prima, la mobilitazione degli studenti contro la repressione gode di una profonda solidarietà da parte della classe operaia, alcuni settori della quale debordano il sindacalismo ufficiale; una solidarietà che non resta confinata all’interno delle frontiere del paese, visto che questo movimento incontra un’eco di simpatia molto significativa in numerosi paesi europei;
· in Gran Bretagna, dove lo sciopero selvaggio nella raffineria Linsay, all’inizio del 2009, ha costituito uno dei movimenti più significativi della classe operaia di questo paese da due decenni, una classe operaia che aveva subito crudeli sconfitte nel corso egli anni ’80; questo movimento ha mostrato la capacità della classe operaia di estendere le lotte e, in particolare, ha visto l’inizio di un confronto con il peso del nazionalismo con manifestazioni di solidarietà tra operai britannici e operai immigrati, polacchi ed italiani.
10. L’aggravamento considerevole che la crisi del capitalismo conosce attualmente costituisce evidentemente un elemento di prim’ordine nello sviluppo delle lotte operaie. Fin da ora in tutti i paesi del mondo gli operai sono confrontati a licenziamenti di massa, a un aumento irresistibile della disoccupazione. In maniera estremamente concreta, sulla propria carne, il proletariato fa l’esperienza dell’incapacità del sistema capitalista ad assicurare un minimo di vita decente ai lavoratori che esso sfrutta. Ancora di più, esso è incapace di offrire il minimo avvenire alle nuove generazioni della classe operaia, cosa che costituisce un fattore di angoscia e di disperazione non solo per queste, ma anche per i loro genitori. Così maturano le condizioni perché l’idea della necessità di rovesciare questo sistema possa svilupparsi in maniera significativa in seno al proletariato. Tuttavia, alla classe operaia non basta percepire che il sistema capitalista sta in un vicolo cieco, che esso dovrebbe cedere il posto ad un’altra società, perché diventi capace di indirizzarsi verso una prospettiva rivoluzionaria. Occorre ancora che essa abbia la convinzione che una tale prospettiva è possibile ed anche che essa ha la forza di realizzarla. Ed è giustamente su questo terreno che la borghesia è riuscita a marcare dei punti molto importanti contro la classe operaia in seguito al crollo del preteso “socialismo reale”. Da una parte essa è riuscita a insinuare l’idea che la prospettiva del comunismo è un sogno vano: “il comunismo non funziona; la prova sta nel fatto che esso è stato abbandonato a beneficio del capitalismo dalle popolazioni che vivevano in tale sistema”. Dall’altra parte essa è riuscita a creare in seno alla classe operaia un forte sentimento di impotenza per la sua incapacità a scatenare lotte di massa. In questo senso la situazione oggi è molto diversa da quella che prevaleva al momento della ripresa storica della classe alla fine degli anni ’60. Allora il carattere massivo delle lotte operaie, in particolare con l’immenso sciopero del maggio 1968 in Francia e l’autunno caldo in Italia del 1969, aveva messo in evidenza che la classe operaia può costituire una forza di primo piano nella vita della società e che l’idea che essa avrebbe potuto un giorno rovesciare il capitalismo non apparteneva al dominio dei sogni irrealizzabili. Tuttavia, nella misura in cui la crisi del capitalismo era giusto ai suoi inizi, la coscienza della necessità assoluta di rovesciare questo sistema non disponeva ancora delle basi materiali per poter diffondersi tra gli operai. Si può riassumere questa situazione nel modo seguente: alla fine degli anni ’60, l’idea che la rivoluzione fosse possibile poteva essere relativamente diffusa, ma non quella della sua necessità. Oggi, al contrario, l’idea che la rivoluzione sia necessaria ha un impatto non trascurabile, ma non altrettanto quella della sua possibilità.
11. Perché la coscienza della possibilità della rivoluzione comunista possa guadagnare un terreno significativo in seno alla classe operaia è necessario che questa possa riacquistare fiducia nelle proprie forze e questo passa attraverso lo sviluppo di lotte di massa. L’enorme attacco che essa subisce attualmente a scala internazionale dovrebbe costituire la base oggettiva per tali lotte. Tuttavia, la forma principale che prende oggi questo attacco,quella dei licenziamenti di massa, non favorisce, in un primo momento, l’emergenza di tali movimenti. In generale, e ciò si è verificato frequentemente nel corso degli ultimi quaranta anni, i momenti di forte aumento della disoccupazione non sono quelli in cui si sviluppano lotte importanti. La disoccupazione, i licenziamenti di massa, tendono a provocare una certa paralisi momentanea della classe. Essa è sottomessa a un ricatto da parte dei padroni: “se non siete contenti, molti altri operai sono pronti a sostituirvi”. La borghesia può utilizzare questa situazione per provocare una divisione, se non una opposizione fra quelli che perdono il loro lavoro e quelli che hanno il “privilegio” di conservarlo. In più, padroni e governo si nascondono dietro un argomento “decisivo”: “Noi non c’entriamo niente con l’aumento della disoccupazione o i vostri licenziamenti: è colpa della crisi”. Infine, di fronte alla chiusura di fabbriche l’arma dello sciopero diventa inutilizzabile, accentuando il sentimento di impotenza dei lavoratori. In una situazione storica in cui il proletariato non ha subito sconfitte decisive, contrariamente agli anni ’30, i licenziamenti di massa, che sono già cominciati, potranno provocare lotte molto dure, con anche esplosioni di violenza. Queste saranno probabilmente, in un primo tempo, lotte disperate e relativamente isolate, anche se possono beneficiare di una simpatia reale in altri settori della classe operaia. Perciò anche se, nel prossimo periodo, non si assisterà a una risposta poderosa della classe operaia di fronte agli attacchi, non bisognerà considerare questo fatto come una rinuncia a lottare in difesa dei propri interessi. Sarà in un secondo momento, quando essa sarà capace di resistere ai ricatti della borghesia, quando si imporrà l’idea che sono la lotta unita e solidale può frenare la brutalità degli attacchi della classe dominante, in particolare quando questa cercherà di far pagare a tutti i lavoratori gli enormi deficit statali che si accumulano oggi con i piani di salvataggio delle banche e di “rilancio” dell’economia, che lotte operaie di grande ampiezza potranno svilupparsi molto di più. Questo non deve significare che i rivoluzionari devono restare assenti nelle lotte attuali. Queste fanno parte delle esperienze che il proletariato deve fare per essere capace di sviluppare una nuova tappa nella sua lotta contro il capitalismo. Ed è compito delle organizzazioni comuniste mettere avanti, in seno alle lotte, la prospettiva generale della lotta proletaria e dei passi ulteriori che essa deve compiere in questa direzione.
12. Il cammino che porta alle lotte rivoluzionarie e al rovesciamento del capitalismo è ancora lungo e difficile. La necessità di questo rovesciamento diventa ogni giorno più evidente, ma la classe operaia dovrà ancora superare delle tappe essenziali prima di essere in grado di realizzare questo compito:
Questa tappa è evidentemente la più difficile da superare, in particolare a causa:
Nei fatti la politicizzazione delle lotte del proletariato è legata allo sviluppo della presenza nel loro seno della minoranza comunista. La constatazione della debolezza attuale delle forze dell’ambiente internazionalista è uno degli indici della lunghezza del cammino che resta ancora da percorrere prima che la classe operaia possa impegnarsi nelle sue lotte rivoluzionarie e che essa faccia sorgere il suo partito di classe mondiale, organo essenziale senza il quale la vittoria della rivoluzione è impossibile.
Il cammino è lungo e difficile, ma questo non potrebbe essere in nessuna maniera un fattore di scoraggiamento per i rivoluzionari, di paralisi nel loro impegno nella lotta proletaria. Al contrario!
[1] Rivista Internazionale n°29, https://it.internationalism.org/rint29/risoluzioneinternazionale [10].
La nuova generazione ed il dialogo politico
È stato innanzitutto il contatto con una nuova generazione di rivoluzionari che ha obbligato la CCI a sviluppare e coltivare in modo più cosciente la sua apertura verso l’esterno e la sua capacità di dialogo politico.
Ogni generazione costituisce un anello nella catena della storia dell’umanità. Ciascuna deve affrontare tre compiti fondamentali: raccogliere l’eredità collettiva della generazione precedente, arricchire questa eredità sulla base della propria esperienza, trasmetterla alla seguente generazione in modo tale che quest’ultima vada più lontano della precedente.
Lungi dall’essere facili da attuarsi, questi compiti rappresentano una sfida particolarmente difficile da raccogliere. Ciò vale anche per il movimento operaio. La vecchia generazione deve offrire la sua esperienza. Ma porta in sé le ferite ed i traumi delle sue lotte; ha conosciuto sconfitte, delusioni, vi ha dovuto far fronte e ha dovuto prendere coscienza del fatto che spesso una vita intera non basta per costruire delle acquisizioni durature della lotta collettiva[1]. Per questo è necessario lo slancio e l’energia della generazione che segue ma anche le nuove questioni che essa si pone e la sua capacità di vedere il mondo con occhi nuovi.
Ma anche se le generazioni hanno bisogno le une delle altre, la loro capacità a forgiare la necessaria unità tra di loro non è automatica. Più la società si allontana dalla tradizionale economia naturale, più incessantemente e rapidamente il capitalismo “rivoluziona” le forze produttive e l’insieme della società, più l’esperienza di una generazione differisce da quella della successiva. Il capitalismo, sistema competitivo per eccellenza, spinge le generazioni l’una contro l’altra in una lotta di tutti contro tutti.
È con questo quadro che la nostra organizzazione ha iniziato a prepararsi al compito di forgiare questo legame. Ma, più che questa preparazione, è l’incontro con la nuova generazione nella vita reale che ha dato alla questione della cultura del dibattito un significato particolare ai nostri occhi. Ci siamo trovati in presenza di una generazione che, di per se, conferisce a questa questione un’importanza ben maggiore di quanto l’abbia fatto la generazione del ‘68. La prima importante indicazione di questo cambiamento, a livello della classe operaia nel suo insieme, è stata data dal movimento di massa degli studenti liceali ed universitari in Francia contro la “precarizzazione” del lavoro nella primavera 2006. In questo movimento è stata sorprendente l’insistenza, in particolare nelle assemblee generali, sul dibattito più libero e largo possibile, contrariamente al movimento studentesco della fine degli anni ‘60 spesso segnato da un’incapacità a condurre un dialogo politico. Questa differenza è dovuta principalmente al fatto che oggi la popolazione studentesca è molto più proletarizzata di quella di 40 anni fa. Il dibattito intenso ed ampio è sempre stato una caratteristica importante dei movimenti proletari di massa e ha anche caratterizzato le assemblee operaie in Francia nel 1968 o in Italia nel 1969. Ma nel 2006 la novità è stata l’apertura della gioventù in lotta verso le generazioni più anziane e la sua avidità ad apprenderne l’esperienza. Questo atteggiamento differisce di molto da quello del movimento studentesco della fine degli anni ‘60, in particolare in Germania (che forse ha costituito l’espressione più caricaturale dello stato d’animo dell’epoca). Uno dei suoi slogan era: “Quelli con più di 30 anni nei campi di concentramento!”. Questa idea si è espressa nel concreto attraverso l’abitudine di fischiarsi a vicenda, di interrompere violentemente le riunioni “rivali”, ecc. La rottura della continuità tra le generazioni della classe operaia ha costituito una delle radici del problema poiché le relazioni tra generazioni sono il terreno privilegiato, sin dai tempi più antichi, per forgiare l’attitudine al dialogo. I militanti del 1968 consideravano la generazione dei loro genitori o una generazione che “si era venduta” al capitalismo, o (come in Germania ed in Italia) una generazione di fascisti e di criminali di guerra.
Per gli operai che avevano sopportato l’orribile sfruttamento della fase seguita al 1945 nella speranza che i loro figli avrebbero potuto avere una vita migliore della loro, è stata un’amara delusione sentirsi accusati dai loro figli come “parassiti” che vivevano dello sfruttamento del Terzo Mondo. Ma è altrettanto vero che la generazione di genitori di questa epoca aveva quasi del tutto perso, o non era riuscita mai ad acquisire, l’attitudine al dialogo. Questa generazione era stata selvaggiamente straziata e traumatizzata dalla Seconda Guerra mondiale e dalla Guerra fredda, dalla controrivoluzione fascista, stalinista e socialdemocratica.
Al contrario, il 2006 in Francia ha annunciato qualche cosa di nuovo e di estremamente fecondo[2]. Ma già alcuni anni prima, questa preoccupazione della nuova generazione era stata annunciata dalle minoranze rivoluzionarie della classe operaia. Queste minoranze, sin dal momento in cui sono apparse sulla scena della vita politica si sono armate di una propria critica del settarismo e del rifiuto di dibattere. Tra le prime esigenze che hanno espresso c’era la necessità del dibattito, non come un lusso, ma come un bisogno imperioso, e la necessità che quelli che vi partecipano prendono sul serio gli altri, ed imparino ad ascoltarli; la necessità che nella discussione, le armi siano l’argomentazione e non la forza bruta, né l’appello alla morale o all’autorità di “teorici”. Rispetto al campo proletario internazionalista, questi compagni hanno in generale (ed a giusto titolo) criticato l’assenza di dibattito fraterno tra i gruppi esistenti rimanendone profondamente scioccati. Essi hanno da subito rigettato la concezione del marxismo come un dogma da far adottare alla nuova generazione senza spirito critico[3].
Da parte nostra siamo rimasti sorpresi dalla reazione di questa nuova generazione verso la stessa CCI. I nuovi compagni che sono venuti alle nostre riunioni pubbliche, i contatti del mondo intero che hanno iniziato una corrispondenza con noi, i differenti gruppi e circoli politici con cui abbiamo discusso ci hanno detto più volte di aver riconosciuto la natura proletaria della CCI sia nelle nostre posizioni programmatiche che nel nostro comportamento, in particolare nel modo di discutere.
Da dove proviene, in questa nuova generazione, una così profonda preoccupazione nei confronti di questa questione? Noi pensiamo che essa sia il risultato della crisi storica del capitalismo che oggi è ben più grave e profonda che nel 1968. La situazione attuale richiede una critica radicale al capitalismo, la necessità di andare alle radici profonde dei problemi. Uno degli effetti più corrosivi dell’individualismo borghese è il modo con cui distrugge la capacità di discutere e, in particolare, di ascoltare e imparare gli uni dagli altri. Il dialogo è sostituito dalla retorica, il vincitore è quello che parla più forte (come nelle campagne elettorali borghesi). La cultura del dibattito, grazie al linguaggio umano, è il principale strumento per sviluppare la coscienza che è l’arma principale della lotta della sola classe portatrice di un futuro per l’umanità. Per il proletariato è il solo strumento per superare l’isolamento e l’impazienza e per dirigersi verso l’unificazione delle sue lotte.
Un altro aspetto di questa preoccupazione oggi è la lotta per superare l’incubo dello stalinismo. Molti dei militanti che cercano di avvicinarsi alle posizioni internazionaliste provengono direttamente da un ambiente gauchista (estremismo di sinistra) o ne sono influenzati. Questo presenta come “socialismo” quelli che sono degli aspetti caricaturali dell’ideologia e del comportamento borghese decadente. Questi militanti hanno ricevuto un’educazione politica che ha fatto loro credere che lo scambio di argomenti è equivalente al “liberismo borghese”, che “un buon comunista” è qualcuno che “è tosto” e mette a tacere la sua coscienza e le sue emozioni. I compagni che oggi sono determinati a rigettare gli effetti di questo prodotto moribondo della controrivoluzione comprendono sempre meglio che per farlo è necessario non solo rigettare le sue posizioni ma anche la sua mentalità. Così facendo contribuiscono a ristabilire una tradizione del movimento operaio che minacciava di sparire con la rottura organica provocata dalla controrivoluzione[4].
Le crisi organizzative e la tendenza al monolitismo
La seconda ragione essenziale che ha spinto la CCI a ritornare sulla questione di una cultura del dibattito è stata la nostra crisi interna, all’inizio di questo secolo, che si è caratterizzata con il peggiore comportamento indegno mai visto nelle nostre fila. Per la prima volta dalla sua fondazione, la CCI ha dovuto espellere non uno ma parecchi suoi membri[5]. All’inizio di questa crisi interna, si erano espresse in seno alla nostra sezione in Francia delle difficoltà e delle divergenze di opinione sulla questione dei nostri principi organizzativi di centralizzazione. Non c’è ragione perché delle divergenze di questo tipo, di per se stesse, siano causa di una crisi organizzativa. Ed esse non lo erano. A provocare la crisi è stato il rifiuto del dibattito interno e, in particolare, delle manovre che miravano ad isolare e calunniare - e cioè ad attaccare personalmente - i militanti con i quali non c’era accordo.
In seguito a questa crisi, la nostra organizzazione si è impegnata ad andare fino alle radici più profonde della storia di tutte le sue crisi e delle sue scissioni. Abbiamo già pubblicato dei contributi su alcuni aspetti[6]. Una delle conclusioni a cui siamo giunti è che in tutte le scissioni che abbiamo conosciuto ha giocato un ruolo importante una tendenza al monolitismo. Appena apparivano delle divergenze subito alcuni militanti affermavano che non potevano lavorare più con gli altri, che la CCI era diventata un’organizzazione stalinista, o che stava degenerando. Queste crisi sono dunque esplose di fronte a divergenze che, per la maggior parte, potevano esistere perfettamente in seno ad un’organizzazione non monolitica e, in ogni caso, dovevano essere discusse e chiarite prima che una scissione divenisse necessaria.
La ripetuta comparsa di comportamenti monolitici è sorprendente in un’organizzazione che si basa specificamente sulle tradizioni della Frazione italiana. Questa infatti ha sempre sostenuto che, qualunque fossero le divergenze sui principi fondamentali, il chiarimento profondo e collettivo doveva precedere ogni separazione organizzativa.
La CCI è la sola corrente della Sinistra comunista che oggi si pone in maniera specifica nella tradizione organizzativa della Frazione italiana (Bilan) e della Sinistra comunista di Francia (GCF). Contrariamente ai gruppi sorti dal Partito comunista internazionalista fondato in Italia verso la fine della Seconda Guerra mondiale, la Frazione italiana riconosceva il carattere profondamente proletario delle altre correnti internazionali della Sinistra comunista che erano nate in reazione alla controrivoluzione stalinista, in particolare la Sinistra tedesca e olandese. Lungi dal rigettare queste correnti come “anarco-spontaneiste” o “sindacaliste rivoluzionarie”, ha appreso da queste tutto ciò che si poteva. In effetti, la principale critica che ha mosso contro quella che è diventata la corrente “consiliarista” è stata quella relativa al suo settarismo espresso soprattutto nel rigetto dei contributi dati dalla Seconda Internazionale e dal Bolscevismo[7]. Questo atteggiamento ha permesso alla Frazione italiana di mantenere, in piena controrivoluzione, la comprensione marxista secondo la quale la coscienza di classe si sviluppa collettivamente e che nessun partito né alcuna tradizione può proclamare di averne il monopolio. Ne risulta che la coscienza non può svilupparsi senza un dibattito fraterno, pubblico ed internazionale[8].
Ma questa comprensione fondamentale, sebbene faccia parte dell’eredità fondamentale della CCI, non è facile da mettere in pratica. La cultura del dibattito può svilupparsi solo contro corrente rispetto alla società borghese. Come la tendenza spontanea nel capitalismo non è il chiarimento delle idee ma la violenza, la manipolazione e la lotta per ottenere la maggioranza (di cui il circolo elettorale della democrazia borghese è il migliore esempio), così l’infiltrazione di questa ideologia borghese all’interno delle organizzazioni proletarie contiene sempre germi di crisi e di degenerazione. La storia del Partito bolscevico lo illustra perfettamente. Finché il partito è stata la punta di lancia della rivoluzione, i dibattiti più vivaci e spesso più controversi hanno costituito una delle sue principali forze. Al contrario, l’interdizione di vere frazioni (dopo il massacro di Kronstadt nel 1921) ha costituito il segno maggiore ed è stato un fattore attivo della sua degenerazione. Parimenti, la pratica della “coesistenza pacifica” (e cioè l’assenza di dibattito) tra le posizioni conflittuali che caratterizzavano già il processo di fondazione del Partito comunista internazionalista, o la teorizzazione da parte di Bordiga e dei suoi adepti delle virtù del monolitismo può essere compresa solamente nel contesto della sconfitta storica del proletariato verso la metà del ventesimo secolo.
Se le organizzazioni rivoluzionarie vogliono assolvere al loro compito fondamentale di sviluppo ed estensione della coscienza di classe, la cultura di una discussione collettiva, internazionale, fraterna e pubblica è assolutamente essenziale. È vero che ciò richiede un alto livello di maturità politica, ma anche, più generale, di maturità umana. La storia della CCI è un’illustrazione del fatto che questa maturità non si acquista in un giorno, ma è il prodotto di uno sviluppo storico. Oggi, la nuova generazione ha un ruolo essenziale da giocare in questo processo in via di maturazione.
La cultura del dibattito nella storia
La capacità di dibattere è una caratteristica essenziale del movimento operaio. Ma non è stato lui ad inventarla. In questo campo, come in altri altrettanto fondamentali, la lotta per il socialismo è stata capace di assimilare le migliori acquisizioni dell’umanità, di adattarle ai suoi bisogni. Così facendo ha trasformato queste qualità portandole ad un livello superiore.
Fondamentalmente, la cultura del dibattito è un’espressione della natura eminentemente sociale dell’umanità. È in particolare un’emanazione dell’utilizzazione specificamente umana del linguaggio. L’utilizzazione del linguaggio come mezzo di scambio delle informazioni è qualcosa che l’umanità condivide con molti animali. Ciò che distingue l’umanità dal resto della natura su questo piano, è la sua capacità a coltivare ed a scambiare un’argomentazione (legata allo sviluppo della logica e della scienza) ed a riuscire a conoscere gli altri (lo sviluppo dell’empatia legata, tra l’altro, allo sviluppo dell’arte).
Questa qualità quindi non è nuova. In realtà ha preceduto le società di classe e sicuramente ha giocato un ruolo decisivo nello sviluppo della specie umana. Engels, per esempio, parla del ruolo delle assemblee generali dei greci all’epoca di Omero, delle prime tribù germaniche o degli Irochesi del Nord America e in particolare fa l'elogio della cultura del dibattito di questi ultimi[9]. Purtroppo, malgrado i lavori di Morgan dell’epoca e dei suoi colleghi del diciannovesimo secolo così come quelli dei loro successori, siamo ancora insufficientemente informati sui primissimi sviluppi, certamente i più decisivi, in questo dominio.
Ma sappiamo, per contro, che la filosofia e gli inizi del pensiero scientifico hanno cominciato a prosperare là dove la mitologia ed il realismo primitivo - questa coppia antica ma al tempo stesso contraddittoria ed inseparabile - venivano messi in questione. Entrambi sono prigionieri dell’incapacità di comprendere più profondamente l’esperienza immediata. I pensieri che i primi uomini hanno formulato sulla loro esperienza pratica erano di natura religiosa. “A partire dai tempi più antichi in cui gli uomini, ancora completamente ignoranti della struttura del loro corpo ed eccitati dai loro sogni, giunsero a farsi l’idea che i loro pensieri e le loro sensazioni non fossero un’attività del loro corpo ma di una speciale anima, che abitava in questo corpo e lo abbandonava dopo la morte: a partire da allora essi dovettero formarsi delle idee circa le relazioni di quest’anima col mondo esteriore. Se essa al momento della morte si separa dal corpo e continuava ad esistere, non vi era alcun motivo per attribuirle una nuova morte particolare. Così nacque l’idea della sua immortalità, che, in quel momento dell’evoluzione, non si presentava affatto come una consolazione, ma come un destino contro il quale non vi è nulla da fare, e abbastanza spesso, come presso i greci, come una vera sciagura”[10].
È in questa cornice di un realismo primitivo che hanno avuto luogo i primi passi di uno sviluppo molto lento della cultura e delle forze produttive. Da parte sua il pensiero magico, pur contenendo un certo grado di saggezza psicologica, aveva innanzitutto il compito di dare un senso all’inspiegabile e dunque di limitare la paura. I due costituirono importanti contributi all’avanzamento del genere umano. L’idea secondo la quale il realismo primitivo avrebbe un’affinità particolare con la filosofia materialista, o che quest’ultima si sarebbe sviluppata direttamente a partire dal primo, è senza fondamento.
“C’è un vecchio detto della dialettica fattasi coscienza popolare: gli estremi si toccano. Sarà quindi difficile che ci sbagliamo se ricerchiamo le forme estreme di fantasticheria, di credulità e di superstizione, non, per esempio, in quegli indirizzi scientifici che, come la filosofia della natura tedesca, hanno tentato di costringere il mondo oggettivo nella cornice del loro pensiero soggettivo, bensì piuttosto nell’indirizzo opposto, che magnificando la nuda esperienza, ha trattato il pensiero con disprezzo sovrano (e lo ha, in effetti, più di ogni altro,ridotto all’insensatezza). E’ la scuola che domina in Inghilterra”[11].
La religione, come indicata da Engels, è nata non solo da una visione magica del mondo ma anche dal realismo primitivo. Le sue prime generalizzazioni sul mondo, spesso audaci, hanno necessariamente un carattere che fa testo.
Le prime comunità agricole per esempio hanno compreso ben presto che dipendevano dalla pioggia, ma erano lontane dal comprendere le condizioni da cui dipendeva la caduta della pioggia. L’invenzione di un Dio della pioggia è un atto creativo per rassicurarsi, che dà l’impressione che è possibile, tramite regali o per devozione, di influenzare il corso della natura. L’Homo sapiens è la specie che ha puntato sullo sviluppo della coscienza per assicurarsi la sopravvivenza. In quanto tale, è confrontato ad un problema senza precedenti: la paura spesso paralizzante dell’ignoto. Le spiegazioni dell’ignoto non devono quindi permettere alcun dubbio. Da questo bisogno, e come sua espressione più evoluta, risulta la nascita dalle religioni della rivelazione. Tutta la base emozionale di questa visione del mondo è il credo, e non la conoscenza.
Il realismo primitivo è solamente l’altra faccia della stessa medaglia, una sorte di elementare “divisione del lavoro” mentale. Tutto ciò che non si può spiegare in un senso pratico immediato entra necessariamente nella sfera del magico. Inoltre la stessa comprensione pratica è fondata su una visione religiosa, all’origine la visione animistica. In questa visione, il mondo intero è feticizzato. Anche i processi che gli esseri umani possono consapevolmente produrre e riprodurre, sembrano avere luogo grazie all’assistenza di forze personalizzate, che esistono indipendentemente dalla nostra volontà.
È chiaro che in un tale mondo c’è una possibilità limitata per il dibattito nel senso moderno del termine. Circa 2500 anni fa ha cominciato ad affermarsi più fortemente una nuova qualità, che ha messo immediatamente e direttamente in questione l’accoppiata religione e “buonsenso comune”. Questa si è sviluppata a partire dal vecchio, tradizionale pensiero nel senso che quest’ultimo si è trasformato nel suo contrario. Così, il primo pensiero dialettico che ha preceduto la società di classe – espresso, per esempio, in Cina nell’idea della polarità tra lo yen e lo yang, il principio maschile ed il principio femminile - si è trasformato in pensiero critico, basato sui componenti essenziali della scienza, della filosofia e del materialismo. Ma tutto questo era inconcepibile senza l’apparizione di ciò che abbiamo chiamato la cultura del dibattito. La parola greca per dialettica significa, in effetti, dialogo o dibattito.
Che cosa ha permesso questo nuovo approccio? Generalmente parlando, è stata l’estensione del mondo delle relazioni sociali e della conoscenza. Ad un livello molto globale, la natura sempre più complessa del mondo sociale. Come Engels amava ripeterlo, il buonsenso è un ragazzo forte e vigoroso finché resta tra le sue quattro mura, ma conosce ogni tipo di disinganni man mano che si avventura nel mondo. Ma anche la religione ha mostrato i suoi limiti nella capacità di acquietare la paura. In effetti, essa non aveva eliminato la paura, l’aveva solamente esteriorizzata. Attraverso questo meccanismo, l’umanità ha tentato di far fronte ad un terrore che altrimenti l’avrebbe schiacciata in un’epoca in cui non aveva altri mezzi di autodifesa. Ma facendo ciò, ha fatto della sua paura una forza supplementare che la dominava.
“Spiegare” ciò che è ancora inspiegabile significa rinunciare ad una vera ricerca. È là dunque che nasce il conflitto tra la religione e la scienza o, come dice Spinoza, tra la sottomissione e la ricerca. I filosofi greci inizialmente si sono opposti alla religione. Talete, il primo filosofo che abbiamo conosciuto, aveva già rotto con la visione mistica del mondo. Anassimandro che gli è succeduto, chiedeva che si spiegasse la natura a partire da essa stessa.
Ma il pensiero greco era anche una dichiarazione di guerra contro il realismo primitivo. Eraclito ha spiegato che l’essenza delle cose non è scritta sulle loro fronti. “La natura ama nascondersi”, diceva, o come dice Marx, “ogni scienza sarebbe superflua se l’apparenza rispondesse direttamente alla natura delle cose”[12] .
Il nuovo orientamento metteva in discussione al tempo stesso la credenza ma anche i pregiudizi e la tradizione che sono il credo della vita quotidiana (in Germania le due parole hanno un legame: Glaube = credenza ed Aberglaube = superstizione). Vi si contrapponevano loro la teoria e la dialettica. “Quale che sia la poca considerazione che si manifesti per ogni sorta di pensiero teorico, resta pur sempre il fatto che non si può porre in rapporto due fenomeni naturali o cogliere il rapporto che sussiste tra di essi senza pensiero teorico”[13].
Lo sviluppo dei rapporti sociali era naturalmente il prodotto dello sviluppo delle forze produttive. Comparvero quindi insieme al problema – l’inadeguatezza dei modi di pensiero esistenti – i mezzi per risolverlo. Innanzitutto uno sviluppo della fiducia in sé, in particolare nella potenza del pensiero umano. La scienza può svilupparsi solo quando c’è una capacità ed una volontà di accettare l’esistenza del dubbio e dell’incertezza. Contrariamente all’autorità della religione e della tradizione, la verità della scienza non è assoluta ma relativa. Si presenta quindi non solo la possibilità ma anche la necessità dello scambio di opinioni.
È chiaro che rivendicare il governo della conoscenza non poteva porsi se non quando le forze produttive (nel senso culturale più largo) avessero raggiunto un certo grado di sviluppo. Non si poteva nemmeno immaginare senza uno sviluppo concomitante delle arti, dell’educazione, della letteratura, dell’osservazione della natura, del linguaggio. E quest’ultimo va di pari passo con l’apparizione, ad un certo stadio della storia, di una società di classe il cui strato dirigente è liberato del fardello della produzione materiale. Ma questi sviluppi non hanno fatto nascere automaticamente un approccio nuovo ed indipendente. Né gli egiziani o i babilonesi, malgrado i loro progressi scientifici, né i fenici che per primi sviluppano un alfabeto moderno, sono andati tanto lontano quanto i greci in questo processo.
In Grecia, è lo sviluppo della schiavitù che ha permesso la nascita di una classe di cittadini liberi accanto ai preti. Ciò ha fornito la base materiale che ha minato la religione. (Possiamo così capire meglio la formulazione di Engels nell’Anti-Dühring: senza la schiavitù nell’antichità, niente socialismo moderno). In India, verso la stessa epoca, uno sviluppo della filosofia, del materialismo (chiamato Lokayata) e dello studio della natura coincide con la formazione e lo sviluppo di un’aristocrazia guerriera che si opponeva al teocrazia brahmani ed in parte si basava sulla schiavitù agricola. Come in Grecia, dove la lotta di Eraclito contro la religione, l’immortalità e la condanna dei piaceri carnali erano diretti al tempo stesso contro i pregiudizi dei tiranni e contro quelli delle classi oppresse, il nuovo approccio militante in India ebbe origine da un’aristocrazia. Il Buddismo ed il Jainismo, apparsi alla stessa epoca, erano molto più diffusi nella popolazione lavoratrice ma si mantenevano in una cornice religiosa - con la loro concezione della reincarnazione dell’anima, tipico della società di caste alla quale essi volevano opporsi (che incontriamo anche in Egitto).
In Cina invece, dove c’era uno sviluppo della scienza ed una sorta di materialismo rudimentale (per esempio nella Logica di Mo-ti), questo sviluppo fu limitato dall’assenza di una casta dirigente di preti contro la si sarebbe potuta sviluppare una rivolta. Il paese era diretto da una burocrazia militare formatasi attraverso la lotta contro i barbari che lo circondavano[14].
In Grecia esisteva un fattore supplementare e per certi versi decisivo che ha anche giocato un ruolo importante in India: uno sviluppo più avanzato della produzione di merci. La filosofia greca non è cominciata in Grecia ma nelle colonie portuali dell’Asia Minore. La produzione di merci implica lo scambio non solo di beni ma anche dell’esperienza contenuta nella loro produzione. Accelera la storia, favorendo pertanto un’espressione superiore del pensiero dialettico. Permette un grado di personalizzazione senza il quale lo scambio di idee ad un livello tanto elevato non è possibile. Ed essa comincia a mettere fine all’isolamento nel quale si era svolta l’evoluzione sociale fino ad allora. L’unità economica fondamentale di tutte le società agricole basate sull’economia naturale è il villaggio o, al meglio, la regione autarchica. Ma le prime società di sfruttamento fondato su di una cooperazione più larga, spesso per sviluppare l’irrigazione, erano sempre delle società fondamentalmente agricole. Al contrario, il commercio e la navigazione hanno aperto la società greca sul mondo. Essa ha riprodotto, ma ad un livello superiore, l’atteggiamento di conquista e di scoperta del mondo che caratterizza le società nomadi. La storia mostra che, ad un certo stadio del suo sviluppo, l’apparizione del fenomeno di dibattito pubblico fu inseparabile da uno sviluppo internazionale (anche se esso si concentrava in una regione) e, in un certo senso, aveva un carattere “inter-nazionalista”. Diogene ed i Cinici erano contro la distinzione tra Elleni e Barbari e si sono dichiarati cittadini del mondo. Democrito è passato in giudizio con l’accusa di aver dilapidato un’eredità utilizzandola per dei viaggi educativi in Egitto, a Babilonia, in Persia ed in India. Si difese leggendo brani dei suoi scritti, frutti dei suoi viaggi - e fu dichiarato non colpevole.
Il dibattito è nato per rispondere ad una necessità materiale. In Grecia si sviluppa a partire dal paragone tra differenti fonti di conoscenza. Vengono paragonati differenti modi di pensiero, differenti modi di investigazione ed i loro risultati, i modi di produzione, i costumi e le tradizioni. Si scopre che questi si contraddicono, si confermano o si completano un l’altro. Entrano in conflitto fra loro o si supportano l’un l’altro, o le due cose insieme. Attraverso il confronto le verità assolute diventano relative.
Questi dibattiti sono pubblici. Hanno luogo nei porti, sulle piazze del mercato (i fori), nelle scuole e le accademie. Sotto forma scritta riempono le biblioteche e si estendono a tutto il mondo conosciuto.
Socrate - questo filosofo che ha trascorso tutta la sua vita a dibattere sulle piazze dei mercati - ha incarnato l’essenza di questa evoluzione. La sua preoccupazione principale - come raggiungere una vera conoscenza della morale - costituisce un attacco contro la religione e contro i pregiudizi che pretendono di avere già la risposta a queste questioni. Socrate ha dichiarato che la conoscenza è la prima condizione per una corretta etica e l’ignoranza il suo principale nemico. È dunque lo sviluppo della coscienza e non la punizione che permette il progresso morale poiché, per la maggior parte, gli uomini non possono andare per molto tempo in modo deliberato contro la voce della loro propria coscienza.
Ma Socrate è andato ben oltre, gettando le basi teoriche di ogni scienza e di ogni chiarimento collettivo, con il riconoscimento che il punto di partenza della conoscenza, cioè della presa di coscienza, è mettere da parte i pregiudizi. Ciò apre la strada all’essenziale: la ricerca. Egli si opponeva vigorosamente alle conclusioni frettolose, alle opinioni non critiche e soddisfatte di se stesse, all’arroganza ed alla vanteria. Credeva nella “modestia della non conoscenza” ed alla passione che consegue dalla vera conoscenza, fondata su una visione ed una convinzione profonda. È il punto di partenza del Dialogo socratico. La verità è il risultato di una ricerca collettiva che consiste nel dialogo tra tutti gli allievi e dove ciascuno è al tempo stesso allievo e maestro. Il filosofo non è più un profeta che annuncia delle rivelazioni, ma qualcuno che ricerca, con altri, la verità. Ciò porta ad un nuovo concetto di direzione: il dirigente è colui che è più determinato a far avanzare il chiarimento senza perdere mai di vista lo scopo finale. Il parallelo con il modo in cui è definito il ruolo dei comunisti nella lotta di classe ne Il Manifesto Comunista, è sorprendente.
Socrate era maestro nello stimolare e dirigere le discussioni. Ha fatto evolvere il dibattito pubblico fino al livello di un’arte o di una scienza. Il suo allievo, Platone, ha sviluppato il dialogo fino ad un livello raramente raggiunto in seguito.
Nell’introduzione a La Dialettica della Natura, Engels parla di tre grandi periodi nella storia dello studio della natura fino ad allora: “il genio dell’intuizione” degli antichi greci, i risultati “altamente significativi ma sporadici” degli arabi in quanto precursori del terzo periodo, “la scienza moderna” che muove i primi passi nel Rinascimento. Ciò che è sorprendente ne “l’epoca culturale arabo-musulmana”, è la sua notevole capacità ad assorbire e a fare una sintesi delle esperienze delle differenti culture antiche e la sua apertura alla discussione. August Bebel cita un testimone oculare della cultura del dibattito pubblico a Bagdad: “Immaginate semplicemente che alla prima riunione non c’erano solamente dei rappresentanti di tutte le sette musulmane esistenti, ortodosse ed eterodosse, ma anche degli adoratori del fuoco (Parsi); dei materialisti, degli atei; degli ebrei e dei cristiani, in una parola ogni specie di infedele. Ogni setta aveva il suo portavoce che doveva rappresentarla. Quando uno di questi dirigenti di partito entrava nella sala, tutti si alzavano rispettosamente dalla propria sedia e nessuno si sarebbe seduto prima che quest’ultimo avesse raggiunto il suo posto. Quando la sala fu quasi piena, uno degli infedeli disse: ‘Tutti conoscono le regole. I musulmani non hanno il diritto di combatterci con le prove tratte dai loro libri santi o da discorsi basati su quelli del loro profeta, poiché non crediamo né nei vostri libri né nel vostro profeta. Qui non possiamo che basarci su degli argomenti fondati sulla ragione umana’. Queste parole furono accolte da un giubilo generale”[15]. Bebel aggiunge: “Le differenze tra la cultura araba e la cultura cristiana erano le seguenti: gli arabi raccoglievano durante le loro conquiste tutti le opere che potevano servire ai loro studi ed istruirli sui popoli ed i paesi che avevano conquistato. I cristiani, spargendo la loro dottrina, distruggevano tutti questi monumenti della cultura come prodotti del diavolo o degli orrori pagani”. E conclude: “L’epoca della cultura arabo-musulmana è l’anello che collega la condannata cultura greco-romana, e la cultura antica nel suo insieme, alla cultura europea che è fiorita dal Rinascimento. Senza la prima, quest’ultima non avrebbe potuto raggiungere i livelli attuali. Il cristianesimo era ostile a tutto questo sviluppo culturale”.
Una delle ragioni del fanatismo e del settarismo ciechi del cristianesimo è stata identificata già da Heinrich Heine ed è stata confermata in seguito dal movimento operaio: più una cultura richiede sacrificio e rinuncia, più il pensiero stesso che i suoi principi possano essere messi in discussione è intollerabile.
Per quanto che riguarda il Rinascimento e la Riforma, che definisce “il più grande rivolgimento progressivo che l’umanità avesse fino allora vissuto”, Engels sottolinea non solo il ruolo dello sviluppo del pensiero, ma anche quello delle emozioni, della personalità, del potenziale umano e della combattività. Era un’epoca “che aveva bisogno di giganti e che procreava giganti: giganti per la forza del pensiero, le passioni, il carattere, per la versatilità e l’erudizione. (...) Gli eroi di quell’epoca non erano ancora sotto la schiavitù della divisione del lavoro che ha reso così limitati e unilaterali tanti dei loro successori. Ma la loro caratteristica vera e propria sta nel fatto che vivano ed operavano, quasi tutti, agli avvenimenti del tempo, alle lotte pratiche; prendevano posizione e combattevano anch’essi, chi con la parola e con gli scritti, chi con la spada, parecchi con ambedue” (Engels, ibidem, “Introduzione”).
Il dibattito ed il movimento operaio
Se si considerano le tre epoche “eroiche” del pensiero umano che hanno portato, secondo Engels, allo sviluppo della scienza moderna, si nota quanto esse siano state limitate nel tempo e nello spazio. Innanzitutto, esse iniziano molto tardi rispetto alla storia dell’umanità nel suo insieme. Anche includendo i capitoli cinesi ed indiani, queste fasi sono state limitate sul piano geografico e non sono neanche durate molto (il Rinascimento in Italia e la Riforma in Germania appena qualche decennio). E le parti delle classi sfruttatrici (esse stesse estremamente minoritarie) che vi hanno veramente partecipato in modo attivo sono state minuscole.
A tale proposito due cose sembrano stupefacenti. Primo, il fatto stesso che questi momenti di nascita del dibattito pubblico e della scienza abbiano avuto luogo e che il loro impatto sia stato così importante e così duraturo - nonostante tutte le interruzioni ed i vicoli ciechi. Secondo, fino a che punto il proletariato - malgrado la rottura della continuità organica del suo movimento a metà del ventesimo secolo, malgrado l’impossibilità di organizzazioni di massa permanenti nella decadenza del capitalismo – sia stato capace di mantenere e talvolta di allargare considerevolmente lo scopo del dibattito organizzato. Il movimento operaio ha mantenuto viva questa tradizione per quasi due secoli nonostante le interruzioni,. Ed in certi momenti, come nei movimenti rivoluzionari in Francia, in Germania ed in Russia, questo processo ha inglobato milioni di uomini. Qui la quantità si trasforma in qualità.
Tuttavia questa qualità non è prodotta unicamente dal il fatto che il proletariato - almeno nei paesi industrializzati - costituisce la maggioranza della popolazione. Abbiamo già visto come la scienza moderna e la teoria, dopo i gloriosi inizi durante il Rinascimento, sono state sprecate ed ostacolate nel loro sviluppo dalla divisione borghese del lavoro. Al centro di questo problema risiede la separazione della scienza dai produttori ad un livello impossibile all’epoca araba o del Rinascimento. “(Questa scissione) si compie infine nella grande industria che fa della scienza una forza produttiva indipendente dal lavoro e l’arruola al servizio del capitale”[16].
Marx la descrive la conclusione di questo processo nella sua bozza di risposta a Vera Zassoulitch: "Questa società conduce una guerra contro la scienza, contro i popoli e contro le forze produttive che essa ha creato”.
Il capitalismo è il primo sistema economico che non può esistere senza un’applicazione sistematica della scienza alla produzione. Deve limitare l’educazione del proletariato per mantenere il suo dominio di classe. E deve sviluppare l’educazione del proletariato per mantenere la sua posizione economica. Oggi la borghesia è sempre più una classe senza cultura, arretrata, mentre la scienza e la cultura sono tra le mani sia di proletari, sia di rappresentanti remunerati della borghesia la cui situazione economica e sociale somiglia sempre più a quella della classe operaia.
“(L’abolizione delle classi sociali) ha quindi come suo presupposto un alto grado di sviluppo della produzione nel quale l’appropriazione dei mezzi di produzione e dei prodotti, e perciò del potere politico, del monopolio della cultura e della direzione spirituale da parte di una particolare classe della società non solo è diventata superflua, ma è diventata anche economicamente, politicamente e intellettualmente un ostacolo allo sviluppo. Questo punto oggi è raggiunto”[17].
Il proletariato è l’erede delle tradizioni scientifiche dell’umanità. Più ancora che per il passato, ogni futura lotta rivoluzionaria proletaria porterà necessariamente un fiorire senza precedenti del dibattito pubblico e gli inizi di un movimento verso la restaurazione dell’unità tra scienza e lavoro, il compimento di una comprensione globale più adeguata alle esigenze dell’epoca contemporanea.
La capacità del proletariato di raggiungere nuove vette è stata già provata dallo sviluppo del marxismo, primo passo scientifico concernente la società umana e la storia. Solo il proletariato è stato capace di assimilare le più alte esperienze del pensiero filosofico borghese: la filosofia di Hegel. Le due forme di dialettica conosciute nell’antichità erano la dialettica del cambiamento, Eraclito, e la dialettica dell’interazione (Platone, Aristotele). Solo Hegel è riuscito a combinare queste due forme ed a creare la base per una dialettica veramente storica.
Hegel aggiunge una nuova dimensione a tutto il concetto di dibattito attaccando, più profondamente di quanto mai fatto prima, l’opposizione rigida, metafisica tra vero e falso. Nell’introduzione a La Fenomenologia dello Spirito, mostra come delle fasi differenti ed opposte di un processo di sviluppo - quale la storia della filosofia - costituiscono un’unità organica, come lo sono il fiore ed il frutto. Hegel spiega che l’incapacità a comprendere questa unità viene dalla tendenza a concentrarsi sulla contraddizione ed a perdere di vista lo sviluppo. Rimettendo questa dialettica sui suoi piedi, il marxismo è stato capace di assorbire l’aspetto più progressivo di Hegel, la comprensione dei processi che conducono verso il futuro.
Il proletariato è la prima classe sfruttata e rivoluzionaria allo stesso tempo. Contrariamente alle precedenti classi rivoluzionarie che erano sfruttatrici, la sua ricerca della verità non è limitata da nessun interesse a preservarsi in quanto classe. Contrariamente alle precedenti classi sfruttate che sopravvivevano consolandosi solo con le illusioni (in particolare quelle religiose), il suo interesse di classe richiede la perdita delle illusioni. Come tale, il proletariato è la prima classe la cui tendenza naturale, appena riflette, si organizza e lotta sul suo terreno, è verso la chiarificazione.
I bordighisti hanno dimenticato questa caratteristica unica del proletariato quando hanno inventato il concetto di invarianza. Il loro punto di partenza è corretto: la necessità di restare leali ai principi di base del marxismo di fronte all’ideologia borghese. Ma la conclusione secondo la quale è necessario limitare o anche abolire il dibattito per mantenere le posizioni di classe, è il prodotto della controrivoluzione. La borghesia ha ben compreso che per attirare il proletariato sul campo del capitale bisogna innanzitutto sopprimere e soffocare i suoi dibattiti. Avendo inizialmente tentato di farlo attraverso la repressione violenta, ha poi sviluppato delle armi ben più efficaci quali la democrazia ed il sabotaggio da parte della sinistra del capitale. Anche l’opportunismo lo ha capito da tempo. Poiché la sua caratteristica essenziale è l’incoerenza, deve nascondersi, evitare il dibattito aperto. La lotta contro l’opportunismo e la necessità di una cultura del dibattito, non solo non sono in contraddizione, ma sono indispensabili l’un l’altro.
Una tale cultura non esclude affatto il confronto appassionato di posizioni politiche divergenti, al contrario. Ma ciò non significa affatto che il dibattito politico debba essere necessariamente traumatico, con dei vincitori e dei vinti, che porta a rotture e scissioni. L’esempio più edificante de “l’arte” o de “la scienza” del dibattito nella storia è quello del Partito bolscevico tra febbraio ed ottobre 1917. Anche in un contesto di intrusione massiccia di un’ideologia estranea, queste discussioni erano appassionate ma estremamente fraterne e fonte di ispirazione per tutti i partecipanti. Soprattutto, esse hanno reso possibile ciò che Trotsky ha chiamato “il riarmo” politico del partito, l’adeguamento della sua politica ai bisogni mutevoli del processo rivoluzionario, che è una delle condizioni della vittoria.
Il “Dialogo bolscevico” richiede una comprensione del fatto che i dibattiti non hanno tutti lo stesso significato. La polemica di Marx contro Proudhon era di tipo demolitorio perché si dava per compito di gettare nella pattumiera della storia, sbarazzandosene, una visione che era diventata un ostacolo per lo sviluppo della coscienza dell’insieme del movimento operaio. Al contrario il giovane Marx, pure ingaggiando una lotta titanica contro Hegel e contro il socialismo utopico, non perse mai il suo immenso rispetto per Hegel, Fourier, Saint Simon o Owen che gli ha permesso di integrarli per sempre nella nostra eredità comune. Engels doveva scrivere più tardi che senza Hegel non ci sarebbe stato il marxismo e senza gli utopisti non ci sarebbe stato il socialismo scientifico come lo conosciamo.
Le più gravi crisi del movimento operaio, comprese quelle della CCI, per la maggior parte non sono state provocate dal fatto stesso che esistessero le divergenze, anche se fondamentali, ma dall’evitare e perfino sabotare apertamente il dibattito. L’opportunismo utilizza tutti i mezzi per raggiungere questo scopo. Non solo può minimizzare delle divergenze importanti, ma anche esagerare delle divergenze secondarie o inventare delle divergenze là dove non ce ne sono. Utilizza anche gli attacchi personali, la denigrazione e la calunnia.
Il peso morto che viene esercitato sul movimento operaio, da un lato, dal “buon senso comune” di tutti i giorni e, dall’altro, dal rispetto acritico, quasi religioso di certi costumi e tradizioni, è legato a ciò che Lenin ha chiamato lo spirito di circolo. Egli aveva profondamente ragione nella sua lotta contro la sottomissione del processo di costruzione dell’organizzazione e della sua vita politica alla “spontaneità” del buonsenso comune ed alle sue conseguenze: "Ma perché - domanderà il lettore - il movimento spontaneo, il movimento che segue la linea del minimo sforzo, conduce al predominio dell’ideologia borghese? Per la semplice ragione che, per le sue origini, l’ideologia borghese è ben più antica di quella socialista, essa è meglio elaborata in tutti i suoi aspetti e possiede una quantità incomparabilmente maggiore di mezzi di diffusione”[18].
La caratteristica della mentalità di circolo è la personalizzazione del dibattito, l’atteggiamento che consiste nel sostituire l’argomentazione politica con la polarizzazione non su ciò che è detto ma su chi lo dice. E’ chiaro che questa personalizzazione costituisce un’enorme ostacolo ad una fruttuosa discussione collettiva.
Già il “Dialogo socratico” aveva compreso che lo sviluppo del dibattito non è solo una questione di pensiero; è una questione etica. Oggi la ricerca del chiarimento serve gli interessi del proletariato mentre il suo sabotaggio lo danneggia. In questo senso, la classe operaia potrebbe adottare lo slogan dell’illuminista tedesco Lessing che affermava che se c’era una cosa che amava più della verità, era la ricerca della verità.
La lotta contro il settarismo e l’impazienza
Gli esempi più chiari di cultura del dibattito in quanto elemento essenziale dei movimenti proletari di massa sono forniti dalla Rivoluzione russa[19]. Il partito di classe, lungi dall’opporsi ad essa, era lui stesso all’avanguardia di questa dinamica. Le discussioni in seno al partito nella Russia del 1917 riguardavano questioni quali la natura di classe della rivoluzione, se occorreva o no sostenere il proseguimento della guerra imperialista, e quando e come prendere il potere. Tuttavia durante tutto questo periodo l’unità del partito fu mantenuta nonostante le crisi politiche nel corso delle quali era in gioco il destino della rivoluzione mondiale e, con esso, quello dell’umanità.
Tuttavia la storia della lotta di classe proletaria, ed in particolare del movimento operaio organizzato, ci insegna che non sempre sono stati raggiunti tali livelli di cultura del dibattito. Abbiamo già menzionato l’intrusione ripetuta di atteggiamenti monolitici nella CCI. Non è sorprendente che ciò abbia dato spesso luogo a scissioni dall’organizzazione. Nella quadro di un atteggiamento monolitico, le divergenze non possono essere risolte attraverso il dibattito e conducono necessariamente alla rottura ed alla separazione. Tuttavia il problema non viene risolto dalla scissione dei militanti che si sono fati portatori di questo atteggiamento in modo caricaturale. La possibilità che tali comportamenti non proletari sorgano e risorgano indica l’esistenza di debolezze più diffuse su questa questione in seno all’organizzazione stessa. Queste consistono spesso in piccole confusioni e false idee appena percettibili nella vita e nella discussione quotidiana, ma che in certe circostanze possono aprire la strada a difficoltà ben più gravi. Una di queste è la tendenza a porre ogni dibattito in termini di confronto tra marxismo ed opportunismo, di lotta polemica contro l’ideologia borghese. Una delle conseguenze di questo comportamento è l’inibizione del dibattito, dando ai compagni l’impressione di non aver più il diritto di sbagliarsi né di esprimere delle confusioni o dei disaccordi. Un’altra conseguenza è la banalizzazione dell’opportunismo. Se lo vediamo dovunque (e gridiamo sempre “Al lupo! Al lupo” appena appare al minima divergenza) probabilmente non lo riconosceremo quando apparirà veramente. Un altro problema è l’impazienza nel dibattito che ha come risultato il non ascoltare gli argomenti degli altri ed una tendenza a volere monopolizzare la discussione, a schiacciare i propri “avversari”, a convincere gli altri “ad ogni costo”[20].
Tutti questi comportamenti hanno in comune il peso dell’impazienza piccolo-borghese, la mancanza di fiducia nella pratica vivente del chiarimento collettivo in seno al proletariato. Esprimono una difficoltà ad accettare che la discussione ed il chiarimento siano un processo. Come tutti i processi fondamentali della vita sociale, questo processo ha un ritmo interno e una sua propria legge di sviluppo. Il suo procedere corrisponde al movimento della confusione verso la chiarezza, comprende errori e falsi orientamenti, così come la loro correzione. Tali processi richiedono del tempo per essere veramente profondi. Possono essere accelerati ma non cortocircuitati. Più larga è la partecipazione, più la partecipazione dell’insieme della classe viene incoraggiata ed accolta favorevolmente, più ricco sarà questo processo.
Nella sua polemica contro Bernstein[21] Rosa Luxemburg ha sottolineato la contraddizione fondamentale della lotta di classe in quanto movimento interno al capitalismo ma che tende verso un scopo che si trova al di fuori di esso. Da questa natura contraddittoria nascono i due principali pericoli che minacciano questo movimento. Il primo è l’opportunismo, che è l’apertura all’influenza fatale della classe nemica. La parola d’ordine di questa deviazione della lotta di classe è: “il movimento è tutto, il fine è niente”. Il secondo principale pericolo è il settarismo, che è la mancanza di apertura verso l’influenza della vita della propria classe, il proletariato. La sua parola d’ordine è: “il fine è tutto, ma il movimento è niente”.
Nella scia della
terribile controrivoluzione che è seguita alla sconfitta della rivoluzione
mondiale, alla fine della prima Guerra mondiale, all’interno di ciò che restava
del movimento rivoluzionario si è sviluppata la falsa e fatale idea che era possibile
combattere l’opportunismo con il settarismo. Questo approccio che ha portato alla
sterilizzazione ed alla fossilizzazione, non riusciva a comprendere che l’opportunismo
ed il settarismo sono due facce della stessa medaglia poiché separano l’uno
dall’altro il movimento e il fine. Senza la piena partecipazione delle
minoranze rivoluzionarie alla vita reale ed al movimento della loro classe, il
fine del comunismo non può essere raggiunto.
[1] Anche dei giovani rivoluzionari tanto maturi e chiari teoricamente come Marx ed Engels pensavano – all’epoca delle convulsioni sociali del 1848 - che il comunismo stava per essere all’ordine del giorno. Una supposizione che hanno dovuto rivedere velocemente ed abbandonare.
[2] Vedi le “Tesi sul movimento degli studenti della primavera 2006 in Francia”, Rivista Internazionale n.28.
[3] Concezione teorizzata nel campo proletario dalla corrente “bordighista”.
[4] Le biografie ed i ricordi dei rivoluzionari del passato sono pieni di esempi della loro capacità di discutere e, in particolare, di ascoltare. Su questo piano Lenin aveva una grande reputazione, ma non era il solo. Giusto per fare un esempio citiamo un ricordo di Fritz Sternberg tratto dalle sue “Conversazioni con Trotsky” (redatto nel 1963): “Nelle sue conversazioni con me Trotsky era straordinariamente educato. Non mi interrompeva quasi mai, solamente per chiedermi di spiegare o di sviluppare una parola o un concetto”.
[5] Su questo argomento, vedi gli articoli dei della, “Conferenza straordinaria della CCI: La lotta per la difesa dei principi organizzativi”, Rivista Internazionale n.110 (in inglese, francese e spagnolo); “XV Congresso della CCI: Rafforzare l’organizzazione di fronte alla posta in gioco del periodo” Rivoluzione Internazionale n.131.
[6] Vedi “La fiducia e la solidarietà nella lotta del proletariato” nella Rivista Internazionale n.111 e 112 (in inglese, francese e spagnolo) e “Marxismo ed etica”, CCI on-line 200-2008, 127 e 128.
[7] Vedi i nostri libri “La Sinistra comunista italiana” e “La Sinistra comunista olandese”.
[8] La Sinistra comunista di Francia manterrà questa visione dopo lo scioglimento della Frazione italiana. Vedi ad esempio la critica del concetto di “capo geniale”, ripubblicata nella Rivista Internazionale n.33, e quella della nozione di disciplina che concepisce i militanti dell’organizzazione come semplici esecutori che non hanno da discutere gli orientamenti politici dell’organizzazione, nella Rivista Internazionale n.34 (entrambe in inglese, francese e spagnolo).
[9] Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato
[10] Engels, Ludwig Feuerbach, inizio del 2° capitolo.
[11] Engels, “La dialettica della natura”, capitolo “La ricerca scientifica nel mondo degli spiriti”.
[12] Il Capitale, Libro III, sezione 7, Capitolo 48: “La formula tripartitica” (inizio della 3a parte).
[13] Engels, “La dialettica della natura”, fine del capitolo “La ricerca scientifica nel mondo degli spiriti”.
[14] Sugli sviluppi in Asia negli anni 500 a.c., vedi le Conferenze di August Thalheimer all’università Sun-Yat-Sen di Mosca, 1927: “Einführung in den dialektischen Materiailismus” (Introduzione al materialismo dialettico). Ne è stata pubblicata un’edizione americana nel 1938.
[15] August Bebel: Die Mohamedanisch-Arabische Kulturepoche (1889), Capitolo VI, “Lo sviluppo scientifico, la poesia”. Tradotto dal tedesco da noi.
[16] Il Capitale, Libro I, 4a sezione, capitolo 14: “Divisione del lavoro e manifattura”, 5 “Carattere capitalista della manifattura”.
[17] Anti-Dühring, 3a parte: “Il socialismo”, “Elementi teorici”.
[18] Che fare?, 2a parte “La spontaneità dalle masse e la coscienza della socialdemocrazia”, parte b) “La sottomissione alla spontaneità. Il Rabociaia Mysl”.
[19] Vedi ad esempio il libro di Trotsky, Storia della rivoluzione russa o quello di John Reed, I Dieci giorni che scossero il mondo.
[20] Per un maggiore sviluppo sull’argomento vedi “17° Congresso della CCI: un rafforzamento internazionale del campo proletario”, ICC online, settembre.
[21] Rosa Luxemburg, Riforma sociale o rivoluzione
I circoli di discussione si possono comprendere solo nel contesto dello sviluppo storico della coscienza di classe. Essi sono parte integrante dello sforzo del proletariato per sviluppare la sua coscienza di classe cercando di comprendere il significato e le implicazioni delle crisi del capitalismo nel quadro delle posizioni politiche del proletariato.
Nel contesto storico attuale, cioè quello di un caos imperialista ed economico crescente, è importante sottolineare che il processo di sviluppo della coscienza di classe si mostra sempre più difficile, in particolare dopo il crollo del blocco dell’Est nel 1989. Il lavoro dei circoli di discussione è pertanto di grande importanza per il futuro sviluppo della comprensione da parte del proletariato del proprio ruolo storico.
Una tribuna per la discussione e la chiarificazione
Il GDM è sorto all’inizio come Gruppo di Discussione di Leicester (GDL) con elementi che in questa regione avevano discusso ed avevano un contatto di lunga data con la Corrente Comunista Internazionale. Queste discussioni erano state favorite da una serie di questioni che si erano poste sulla guerra del Kosovo. Al fine di dare a queste discussioni una forma più sistematica e fruttuosa, la CCI ha proposto la formazione di un circolo di discussione. Le prime discussioni del GDL sono state su un articolo della CCI che tirava le lezioni politiche da un precedente gruppo di discussione di Zurigo, in Svizzera, negli anni ’90. Questo articolo metteva in evidenza che “un circolo è un raggruppamento di lavoratori, aperto ma non permanente, che si incontrano per discutere e chiarire delle questioni politiche. Questi circoli sono dei luoghi che il proletariato crea al fine di spingere in avanti la sua coscienza, soprattutto nei momenti in cui non esiste alcun partito e alcun Consiglio Operaio … Noi li consideriamo un’espressione concreta della classe. Essi esprimono la coscienza della classe, che dimostra che essa non è pronta a subire la crisi e la bancarotta del capitalismo senza dar prova di resistenza; essi mostrano la volontà di difendersi contro gli attacchi del sistema capitalista. Allo stesso tempo, sono l’espressione di un tentativo di ricercare gli strumenti di lotta e di sviluppo di una prospettiva rivoluzionaria …” (World Revolution n. 207, “I circoli di discussione nella classe operaia: un fenomeno mondiale”).
Poiché un circolo non è un’organizzazione che si raggruppa intorno ad una piattaforma politica, esso non può essere un’entità permanente o stabile. E’ un momento di chiarificazione politica che permette ai partecipanti, attraverso un processo di discussione collettiva, di ricercare la loro collocazione politica dal punto di vista della classe sfruttata e rispetto alle correnti storiche che già esistono nel campo proletario marxista internazionalista.
Un processo positivo di chiarificazione e di apertura
Un elemento centrale delle discussioni del GDM è stato la determinazione a comprendere meglio le principali questioni teoriche e storiche del movimento operaio e di combinare questo aspetto con la preoccupazione di rifarsi e discutere degli avvenimenti nazionali ed internazionali che man mano avevano luogo. Dopo l’11 settembre del 2001, ad esempio, il circolo ha discusso i volantini ed i comunicati pubblicati dalla CCI e da altri gruppi della Sinistra comunista. In una riunione specifica il gruppo ha considerato questo avvenimento un’espressione dell’aggravamento delle tensioni imperialiste. La preoccupazione di denunciare la guerra imperialista da un punto di vista proletario è stata una grande forza del gruppo. Tutti i partecipanti hanno manifestato con chiarezza la loro opposizione alla guerra nel Kosovo e in Afghanistan ed a tutte le guerre imperialiste.
La presentazione della discussione sulla Comune di Parigi[1] mostra la profondità e la qualità di queste discussioni. Tra le altre cose, il GDM ha discusso del movimento anticapitalista, della Rivoluzione Russa (che il gruppo considera proletaria, benché ci siano dei disaccordi sul ruolo dei bolscevichi e sulle ragioni della sua degenerazione), della coscienza della borghesia focalizzandosi sul ruolo dei partiti della sinistra contro la classe operaia.
Sin dall’inizio, il GDM ha preso come punto di riferimento la Sinistra comunista. Ha invitato dei gruppi della Sinistra comunista a partecipare alle sue riunioni, il che ha permesso ai partecipanti di profittare non solo di una migliore comprensione delle posizioni dei differenti gruppi, ma anche di acquisire un’esperienza nella discussione con organizzazioni politiche del proletariato. La CCI è intervenuta nelle riunioni del gruppo sin dalla sua formazione e la Communist Workers Organisation (CWO) è anch’essa intervenuta più recentemente.
I progressi realizzati attraverso una lotta politica determinata
Il GDM ha pienamente assolto il suo ruolo centrale, quello della chiarificazione. Ma per arrivarci ha dovuto sviluppare un grande dibattito politico. In particolare ha dovuto confrontarsi a delle confusioni sulla propria natura e sul ruolo che doveva giocare.
Il GDM ha iniziato basando il suo lavoro sulle lezioni di altre esperienze della classe operaia, in particolare quella del circolo di discussione di Zurigo. Tuttavia la piena assimilazione di queste esperienze è stata intralciata da alcune confusioni all’interno del gruppo sulla sua relazione con la CCI. Alcuni elementi, che all’inizio vedevano la necessità di un dibattito aperto, hanno iniziato a vedere il GDM come luogo di discussione delle posizioni della CCI.
Questa visione tendeva a considerare il gruppo come una sorta di anticamera della CCI. La CCI ha rigettato con forza questa visione ed ha spesso insistito sulla necessità per il gruppo di discutere la storia del movimento operaio e le posizioni di altre organizzazioni comuniste. La CCI ha sempre difeso la visione secondo la quale i circoli di discussione sono dei luoghi di chiarificazione e non delle appendici, la “proprietà privata” o la “cassa di risonanza” delle organizzazioni politiche proletarie. Questi circoli di discussione devono aggregare chiunque ricerchi la chiarezza. Le sole ragioni che possano giustificare l’esclusione dal dibattito di questo o quell’individuo (o gruppo di individui) concernono quegli atteggiamenti in netto contrasto con i principi basilari di comportamento proletario: manovre di sabotaggio o tentativi di presa di controllo di questi circoli di discussione, così come la delazione.
Elementi provenienti dal gauchismo hanno partecipato alle riunioni del GDM e questo ha permesso un confronto politico con le posizioni dell’ideologia borghese. Lungi dal creare una diversione, queste discussioni hanno portato ad una chiarificazione sulla natura ed il ruolo del gauchismo.
I circoli di discussione, come nel caso del GDM, possono essere molto eterogenei. Ma in questo non c’è niente di dannoso. Cercare di imporre dei criteri alla partecipazione ai circoli di discussione (a parte quelli di comportamento politico citati sopra) significherebbe indebolire la loro forza fondamentale: la loro natura aperta che permette un dibattito contraddittorio. Tali criteri implicherebbero, infatti, un accordo preventivo su delle posizioni politiche (vale a dire un certo livello chi chiarezza), il che significherebbe mettere il carro davanti ai buoi. Ogni tentativo di imporre dei criteri porterebbe a congelare il processo di chiarificazione. L’evoluzione politica di quelli che partecipano alla discussione non può essere che il risultato del confronto tra differenti posizioni. La CCI, da parte sua, ha sempre fatto affidamento sulla capacità di giudizio e sul “buon senso” di tutti quelli che hanno accettato di discutere lealmente con essa, senza ostracismo e senza pregiudizi (compreso quelli che hanno militato nei partiti borghesi).
Tuttavia, se un circolo di discussione non può essere “proprietà” di un’organizzazione, non è neanche un gruppo politico o un’organizzazione propriamente detta[2].
Questo non vuol dire che le organizzazioni politiche proletarie non debbano stimolare la formazione di tali gruppi ed intervenirvi al fine di contribuire al processo di chiarificazione. I principi che animano l’intervento della CCI sono “l’intervento organizzato, unito e centralizzato a livello internazionale, per contribuire al processo che conduce all’azione rivoluzionaria della classe operaia” (Posizioni di base della CCI). E’ compito della CCI e delle altre organizzazioni politiche proletarie prendere la parola all’interno dei circoli di discussione allo scopo di permettere ai partecipanti di conoscere meglio i gruppi storici della Sinistra comunista e di prendere posizione, sviluppando la cultura del dibattito.
Il GDM ha dovuto anche far fronte ad un certo numero di tensioni personali nei suoi ranghi. Tuttavia, in seguito ad una discussione franca, tutti i partecipanti si sono trovati d’accordo sul fatto che gli interessi del gruppo erano prioritari e che era da rigettare la personalizzazione della discussione. Una volta riassorbite queste difficoltà, il gruppo ha potuto prendere il suo slancio ed il dibattito arricchirsi. All’inizio del 2002, il GDM ha tenuto una riunione sull’opposizione proletaria alla guerra imperialista. Questa riunione ha attirato delle persone che non erano mai venute prima, accompagnate dalla CWO e dal Socialist Party of Great Britain (SPGB) (Vedi WR n. 252). La maggior parte di queste persone ha partecipato in seguito alle discussioni del GDM.
Il Gruppo di discussione delle Midlands ha espresso, in Gran Bretagna, lo sforzo maggiore del proletariato per sviluppare la propria coscienza. La dinamica che i partecipanti sono stati capaci di mantenere ha mostrato tutta la vitalità politica di questo gruppo. Tutti gli elementi che lo hanno animato hanno intrapreso un reale processo di chiarificazione politica. Ciò non vuol dire che ciascuno di loro abbia già una coscienza perfettamente chiara della posta in gioco nell’attuale situazione storica. Ma vuol dire che i partecipanti sono più chiari su quello che loro difendono, sul modo in cui vedono il loro futuro politico.
Alcuni elementi del GDM (una ristretta minoranza) hanno chiesto di aderire alla CCI, mentre il gruppo di discussione continua a incontrarsi regolarmente portando avanti una politica di apertura verso altri elementi attraverso delle informazioni sul sito libcom.org e la partecipazione a riunioni di gruppi anarchici. Gli elementi del gruppo vengono anche, regolarmente, alle nostre riunioni a Birmingham. Da parte nostra continuiamo a partecipare alle riunioni del gruppo di discussione.
Da World Revolution n. 258 (ottobre 2002), Organo della CCI in Gran Bretagna.
Nella risoluzione sulle attività della CCI adottata dal congresso si dice:
“L’accelerazione della situazione storica, inedita nella storia del movimento operaio, è caratterizzata dalla congiunzione delle due seguenti dimensioni:
- l’estensione della più grave crisi economica aperta nella storia del capitalismo, combinata con l’acuirsi delle tensioni interimperialiste e con un’avanzata lenta ma progressiva per profondità ed estensione della maturazione all’interno della classe operaia, prodottasi a partire dal 2003;
- e lo sviluppo di un ambiente politico internazionalista, che è particolarmente percettibile nei paesi della periferia del capitalismo.
Questa accelerazione fa risaltare ancor più la responsabilità politica della CCI, ponendole delle esigenze più elevate in termini di analisi teorica/politica e di intervento nella lotta di classe e verso gli elementi in ricerca (…)”.
Il bilancio che possiamo tirare del 18° Congresso internazionale della nostra organizzazione deve dunque basarsi sulla capacità di questa di far fronte a queste responsabilità.
Per una organizzazione comunista genuina e seria, è con una certa delicatezza che ci si può spingere a dire che questa o quella sua iniziativa è stato un successo. E questo per diverse ragioni.
In primo luogo perché la capacità di un’organizzazione che lotta per la rivoluzione comunista di essere all’altezza delle sue responsabilità non si giudica a breve termine ma a lungo termine poiché il suo ruolo, se resta ancorato in permanenza nella realtà storica della sua epoca, consiste, il più delle volte, non tanto nell’influenzare questa realtà immediata, almeno a grande scala, ma a preparare gli avvenimenti futuri.
In secondo luogo perché, per i membri di un’organizzazione, esiste sempre il pericolo di "abbellire le cose", di fare prova di una indulgenza eccessiva di fronte alle debolezze di un collettivo alla vita del quale consacrano la loro devozione e i loro sforzi e che hanno il dovere di difendere in permanenza contro gli attacchi da parte dei vari difensori della società capitalista, palesi o nascosti. La storia è ricca di esempi di militanti convinti e devoti alla causa del comunismo che, per “patriottismo di partito”, non sono stati capaci di identificare le debolezze, le derive, e finanche il tradimento della loro stessa organizzazione. Ancora oggi, tra gli elementi che difendono una prospettiva comunista, si ritrovano alcuni che considerano il loro gruppo, i cui aderenti spesso si possono contare sulle dita di una mano, come il solo “Partito comunista internazionale” intorno al quale si raccoglieranno le masse proletarie un giorno e che, refrattari a qualunque critica o a qualunque dibattito, considerano gli altri gruppi dell’ambiente politico proletario come dei falsari.
E’ con la coscienza del pericolo di farsi delle illusioni e con la prudenza necessaria che ne deriva che noi non abbiamo paura di affermare che il 18° Congresso della CCI si è svolto all’altezza delle esigenze prima esposte ed ha creato le condizioni perché noi possiamo proseguire in questa direzione.
Noi non possiamo riportare in questo articolo tutti gli elementi che possono essere evocati a sostegno di questa affermazione. Ricorderemo pertanto solo i più importanti:
L’integrazione di due nuove sezioni territoriali
La nostra stampa ha già reso conto dell’integrazione delle nuove sezioni della CCI nelle Filippine e in Turchia (la responsabilità del Congresso era di convalidare la decisione di integrazione che era stata adottata dall’organo centrale della nostra organizzazione all’inizio del 2009)[1]. Come scrivevamo in questa occasione: “L’integrazione di queste due nuove sezioni all’interno della nostra organizzazione allarga in maniera significativa la sua estensione geografica.” Vogliamo ancora qui precisare i due seguenti elementi relativi a queste integrazioni:
L’integrazione di due nuove sezioni non è un evento frequente per la nostra organizzazione. L’ultima integrazione risale al 1995 con la sezione in Svizzera. Questo spiega perché l’arrivo di queste due sezioni (che faceva seguito alla costituzione di un nucleo in Brasile nel 2007) è stato avvertito dall’insieme dei militanti della CCI come un avvenimento molto importante e molto positivo. Queste integrazioni confermano ancora l’analisi che la nostra organizzazione aveva fatto da diversi anni a proposito delle nuove potenzialità di sviluppo della coscienza di classe insite nella situazione storica attuale e la validità della politica condotta verso i gruppi e gli elementi che si rivolgono verso le posizioni rivoluzionarie. Ciò tanto più che erano presenti al congresso delegazioni di quattro gruppi dell’ambiente politico internazionalista.
La presenza dei gruppi internazionalisti
Nel bilancio che abbiamo tratto sul precedente congresso della CCI, abbiamo sottolineato tutta l’importanza che aveva dato a questo congresso la presenza, per la prima volta dopo decenni, di quattro gruppi dell’ambiente politico internazionalista provenienti rispettivamente dal Brasile, dalla Corea, dalle Filippine e dalla Turchia. Questa volta erano ugualmente presenti quattro gruppi di questa area. Ma non si tratta affatto di rimanere allo stesso punto poiché mentre due dei gruppi presenti in occasione dello scorso congresso sono successivamente divenuti sezioni della CCI, abbiamo avuto la soddisfazione di accogliere due nuovi gruppi: un secondo gruppo proveniente dalla Corea e un gruppo con basi in America centrale (Nicaragua e Costarica), la LECO (Liga por la Emancipación de la Clase Obrera) che aveva partecipato all’“Incontro di comunisti internazionalisti”[2] tenuto in America latina nella scorsa primavera per iniziativa della CCI e di OPOP, il gruppo internazionalista del Brasile con il quale la nostra organizzazione intrattiene dei rapporti fraterni e molto positivi da diversi anni. Questo gruppo era esso stesso di nuovo presente al nostro congresso. Altri gruppi che avevano partecipato a questo incontro erano stati ugualmente invitati al congresso, ma essi non hanno potuto inviare una delegazione per il fatto che l’Europa si trasforma sempre più in una fortezza per delle persone che non sono nate nel cerchio ristretto dei “paesi ricchi”.
La presenza dei gruppi dell’ambiente internazionalista ha costituito un elemento molto importante per il successo del congresso e particolarmente per il clima delle sue discussioni. Questi compagni si sono mostrati tutti molto calorosi verso i militanti della nostra organizzazione, hanno sollevato delle questioni, particolarmente a proposito della crisi economica e della lotta di classe, in una maniera a cui non siamo abituati nei nostri dibattiti interni cosa che non poteva non stimolare la riflessione dell’insieme della nostra organizzazione.
Infine, la presenza di questi compagni costituiva un elemento supplementare della dinamica di apertura che la CCI si è fissata come obiettivo da diversi anni, una apertura verso gli altri gruppi proletari ma anche verso gli elementi che si avvicinano alle posizioni comuniste. In particolare, di fronte a delle persone esterne alla nostra organizzazione, diventa molto difficile cadere nell’errore, evocato prima, di “raccontarsi delle storie” o di raccontarle agli altri. Un’apertura ugualmente nelle nostre preoccupazioni e riflessioni, particolarmente in direzione delle ricerche e delle scoperte in campo scientifico[3] e che si è concretizzato con l’invito di un membro della comunità scientifica ad una sessione del congresso.
L’invito di uno scienziato
Per celebrare a modo nostro “l’anno di Darwin” e manifestare lo sviluppo all’interno della nostra organizzazione dell’interesse per le questioni scientifiche, abbiamo chiesto ad un ricercatore specialista nel settore dell’evoluzione del linguaggio (autore in particolare di un’opera intitolata "Aux origines du langage") di fare una presentazione di fronte al congresso dei suoi lavori che sono basati, ovviamente, sull’approccio darwiniano. Le riflessioni originali di Jean-Louis Dessalles[4] sul linguaggio, il suo ruolo nello sviluppo dei legami sociali e della solidarietà nella specie umana hanno un legame con le riflessioni e discussioni che ci sono state, e che continuano a svilupparsi, nella nostra organizzazione a proposito dell’etica e della cultura del dibattito. La presentazione di questo ricercatore è stata seguita da un dibattito che siamo stati costretti a limitare nel tempo per poter rispettare l’ordine del giorno del congresso, ma che avrebbe potuto proseguire ancora per delle ore tanto le questioni abbordate hanno appassionato la maggior parte dei partecipanti al congresso.
Noi vogliamo qui ringraziare Jean-Louis Dessalles che, pur non condividendo le nostre idee politiche, ha accettato in maniera molto cordiale di consacrare una parte del suo tempo per arricchire la riflessione della nostra organizzazione. Noi teniamo a salutare ugualmente il carattere molto caloroso e conviviale delle risposte che lui ha dato alle questioni e obiezioni dei militanti della CCI.
La discussione sulla situazione internazionale
I lavori del congresso hanno abbordato i punti classici di un congresso internazionale:
La risoluzione sulla situazione internazionale, che è pubblicata nella Revue Internationale n°138, costituisce una sorta di sintesi delle discussioni del congresso relative all’esame del mondo attuale. Evidentemente questa non può rendere conto di tutti gli aspetti abbordati in queste discussioni (né nei rapporti preparatori). Essa si dà viceversa tre obiettivi principali:
Sul primo aspetto, la comprensione della posta in gioco della crisi attuale del capitalismo, è importante sottolineare i seguenti aspetti:
“… quella attuale è la più grave crisi che abbia conosciuto questo sistema dopo la grande depressione iniziata nel 1929. (…) non è la crisi finanziaria che è all’origine della recessione attuale. Al contrario, la crisi finanziaria illustra bene come la fuga in avanti nell’indebitamento, che aveva permesso di superare la sovrapproduzione, non può proseguire all’infinito. (…) Di fatto, anche se il sistema capitalista non crollerà come un castello di carte … la sua prospettiva resta quella di uno sprofondamento crescente nella sua impasse storica, quella di un ritorno ad un livello sempre più vasto di convulsioni.”
Naturalmente il congresso non ha potuto apportare delle risposte definitive a tutte le questioni che solleva la crisi attuale del capitalismo. Da una parte perché ogni giorno che passa comporta nuovi elementi di questa crisi che obbligano i rivoluzionari ad apportare un’attenzione particolare e permanente all’evoluzione della situazione e a proseguire la discussione a partire da questi nuovi elementi. D’altra parte perché la nostra organizzazione non è omogenea su un certo numero di aspetti dell’analisi della crisi del capitalismo. Il che, a nostro avviso, non è affatto una prova di debolezza della CCI. Di fatto, in tutta la storia del movimento operaio, si sono susseguiti dibattiti sulla crisi del sistema capitalista nel quadro del marxismo. La CCI ha anche cominciato a pubblicare alcuni aspetti dei suoi dibattiti interni su questo tema[5] nella misura in cui questi dibattiti non sono una “proprietà privata” della nostra organizzazione ma appartengono all’insieme della classe operaia. Ed è determinata a proseguire nella stessa direzione. D’altra parte, la risoluzione sulle prospettive di attività della nostra organizzazione adottata dal congresso richiede esplicitamente che si sviluppino dibattiti su altri aspetti dell’analisi della crisi attuale in modo che la CCI possa essere armata al meglio per apportare delle risposte chiare alle questioni che questa pone alla classe operaia e agli elementi che sono determinati a ingaggiarsi nella sua lotta per il rovesciamento del capitalismo.
Rispetto alla “novità” dell’elezione di Obama, la risoluzione risponde in maniera molto chiara:
“ … la prospettiva che si presenta al pianeta dopo l’elezione di Obama alla testa della prima potenza mondiale non è fondamentalmente diversa dalla situazione che era prevalsa finora: continuazione degli scontri tra potenze di primo e secondo rango e della barbarie di guerra con conseguenze sempre più tragiche (fame, epidemie, esodi di massa) per le popolazioni abitanti le zone di guerra.”
Infine, per quanto riguarda la prospettiva della lotta di classe, la risoluzione, coerentemente con il dibattito congressuale, cerca di valutare l’impatto su di essa del grave peggioramento della crisi capitalista:
“Il grave peggioramento che conosce attualmente la crisi del capitalismo costituisce evidentemente un elemento di prim’ordine nello sviluppo delle lotte operaie. (…) Così le condizioni maturano in modo che l’idea della necessità di rovesciare questo sistema possa svilupparsi in maniera significativa all’interno del proletariato. Tuttavia non basta alla classe operaia di percepire che il sistema capitalista è in una impasse, che dovrebbe cedere il posto ad un’altra società, per potersi dirigere verso una prospettiva rivoluzionaria. Occorre ancora che abbia la convinzione che una tale prospettiva sia possibile e che abbia la forza di realizzarla. (…) Perché la coscienza della possibilità della rivoluzione comunista possa guadagnare un terreno significativo all’interno della classe operaia, è necessario che questa possa prendere fiducia nelle sue proprie forze attraverso lo sviluppo di lotte massive. L’enorme attacco che essa subisce da adesso a livello internazionale dovrebbe costituire la base oggettiva di queste lotte. Tuttavia, la forma principale che prende oggi questo attacco, quello dei licenziamenti di massa, non favorisce, in un primo momento, l’emergere di tali movimenti. (…) E’ per questo che se, nel prossimo periodo, non si assiste ad una risposta energica da parte della classe operaia agli attacchi, non si deve pensare che questa ha rinunciato a lottare per la difesa dei suoi interessi. E’ in un secondo tempo (…) che delle lotte operaie di grande ampiezza potranno svilupparsi molto di più.”
Le discussioni sulle attività e sulla vita della CCI
Uno dei rapporti del congresso era destinato a fare il punto sulle principali posizioni sviluppate nelle discussioni in corso nella CCI. Uno spazio importante è stato dedicato, nel corso degli ultimi due anni, alla questione economica, di cui abbiamo già evocato in questo articolo le divergenze che si sono prodotte.
Un altro punto nodale delle nostre discussioni è stata la questione della natura umana, che ha dato luogo ad un dibattito animato, sostenuto da contributi numerosi e ricchi. Questo dibattito, che è ben lungi dall’essere esaurito, è espressione di una convergenza complessiva tra i testi di orientamento pubblicati nella Revue Internationale su: La fiducia e la solidarietà nella lotta del proletariato (n°111), Marxismo ed etica (n°127) o La cultura del dibattito, un’arma della lotta di classe (n°131), con ancora numerosi interrogativi o riserve posti su tale o tal altro aspetto. Dal momento in cui questi contributi saranno sufficientemente elaborati per una pubblicazione all’esterno, la CCI, conformemente alla tradizione del movimento operaio, non mancherà di procedere in tal senso. Segnaliamo infine l’espressione recente di un disaccordo profondo con i tre testi citati precedentemente (“recente” relativamente alla pubblicazione già vecchia di alcuni di questi testi) considerati come non marxisti da parte di un compagno della sezione del Belgio-Olanda che ha recentemente abbandonato l’organizzazione (vedi dopo).
Riguardo alle attività e alla vita della CCI, il congresso ha tirato un bilancio positivo di queste per il periodo precedente, anche se sussistono delle debolezze da superare:
“Il bilancio delle attività dei due ultimi anni mostra la vitalità politica della CCI, la sua capacità ad essere in fase con la situazione storica, ad aprirsi, a essere fattore attivo nello sviluppo della coscienza di classe, con la volontà di impegnarsi in iniziative di lavoro comune con altre forze rivoluzionarie. (…) Sul piano della vita interna dell’organizzazione il bilancio delle attività è ugualmente positivo, malgrado che delle difficoltà reali sussistano in primo piano a livello del tessuto organizzativo e, in misura minore, sul piano della centralizzazione.” (Risoluzione sulle attività della CCI).
Effettivamente il congresso ha consacrato una parte dei suoi dibattiti per esaminare le debolezze organizzative che sussistono all’interno della CCI. Di fatto, tali debolezze non sono una specificità della CCI perché gravano su tutte le organizzazioni del movimento operaio sottomesse come sono in permanenza al peso dell’ideologia borghese. La vera forza di queste organizzazioni è stata sempre la loro capacità – come fu particolarmente il caso del partito bolscevico – di affrontarle con lucidità in modo da poterle combattere. E’ questo lo spirito con cui il nostro congresso ha affrontato questa questione.
Uno dei punti discussi è stato quello delle debolezze che hanno toccato la nostra sezione in Belgio-Olanda da cui un piccolo numero di militanti si sono dimessi recentemente, in particolare in seguito alle accuse sviluppate dal compagno M. A partire da un certo tempo questo compagno aveva accusato la nostra organizzazione, e particolarmente la commissione permanente del suo organo centrale, di girare le spalle alla cultura del dibattito di cui il precedente congresso aveva largamente discusso[6] considerandola come una necessità per la capacità delle organizzazioni rivoluzionarie di portarsi all’altezza delle loro responsabilità. Il compagno M., che difendeva una posizione minoritaria sull’analisi della crisi capitalistica, si riteneva vittima di “ostracismo” e considerava che le sue posizioni fossero “discreditate” in maniera deliberata in modo che la CCI non ne discutesse. Di fronte a queste accuse, l’organo centrale della CCI ha deciso di costituire una commissione speciale i cui tre membri sono stati designati dallo stesso compagno M. e che, dopo parecchi mesi di lavoro, di incontri e di esame di centinaia di pagine di documenti, è arrivata alla conclusione che queste accuse non avevano alcun fondamento. Il congresso non ha potuto che rammaricarsi del fatto che il compagno M. così come alcuni dei compagni che l’hanno seguito non avevano neanche atteso le conclusioni cui era giunta questa commissione per decidere di lasciare la CCI.
Di fatto, il congresso ha potuto constatare, particolarmente nella discussione che ha condotto sui dibattiti interni, che esiste oggi all’interno della nostra organizzazione una vera preoccupazione per fare progredire la sua cultura del dibattito. E non sono soltanto i militanti della CCI che l’hanno potuto constatare: i delegati delle organizzazioni invitate hanno tirato le stesse conclusioni sui lavori del congresso:
“La cultura del dibattito della CCI, dei compagni della CCI, è veramente impressionante. Quando tornerò in Corea, voglio condividere questa esperienza con i miei compagni” (uno dei gruppi venuti dalla Corea).
“[Il congresso] è una buona occasione per chiarire le mie posizioni; in tante discussioni ho incontrato una reale cultura del dibattito. Penso che devo darmi da fare per sviluppare i rapporti tra [il mio gruppo] e la CCI ed io ho l’intenzione di farlo. Io spero che potremo lavorare assieme per realizzare un giorno una società comunista.” (l’altro gruppo di Corea).[7]
La CCI non pratica la cultura del dibattito una volta ogni due anni in occasione del suo congresso internazionale ma, come testimoniato dall’intervento della delegazione di OPOP nella discussione sulla crisi economica, questa fa parte della relazione continua tra le due nostre organizzazioni. Questa relazione è capace di rafforzarsi malgrado la presenza di divergenze su diverse questioni, tra cui la crisi economica: “A nome di OPOP voglio salutare l’importanza di questo congresso. Per OPOP, la CCI è un’organizzazione-sorella, così come erano fratelli il partito di Lenin e quello di Rosa Luxemburg. Vale a dire che c’era tra di loro, nonostante le divergenze, tutta una serie di punti di vista, di opinioni e anche di concezioni teoriche, ma soprattutto una unità programmatica relativa alla necessità del rovesciamento rivoluzionario della borghesia e dell’instaurazione della dittatura del proletariato, dell’espropriazione immediata della borghesia e del capitale.”
L’altra difficoltà rilevata nella risoluzione di attività riguarda la questione della centralizzazione. E’ proprio per superare queste difficoltà che il congresso aveva ugualmente messo all’ordine del giorno la discussione di un testo più generale riguardante la questione della centralizzazione. Questa discussione, se è stata utile per riaffermare e precisare le concezioni comuniste su questa questione nei confronti della “vecchia guardia” della nostra organizzazione, si è rivelata particolarmente importante per i nuovi compagni e le nuove sezioni che si sono recentemente integrati nella CCI.
In effetti, uno dei tratti significativi del 18° congresso della CCI era la presenza, che tutti gli “anziani” hanno constatato con una certa sorpresa, di un numero elevato di “facce nuove” tra cui la giovane generazione era particolarmente rappresentata.
L’entusiasmo per il futuro
Questa presenza importante di giovani partecipanti al congresso è stata un fattore importante di dinamismo e di entusiasmo che ha impregnato i suoi lavori. Contrariamente ai mezzi di comunicazione borghesi, la CCI non coltiva un atteggiamento ostile ai giovani; al contrario, l’arrivo di una nuova generazione di militanti all’interno della nostra organizzazione – cosa che appartiene anche agli altri gruppi partecipanti al congresso se si giudica dalla giovinezza della gran parte dei delegati di questi – è della più grande importanza per la prospettiva della rivoluzione proletaria. Da una parte, come per gli iceberg, questa nuova generazione costituisce la “parte emergente” di un processo di presa di coscienza in profondità all’interno della classe operaia mondiale. Dall’altra, essa crea le condizioni di un ricambio delle forze comuniste. Come viene riportato nella risoluzione sulla situazione internazionale adottata dal congresso “il cammino che conduce ai combattimenti rivoluzionari e al rovesciamento del capitalismo è ancora lungo e difficile (…) ma ciò non può in alcun modo essere motivo di scoraggiamento per i rivoluzionari, di paralisi del loro ingaggiamento nella lotta proletaria. Tutto al contrario!” Anche se i “vecchi” militanti della CCI conservano tutta la loro convinzione e il loro impegno, tocca a questa nuova generazione il compito di fornire un contributo decisivo alle future lotte rivoluzionarie del proletariato. E, già da oggi, lo spirito fraterno, la volontà di raccogliersi, così come di scardinare le trappole tese dalla borghesia, il senso di responsabilità, tutte queste qualità ampiamente condivise dagli elementi di questa nuova generazione presenti al congresso – militanti della CCI o dei gruppi invitati – sono un augurio concreto della capacità di questa di portarsi all’altezza delle sue responsabilità. E’ appunto questo ciò che esprimeva, tra l’altro, l’intervento del giovane delegato della LECO a proposito dell’incontro internazionalista che si è tenuto in America latina nella primavera scorsa: “Il dibattito che noi cominciamo a sviluppare raccoglie dei gruppi, degli individui che cercano un’unità su delle basi proletarie e necessita degli spazi di dibattito internazionalista, necessita di questo contatto con i delegati della Sinistra comunista. La radicalizzazione della gioventù e delle minoranze in America latina, in Asia, permetteranno che questo polo di riferimento sia identificato da ancora altri gruppi che si accrescono numericamente e politicamente. Ciò ci dà le armi per intervenire, per far fronte alle false proposte del gauchisme, il “socialismo del XXI secolo”, il sandinismo, etc. …. La posizione ottenuta nell’Incontro latino è già un’arma proletaria. Io saluto gli interventi dei compagni che esprimono un vero internazionalismo, una preoccupazione per questa avanzata politica e numerica della Sinistra comunista a livello mondiale.”
CCI (12 luglio 2009)
[1] Vedi “Saluto alle nuove sezioni della CCI nelle Filippine e in Turchia!” su Rivoluzione Internazionale n°159.
[2] A proposito di questo incontro, vedi il nostro articolo “Un incontro tra comunisti internazionalisti in America latina” su Rivoluzione Internazionale n°161.
[3] Come l’abbiamo già mostrato attraverso i diversi articoli che abbiamo pubblicato recentemente su Darwin e il darwinismo.
[4] Il lettore che volesse farsi un’idea di queste riflessioni può fare riferimento al sito di J-L Dessales.
[5] Vedi in particolare nella Revue Internationale n° 138 l’articolo di discussione: En défense de la thèse 'Le Capitalisme d'Etat keynésiano-fordiste' [12].
[6] Vedi a questo proposito: “XVII congresso della CCI: un rafforzamento internazionale del campo proletario” in Rivista Internazionale n°29 e il nostro testo di orientamento: “La cultura del dibattito: un’arma della lotta di classe”.
[7] Questa impressione sulla qualità della cultura del dibattito che si è manifestata nel congresso è stata rilevata ugualmente dallo scienziato che abbiamo invitato. Egli ci ha inviato il seguente messaggio: “Grazie ancora per l’eccellente interazione che ho avuto con la Marx-comunità. Ho trascorso veramente un bellissimo momento.”
Questo piccolo momento nella lotta di classe per gli insegnanti di New York si è presentato nel contesto della stessa questione cui sono confrontati centinaia di migliaia di altri lavoratori: la minaccia del posto di lavoro. Come al solito, la Federazione Unita degli Insegnanti (UFT), il sindacato degli insegnanti, stava cercando di usare il criterio dell’anzianità come parte integrante del contratto per dividere gli insegnanti in due categorie, mettendoli uno contro l'altro nel corso di una riunione alla High School a Brooklyn. La UFT ha sempre seminato la bugia che queste “regole di anzianità” diano agli insegnanti anziani una maggiore protezione sul lavoro. In realtà, queste regole hanno lo scopo di scoraggiare i lavoratori anziani dall'ingaggiare una lotta unificata generando l'illusione che saranno risparmiati dagli attacchi o saranno meno toccati e quindi isolando gli insegnanti giovani dai loro fratelli e sorelle con più esperienza di lotta di classe per creare sfiducia tra di loro. Con questa tattica di dividere per dominare l’UFT è stata un’arma fedele del tentativo della classe dominante nel rompere la solidarietà tra i lavoratori.
Man mano che la crisi economica generalizzata si sviluppa, si apre la prospettiva per gli operai di capire la bancarotta totale del capitalismo. Gli insegnanti, come tutti gli altri lavoratori, cominciano a vedere che nessuno è risparmiato e che l’unico percorso da seguire è quello che porta all’unificazione delle lotte per meglio affrontare il nemico comune. In breve, si solleva la questione della solidarietà. Quindi alla riunione recente di cui parliamo il tentativo dell’UFT è stato quello di ‘rassicurare’ gli insegnanti anziani che sarebbero stati i lavoratori assunti di recente i primi ad essere licenziati. Questo tentativo è stato denunciato e rigettato apertamente. C’è stata una riaffermazione forte e chiara della necessità della solidarietà espressa da un insegnante intervenuto per dire “un danno ad uno è un danno a tutti” e poi ha spiegato che la solidarietà non era solo un legame di famiglia o amicizia, che i nuovi assunti possono essere le sorelle minori, nipoti o il figlio del vicino, e che la solidarietà era l’unico modo di difendere tutti dagli attacchi comuni. Chi è intervenuto ha anche detto che le condizioni di lavoro e di vita continuerebbero a deteriorarsi anche per quelli che restano al lavoro perché gli attacchi poi sarebbero stati applicati più facilmente, essendosi rotto lo spirito di solidarietà.
Questi commenti sono stati ricevuti con applausi e consensi da parte degli altri lavoratori giovani e vecchi mostrando chiaramente che ciò che ha detto questo operaio esprimeva i sentimenti di molti altri. La necessità della solidarietà era espressa di nuovo ad un’altra riunione dove i lavoratori giovani neo-assunti erano invitati esplicitamente a partecipare e dire la loro. Chiaramente l’UFT non è rimasto con le mani in mano. Avendo capito l’importanza di ciò che era stato detto, il sindacato ha già cercato di occupare questo terreno dove la coscienza di classe ha un forte potenziale di sviluppo, convocando riunioni in cui invitava gli insegnanti a dare suggerimenti per l’ordine del giorno da discutere! Mai sentito prima! È chiaro che l’UFT cercherà di far sfumare la rabbia e lo scontento dei lavoratori e dirottare la direzione su questioni meno importanti nel tentativo di annegare la combattività e la coscienza degli insegnanti che si sta sviluppando. Come tutti gli altri sindacati l’UFT sarà obbligato a fare la parte del protagonista man mano che la classe si avvicinerà ad una vera solidarietà dentro i suoi ranghi e tra le differenti categorie. Il raduno chiamato per il 5 marzo dall’UFT, dal DC 37, 1199 e una miriade di altri sindacati, mostra come questo apparato dello stato borghese si mobilizza velocemente quando gli operai mostrano che sono disposti a lottare. Il raduno ha attirato circa 70.000 lavoratori secondo l’UFT. Questo mostra chiaramente come i lavoratori delle diverse categorie sono profondamente preoccupati della situazione attuale con ciò che significa per il loro futuro. Al raduno questi lavoratori di differenti categorie non potevano discutere tra di loro e niente è stato fatto per assicurare che le discussioni potessero avvenire o continuare in futuro. Chiaramente i sindacati faranno di tutto per appropriarsi di qualsiasi tentativo dei lavoratori per autorganizzarsi ed estendere la solidarietà.
Gli insegnanti sentono gli stessi bisogni degli altri lavoratori ed esigono una partecipazione più larga alle riunioni, vogliono incontrarsi e discutere. Si comincia a capire che è solo prendendo la situazione nelle proprie mani, nell’estendere la lotta e nell’unirla tramite la solidarietà che può esprimersi una riflessione profonda sul destino dell’umanità. E che le prime risposte alle domande essenziali su quale futuro il capitalismo ci può offrire e che cosa dobbiamo fare in risposta possono essere già date. Alle prossime riunioni gli insegnanti come tutti gli altri lavoratori a livello internazionale devono continuare a sollevare la necessità di discutere nel modo più largo possibile nelle assemblee generali e la necessità di rafforzare ed estendere la solidarietà, unificare le lotte attraverso generazioni, etnie e qualsiasi altra divisione artificiale che la classe dominante e i suoi sindacati cerca di metter come un ostacolo all’unità.
Non vogliamo esagerare il significato di questo modesto sviluppo ma comunque è importante capire che non è un avvenimento isolato e che è una dimostrazione di una tendenza generale internazionale verso lo sviluppo della coscienza ed il rafforzamento della risposta della classe operaia alla crisi economica. Dalla lotta degli studenti e operai francesi nel 2006 allo sciopero degli operai della SEAT in Spagna nello stesso anno, agli scioperi selvaggi degli operai del settore automobilistico tedesco e recentemente degli studenti in Italia, Francia, Germania e Spagna, alle proteste massicce degli studenti e degli operai greci contro l’ondata di attacchi senza precedenti sulle condizioni di vita e di lavoro, negli ultimi 3 anni la classe operaia europea ha mostrato una capacità tremenda di esprimere e dirigere la sua combattività e rabbia contro il crescente impoverimento che soffre a causa del peggioramento della crisi del capitalismo. La classe operaia ha iniziato a dire no alla violenza senza precedenti degli attacchi che la classe dominante è obbligata a dirigere contro i lavoratori come risultato della crisi del suo sistema. Negli Usa, nello sciopero del settore dei trasporti del 2005, e più recentemente nell’occupazione di una fabbrica di Chicago nel dicembre 2008, vediamo l’eco di questa tendenza globale. In questo senso i lavoratori di New York sono completamente parte della ripresa della combattività e solidarietà di classe che abbiamo visto negli ultimi 3 o 4 anni a livello internazionale.
Ana, 29 marzo 2009
Confrontata alla crisi la borghesia ha avvertito la necessità di usare una nuova immagine, che in realtà non è affatto nuova, per cercare di nascondere la responsabilità di tutto il sistema capitalista in decadenza nel portare l’umanità verso la barbarie, ed oscurare il vero significato della crisi economica mondiale scaricando la colpa su di una data frazione della borghesia. I media, d’altro canto, stanno usando a pieno la crescita delle frazioni della borghesia che vengono dalla “sinistra”, in questa parte del mondo, per farle apparire come un’alternativa possibile. Come se la crisi fosse dovuta ad un “neo-liberalismo”, o se l’attuazione di nuove forme del modello di stato capitalista potesse risolvere un problema così profondo che ha le sue radici nel capitalismo stesso, quale che sia la forma che assume. Chiamarlo “neo” non cambia il fatto che si tratta del solito vecchio liberalismo che si trova confrontato all’intensificazione delle maggiori contraddizioni di una società divisa in classi. Questi governi di sinistra sono armi della borghesia internazionale per sedare le masse, allontanandole dalla lotta autonoma per una vera rivoluzione sociale. Questa sinistra non è nient’altro che la sinistra del capitale, è la nuova garrotta per reprimere i lavoratori che mettono in discussione l’oppressione di classe e cercano la solidarietà internazionale.
Questi modelli di capitalismo basati sulla pianificazione statale dell’economia, sull’intervento dello Stato per salvare gli interessi dell’economia, sulla nazionalizzazione dello sfruttamento, sono solo varianti del capitalismo, e gli Stati capitalisti sono anche più oppressivi dei capitalisti privati. Abbiamo già conosciuto ad esempio il “New Deal”, l’URSS di Stalin, il fascismo e il nazismo, ecc., tutti modelli che hanno assicurato gli interessi della borghesia difendendo i rapporti capitalistici di classe: Chavez, Lula, Morales, e compagni non fanno niente di diverso.
Mentre in Europa la sinistra è stata integrata nei governi da decenni al fine di facilitare il suo dominio sui lavoratori, questo processo è relativamente nuovo per l’America latina. E le borghesie più vecchie del pianeta, mettendo avanti l’idea di un “Nuovo Sud America”, stanno cercando di rivitalizzare la loro retorica sulla possibilità di rendere più “umano” il capitalismo con l’obbiettivo di creare fiducia nella lotta nazionale, nella “riforma” del capitalismo e nella pratica elettorale. Più in generale, stanno cercano di rinverdire la falsa idea che gli interessi del proletariato sono gli stessi di quelli della borghesia.
Il solo interesse della borghesia è continuare a vivere sfruttando il lavoro della classe operaia, mentre quello della classe operaia è liberarsi dal giogo del capitale, dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, sia che si chiami “Socialismo del XXI secolo” o in altro modo. Il vero socialismo è possibile solo attraverso un processo rivoluzionario internazionale, un processo nel quale i lavoratori devono far uso della propria forza ed unità, della propria indipendenza dalle organizzazioni borghesi, e della violenza rivoluzionaria.
“Il Sud America si è trasformato nella regione più progressista del mondo. Dove sono in atto molti cambiamenti in favore delle classi popolari e dove si stanno attuando molte riforme strutturali allo scopo di liberarsi dalla dipendenza e dal sottosviluppo”. Questa citazione dell’articolo di Le Monde riflette esattamente la retorica di cui il capitale ha bisogno per continuare il suo sfruttamento, per creare la falsa aspettativa che il capitalismo possa in qualche modo migliorare la vita dei lavoratori. Questa retorica è condivisa dall’insieme della sinistra del capitale, che appoggia i governi di Chavez e compagni, anche se in modo “critico” come fanno i trozkisti. Tutto ciò pugnala i lavoratori alle spalle e tende a confondere la classe per dividerla al suo interno. Hanno bisogno di usare questa apparente retorica rivoluzionaria socialista o comunista, per sradicare la classe sfruttata da ogni speranza di poter avanzare verso una vera società comunista. Una società che invece potrà formarsi solo scontrandosi con tutti i nemici del proletariato, tutta la borghesia internazionale, compreso Chavez e la sua ideologia. E per questo è necessario che il proletariato prenda coscienza della necessità di rompere con la falsità e le lusinghe dei parlamenti, con le lotte nazionali, al fine di armarsi contro le trappole che il capitalismo ergerà per sabotare il processo rivoluzionario internazionale, che è la sola risposta alla crisi del capitale, alla guerra e alla povertà.
Juan K. 19/4/09
1. FMLN (Farabundo Marti para la Liberacion Nacional), Fronte di Liberazione Nazionale del Salvador
L’assalto al palco e la defenestrazione di Rinaldini ha costituito infatti l’occasione per cominciare a gridare al pericolo del terrorismo, o per parlare di scontri fra lavoratori. Se la prima mistificazione è stata portata avanti principalmente dalle forze politiche di destra, che da sempre impostano la loro politica sociale sulla negazione della possibilità dell’esistenza di una lotta di classe e sul rigetto di qualsiasi opposizione di piazza (immediatamente condannata come teppismo o, appunto, presagio di un ritorno del terrorismo), la seconda è toccata soprattutto a quelle di sinistra, che hanno invece il compito di deviare e mistificare le lotte.
Significativa è l’intervista a Rinaldini fatta sul giornale Repubblica (che si vuole la voce critica di tutta la sinistra): dopo che nell’articolo di cronaca si dichiarava che uno degli assaltatori era Corrado Delle Donne (leader dei Cobas dell’Alfa di Milano)[1], l’intervistatore fa a Rinaldini la seguente domanda: “ Se questo è il clima all’inizio di una vertenza difficile, come riuscirete a tenere uniti i diversi stabilimenti italiani?” Al che Rinaldini prende al volo la palla e rilancia: “Sappiamo che non è facile. Non è la prima volta che ci troviamo in una situazione del genere. Nel periodo 2002-2004, durante la crisi più grave della FIAT, rischiavamo di contrapporre Mirafiori e Termini (…) Siamo riusciti a evitare allora la guerra tra i territori e penso che riusciremo anche oggi.” Che faccia tosta! Se c’è qualcuno che non si preoccupa affatto di evitare le divisioni, che al contrario li favorisce e li crea, è proprio il sindacato. I casi sono tanti, ma ci limitiamo a ricordare cosa sta succedendo da diversi mesi a questa parte, con CISL e UIL a cercare di convincere i lavoratori che è realista accettare le briciole che governo e padroni vogliono concedere, e la CGIL che fa invece “l’estremista”, non firma gli accordi, ma si guarda bene dal lanciare un appello a una mobilitazione generale, unitaria di tutti i lavoratori, a prescindere dalla tessera che hanno in tasca[2]. E d’altra parte il motivo dell’assalto a Rinaldini ha le sue origini proprio in un episodio di emarginazione e di divisione portato avanti dall’azienda con il consenso dei sindacati confederali: si tratta della decisione della FIAT, di poco più di un anno fa, di trasferire trecento lavoratori dall’Alfa di Pomigliano in un piccolo centro produttivo a Nola, trasferimento che non aveva nessuna motivazione produttiva, ma quella politica di rinchiudere in un ghetto un certo numero di lavoratori tra quelli più combattivi. Una rappresaglia politica in perfetto stile FIAT, ma che i sindacati confederali avallarono, nonostante gli spontanei scioperi di solidarietà fatti dagli operai di Pomigliano.
Perciò noi vogliamo dire con chiarezza che non esprimiamo nessuna solidarietà a chi la solidarietà fra i lavoratori la sabota tutti i giorni attraverso la propria politica di divisione, e lasciamo volentieri che questa solidarietà venga invece offerta dai vari commentatori politici, di destra e di sinistra, degni compagni di Rinaldini.
Una volta denunciato il tentativo borghese di utilizzare un episodio isolato contro i lavoratori, allo scopo di intimidirli (contestazione alla politica sindacale = terrorismo) o di dividerli, vogliamo subito aggiungere che non ci sentiamo di esprimere la nostra solidarietà nemmeno ai COBAS autori della contestazione. Infatti questi, seguendo la logica connaturata alla struttura del sindacato, hanno portato avanti un’azione isolata e minoritaria per guadagnarsi la propria manciata di popolarità tra alcuni lavoratori in una situazione in cui invece andava chiarito che l’unità raggiunta in quella manifestazione non poteva portare a nessuna parte se essa veniva concepita come unità contro i lavoratori degli altri paesi, e che invece solo la ricerca della solidarietà tra tutti i settori, di tutti i paesi, può arrivare a creare un rapporto di forza capace di frenare gli attacchi del capitale. Ma in realtà i cosiddetti COBAS, nella loro logica di sindacatino combattivo, non arriveranno mai a capirlo, presi anche loro dalla logica della difesa della propria sigla, dalla volontà di ricondurre sotto il proprio cappello la volontà di lotta che comincia a farsi strada anche tra i lavoratori italiani.
Questo è il motivo per cui le prossime lotte che si prospettano non potranno fare a meno di misurarsi con le mistificazioni del sindacato, piccolo o grande che sia.
18 maggio 2009 Helios
[1] Giusto en passant vale la pena di segnalare che si tratta qui di una vera è propria spiata da parte di un giornale sempre così attento alle parole quando si tratta di commentare le azioni, anche in odore di reato, dei vari politici di destra come di sinistra.
[2] Se ce l’hanno. Infatti tra i lavoratori attivi, in Italia come in tutti i paesi occidentali, gli iscritti al sindacato sono solo una minoranza, ma nonostante questo i sindacati si arrogano il diritto di decidere per tutti e di condannare come estremisti quei lavoratori che contestano le loro decisioni.
“Perché abbiamo pensato a un volantino? Chi vogliamo raggiungere, e perché? Vogliamo spiegare a tutti quello che abbiamo capito, quello che noi “riteniamo giusto”, vogliamo, più semplicemente, comunicare, a quante più persone possibile, che ci siamo riuniti il 25 aprile (invece di andare al mare o di partecipare a qualche manifestazione “commemorativa”, vivendoci da soli la nostra “depressione”); e che in questa riunione, a livelli diversi fra di noi, abbiamo cominciato a “chiarirci”, a “discutere” in maniera diversa su cose che stanno profondamente angosciando e “condizionando” la nostra esistenza. Vogliamo raggiungere le tante persone che, forse, come noi sentono la necessità di “chiarirsi” e di non “sentirsi soli” di fronte ad attacchi sempre più duri alla propria vita ed invitarli a riflettere, ad incontrarsi, a discutere, perché no, magari con noi …”.
Come si vede si tratta dell’espressione della volontà di un insieme di compagni, insoddisfatti e delusi, diciamo quasi sempre nauseati, degli attuali apparati politici e sindacali, che cercano di risalire la china, di vederci chiaro, di non lasciarsi più mistificare dalle varie propagande più o meno di regime e, quello che ci sembra particolarmente importante, di mettere subito in attivo questa nuova consapevolezza condivisa, questa coscienza collettiva maturata nel dibattito, per trasmetterla ad altri nuovi compagni, adesso con un volantino, domani si vedrà.
La nostra organizzazione è particolarmente orgogliosa di presentare e pubblicare questo volantino perché esso dimostra una volta ancora che è in atto nella società un processo di maturazione, lento ma profondo, della coscienza di classe all’interno del proletariato, processo che si realizza attraverso sia delle lotte aperte, come - in Italia - quella degli operai dell’Alfa o dei giovani universitari - proletariato precario del futuro - sia attraverso l’affiorare di sempre nuovi elementi alla ricerca di un punto di riferimento politico, alla ricerca di un’aggregazione possibile e necessaria con altri proletari. Siamo tanto più contenti e soddisfatti di questo volantino nella misura in cui la dinamica che ha mosso questi compagni ha ricevuto anche un nostro importante contributo in quanto essa è nata in conclusione di una giornata di incontro e discussione tra compagni che noi avevamo invitato a riunirsi a Napoli il 25 aprile scorso[1].
Quale sarà il futuro di questo gruppo di compagni non lo sappiamo. Certo è che noi continueremo a dare il nostro sostegno politico ed organizzativo perché cresca al suo interno la voglia di fare i conti con la società attuale e di collocarsi sempre più decisamente su un piano militante. Quello che possiamo segnalare è che questi compagni hanno indicato alla fine del volantino un indirizzo mail di contatto, segno dell’apertura verso altri compagni ed altre esperienze con cui confrontarsi.
Noi invitiamo tutti i compagni che si riconoscono nei contenuti di questo volantino e/o che condividono l’importanza di una sua diffusione, a scaricarlo e a distribuirlo tra colleghi, amici e parenti, con la consapevolezza che, oggi come oggi, con l’avanzare della crisi, i discorsi sul nostro futuro sono sempre più al centro delle preoccupazioni dei proletari.
CCI
[1] Sulla riunione del 25 aprile pubblicheremo tra breve un insieme di testi comprensivi della relazione introduttiva, dei contributi di singoli compagni, di un nostro bilancio, ecc.
Da tutte le parti, oramai, ci sentiamo raccontare che siamo in piena crisi, che è una crisi mondiale e che saranno necessari sempre più tagli a tutti i livelli e che la situazione però si risanerà in qualche anno con interventi finanziari degli Stati e con sacrifici per tutti.
Una cosa è certa: la crisi ha toccato tutti i settori e i licenziamenti stanno riguardando e riguarderanno milioni di lavoratori negli uffici, nelle banche, nelle fabbriche, negli ospedali, nei settori di alta tecnologia, nel settore automobilistico, nell’edilizia, e nella distribuzione, insomma ci sarà un’esplosione della disoccupazione che riguarderà operai, impiegati, ma anche lavoratori “qualificati”.
E così ogni giorno ascoltiamo politici, economisti, banchieri, giornalisti raccontarci in televisione, alla radio, dalle pagine dei giornali, che la crisi è profonda ma che non bisogna disperarsi, che bisogna continuare a spendere, e che non è il sistema da mettere in discussione ma che si tratta solo di sanare gli errori commessi nel passato da una banda di speculatori senza scrupoli, di cattivi imprenditori … insomma tutta colpa del “liberalismo” e della finanza allegra!
Ma la domanda da porsi è: può davvero questa crisi risolversi con più Stato e maggiore “moralità” come vogliono farci credere?
E’ davvero questa una crisi passeggera iniziata solo nell’estate del 2007 con la crisi immobiliare in USA?
Oppure questa è una crisi mondiale che va avanti da anni in cui la disoccupazione è una piaga permanente di un sistema che non produce in funzione dell’uomo e dei suoi bisogni ma per il profitto?
Se questo sistema è in crisi, lo è perché non produce più abbastanza o perché produce più di quanto riesca a vendere?
Ad ogni crisi la soluzione è sempre stata quella di ricorrere ad un uso massiccio del credito ottenendo un sempre maggiore indebitamento, creando mercati fittizi per continuare a produrre, ma poi, come abbiamo visto negli USA, bisogna rimborsare e tutto crolla!
Ma se fare ricorso al credito produce solo maggiore indebitamento, perché si continua da anni in questa apparente “follia”? Per colpa di qualche pazzo, per colpa degli speculatori, come ci viene da più parti riferito?
O, forse, perché questo sistema si basa sulla concorrenza e deve produrre sempre di più e a costi sempre più bassi anche se è più di quello che si riesce a vendere e deve, necessariamente, fare ricorso al credito?
Di chi, quindi, la colpa? Dei banchieri, dei politici, degli industriali incapaci, dei commercianti speculatori?
Il loro operato ha risposto solo alle leggi del capitalismo che stanno portando il sistema stesso al fallimento.
Basterà iniettare miliardi e fare tagli, o non potrà esserci un reale rilancio dell’economia in un sistema oramai agonizzante?
E’ giusto sperare in un capitalismo più umano, più morale, più statalista?
Oggi la capacità del Sistema capitalistico di “accompagnare” la crisi con palliativi si è indebolita, e quindi la sola risposta possibile del capitalismo sarà di far ricadere gli effetti della crisi ancora più sulle spalle dei lavoratori.
Le organizzazioni politiche e sindacali attualmente esistenti non sono in grado di porsi al fianco dei lavoratori e dei loro reali interessi e continuano a partecipare alla mistificazione attribuendo la catastrofe di questo sistema alla cattiva gestione del partito al potere e promettendo una “nuova politica”.
Ma è ancora possibile fare richieste di riforme e di ritocchi salariali (attraverso i partiti e i sindacati) o invece, non c’è più la possibilità da parte del capitale di concedere un bel niente?
Sappiamo che il capitalismo non è un modo di produzione nato per soddisfare i bisogni primari delle persone, bensì per produrre e vendere merci e ricavare profitto, un sistema retto sulle leggi ferree della concorrenza, dell’accumulazione e del profitto privato ed oggi si trova in un crisi epocale e mondiale dalla quale non è più in grado di uscire facendo ricorso come la solito al credito, ai tagli … rispetto alle crisi precedenti quella in corso sembra essere la crisi conclusiva del ciclo storico compiuto dal modo di produzione capitalistico.
Non è chi ci ha portato a questo punto di non ritorno che può risolvere la crisi.
A questa crisi si sta rispondendo in tutto il mondo con forme spontanee di protesta e di resistenza, anche se ancora limitate e solo ai primi passi, dove riprende dimensione e forza l’idea dell’unità delle lotte.
E avendo fiducia nelle proprie forze, la capacità di sviluppare le proprie esperienze di lotta, di solidarietà, di dibattito potrà portare ad una coscienza di classe che faccia acquisire a tutti la consapevolezza di poter cambiare lo stato presente di cose.
Per dirla con i manifestanti in Grecia, dove diversi settori di lavoratori hanno solidarizzato con le giovani generazioni, ”Dobbiamo cominciare ad assumerci le nostre responsabilità, e smettere di riporre le nostre speranze nei leader "saggi" o in rappresentanti "competenti". Dobbiamo cominciare a parlare con la nostra voce, incontrarci, discutere, decidere ed agire per noi stessi.”
L’unica possibilità di uscita da un futuro di miseria e barbarie nel quale questa crisi inarrestabile ci farà sprofondare, l’unica alternativa che possa dare all’umanità un avvenire migliore sarà, quindi, il rovesciamento di questo sistema e la creazione di una società fondata sulla produzione per l’uomo e non per il profitto, gestita dai lavoratori e non da un piccolo gruppo di privilegiati.
Vogliamo provare insieme a capire come rendere ciò possibile oltre che auspicabile?
1° maggio 2009
Chi siamo? Un gruppo di lavoratori, studenti, precari, disoccupati, cassintegrati … che il 25 aprile hanno scelto di stare insieme per conoscersi e confrontarsi. Perché abbiamo pensato a un volantino? Chi vogliamo raggiungere, e perché? Vogliamo spiegare a tutti quello che abbiamo capito, quello che noi “riteniamo giusto”, vogliamo, più semplicemente, comunicare, a quante più persone possibile, che ci siamo riuniti il 25 aprile ( invece di andare al mare o di partecipare a qualche manifestazione “commemorativa”, vivendoci da soli la nostra “depressione”); e che in questa riunione, a livelli diversi fra di noi, abbiamo cominciato a “chiarirci”, a “discutere” in maniera diversa su cose che stanno profondamente angosciando e “condizionando” la nostra esistenza. Vogliamo raggiungere le tante persone che, forse, come noi sentono la necessità di “chiarirsi” e di non “sentirsi soli” di fronte ad attacchi sempre più duri alla propria vita ed invitarli a riflettere, ad incontrarsi, a discutere, perché no, magari con noi … Se ti senti come noi, contattaci all’indirizzo: giorgioalbano@ymail.com [17].
Darwin e la selezione naturale degli istinti sociali
Per quanto ne sappiamo, Patrick Tort è il solo autore che, superando la polarizzazione mediatica su L’origine della specie, presenta e spiega la seconda grande opera di Darwin (misconosciuta o spesso male interpretata), L’origine dell’uomo, pubblicata nel 1871.
Il libro di Patrick Tort mette in evidenza con chiarezza il modo con cui gli epigoni di Darwin si sono impossessati della teoria della discendenza modificata attraverso la selezione naturale, sviluppata ne L’origine della specie, e di come hanno approfittato del lungo silenzio di Darwin sulle origini dell’Uomo per giustificare l’eugenetica (teorizzata da Galton) ed il “darwinismo sociale” (il cui iniziatore fu Herbert Spencer).
Contrariamente all’idea da tempo dominante, Darwin non ha mai aderito ideologicamente alla teoria malthusiana dell’eliminazione del più debole nella lotta sociale prodotta dalla crescita demografica. Ne L’origine della specie ha utilizzato questa teoria solo come esempio per spiegare i meccanismi dell’evoluzione organica. È totalmente falso, dunque, attribuire a Darwin la paternità di tutte le ideologie ultraliberali che stanno alla base dell’individualismo, della concorrenza capitalista e della “legge del più forte”.
Nel suo lavoro fondamentale L’origine dell’uomo Darwin si oppone con molta determinazione ad ogni applicazione meccanica e schematica della selezione naturale eliminatoria alla specie umana impegnata nella via della “civilizzazione”. Patrick Tort ci spiega in modo molto argomentato e convincente, con l’aiuto di citazioni, come Darwin concepiva l’applicazione della sua legge dell’evoluzione all’uomo ed alla società umana.
In primo luogo, da un punto di vista filogenetico, Darwin pone l’uomo nella specie animale e in particolare suppone un antenato comune tra questo e le scimmie catarrine del vecchio Mondo. Egli estende dunque naturalmente il trasformismo alla specie umana dimostrando che la selezione naturale ha modellato anche la sua storia biologica. Tuttavia, secondo Darwin, la selezione naturale non ha selezionato solo delle mutazioni organiche vantaggiose, ma anche degli istinti, principalmente istinti sociali, in tutte le specie animali. Questi istinti sociali sono culminati nella specie umana e si sono fusi con lo sviluppo dell’intelligenza razionale (e dunque della coscienza riflessiva).
Quest’evoluzione congiunta di istinti sociali e intelligenza si è accompagnata nell’uomo all’ “l’estensione indefinita” di sentimenti morali e di simpatia altruistica. Sono gli individui ed i gruppi più altruistici e più solidali a disporre di un vantaggio evolutivo rispetto agli altri.
In quanto al preteso “razzismo” di cui Darwin è ancora oggi tacciato, lo si può confutare attraverso questa sola citazione:
“Con il progredire dell’uomo nella civiltà e con l’unione delle piccole tribù in comunità più grandi, la nuda ragione direbbe all’individuo che egli deve estendere le sue simpatie ed i suoi istinti sociali fino a comprendere tutti i membri della stessa nazione, anche se non li conosce personalmente. Una volta compreso questo punto, solo una barriera artificiale gli impedisce di estendere le sue simpatie agli uomini di tutte le nazioni e di tutte le razze. Infatti, se questi sono divisi da lui da grandi differenze di aspetto o di abitudini, disgraziatamente l’esperienza ci mostra quanto tempo ci vuole prima che noi li consideriamo nostri simili” (L’origine dell’uomo, capitolo IV)2.
Secondo Patrick Tort, Darwin ci dà una spiegazione naturalistica, e dunque materialista, dell’origine della morale e della civiltà.
Per quanto riguarda più in particolare l’origine della morale, è nei capitoli de L’origine dell’uomo relativi alla selezione sessuale che troviamo le idee più sorprendenti. Patrick Tort ci spiega che secondo Darwin il primo vettore d’altruismo presso numerose specie animali, principalmente i mammiferi e gli uccelli, risiede nell’istinto (indissolubilmente naturale e sociale) della riproduzione. Infatti, lo sviluppo e l’ostentazione dei loro caratteri sessuali secondari (corna, piumaggi nuziali ed altre escrescenze ornamentali) destinati ad attirare le femmine durante la stagione degli amori, comportano un “rischio di morte”: “Coperto dalla sua splendida e pesante parure di nozze, l’uccello del Paradiso è certamente irresistibile, ma ha difficoltà a volare, trovandosi così in grande pericolo di fronte ai predatori. Le femmine, da parte loro, prodigheranno le loro cure alla prole e per difenderla potranno mettersi anche esse in pericolo. Dunque, l’istinto sociale ha una storia evolutiva e comporta come eventualità il sacrificio di sé, che culmina nella morale umana. Darwin produce così una genealogia della morale senza far riferimento alla benché minima istanza extra-naturale” (Patrick Tort, Darwin e la scienza dell’evoluzione, edizioni Découvertes/Gallimard).
Infine, contrariamente alle idee tramandateci secondo cui Darwin sarebbe stato un fervente sostenitore della disuguaglianza dei sessi dando il vantaggio al sesso “forte”, è vero proprio il contrario se ci si pone nella prospettiva delle tendenze evolutive. Per Darwin (ed è in ciò che raggiunge la visione di Engels de L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, e di August Bebel nel suo libro La Donna ed il socialismo) sono le femmine (e per estensione le donne) ad essere le prime portatrici dell’istinto altruista: nel regno animale, sono le femmine che scelgono il maschio riproduttore e che quindi fanno una “scelta obiettiva” (prima forma di riconoscimento della diversità), e sono loro ad esporsi spesso ai predatori per proteggere i piccoli.
La teoria de “l’effetto reversibile dell’evoluzione”
Grazie alla notevole padronanza dell’opera di Darwin e della dialettica, Patrick Tort arriva a sviluppare una teoria (già elaborata nel 1983 nel suo libro Il Pensiero gerarchico e l’evoluzione) su “l’effetto reversibile dell’evoluzione”.
In che consiste questa teoria?
Essa si riassume in una semplice frase: “attraverso gli istinti sociali, la selezione naturale seleziona la civiltà che si oppone alla selezione naturale”.
Per evitarci delle parafrasi, citiamo questo passaggio del libro di Patrick Tort:
“Attraverso gli istinti sociali, la selezione naturale, senza 'salto' né rottura, ha selezionato così il suo contrario, e cioè: un insieme regolato, ed in estensione, di comportamenti sociali anti-eliminatori - dunque anti-selettivi nel senso che riveste il termine di selezione nella teoria sviluppata da L’origine della specie -, tanto correlati tra loro che un’etica anti-selezione (= anti-eliminazione) traduce in principi, in regole di condotta ed in leggi. Il progressivo emergere della morale appariva dunque come un fenomeno indissociabile dell’evoluzione, e qui troviamo la continuità del materialismo di Darwin e dell’inevitabile estensione della teoria della selezione naturale alla spiegazione del divenire delle società umane. Ma questa estensione, che troppi teorici oscurati dallo schermo tessuto intorno a Darwin dalla filosofia evoluzionistica di Spencer, hanno interpretato frettolosamente sul modello semplicistico e falso del ‘darwinismo sociale’ liberale (applicazione alle società umane del principio dell’eliminazione dei meno adatti all’interno di una concorrenza vitale generalizzata), può effettuarsi, a rigore, solo sotto la modalità dell’effetto reversibile che obbliga a concepire il capovolgimento stesso dell’operazione selettiva come base e condizione dell’accesso alla ‘civilizzazione’ (…) L’operazione reversibile è anche ciò che fonda l’esatta distinzione tra natura e cultura, evitando la trappola di una ‘rottura’ magicamente posta tra questi due termini: la continuità evolutiva, attraverso questa operazione di capovolgimento progressivo legato allo sviluppo (esso stesso selezionato) degli istinti sociali, produce in tal modo non una rottura effettiva, ma un effetto di rottura che proviene da ciò che la selezione naturale ha prodotto, nel corso della sua evoluzione, essa stessa sottomessa alla propria legge - la sua forma recentemente selezionata che favorisce la protezione dei ‘deboli’, vincente perché vantaggiosa sulla sua vecchia forma che privilegiava la loro eliminazione. Il nuovo vantaggio allora non è più di ordine biologico: esso è diventato sociale”.
“L’effetto reversibile dell’evoluzione” è dunque questo movimento di ribaltamento progressivo che produce un “effetto di rottura” senza per questo provocare rottura effettiva nel processo della selezione naturale3. Come spiega giustamente Patrick Tort, il vantaggio ottenuto dalla selezione naturale degli istinti sociali non è più allora, per la specie umana, di ordine biologico, ma è diventato di ordine sociale.
Nel pensiero di Darwin, c'è dunque una continuità materialista nel legame tra l’istinto sociale, assortito di guadagni cognitivi e razionali, la morale e la civiltà. Questa teoria de “l’effetto reversibile dell’evoluzione”, dando una spiegazione scientifica delle origini della morale e della civiltà, ha così il merito di porre fine al falso dilemma tra natura e cultura, continuità e discontinuità, biologia e società, innato ed acquisito, etc.
L’antropologia di Darwin e la prospettiva del comunismo
Nell’articolo pubblicato sul nostro sito Web, e sulla nostra stampa, Darwin ed il movimento operaio, abbiamo ricordato come i marxisti hanno sempre salutato i lavori di Darwin, particolarmente L’origine della specie. Marx ed Engels, fin dall’uscita del libro di Darwin, hanno riconosciuto immediatamente nella sua teoria un approccio analogo a quello del materialismo storico. L’11 dicembre 1859 Engels scrive una lettera a Marx nella quale afferma: “Questo Darwin, che sto studiando, è assolutamente sensazionale. Non era mai stato fatto un tentativo di tale portata per dimostrare che esiste uno sviluppo storico nella natura”.
Un anno più tardi, il 19 dicembre 1860, Marx, dopo aver letto L’origine delle specie, scrive ad Engels: “Ecco il libro che contiene la base, in storia naturale, per le nostre idee”.
Tuttavia, qualche tempo dopo, in un’altra lettera ad Engels datata 18 giugno 1862, Marx ritornerà sul suo giudizio facendo questa critica non fondata a Darwin: “E’ notevole vedere come Darwin riconosce negli animali e nelle piante la propria società inglese, con la sua divisione del lavoro, la sua concorrenza, la sua apertura di nuovi mercati, le sue ‘invenzioni’ e la sua ‘malthusiana’ lotta per la vita. È il bellum omnium contra omnes (la guerra di tutti contro tutti, di Hobbes) e ciò ricorda Hegel nella sua Fenomenologia, dove la società civile interviene in quanto ‘regno animale’ dello spirito, mentre in Darwin è il regno animale che interviene in quanto società civile” (Carteggio Marx-Engels, volume XLII, Editori Riuniti).
Engels riprenderà in parte questa critica di Marx ne L’Anti-Dühring (dove fa allusione alla “cantonata maltusiana” di Darwin) e nella Dialettica della natura.
Per il lungo silenzio di Darwin sulla questione dell’origine dell’uomo (pubblicherà L’origine dell’uomo nel 1871, più di undici anni dopo L’origine della specie4) i suoi epigoni, in particolare Galton e Spencer, hanno sfruttato la teoria della selezione naturale per applicarla schematicamente alla socialità contemporanea. L’origine della specie veniva quindi facilmente usata per la difesa della teoria malthusiana della “legge del più forte” nella lotta per l’esistenza.
Purtroppo, questo lungo silenzio di Darwin sull’origine dell’uomo ha contribuito a confondere Marx ed Engels i quali, non avendo potuto prendere conoscenza dell’antropologia darwinista che sarà sviluppata solamente nel 18715, hanno confuso il pensiero di Darwin con l’integralismo liberale o con l’ossessione depuratrice di due dei suoi epigoni.
La storia delle relazioni tra Marx e Darwin, tra il marxismo ed il darwinismo, è stata dunque quella di un “appuntamento mancato” (secondo l’espressione utilizzata da Patrick Tort in alcune sue conferenze pubbliche). Tuttavia non proprio completamente poiché, malgrado le critiche del 1862, Marx continuerà a conservare una stima molto profonda per il materialismo di Darwin. Sebbene non abbia conosciuto L’origine dell’uomo, Marx nel 1872 offrirà a Darwin una copia dell’edizione tedesca della sua opera maggiore, Il Capitale, con questa dedica: “A Charles Darwin, da parte di un ammiratore sincero”. Oggi, aprendo questo libro che si trova nella biblioteca della casa di Darwin, si può constatare che ne sono state tagliate solo le prime pagine. Darwin non fu attento alla teoria di Marx perché l’economia gli sembrava troppo lontana dalla propria competenza. Ma un anno dopo, il 1° ottobre del 1873, tiene a manifestargli la sua simpatia in una lettera di ringraziamento: “Caro Signore, Vi ringrazio dell’onore che mi fate con l’invio della vostra grande opera sul Capitale; desidererei francamente essere più degno di esserne il destinatario e poter meglio orientarmi in questa questione profonda e importante dell’economia politica. Benché i nostri interessi scientifici siano molto diversi, sono convinto che tutti e due desideriamo sinceramente il fiorire della conoscenza e che questa, finalmente, servirà ad aumentare la felicità dell’umanità”.
Ecco come i due fiumi, malgrado “l’appuntamento mancato”, hanno potuto almeno in parte mescolare le loro acque.
D’altra parte il movimento operaio dopo Marx non ha ripreso la critica formulata da questo’ultimo a Darwin nel 1862. E questo anche se la grande maggioranza dei teorici marxisti (compreso Anton Pannekoek, nel suo opuscolo Darwinismo e Marxismo) è passata accanto a L’origine dell’uomo.
Certamente, Pannekoek, come Kautsky (nel suo libro Etica e concezione materialista della storia) e Plekhanov (ne La Concezione monista della storia) hanno salutato in Darwin la sua teoria degli istinti sociali. Ma non hanno compreso pienamente che Darwin aveva sviluppato una teoria della genealogia della morale e della civiltà ed una visione materialista delle loro origini. Una teoria che su certi aspetti raggiunge la concezione monista della storia ed alla fine sfocia sulla prospettiva del comunismo, e cioè sull’aspirazione all’unificazione dell’umanità in una comunità umana mondiale. Tale era l’etica di Darwin, anche se non era marxista e non aveva nessuna concezione rivoluzionaria della lotta di classe.
In un certo senso, oggi si potrebbe affermare che se non ci fosse stato questo “appuntamento mancato” tra Marx e Darwin alla fine del diciannovesimo secolo, probabilmente Marx ed Engels avrebbero accordato a L’origine dell’uomo la stessa importanza che hanno dato allo studio di L.H Morgan sul comunismo primitivo, La società arcaica (sul quale si è basato in grande parte Engels ne L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato).
Né Morgan né Darwin erano marxisti. Ma il loro contributo, il primo nel campo dell’etnologia, il secondo in quello delle scienze naturali, rimarrà un apporto importante per il movimento operaio.
Oggi la specie umana è confrontata al dilagare senza precedenti del “ciascuno per sé”, della “guerra di tutti contro tutti”, della concorrenza inasprita dal fallimento storico del capitalismo.
Di fronte alla decomposizione di questo sistema decadente, la classe operaia mondiale, quella dei produttori associati, deve più che mai favorire, attraverso la sua lotta contro la barbarie capitalista, l’estensione dei sentimenti sociali della specie umana per sviluppare al suo interno la propria coscienza di classe rivoluzionaria. È l’unico modo affinché l’umanità possa accedere alla successiva tappa di civiltà: la società comunista, una vera comunità umana mondiale, solidale ed unita6.
Sofiane, 23 marzo 2009
1. Patrick Tort è legato al Museo Nazionale di Storia Naturale. Responsabile della pubblicazione del monumentale Dizionario del darwinismo e dell’evoluzione, ha creato e diretto l’istituto Charles Darwin Internazionale (www.darwinisme.org [18]). Ha dedicato trent’anni della sua vita allo studio dell’opera di Darwin che si propone di pubblicare per intero in lingua francese, nel quadro del suo Istituto (35 volumi previsti dalle edizioni Slatkine di cui due già pubblicate).
2. Bisogna sottolineare anche che Darwin era un accanito oppositore della schiavitù e che ha denunciato parecchie volte la barbarie della colonizzazione.
3. Per dimostrare la sua teoria, Patrick Tort utilizza una metafora topologica, quella del nastro di Möbius che permette di comprendere come, grazie al fenomeno del passaggio progressivo al rovescio, si passa “dall’altro lato” del nastro senza discontinuità (vedi la dimostrazione di questo “effetto di rottura” senza puntuale rottura ne L’effetto Darwin. Selezione naturale e nascita della civiltà).
4. Darwin non voleva provocare troppo velocemente un nuovo “choc” nella società ben pensante della sua epoca. Preferì aspettare che il primo "choc" causato da L’origine della specie si fosse smorzato prima di andare oltre. Non era scontato far accettare, anche tra i suoi pari in seno alla comunità scientifica, l’idea che l’uomo potesse avere un antenato comune con le grandi scimmie.
5. Quando Darwin si decise a pubblicare L’origine dell’uomo nel 1871, Marx ed Engels non vi prestarono attenzione perché troppo preoccupati per gli avvenimenti della Comune di Parigi e le difficoltà organizzative de L’associazione Internazionale dei Lavoratori, in quel momento preda delle manovre di Bakunin.
6. Evidentemente, questa società comunista non ha niente a che vedere con lo stalinismo, con i regimi a capitalismo di Stato che hanno dominato l’URSS ed i paesi dell’Est fino al 1989. Il suo vero profilo è stato presentato dal Manifesto comunista del 1848 e nella Critica del programma di Gotha (Marx, 1875) in particolare nel passaggio seguente: “In una fase più elevata della società comunista, dopo che è scomparsa la subordinazione asservitrice degli individui alla divisione del lavoro, e quindi anche il contrasto tra lavoro intellettuale e fisico; dopo che il lavoro non è divenuto soltanto mezzo di vita, ma anche il primo bisogno della vita; dopo che con lo sviluppo onnilaterale degli individui sono cresciute anche le forze produttive e tutte le sorgenti della ricchezza collettiva scorrono in tutta la loro pienezza, solo allora l’angusto orizzonte giuridico borghese può essere superato, e la società può scrivere sulle sue bandiere: Ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni!”
Profittando della situazione difficile che esiste all’interno della classe operaia di Gran Bretagna (come in quella di tutti i paesi del mondo), i sindacati inglesi e i mass-media hanno cercato di far passare l’immagine degli scioperi che ci sono stati nel settore energetico di questo paese come degli scioperi “anti stranieri”. Gli articoli che abbiamo già pubblicato[1] dimostrano quanto sia falsa questa affermazione. Ma la borghesia è una classe che, se è competitiva a livello economico nei confronti di altre borghesie nazionali, è particolarmente collaborativa quando si tratta di combattere e boicottare la lotta di classe. Tanto che, mentre in Gran Bretagna la borghesia combatteva la lotta della mistificazione contro gli sforzi di chiarificazione che venivano dalla classe operaia, in Italia i degni rappresentanti e portavoce dei padroni hanno portato avanti il loro sporco lavoro di disinformazione in maniera del tutto parallela. Così, mentre non si riceve una sola parola sulle lotte spontanee che si sviluppano ai quattro lati del paese, da Pomigliano a Torino, siamo stati inondati per alcuni giorni di notizie dettagliatissime sulle lotte degli operai inglesi che ce l’avrebbero con gli italiani perché: “i lavoratori italiani e portoghesi (…) rubano il loro posto di lavoro (agli inglesi, ndr). Ci stanno portando via il lavoro”, Il Messaggero.it del 29/01/09. “Togliete lavoro a gente di qui che ne ha bisogno” (…)“Sporchi immigrati ci rubate lavoro”, La Repubblica.it del 30/01/09.
Su questo piano è un coro unanime da parte di tutti i giornali, di “destra” o di “sinistra”, da Il Tempo all’Unità fino a Liberazione e al Manifesto![2]
Più precisamente l’immagine che ci è stata data è che gli operai italiani e portoghesi della ditta Irem erano praticamente segregati e prigionieri della nave che li alloggiava, non potendo esporsi alle reazioni possibili degli “inferociti operai inglesi”: “Nessuna solidarietà per i circa trecento italiani venuti con la Irem e che sono alloggiati su una nave. I fotoreporter li hanno scrutati con i loro teleobiettivi per catturare immagini degli “usurpatori”: qualcuno di loro ha reagito mostrando il dito medio o con il gesto dell'ombrello. I tabloid hanno finto di scandalizzarsi di fronte alla maleducazione.” Inghilterra, lavoratori in piazza contro gli operai italiani, Corriere della Sera del 30/01/09.
Forti del muro del silenzio, la borghesia ha continuato a ricamare sulla faccenda, con la maggior parte dei politici e dei mass-media impegnati a fare i progressisti contro quegli zoticoni degli inglesi: “A maggior ragione se si prende nota della dichiarazione piuttosto diretta di Giacomo Natali, segretario della Cgil di Rovigo: «Abbiamo dimostrato nei fatti che siamo molto meno sottosviluppati degli inglesi nel gestire i rapporti con i lavoratori stranieri. Sono loro che devono imparare da noi»”.[3]
La verità adesso la sappiamo. Tenere lontano gli operai “stranieri” da quelli inglesi è servito a creare la messa in scena del conflitto laddove, come testimoniano gli articoli da noi prodotti, gli operai britannici hanno persino invitato gli operai italiani a unirsi alla lotta affermando che la loro non è una battaglia contro degli altri operai ma per un posto di lavoro per tutti.
Ma una riflessione ulteriore va fatta. Qualcuno si chiederà come sia possibile che un sindacato come quello inglese abbia potuto mai sposare una parola d’ordine così estrema come “il lavoro inglese agli operai inglesi”, oppure quella secondo cui “i lavoratori italiani e portoghesi rubano il nostro posto di lavoro”. La risposta è che non c’è proprio da meravigliarsi se il sindacato esprime simili posizioni nella misura in cui non è più, ormai da quasi un secolo, quell’organizzazione creata dalla classe operaia per condurre avanti al meglio le sue lotte, ma l’ostacolo contro cui sistematicamente si scontrano gli operai che intraprendono una loro lotta. Per essere più concreti ricordiamoci: qual è la ricetta del sindacato di fronte alla crisi economica internazionale oggi e ieri di fronte alle varie crisi locali e di settore? La ricetta è stata sempre quella di dire: diamo spazio all’impresa perché si riprenda, perché recuperi competitività sul mercato. Ma tradotto in soldoni che significa questo discorso? Che l’azienda a cui si appartiene deve riuscire a vincere la sfida di mercato, superare altre aziende del settore e riuscire a recuperare margini di profitto per poter dare delle briciole ai propri operai. Come si vede in un caso (quello degli scioperi in Gran Bretagna) come nell’altro (politica del sindacato in genere di fronte alla crisi) la filosofia è sempre la stessa: difesa degli interessi nazionali contro quelli di altre nazioni, ovvero difesa del capitalismo.
La questione che si è posta alla classe operaia inglese e che, in qualche modo, si pone alla classe operaia a livello mondiale, è dunque la necessità di confrontarsi con questa alternativa: farsi soggiogare ancora dalla borghesia, attribuendo le difficoltà economiche in cui versa il proletariato agli immigrati, ai Rom, ai Rumeni, agli inglesi, agli Italiani, ai Portoghesi, ecc. ecc. – a seconda del luogo in cui è rivolta la predica – oppure capire che è la sopravvivenza del capitalismo la causa prima di tutti i problemi e che la maniera più efficace per rispondere è recuperare un’unità d’azione la più estesa possibile. Noi pensiamo che questi ultimi anni, e particolarmente questi ultimi mesi, con le lotte che si sviluppano nei paesi “periferici” come in quelli centrali, l’entrata sulla scena sociale della gioventù studentesca a livello europeo e non solo, con questi scioperi in Gran Bretagna che sono arrivati a riportare nelle piazze lo slogan “proletari di tutti i paesi, unitevi!”, la classe sta lentamente e seriamente liberandosi dell’influenza ideologica della borghesia e sta imparando dai propri errori la strada che la porterà alla propria emancipazione.
22 febbraio 2009 Ezechiele
[2] Particolarmente indegno il reportage di Liberazione che, oltre a sposare completamente la tesi sugli scioperi anti-italiani, si avvale di citazioni di eminenti esponenti della borghesia per richiamare la classe operaia sulla “retta via”: “Sono continuati anche ieri gli scioperi dei lavoratori inglesi contro i migranti italiani e portoghesi. (…) L'altro ieri il governo socialista di Lisbona aveva denunciato quanto avviene nel Regno Unito come «un tentativo di discriminazione assolutamente inaccettabile». Il ministro degli esteri Luis Amado aveva anche sottolineato «la responsabilità assoluta dei governi» nei confronti di «una deriva protezionistica, xenofoba, nazionalista, che se non è posta molto rapidamente sotto controllo con iniziative molto forti può portarci ad una crisi ancora più grave». Ieri, il premier europeo Jean-Claude Juncker, che è anche presidente dell'Eurogruppo ha usato parole ancora più nette. «Esprimo il mio totale disaccordo su questi scioperi in Gran Bretagna - ha detto - un paese che spesso rimette in discussione le capacità dell'Europa di integrarsi. Bisogna ricordare che la storia dell'Europa è estremamente complessa.” (Liberazione del 4/02/09).
[3] La risposta alla rivolta inglese: "A Rovigo assunti cento operai britannici" su IlGiornale.it del 3/02/09.
“La crescita come potenza della Cina e il perseguire i suoi interessi sono indissociabili dal sentimento di aver ritrovato un legittimo posto storico e da un bisogno psicologico profondamente radicato che l’attuale classe al potere non può che essere felice di sfruttare. Le ambizioni cinesi sono attizzate da un nazionalismo alimentato da ferite storiche e di grandezza abortita, un nazionalismo estraneo ed incompreso in un occidente fin troppo compiacente. (...) La Cina si è prefissa degli obiettivi contrari agli interessi americani, cioè soppiantare la supremazia americana in Asia, impedire che Stati Uniti e Giappone costituiscano un fronte di contenimento contro la Cina e, infine, dislocare il suo esercito nei mari della Cina meridionale ed avere il controllo delle principali vie marittime della regione. La Cina ha delle mire egemoniche. Il suo obiettivo principale è che nessuno Stato – che si tratti del Giappone che sfrutta i suoi diritti di prospezione petrolifera nei mari della Cina orientale o della Tailandia che autorizza l’accesso ai suoi porti alle navi della flotta americana - possa agire senza prima tener conto degli interessi cinesi. Questo scenario si inserisce in un’ambizione più vasta: la sfida alla supremazia mondiale dell’occidente, Stati Uniti in testa.
(...) Per questo, da alleata strategica degli Stati Uniti essa diventerà il suo avversario perenne. A questo punto si impone un paragone che non prospetta niente di buono. Dal 1941 al 1945 gli Stati Uniti fecero un’alleanza strategica con l’Unione sovietica, una delle peggiori dittature di tutti i tempi, per avere la meglio sulla Germania nazista. Alla fine della guerra, a causa della rivalità naturale tra queste due superpotenze, l’alleanza fu rotta. Le relazioni amichevoli che intrattennero gli Stati Uniti e la Cina negli anni 1970 e 1980 ricordano l’alleanza americano-sovietica della Seconda Guerra mondiale. Vere e proprie alleanze tra opposti, la cui necessità deriva da una minaccia immediata, la Germania nazista in un caso e l’espansionismo sovietico dall’altro. Venuta meno la minaccia, le alleanze non resisteranno a lungo di fronte alle divergenze di valori e di interessi”1.
Sebbene un poco datata, l’opera da cui questa citazione è tratta ci illustra la realtà dell’ascesa inesorabile della potenza cinese che rivendica ed assume chiaramente le sue ambizioni imperialistiche planetarie. In effetti, l’essenziale degli elementi avanzati dagli autori nel descrivere le prospettive delle relazioni tra Cina e Stati Uniti corrispondono largamente a ciò che vediamo oggi, come dimostra, ad esempio, Le Monde diplomatique di settembre 2008 in un articolo dal titolo “Rivalità militari in Asia: La Cina afferma le sue ambizioni navali”: “(…) Tuttavia, Taiwan non è che uno dei pezzi di una vasta sfida marittima. La Cina si contrappone al Giappone a proposito delle isole Diaoyu (Sankaku in giapponese), vicino all’isola di Okinawa, che ospita una base americana. Tokio martella che la sua ZEE si estende a 450 chilometri ad ovest dell’arcipelago, ciò che Pechino contesta rivendicando l’insieme della piattaforma continentale che prolunga il suo territorio nel mare della Cina orientale. Posta annessa al conflitto: un giacimento che potrebbe fornire fino a 200 miliardi di metri cubi di gas. La Cina contende inoltre a Taiwan, al Vietnam, alle Filippine, alla Malaysia, al Brunei ed all’Indonesia le isole Spratleys (Nansha in cinese) e l’arcipelago dei Pratas (Dongsha). Si massacra col Vietnam e Taiwan per l’arcipelago di Paracel (Xisha).
(...) Una volta aperti questi catenacci, la Marina cinese potrà dedicarsi più liberamente alla seconda sfida: la sicurezza dei corridoi di approvvigionamento di idrocarburi in Asia del Sud. Il primo di questi permette la navigazione alle petroliere di meno di 100.000 tonnellate, dall’Africa e dal Vicino Oriente fino al mare della Cina meridionale attraverso lo stretto di Malacca. Dalle stesse zone di produzione, il secondo corridoio permette la navigazione alle petroliere giganti attraverso gli stretti della Sonda e di Gaspar. Il terzo, dall’America latina passa per le acque filippine. Il quarto, tragitto di ricambio dal Vicino Oriente e l’Africa, serpeggia tra gli stretti indonesiani di Lombok e di Macassar, le Filippine ed il Pacifico ovest prima di raggiungere i porti cinesi”.
Non male come ambizioni imperialiste! Manifestamente la Cina non vuole avere un ruolo di “comparsa” del mondo capitalista, ma intende più che mai sostenere la sua crescita economica ed il suo sviluppo per proteggere dappertutto i propri interessi imperialistici, preparandosi ad affrontare ogni potenza che vorrebbe resisterle, anche sul piano militare. Nello stesso senso Pechino costruisce e sviluppa vaste manovre diplomatiche e geo-strategiche nei confronti di diversi paesi che potrebbero servirle da ponte. Infatti, se l’India ed il Giappone sono storicamente nelle sue mire, la Cina si serve del Pakistan come testa di ponte sia per bloccare l’alleanza tra Washington e New Delhi, sia per aumentare la sua influenza nel Golfo persico ed in Asia centrale. Ma ancora più sorprendente è la volontà di Pechino di lottare per preservare le sue provviste energetiche fino al centro del Golfo persico e del Medio Oriente, la zona più esplosiva e ambita nel mondo da tutti i briganti, primo tra tutti gli Stati Uniti. Ciò significa che Pechino non esita più ad andare a caccia sul quel terreno che Washington considera da decenni come “proprio interesse nazionale”. Il che la dice lunga sulla probabilità di scontri ancora più forti tra la Cina e gli Stati Uniti, in questa zona ed altrove. Del resto già ora lo scontro tra Pechino e Washington è molto virulento sul piano diplomatico, in particolare all’ONU.
Dalle manovre navali alle manovre diplomatiche
La Cina sa utilizzare meglio di chiunque altro la diplomazia per difendere i propri interessi, in particolare in seno all’ONU, bastione supremo dei manovrieri imperialisti. Per esempio, quando nel 2005 il Giappone manifestò la sua intenzione di diventare membro permanente del Consiglio di sicurezza, con accesso al sacro “diritto di veto”, la Cina mobilitò subito l’insieme del suo corpo diplomatico per bloccare a qualsiasi prezzo l’iniziativa di Tokio sostenuta da Washington. In questo braccio di ferro abbiamo visto una Cina che, ricordatasi improvvisamente della sua pretesa appartenenza all’ex Gruppo dei 77 cosiddetti “non allineati”, si è messa a “sedurre” ed “innaffiare” alcuni di questi con ogni tipo di promesse e crediti e, alla fine, la gang cinese ha potuto effettivamente sbarrare la strada al suo rivale giapponese (dando così anche uno schiaffo al padrino americano). Nei fatti, la Cina agisce regolarmente da guastafeste appoggiandosi sul suo diritto di veto per bloccare sistematicamente le iniziative americane che mirano, per esempio, a sanzionare Teheran sulla questione nucleare o di altri clienti di Pechino (come per lo Zimbabwe, la Corea del Nord, il Myanmar, ecc.). Insomma, è passato il tempo in cui gli Stati Uniti potevano pretendere di fare da soli il bello ed il cattivo tempo all’ONU ed al suo Consiglio di sicurezza. Ormai Pechino contende apertamente questo ruolo a Washington. Questa rivalità si è concretizzata in particolare in Sudan dove Pechino, che arma il potere sudanese ed acquista il suo petrolio, ha chiuso con ostinazione gli occhi per diversi anni sulle atrocità commesse dal governo di Khartoum nel Darfour. Optando per la stessa ipocrisia e lo stesso cinismo delle potenze occidentali che agiscono in nome dei “diritti dell’uomo”, la Cina spiega il suo atteggiamento in nome del rispetto “della sovranità degli Stati (amici)”.
La Cina fa il “grande balzo” in Africa
Se tutti sono convinti che la Cina cerca di estendere la sua influenza su tutti i continenti, è però in Africa che la sua offensiva è più massiccia, particolarmente sul piano economico. Ma per Pechino, non c’è solo il piano economico, per rafforzarsi e salvaguardare i suoi interessi imperialisti globali ci sono anche quello militare e quello geo-strategico. La Cina arma regimi e vende armi a numerosi clienti del continente. Fin dall’inizio degli anni ’90 e del 2000, fortemente contrassegnati dai massacri di massa e dal sanguinoso caos nelle principali regioni del continente, si sapeva che Pechino era il fornitore militare, spesso mascherato, di numerosi paesi ed in particolare quelli dei Grandi Laghi. Le armi cinesi, ad esempio, sono servite a commettere le orribili atrocità che hanno provocato milioni di vittime nella Repubblica Democratica de Congo.
Essendo diventata praticamente una grande potenza come le altre, la Cina brama il ruolo di gangster n°1 in Africa e, di fatto, l’imperialismo cinese sta buttando fuori dalle loro posizioni tradizionali alcuni dei suoi concorrenti. In quest’ottica, va da sé che la Francia è al centro del mirino della Cina.
La Cina tende a soppiantare la Francia in Africa
La Cina ha investito in quasi tutti i paesi del continente africano impiegando ogni mezzo per guadagnare importanti posizioni al punto da escludere di fatto la Francia da un buon numero di paesi appartenenti al vecchio orticello di Parigi. Come si muove la Cina, con quali metodi? Prendiamo un solo esempio che riassume ed illustra la forza che ha la Cina: nel mercato dei BTP, i cinesi sfidano tutti i loro concorrenti mettendo dei prezzi dal 30 al 50% inferiori a quelli proposti dai francesi. Il che comporta che alcuni grandi gruppi francesi, come Bouygues, sono direttamente minacciati dal “rapace cinese” ovunque sono o cercano di impiantarsi. Di conseguenza certe imprese francesi tentano disperatamente di ripiegare in altri paesi africani che si trovano al di fuori del vecchio bastione coloniale della Francia, come l’Africa del Sud o l’Angola, dove comunque la concorrenza non è meno aspra. la Cina utilizza grossomodo la stessa arma dei “prezzi bassi” in tutti gli altri campi commerciali, compresi gli armamenti, pertanto la minaccia cinese contro la Francia è globale.
L’imperialismo francese perde terreno quasi ovunque nel suo vecchio bastione coloniale, sia economicamente che politicamente. Del resto, simbolicamente, è altamente significativo vedere la Cina “dragare” apertamente la Costa d’Avorio, vecchia “vetrina” o “gioiello economico” della Francia in Africa. In effetti, non solo i grandi gruppi francesi sono minacciati dall’offensiva cinese, ma a livello politico il presidente della Costa d’Avorio Gbagbo viene pesantemente corteggiato da Pechino che lo “protegge” all’ONU contro le sanzioni e che, per ora, gli ha potuto assicurare i soldi per poter pagare gli stipendi ai funzionari a fine mese, cosa che Parigi non fa più. L’altro forte atto simbolico verso la vecchia potenza gaullista sta nel fatto che la stessa Pechino si mette ad organizzare i propri “vertici Cina-Africa”.
Peraltro, se la Francia dovesse evacuare le sue basi militari in Africa (la sua principale carta vincente) come ha annunciato il presidente Sarkozy, la Cina sarebbe sicuramente molto felice di escluderla definitivamente dal continente.
Le manifestazioni concrete della volontà della Cina di giocare un ruolo da protagonista nell’arena imperialista sono appena agli inizi ed i suoi principali rivali non perderanno occasione per reagire all’altezza della posta in gioco che derivano dalle ambizioni cinesi. In altre parole, nessuna chiacchiera di pace e di intesa tra le nazioni potrà bastare a mascherare questa realtà, sinonimo di desolazione e di distruzioni materiali ed umane.
Amigos, 20 dicembre
1. Bernstein/Munro, Chine- Etats-Unis : danger, Editions Bleu de Chine, 1998Nessuno del potere, sia politico che religioso, nessun capitalista si è preoccupato del “barbone” morto tre notti fa per freddo e/o fame a Milano. È l’ottavo morto dall’inizio dell’anno, non nelle campagne sperdute del terzo mondo, ma nei pressi del Duomo o del Comune di Milano. Dov’è in questo caso la pietas di quella chiesa che vuole nutrire a forza una ragazza in coma da 17 anni con assistenza continua e spese notevoli, dov’è ancora l’intervento di quello Stato che si preoccupa di fare una legge ad hoc per bloccare un atto legalmente ottenuto dal padre di Eluana? Nessuno si preoccupa di fare una legge per dare un salario di base o un’assistenza gratuita e continua a migliaia e migliaia di persone che muoiono di fame e freddo nel parco sotto casa. Solo interventi d’urgenza per salvarsi la faccia: tende per 10 persone e non requisizione di palazzi vuoti (vicino il Pirellone a Milano c’è un palazzo di 20 e più piani vuoto da anni!). Questo è il capitalismo, utilizza - “violenta”, come dice giustamente il padre - una povera ragazza in coma per non far capire di quale terribile natura poco pietosa sia fatto, per impedire che i lavoratori e i disoccupati prendano coscienza del baratro senza fine in cui ci sta portando e della necessità di abbatterlo.
Cosa ha approvato il senato venerdì? Le ronde padane e la denuncia degli immigrati ammalati da parte dei dottori, la democrazia borghese non ha nulla da invidiare alla dittatura borghese. Roba da far west, ma anche da Germania Hitleriana. Le ronde padane o qualsiasi ronda, approvata o meno dallo Stato, avrà il potere di attaccare lavoratori, immigrati, emarginati. Con l’impoverimento crescente della classe operaia e degli strati sociali meno protetti e con il conseguente acutizzarsi delle tensioni sociali, il capitalismo ha bisogno di più polizia ed esercito e lo sta ottenendo facendo lavorare gratis gli elementi più arretrati di questa società. Non troveremo i pezzi grossi della politica o dell’economia a fare le ronde, ma giovani disperati, carichi di odio e vittime anch’essi di questa squallida società capitalista.
Ora che Eluana è morta, gli esponenti di questo vergognoso mondo della politica si presentano chi vestendo i panni del lutto per Eluana (facendo un minuto di raccoglimento, ostentando un viso da funerale durante le interviste concesse), chi gridando vendetta per l’omicidio perpetrato e chi ancora, piuttosto che denunciare tutta questa operazione per quello che è, una indegna pantomima sul cadavere di una povera ragazza già morta da 17 anni (altro che “persona capace di procreare un figlio”, come ha avuto il coraggio di dire Berlusconi!), è stato al gioco cercando anche di tirare qualche sgambetto all’avversario politico che nella vicenda si sbilancia un poco troppo.
Il cinismo del capitalismo è ributtante: ha fatto della pietosa vicenda di una ragazza e della sua famiglia un “caso” politico e (orrore!) morale solo per distogliere l’attenzione della gente da quello che è l’unico caso da prendere in considerazione, l’esistenza stessa del capitalismo!
10 febbraio 2009 Oblomov
Convocazione di una AG per il 27 novembre
Noi lavoratori dell’AFEMA siamo scesi in lotta per difendere le nostre condizioni di vita e per dei servizi gratuiti e di qualità.
Sappiamo che questa situazione è un problema generale di tutta la classe operaia che vede come giorno dopo giorno le sue condizioni di vita vengono attaccate e peggiorate.
Per noi l’unica soluzione sta nell’unire ed estendere le nostre lotte per farne un’unica lotta.
Per questo convochiamo un’assemblea generale di lavoratori.
Per l’assemblea proponiamo questi punti (pur restando aperti ad ogni vostra proposta):
- presentazione e messa in comune delle situazioni particolari di ogni impresa e/o compagno;
- analisi della situazione generale;
- proposta di azioni congiunte e solidali;
- permanenza dell’assemblea in quanto spazio di incontro tra lavoratori;
- ecc.
Vi aspettiamo tutti giovedì 27 novembre alle 18.30 al Centro Loyola
Questa assemblea è aperta, vi invitiamo ad estendere l’invio a partecipare ad altri lavoratori e compagni.
Piattaforma dei lavoratori dei servizi socio-sanitari
Nota: benché questo invito sia trasmesso a diverse organizzazioni politiche e sindacali, la nostra intenzione è unitaria, concepiamo la classe operaia come un tutt’uno che deve agire insieme in funzione dei bisogni. Perciò pensiamo che questo non è il luogo per un confronto tra organizzazioni o per l’esposizione di programmi particolari.
Volantino distribuito dai lavoratori
Le amministrazioni attaccano i diritti degli utenti e dei lavoratori della sanità mentale
Gli utenti (i malati mentali ed i loro famigliari) ed i lavoratori dell’AFEMA vivono anch’essi la crisi. A causa della disastrosa gestione della sanità mentale da parte delle amministrazioni pubbliche per degli anni, la nostra situazione è oggi difficile.
Come altre associazioni, l’AFEMA è una ONG che gestisce servizi e centri con sovvenzioni pubbliche. Si tratta di servizi destinati a persone con handicap. Le amministrazioni non hanno mai pagato molto, lo hanno fatto tardi e male, ma oggi la situazione è diventata scandalosa.
I ritardi nei pagamenti e l’assenza di sovvenzioni rischiano di far scomparire le risorse, già scarse, assegnate a queste persone e mettono i lavoratori a rischio di perdere il posto di lavoro. Già abbiamo spesso difficoltà ad avere regolarmente il salario con tutti i problemi che ciò comporta,
Abbiamo quindi deciso di mobilitarci.
Non pensiamo che questa lotta sia esclusivamente nostra. La nostra situazione è il prodotto della situazione di crisi e di bancarotta generale a livello internazionale, così come della cattiva gestione delle amministrazioni pubbliche in particolare, e fa parte dell’attacco generale contro le condizioni di vita dei lavoratori e della popolazione in generale.
Per questo pensiamo che la nostra lotta è quella di tutti:
- a causa del rischio di scomparsa dei servizi sociali sanitari necessari alla popolazione;
- a causa degli attacchi a ripetizione contro le condizioni di vita dei lavoratori.
Testo del manifesto scritto dai lavoratori
Gli utenti senza risorse, i lavoratori senza salari!
Gli utenti ed i lavoratori dell’AFEMA in lotta per un servizio gratuito e di qualità!
Le Amministrazioni non pagano più e trascurano i servizi sanitari.
Gli utenti e le loro famiglie rischiano di ritrovarsi senza fondi di sostegno.
Noi, i lavoratori, non abbiamo più il salario e rischiamo di perdere il lavoro.
Per un servizio gratuito e di qualità per le persone malate di mente.
Per i diritti dei lavoratori e degli utenti della sanità mentale.
Sostenete la mobilitazione!
Mercoledì 19 alle 19.00:
Riunione informativa aperta ai membri, ai famigliari, agli amici, ai lavoratori, ai professionisti … sala del Centro Loyola.
Venerdì 21 alle 11.00:
Manifestazione di protesta di fronte al palazzo del PROP de la Ramba (Alicante).
Venerdì 28:
Manifestazione a Valencia (da confermare)
Associazione delle famiglie e dei malati mentali di Alicante
Piattaforma dei lavoratori dei servizi sociali sanitari
Commenti di Acción Proletaria, sezione della CCI in Spagna
Siamo tutti coscienti di quello che ci sta “piombando addosso”: la crisi si accelera ed i licenziamenti, la disoccupazione, la riduzione dei salari, ecc. si moltiplicano, dimostrando che il capitalismo ed i suoi differenti governi, quale ne sia il colore, hanno una sola risposta di fronte alla crisi: lo scatenamento di attacchi contro le condizioni di vita della classe operaia e di tutta la popolazione lavoratrice.
L’inquietudine si diffonde, la spinta a battersi e la presa di coscienza si sviluppano in un numero crescente di settori della classe operaia. Ciò non si concretizza ancora in una lotta di massa o in movimenti generalizzati. In parte perché i lavoratori non hanno ancora raggiunto un sufficiente livello di forza, in parte perché la borghesia, attraverso il suo apparato sindacale e politico, occupa tutto il terreno e riesce a deviare, dividere e disorganizzare ogni possibile risposta dei lavoratori.
E’ in questo contesto che è scoppiata la lotta dei lavoratori socio-sanitari dell’AFEMA (Alicante) che, quale che sia l’evoluzione della sua dinamica, costituisce già ora un esempio per la lotta di altri lavoratori per i seguenti motivi:
- I compagni si sono uniti in maniera solidale alle famiglie colpite dal mancato pagamento ed altre dubbie manovre del governo autonomo. Non hanno lottato ciascuno per proprio conto, chiusi nel ristretto quadro del corporativismo, ma hanno saputo riconoscere il loro interesse comune e si sono uniti nella stessa lotta.
- I compagni non concepiscono la loro lotta come un affare particolare e specifico del “proprio settore”, ma la considerano come parte integrante della lotta generale di tutti i lavoratori. La crisi si abbatte su noi tutti senza distinzione. Nessun lavoratore se ne sente al sicuro. La crisi è generale, anche la lotta degli operai deve essere generale.
- I compagni si sono organizzati in assemblee generali aperte a chi vuole contribuirvi e apportarvi i propri problemi. Hanno recuperato una pratica delle lotte operaie del passato ma anche delle lotte più recenti come quella di Vigo nel 2006, quando i lavoratori metallurgici presero nelle proprie mani la lotta ed organizzarono immediatamente assemblee generali aperte agli altri lavoratori ed a tutta la popolazione1.
- Ancora più importante, hanno deciso di organizzare un’assemblea generale aperta a tutti per discutere dei problemi di tutti e vedere come poter reagire assieme. Questo esempio può ispirare i lavoratori di Barcellona vittime in questo momento di 400 piani di ristrutturazione (e che hanno indetto una manifestazione per il 29 novembre).
Bisogna lottare per un’assemblea generale comune, anche se questa proposta dovrà scontrarsi con la reazione di questi falsi amici dei lavoratori che sono tutti i sindacati.
1. Leggi l’articolo “Sciopero della metallurgia a Vigo in Spagna: un passo avanti nella lotta proletaria”, Rivoluzione internazionale n.145 sul nostro sito.
Il testo che segue è stato scaricato dal sito riportato in nota[1]. Il suo contenuto non può che riempirci di gioia e conferma pienamente il quadro che viene presentato nella nostra stampa a proposito dell'attuale situazione sociale a livello internazionale ed in particolare in Grecia.
Centinaia di soldati dei 42 campi dell'esercito dichiarano: ci rifiutiamo di diventare una forza di terrore e repressione.
Siamo dei soldati da ogni parte della Grecia [è necessario qui osservare che in Grecia è ancora in vigore la coscrizione e che riguarda tutti i greci maschi; la maggior parte o forse anche tutte le persone che firmano questo sono legati al popolo che al momento stanno servendo nel servizio militare obbligatorio - non reclute dell'esercito]. Soldati ai quali, a Hania, è stato ordinato di opporsi a studenti universitari, lavoratori e combattenti del movimento antimilitarista portando le nostre armi e poco tempo fa. [Soldati] che portano il peso delle riforme e della "preparazione" dell'esercito greco. [Soldati che] vivono tutti i giorni attraverso l'oppressione ideologica del militarismo, del nazionalismo dello sfruttamento non retribuito e della sottomissione ai "[nostri] superiori". Nei campi dell'esercito [nei quali serviamo], sentiamo di un altro "incidente isolato": la morte, provocata dall'arma di un poliziotto, di un quindicenne di nome Alexis. Sentiamo di lui negli slogan portati sopra le mura esterne del campo come un tuono lontano. Non sono stati chiamati incidenti anche la morte di tre nostri colleghi in agosto? Non è stata pure chiamata un incidente isolato la morte di ciascuno dei 42 soldati che sono morti negli ultimi tre anni e mezzo? Sentiamo che Atene, Thessalonica ed un sempre crescente numero di città in Grecia sono diventate campi di agitazione sociale, campi dove viene recitato fino in fondo il risentimento di migliaia di giovani, di lavoratori e di disoccupati. Vestiti con uniformi dell'esercito ed "abbigliamento da lavoro", facendo la guardia al campo o correndo per commissioni, facendo i servitori dei "superiori", ci troviamo ancora lì [in quegli stessi campi]. Abbiamo vissuto, come studenti universitari, come lavoratori e come disperatamente disoccupati, le loro "pentole d'argilla", i "ritorni di fiamma accidentali" , i "proiettili deviati", la disperazione della precarietà, dello sfruttamento, dei licenziamenti e dei procedimenti giudiziari. Ascoltiamo i mormorii e le insinuazioni degli ufficiali dell'esercito, ascoltiamo le minacce del governo, rese pubbliche, sull'imposizione dello "stato d'allarme". Sappiamo molto bene cosa ciò significhi. Viviamo attraverso l'intensificazione [del lavoro], aumentate mansioni [dell'esercito] , condizioni estreme con un dito sul grilletto. Ieri ci è stato ordinato di stare attenti e di "tenere gli occhi aperti". Ci chiediamo: A CHI CI AVETE ORDINATO DI STARE ATTENTI? Oggi ci è stato ordinato di stare pronti ed in allarme. Ci chiediamo? VERSO CHI DOVREMMO STARE IN ALLARME? Ci avete ordinato di stare pronti a far osservare lo stato di ALLARME:
Questa sequenza di misure dimostra che la leadership dell'esercito, della polizia e l'approvazione di Hinofotis (ex membro dell'esercito professionale, attualmente vice ministro degli interni, responsabile per "agitazioni" interne), del QG dell'esercito, dell'intero governo, delle direttive della U.E., dei negozianti-come- cittadini- infuriati e dei gruppi di estrema destra mirano ad utilizzare le forze armate come un esercito di occupazione - non ci chiamate "corpo di pace" quando ci mandate all'estero a fare esattamente le stesse cose? - nelle città dove siamo cresciuti, nei quartieri e nelle strade dove abbiamo camminato. La leadership politica e militare dimentica che siamo parte della stessa gioventù.
Dimenticano che siamo carne della carne di una gioventù che sta di fronte al deserto del reale all'interno ed all'esterno dei campi dell'esercito. Di una gioventù che è furibonda, non sottomessa e, ancora più importante, SENZA PAURA. SIAMO CIVILI IN UNIFORME. Non accetteremo di diventare strumenti gratuiti della paura che alcuni cercano di instillare nella società come uno spaventapasseri. Non accetteremo di diventare una forza di repressione e di terrore.
Non ci opporremo al popolo con il quale dividiamo quegli stessi timori, bisogni e desideri/lo stesso futuro comune, gli stessi pericoli e le stesse speranze. CI RIFIUTIAMO DI SCENDERE IN STRADA PER CONTO DI QUALSIASI STATO D'ALLARME CONTRO I NOSTRI FRATELLI E SORELLE. Come gioventù in uniforme, esprimiamo la nostra solidarietà al popolo che lotta e urliamo che non diventeremo delle pedine dello stato di polizia e della repressione di stato.
Non ci opporremo mai al nostro popolo. Non permetteremo nei corpi dell'esercito l'imposizione di una situazione che ricordi i "giorni del 1967".
[1] www.ateneinrivolta.org/content/lettera-di-militari-greci-che-si-rifiutan... [25].
PRESENTAZIONE ALLE RIUNIONI PUBBLICHE DELLA CCI
Quello che segue è il testo che è servito da canovaccio per le presentazioni che la nostra organizzazione ha fatto nei vari paesi in cui interviene sull'emergere della gioventù - studentesca e non - su un piano di lotta autenticamente proletario.
Alla fine del 2008 diversi paesi europei sono stati toccati simultaneamente da movimenti di massa di studenti (universitari e liceali).
Tra questi quello che si è sviluppato in Grecia dopo la morte di un giovane studente di 15 anni il 6 dicembre scorso è stato più rilevante tanto da evocare un nuovo Maggio 68.
In effetti a questo movimento hanno partecipato diversi settori della classe lavoratrice in solidarietà con le nuove generazioni che si battevano contro gli attacchi del governo e contro la repressione dello stato poliziesco.
Questo movimento sociale, come quelli degli altri paesi non è solo un movimento della gioventù ma è parte integrante delle lotte operaie che si sviluppano a livello mondiale.
Come al solito quello che è successo in Grecia ci è stato presentato dai media a modo loro.
Ci hanno mostrato solo gli scontri con la polizia e questi sono stati presentati o come il fatto di un pungo di autonomi anarchici e di studenti di ultra sinistra usciti da ambienti agiati o di facinorosi marginalizzati.
Ci hanno mostrato soprattutto giovani incappucciati che bruciavano auto, spaccavano vetrine di negozi e banche, saccheggiavano negozi.
La strumentalizzazione di immagini di violenza di questo tipo da parte dei media non è nuovo. E' esattamente lo stesso metodo di falsificazione della realtà usato per il movimento degli studenti in Francia contro il CPE nel 2006 (assimilato ai moti nelle periferie dell'anno precedente). E' lo stesso metodo usato quando gli studenti in lotta contro la LRU nel 2007 (legge sulla Libertà e Responsabilità delle Università) sempre in Francia sono stati assimilati a dei "terroristi" ed a dei "Khmer rossi"!
Ma cosa è stato questo movimento?
Innanzitutto quello che salta agli occhi è la sua estensione di questo movimento che in sé è già un fatto significativo.
Gli scontri si sono estesi a ben 42 prefetture su 55 della Grecia, anche in città dove prima non c'erano mai state manifestazioni.
Più di 700 licei ed un centinaio di università sono stati occupati.
Ma in più, quali erano le ragioni di tanta collera?
La disoccupazione dei giovani e la loro difficoltà ad entrare nel mondo del lavoro la mancanza di un futuro che hanno creato e diffuso un clima d'inquietudine, di collera e di insicurezza generalizzata.
La maggior parte degli studenti devono fare due lavori al giorno per poter sopravvivere e poter continuare a studiare.
Piccoli impieghi al nero e sottopagati, e anche nel caso di lavori meglio pagati, una parte del salario non viene dichiarato il che amputa i loro diritti sociali; in particolare si ritrovano senza assistenza sociale, gli straordinari non vengono pagati e non è loro possibile lasciare la casa dei genitori prima dei 35 anni perché non hanno i soldi per pagare un affitto.
Il 23% dei disoccupati in Grecia sono giovani (il tasso di disoccupazione tra i 15-24 anni è ufficialmente del 25,2%).
E la prospettiva è ancora peggiore.
La crisi mondiale sta portando una nuova ondata di licenziamenti di massa. Per il 2009 è prevista una perdita di 100.000 posti di lavoro in Grecia, che corrisponde al 5% di disoccupazione in più. Allo stesso tempo il 40% dei lavoratori guadagna meno di 1.100 euro lordi e la Grecia conosce il maggior tasso di lavoratori poveri tra i 27 paesi dell'unione europea, il 14%.
Questa situazione spiega perché in piazza non sono scesi solo i giovani, ma anche gli insegnanti mal pagati e molti altri salariati presi dagli stessi problemi, dalla stessa miseria ed animati dallo stesso sentimento di rivolta.
Questa collera non è nuova: gli studenti greci si erano già largamente mobilitati nel giugno 2006 contro la riforma dell'università la cui privatizzazione avrebbe comportato l'esclusione degli studenti dei ceti più modesti.
Anche la popolazione aveva manifestato la sua collera contro l'incuria del governo quando ci furono gli incendi dell'estate 2007 che fecero 67 morti, governo che non ha mai indennizzato le numerose vittime che persero la casa e ogni bene.
Ma sono stati soprattutto i salariati a mobilitarsi contro la riforma del regime pensionistico agli inizi del 2008 con due giorni di sciopero generale in due mesi e manifestazioni che ogni volta hanno riunito più di un milione di persone.
La brutale repressione del movimento che ha causato la morte di questo adolescente è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso ed ha amplificato la collera ed il sentimento di solidarietà tra le diverse generazioni della classe operaia.
Infatti non sono stati solo gli studenti a denunciare il terrore di Stato, ma questa stessa collera contro la brutalità della repressione la si è ritrovata in tutte le manifestazioni con slogan del tipo: "Pallottole per i giovani, soldi per le banche". Ancora più chiaramente un partecipante al movimento ha dichiarato: "Non c'è lavoro, non ci sono soldi, uno Stato in fallimento con la crisi, e tutto quello che c'è come risposta è dare le armi ai poliziotti" (Le Monde del 10-12-2008).
Ma c'è di più. Le giovani generazioni di operai sono quelle che esprimono più chiaramente la disillusione e lo scoraggiamento rispetto ad un apparato politico ultra corrotto in cui da più di trent'anni la dinastia dei Caramanlis (a destra) e dei Papandreu (a sinistra) regnano alternandosi sul paese a forza di bustarelle e scandali.
Di conseguenza la gran parte dei giovani rigetta ogni inquadramento in un apparato politico e sindacale completamente discreditato: "Il feticismo del denaro si è impossessato della società. Allora i giovani vogliono una rottura con questa società senza anima e senza prospettiva".
Di fronte al montare del movimento, i sindacati hanno indetto uno sciopero generale il 10 dicembre nel tentativo di canalizzare la collera e stroncare la lotta. Ma, nonostante questa manovra e tutte le altre dei partiti di sinistra e dei sindacati, non ci sono riusciti perché, con lo sviluppo della crisi, questa generazione di proletari non ha solo sviluppato la coscienza di uno sfruttamento capitalista che vive sulla propria pelle, ma esprime anche la coscienza della necessità di una lotta collettiva mettendone spontaneamente avanti i metodi e la solidarietà DI CLASSE. Invece di soccombere alla disperazione, trae fiducia nella possibilità di un avvenire diverso, si ribella contro il putridume della società che la circonda. Come mostra bene lo slogan "Noi siamo un'immagine del futuro di fronte ad un'immagine molto oscura del passato". Per questo se la situazione sociale in Grecia può ricordare il maggio 68, la coscienza dei giovani va ben al di là.
Durante tutte queste giornate e queste notti ci sono stati scontri incessanti con violente cariche della polizia a colpi di manganelli e lacrimogeni che si sono concluse con pestaggi e dozzine di arresti.
Nonostante questo, a partire dal 16 dicembre, si assiste ad una radicalizzazione del movimento.
Gli studenti invadono per qualche minuto l'emittente televisiva governativa NET e dispiegano sotto gli schermi uno striscione che proclama: "Smettete di guardare la televisione. Tutti nelle strade" e lanciano questo appello: "Lo Stato uccide. Il vostro silenzio lo arma. Occupazione di tutti gli edifici pubblici!".
La sede della polizia antisommossa di Atene viene attaccata ed un furgone è dato alle fiamme. Queste azioni vengono subito denunciate dal governo come un "tentativo di rovesciamento della democrazia" e vengono condannate dal PC greco.
A Salonicco, i due maggiori sindacati del settore privato e pubblico (GSEE e dell'ADEDY) tentano di confinare gli scioperanti in un assembramento di fronte all'Ufficio del lavoro. I liceali e gli studenti universitari invece sono determinati a portare gli scioperanti in corteo e ci riescono: 40.000 studenti e lavoratori sfilano nelle strade della città.
Del resto già prima gli studenti erano stati confrontati all'azione di sabotaggio dei militanti dell'organizzazione studentesca del Partito "comunista" (PKS) che avevano tentato di bloccare le assemblee per impedire le occupazioni (università del Pantheon, Facoltà di filosofia dell'università di Atene). I loro tentativi sono falliti e le occupazioni si sono sviluppate ad Atene ed in tutta la Grecia.
Nel quartiere Agios Dimitrios di Atene viene occupato il municipio con un'assemblea generale alla quale partecipano più di 300 persone di tutte le età.
Il 17 dicembre la sede del maggiore sindacato del paese, la Confederazione Generale dei Lavoratori in Grecia (GSEE) ad Atene viene occupata dai lavoratori che si dichiarano insorti ed invitano tutti i proletari a fare di quel posto un luogo d'assemblea generale aperto a tutti i salariati, agli studenti ed ai disoccupati.
Nel documento finale dell'AG si dice:
"Per tutti questi anni, abbiamo subito la miseria, la rassegnazione, la violenza sul lavoro. Ci siamo assuefatti a contare i nostri feriti ed i nostri morti - i cosiddetti "incidenti sul lavoro". Ci siamo abituati ad ignorare che gli immigrati, nostri fratelli di classe, venivano uccisi. Siamo stanchi di vivere con l'ansia di assicurarci un salario, di pagare le tasse e di garantirci una pensione che adesso sembra un sogno lontano.
Così come lottiamo per non abbandonare le nostre vite nelle mani dei padroni e dei rappresentanti sindacali, ugualmente non abbandoneremo gli insorti arrestati nelle mani dello Stato e dei meccanismi giuridici!
LIBERAZIONE IMMEDIATA DEI DETENUTI!
RITIRO DELLE ACCUSE CONTRO I FERMATI!
AUTORGANIZZAZIONE DEI LAVORATORI!
SCIOPERO GENERALE!
L'ASSEMBLEA GENERALE DEI LAVORATORI NEGLI EDIFICI LIBERATI DELLA GSEE
Uno scenario identico, con occupazione ed AG aperte a tutti si ha alla Facoltà di Economia ed al Politecnico di Atene
Nella sera del 17 dicembre, una cinquantina di bonzi sindacali tentano di rioccupare i locali ma fuggono dinanzi ai rinforzi di studenti, per lo più anarchici, della facoltà di Economia, anch'essa occupata e trasformata in luogo di riunione e discussione aperta a tutti gli operai, che sono venuti alla riscossa degli occupanti cantando a testa alta "Solidarietà!".
Si moltiplicano gli appelli ad uno sciopero generale a tempo indeterminato a partire dal 18. E per non essere completamente scavalcati i sindacati sono costretti a proclamare uno sciopero di tre ore nel servizio pubblico per quel giorno.
Nella mattinata del 18, un altro giovane liceale di 16 anni che partecipava ad un sit-in vicino alla sua scuola in una periferia di Atene viene ferito da una pallottola. Lo stesso giorno diverse sedi radio e televisive vengono occupate dai manifestanti, in particolare a Tripoli, Chania e Salonicco.
Viene occupata la Camera di Commercio di Patrasso dove ci sono nuovi scontri con la polizia. Ed anche la gigantesca manifestazione di Atene viene violentemente repressa: per la prima volta le squadre anti-sommossa hanno usato nuovi tipi di armi: gas paralizzanti e granate assordanti. Un volantino contro il "terrore dello Stato" firmato "le ragazze in rivolta" viene diffuso a partire dalla facoltà di Economia.
Il movimento percepisce confusamente i propri limiti geografici e per questo accoglie con entusiasmo le manifestazioni di solidarietà internazionale, in particolare quelle di Berlino, Roma, Mosca, Monreale e New York diffondendone l'eco: "Questo sostegno è molto importante per noi"Gli occupanti del Politecnico chiamano a "una giornata internazionale di mobilitazione contro i morti di Stato" per il 20 dicembre.
Il 20 dicembre scoppiano scontri di strada violenti e la morsa si stringe, in particolare intorno al Politecnico assediato dalle forze di polizia che minacciano di darne l'assalto.
A questo punto il movimento mostra una forte maturità comprendendo il pericolo di una spirale repressiva ancora più forte.
Viene tolta l'occupazione del palazzo della Confederazione sindacale in seguito ad una decisione del comitato d'occupazione votata in Assemblea Generale.
Il comitato di occupazione del Politecnico di Atene pubblica il 22 dicembre un comunicato che dichiara in particolare: "Siamo per l'emancipazione, la dignità umana e la libertà. Non c'è bisogno di lanciarci gas lacrimogeni, piangiamo già abbastanza da soli".
Nell'AG a Scienze economiche, si decide di usare l'appello alla manifestazione del 24 contro la repressione poliziesca e in solidarietà con gli arrestati, come momento opportuno per evacuare lo stabile in massa e in condizioni di sicurezza: "sembra esserci un consenso sulla necessità di lasciare le università e di seminare lo spirito della rivolta nella società in generale".
Questo esempio sarà seguito nelle ore successive dalle AG delle altre università occupate, schivando la trappola della chiusura e di uno scontro diretto con la polizia, evitando così un bagno di sangue ed una repressione ancora più violenta.
Al tempo stesso le AS denunciano con chiarezza come atto di provocazione poliziesca il lancio di corpi incendiari contro un'auto della polizia rivendicato da una sedicente "Azione popolare".
Il comitato di occupazione del Politecnico evacua simbolicamente l'ultimo bastione di Atene il 24 dicembre a mezzanotte.
L'aver tolto le occupazioni non significa però la fine della lotta.
In alcuni quartieri gli abitanti si sono impossessati dell'impianto installato dalla municipalità per suonare i canti di Natale per leggere al microfono dei comunicati dove si chiede tra l'altro la rimessa in libertà immediata dei detenuti, il disarmo della polizia, lo scioglimento delle brigate anti-sommossa e l'abolizione delle leggi anti-terrorismo.
All'inizio di gennaio ci sono ancora manifestazioni in tutto il paese in solidarietà con i prigionieri.
Sono state arrestate 246 persone di cui 66 sono ancora in carcere preventivo. Ad Atene 50 immigrati sono stati arrestati nei primi tre giorni del sollevamento con delle pene fino a 18 mesi di carcere in dei processi senza interpreti e con la minaccia di espulsione.
Il 9 gennaio, giovani e polizia si sono di nuovo affrontati ad Atene all'inizio di un corteo di circa 3.000 insegnanti e studenti universitari e liceali. Imponenti forze anti-sommossa hanno caricato a più riprese per disperdere i manifestanti e facendo numerosi controlli dei documenti.
L'esplosione di collera e la rivolta delle giovani generazioni proletarie in Grecia non sono affatto un fenomeno isolato o particolare.
Esse sono in continuità diretta con la mobilitazione degli studenti in Francia contro il CPE (contratto primo impiego) del 2006 e contro la legge sulla riforma universitaria del 2007 dove gli studenti universitari ed i liceali si concepivano soprattutto come dei proletari in rivolta contro le loro future condizioni di sfruttamento.
L'insieme della borghesia dei principali paesi europei l'ha capito bene riconoscendo i suoi timori di contagio di esplosioni sociali simili di fronte al peggioramento della crisi. Per questo ad esempio in Francia la borghesia ha fatto marcia indietro sospendendo precipitosamente il suo programma di riforma delle scuole.
Del resto il carattere internazionale della contestazione e della combattività degli studenti si esprime già fortemente.
In Italia due mesi di mobilitazione degli studenti hanno dato vita a due manifestazioni di massa che si sono svolte il 25 ottobre ed il 14 novembre dietro lo slogan Noi la crisi non la paghiamo" contro il decreto Gelmini contestato per i tagli nell'Educazione nazionale e le sue conseguenze (non rinnovo contrattuale per 87.000 insegnanti precari e di 45.000 lavoratori ATA) così come di fronte alla riduzione dei fondi pubblici per l'università.
In Germania il 12 novembre, 120.000 liceali sono scesi nelle strade delle principali città del paese, con slogan come "Il capitalismo è la crisi" a Berlino o assediando il parlamento provinciale come ad Hannover.
In Spagna il 13 novembre centinaia di migliaia di studenti hanno manifestato in più di 70 città contro le nuove direttive a livello europeo (direttive di Bologna) della riforma dell'insegnamento superiore ed universitario che generalizza la privatizzazione delle facoltà e moltiplica gli stage nelle imprese.
In Irlanda 70.000 manifestanti sfilano a Dublino, vengono occupate scuole ed università con la partecipazione degli insegnanti.
Ma non solo in Europa succede questo.
Solo a gennaio a Vilnius in Lituania, a Riga in Lettonia ed a Sofia in Bulgaria ci sono stai movimenti di rivolta duramente repressi dalla polizia.
Nel Senegal, nel dicembre scorso, ci sono stati scontri violenti in manifestazioni contro la miseria e negli scontri ci sono stati due morti. E già prima, all'inizio di maggio, 4.000 studenti di Marrakech si erano rivoltai a seguito di una intossicazione alimentare che aveva colpito 22 di loro in un ristorante universitario. Dopo la repressione violenta del movimento, si sono moltiplicati gli arresti, le pene carcerarie molto pesanti e le torture. Molti di loro si sono riconosciuti nel movimento degli studenti in Grecia.
L'ampiezza di questi movimenti dei giovani di fronte alle stesse misure prese dai vari Stati non ha niente di strano. La riforma del sistema educativo portata avanti a livello europeo e non solo, è alla base di un condizionamento delle giovani generazioni operaie ad un avvenire senza sbocchi ed alla generalizzazione della precarietà e della disoccupazione.
Il rifiuto e la rivolta delle nuove generazioni di proletari scolarizzati si pone quindi come elemento della più generale ripresa della lotta di classe a livello internazionale.
E dappertutto, come in Grecia, con la precarietà, i licenziamenti, la disoccupazione, i salari da fame che impone la crisi mondiale, lo Stato capitalista non può che portare polizia e repressione.
Solo lo sviluppo internazionale della lotta e della solidarietà di classe tra operai, impiegati, liceali, universitari, disoccupati, precari, pensionati, di tutte le generazioni insieme, può aprire la via ad una prospettiva di avvenire per abolire questo sistema di sfruttamento.Questa ondata di licenziamenti e di lavori precari non è limitata alla Gran Bretagna ma sta travolgendo il mondo intero. Dagli Stati Uniti alla Cina, dall’Europa occidentale alla Russia, nessun lavoro salariato è sicuro; ed anche quando c’è lavoro, gli stipendi vengono tagliati e le condizioni di lavoro vengono peggiorate.
Ma gli operai a livello mondiale stanno mostrando la loro riluttanza ad accettare questi attacchi: ci sono scioperi e manifestazioni tutti i giorni in Cina; alla fine di gennaio due milioni e mezzo di lavoratori in Francia hanno scioperato contro la disoccupazione; gli studenti ed i giovani proletari in Italia, Francia, Germania e soprattutto in Grecia hanno dimostrato per le strade la loro rabbia contro una società che non offre loro alcun futuro. La rabbia degli operai nelle raffinerie non è specifica alla Gran Bretagna, ma fa parte di una risposta internazionale all’approfondimento del disastro economico.
Tuttavia, il principale slogan portato avanti negli scioperi del settore dell’energia “Il lavoro inglese ai lavoratori inglesi” può condurre i lavoratori soltanto in un vicolo cieco.
La minaccia all’occupazione degli operai dell’industria dell’energia o di qualsiasi altro settore non viene da un gruppo di operai italiani e portoghesi che vengono strumentalizzati da un rete di società inglesi, americane ed italiane per ridurre i costi della manodopera. Il capitalismo non se ne frega nulla della nazionalità di quelli che sfrutta. Si preoccupa soltanto di quanto profitto può estrarre da loro. Ma è più di felice quando gli operai sono messi l’uno contro l’altro, quando sono divisi in gruppi nazionali contrapposto. L’idea de “Il lavoro inglese ai lavoratori inglesi” si oppone direttamente alla capacità dei lavoratori di difendersi. Questo perché la loro sola maniera di difendere i loro interessi è quella di estendere le loro lotte il più ampiamente possibile e di portare tutti gli operai, indipendentemente dalla loro nazionalità, verso una resistenza comune contro i loro sfruttatori. Gli operai di Gran Bretagna non hanno nessun interesse in comune con i padroni e lo Stato inglesi ed invece hanno tutto in comune con i cosiddetti operai “stranieri”, che soto sotto la stessa minaccia di disoccupazione e di povertà perché la crisi del capitalismo è una crisi mondiale.
Le principali forze che soffiano sulla delusione nazionalista in questo conflitto sono stati i sindacati Unite e GMB, che hanno fatto proprio lo slogan di Gordon Brown - a sua volta scopiazzato dal Partito Nazionale Britannico - mettendolo al centro del movimento. Questa non è la prima volta che i sindacati hanno provato a portare avanti l’idea de “Il lavoro inglese ai lavoratori inglesi”. Lo scorso anno gli operai edili di un cantiere in costruzione di una centrale elettrica a Plymouth sono stati licenziati dall’imprenditore. Altri operai scesero in sciopero in solidarietà con i loro compagni. Ma il sindacato cercò di sostenere che gli operai venuti dalla Polonia stavano “rubando il lavoro agli Inglesi”. Questa posizione suonò però decisamente fuori luogo quando questi operai polacchi si unirono allo sciopero. A questo punto il sindacato, che aveva protestato così fragorosamente per gli operai inglesi licenziati, fece un accordo con i padroni per riportare gli scioperanti al lavoro e lasciando i lavoratori espulsi senza lavoro.
Anche i mezzi di comunicazione hanno giocato un grande ruolo nella diffusione del messaggio nazionalista. Normalmente questi sono piuttosto silenziosi quando i lavoratori danno luogo a delle azioni spontanee o quando ingaggiano degli scioperi di solidarietà illegali, ma stanno dando la massima pubblicità a questo conflitto, sottolineando continuamente il termine “British” a livello di cartelli e di slogan.
Sebbene non si possa negare il fatto che gli operai delle raffinerie e delle centrali elettriche abbiano abboccato in parte all’esca nazionalista, la realtà è molto più complessa, come si può vedere da questa dichiarazione di un operaio disoccupato che protesta fuori di una centrale elettrica gallese: “Sono stato licenziato come stivatore due settimane fa. Ho lavorato nei bacini del Barry e di Cardiff per 11 anni e sono venuto qui oggi sperando che possiamo scuotere il governo. Io penso che tutto il paese dovrebbe mettersi in sciopero poiché stiamo perdendo tutta l’industria britannica. Ma non ce l’ho con i lavoratori stranieri. Non li posso biasimare per il fatto che vanno dove c’è lavoro”. (The Guardian on-line 20.1.2009). Altri operai dell’industria hanno a loro volta fatto la constatazione che migliaia di lavoratori britannici del petrolio e delle costruzioni stanno attualmente lavorando all’estero.
Di fronte ad una crisi economica dalle proporzioni devastanti, non è sorprendente che i lavoratori abbiano difficoltà a trovare la strada più efficace per difendersi. Gli operai del settore energia hanno mostrato un reale desiderio di organizzarsi, di estendere la lotta e di manifestare a favore dei compagni di altri impianti e di altre parti del paese, ma lo slogan nazionalista che essi hanno adottato sta andando contro l’intera classe lavoratrice e contro la sua capacità di unirsi.
La classe dirigente non ha soluzione a questa crisi, una crisi di sovrapproduzione che è andata accelerandosi con il tempo. Essa non può più farla scomparire con ulteriori iniezioni di credito - la montagna di debito che ne risulta fa parte ovviamente del problema. La chiusura di ogni paese dietro le barriere protezioniste - che è la logica de “Il lavoro inglese ai lavoratori inglesi” – l’abbiamo già vista negli anni ‘30 ed è stata una maniera per acuire la concorrenza fra gli Stati nazionali e per trascinare gli operai verso la guerra.
La classe operaia non ha soluzioni immediate o locali alla catastrofe economica. Ma può difendersi contro i tentativi del capitalismo di farle pagare la crisi. Ed unendosi nell’autodifesa, superando tutte le divisioni e i confini, può cominciare a scoprire che ha una risposta storica al crollo del capitalismo: una rivoluzione internazionale ed una nuova società a livello mondiale basata sulla solidarietà umana e non sul profitto capitalista.
Corrente Comunista Internazionale 31.1.09
Una serie di messaggi pubblicati stamattina su Indymedia hanno dato la notizia secondo cui "La polizia ha occupato tutto lo stabile compreso l'archivio Primo Moroni e la libreria e non è possibile entrare. Hanno blindato il quartiere con tutte le specie di polizia e si sta creando un presidio con tutte le compagne ed i compagni disponibili. Si ricorda a tutti che anche il Torricelli/Circolo dei malfattori in via Torricelli è sotto sgombero e che si prevede possa succedere qualcosa entro i primi giorni di febbraio."
Quello a cui assistiamo è dunque l'agire del pugno forte dello Stato che cerca di ridurre al silenzio le voci di dissenso che esistono nella realtà sociale. Ma noi crediamo che ci sia in più un atteggiamento volutamente provocatorio tendente appunto ad attirare i compagni nella trappola della violenza per la violenza. L'ormai famosa intervista a Cossiga di cui abbiamo già riprodotto degli ampi estratti in un precedente articolo sul movimento degli studenti[1] non poteva essere più eloquente:
"Maroni dovrebbe fare quel che feci io quand'ero ministro dell'Interno. Lasciarli fare. Ritirare le forze di polizia dalle strade e dalle università, infiltrare il movimento con agenti provocatori pronti a tutto, e lasciare che per una decina di giorni i manifestanti devastino i negozi, diano fuoco alle macchine e mettano a ferro e fuoco le città. Dopo di che, forti del consenso popolare, il suono delle sirene delle ambulanze dovrà sovrastare quello delle auto di polizia e carabinieri. Nel senso che le forze dell'ordine dovrebbero massacrare i manifestanti senza pietà e mandarli tutti in ospedale. Non arrestarli, che tanto poi i magistrati li rimetterebbero subito in libertà, ma picchiarli a sangue e picchiare a sangue anche quei docenti che li fomentano".[2]
Un tentativo simile era stato già compiuto lo scorso autunno quando le bande neofasciste di Casa Pound, del Blocco Studentesco e di altri gruppi messi su allo scopo avevano cercato invano di creare la provocazione e di innescare la violenza nel movimento degli studenti, in modo da deviarlo dal suo cammino. Vedi in particolare l'episodio di piazza Navona documentato dal video di YouTube di cui diamo il collegamento web in nota.[3] Ma questo tentativo è risultato del tutto privo di successo nella misura in cui, se gli studenti si sono dichiarati nelle loro manifestazioni antifascisti, lo hanno fatto perché hanno giustamente riconosciuto il carattere provocatorio di questi gruppetti, rifiutando tuttavia di intraprendere una campagna di scontri con questi.
Oggi il tentativo si ripete in un momento diverso e in un contesto diverso. In un momento diverso perché la dinamica del movimento degli studenti si è ridotta e c'è minore mobilitazione anche per la fase di esami cui gli studenti - almeno quelli universitari - devono sottoporsi. E in un contesto diverso perché si va a stuzzicare di proposito proprio quel settore dei Centri sociali dove le tentazioni a ripagare la violenza dello Stato con la stessa moneta, usata tutta e subito, è più forte. Non è un caso che nei vari post di Indymedia o di altri blog siano affiorate in maniera piuttosto esplicita anche suggerimenti di questo tipo.
Noi pensiamo che la violenza sia uno strumento necessario e importante nella lotta di classe, ma che resti appunto uno strumento, mentre l'obiettivo primo che si deve porre un movimento di lotta è comprendere il perché della sua lotta e indirizzare questa lotta in una direzione coerente con le sue prospettive. In questo senso riteniamo che l'azione della polizia svolto stamattina sia una vera e propria trappola da cui i compagni devono guardarsi e su cui fare la massima chiarezza per poter efficacemente proseguire sul loro cammino.
L'altro elemento che pure va preso in considerazione per capire come mai proprio adesso lo Stato si ricordi che esiste un centro occupato ormai da una vita è che, in una fase di difficoltà politica da parte della borghesia derivante sia dalla profondità della crisi che il capitalismo sta attraversando che dalla ripresa della lotta di classe a livello internazionale, occorre crearsi degli alibi per poter attaccare tutte le voci del dissenso, e particolarmente quelle di sinistra. In tal senso ancora una volta è Cossiga ad anticipare il motivo che seguirà successivamente la borghesia, quello che tende a connotare come terrorista tutto quello che si muove in sento antitetico al sistema attuale delle cose:
"Non esagero, credo davvero che il terrorismo tornerà a insanguinare le strade di questo Paese. E non vorrei che ci si dimenticasse che le Brigate rosse non sono nate nelle fabbriche ma nelle università. E che gli slogan che usavano li avevano usati prima di loro il Movimento studentesco e la sinistra sindacale". E` dunque possibile che la storia si ripeta? "Non è possibile, è probabile. Per questo dico: non dimentichiamo che le Br nacquero perché il fuoco non fu spento per tempo".
Anche su questo ovviamente c'è da riflettere e, sebbene un personaggio come Cossiga, grande protettore di servizi segreti e delle loro malefatte, artefice di Gladio e al centro dei più inconfessabili segreti di Stato, sia veramente l'ultima persona che può permettersi di avanzare tali accuse, ciononostante bisogna capire che quello che dice Cossiga non è il delirio di uno sprovveduto ma è semplicemente il programma politico della borghesia nei confronti di una classe operaia non più disposta ad accettare di subire supinamente le restrizioni, gli abusi e le violenze alle sue condizioni di vita e di lavoro che vanno aumentando sempre di più.
Stante la situazione naturalmente la Riunione Pubblica indetta dalla nostra organizzazione per domani pomeriggio alla Calusca non potrà tenersi e viene rimandata a data da destinarsi. Ciononostante riteniamo di mantenere l'appuntamento con i compagni che avevano intenzione di partecipare alla nostra riunione dando loro appuntamento alla stessa ora, le 17,00 di pomeriggio, fuori della libreria Calusca o dove il movimento deciderà di riunirsi (vedi Indymedia Lombardia), per solidarizzare con gli altri compagni presenti e per discutere assieme i motivi di quello che è accaduto e come reagire.
Corrente Comunista Internazionale 22 gennaio 2009
[1] "Noi la crisi non la paghiamo", pubblicato sul nostro sito web all'indirizzo https://it.internationalism.org/node/662 [26].
[2] Intervista di Andrea Cangini a Cossiga di giovedì 23 ottobre 2008: "Bisogna fermarli, anche il terrorismo partì dagli atenei" pubblicata su Quotidiano nazionale. L'intervista integrale può essere letta su rassegna.governo.it/rs_pdf/pdf/JMS/JMSRA.pdf.
[3] https://www.youtube.com/watch?v=aOLJKz1577M&eurl=https://politicaesocieta.blogosfere.it/2008/10/cossiga-la-strategia-di-piazza-navona-blocco-studentesco-e-collettivi-ecco-chi-v&feature=player_embedded [27].
Tra il 1998 ed il 2003, la RDC, con l’aiuto dell’Angola, della Namibia e dello Zimbabwe, ha respinto gli attacchi del Ruanda e dell’Uganda, e le ostilità sono continuate da allora, in particolare nel Kivu. Queste hanno raggiunto un tale livello da costringere i gruppi armati ad un accordo di pace, firmato a gennaio dello scorso anno, incluso un cessate il fuoco completo.
Ma non è durato a lungo: nuovi combattimenti sono scoppiati in agosto provocati dall’attacco di alcune città e campi (sia di militari che di rifugiati) da parte del Congresso nazionale della difesa del popolo di Laurent Nkunda, una milizia forte di 5500 uomini. Gli spostamenti di popolazioni si sono allora aggravati. A causa dei due precedenti anni di conflitto vi erano già 850.000 persone che si erano spostate. Dal mese di agosto, altre 250.000 sono scappate dai luoghi di combattimento, e per molti di loro era la seconda o la terza volta. In tutta la RDC ci sono 1,5 milioni di profughi e più di 300.000 che sono scappati dal paese.
Con Goma, capitale del Nord Kivu, assediata dalle forze di Nkunda, ma anche parzialmente terrorizzata dai soldati congolesi che ritirandosi devastano e saccheggiano al loro passaggio, esistono seri rischi di una ripresa della guerra totale. Dal 1998, si contano già 5,4 milioni di morti, per la guerra e le violenze a questa legate, per la carestia e le malattie. Il direttore del Comitato internazionale di salvataggio considera che “Il conflitto in Congo è quello più sanguinoso al mondo degli ultimi 60 anni” (Reuters).
Per mascherare la responsabilità criminale delle grandi potenze, i media borghesi presentano sistematicamente il sanguinoso conflitto come una “guerra etnica”, (cioè una guerra tra “selvaggi”). Di fatto,è vero che esistono degli scontri di vendette tra etnie. Laurent Nkuanda grida forte che le sue forze armate si trovano al Nord ed al Sud Kivu perché la RDC avrebbe dovuto portare differenti frazioni hutu di fronte alla giustizia. Il ruolo di gruppi come le Forze democratiche di liberazione del Ruanda, che si è espresso con il genocidio di 800.000 Tutsi, è lo stesso di quello delle forze di Nkuanda, che si danno al saccheggio sistematico, violentano ed uccidono mentre attraversano il paese. Non è la prima volta che l’appello “alla difesa del popolo” serve in realtà a terrorizzare le popolazioni. In Ruanda e nella RDC, l’incitamento all’odio etnico ed al desiderio di vendetta continua a contaminare la situazione.
In realtà, non sono le popolazioni di questa regione - miserabili, super sfruttate a ed oppresse dai loro governanti e dalle bande armate - a farsi la guerra, ma sono quelli che le strumentalizzano, e cioè le grandi potenze imperialiste, che sostengono i regimi africani ed i loro oppositori locali. Sono le grandi potenze che manovrano, apertamente o di nascosto, i regimi ed i loro oppositori criminali che continuano ancora a massacrare così fortemente le popolazioni.
Vogliamo sottolineare in particolare il cinismo criminale delle autorità francesi. Facendo eco al suo presidente che spinge direttamente l’Angola ad intervenire militarmente in favore del regime congolese (sostenuto da Parigi), Bernard Kouchner, il suo ministro degli affari esteri si è ancora una volta distinto comportandosi da cinico politico guerrafondaio. Infatti, all’indomani della ripresa della carneficina del 29 ottobre, è stato il primo a chiedere pubblicamente l’invio di rinforzi militari (1500 uomini) nel Kivu con la motivazione che “è un massacro come probabilmente non si è mai visto in Africa”.
La RDC è un territorio 90 volte più grande del Ruanda, con una popolazione 6 volte maggiore, ma ha, tuttavia, una forza militare relativamente modesta, anche con l’aiuto dei 17.000 uomini dell’ONU. Il ritiro veloce del suo esercito davanti ad una nuova offensiva era scontato. Lo stato di questo esercito decomposto riflette le condizioni della classe dominante che non può controllare le sue frontiere o coloro che le attraversano. La realtà di dozzine di gruppi pesantemente armati, la maggior parte dei quali sostenuti da paesi come il Ruanda e l’Uganda, alcuni più determinati ad agire sui conflitti etnici, altri che cercano piuttosto di profittare dello sfruttamento delle risorse naturali, è un’espressione del processo di gangsterizzazione della società capitalista. In un mondo dominato dal “ciascuno per sé”, il governo della RDC non può avere la situazione in mano, ma le bande armate non possono avere altra ambizione che di diventare delle bande ancora più grandi, se vogliono sopravvivere.
Sotto l’egida dell’ONU dal 1994 (data del “genocidio ruandese”), le guerre e gli “accordi di pace” si succedono intorno ai Grandi Laghi, malgrado le risoluzioni e gli interventi di questo organismo. È chiaro che il suo ruolo principale consiste nel mascherare la vera ragione dell’intervento delle grandi potenze in questa zona ed a mistificare le coscienze scandalizzate dai loro crimini. La presenza delle forze ONU nella RDC si riassume attraverso: “(...) la più ambiziosa missione di mantenimento della pace dell'ONU,che ha inviato 17.000 uomini nel paese. Del resto, i risultati ottenuti da questa missione sono forse ancora più inquietanti. Non solo i caschi blu si sono mostrati incapaci di bloccare l’avanzata ribelle, ma non sono riusciti neanche a proteggere le popolazioni civili, che in realtà è proprio il loro mandato”[1].
L’ONU non è solamente inutile, esso è semplicemente criminale. In realtà, i 17.000 uomini in zona non stanno lì per “proteggere” le popolazioni, come preteso nelle dichiarazioni di questo “organismo”, ma per coprire “legalmente” i crimini dei differenti promotori che si nascondono dietro “l’aiuto umanitario” sotto il fallace pretesto che i caschi blu non hanno mandato per affrontare i gruppi armati. Fu questo il caso alla vigilia delle mostruose carneficine ruandesi, quando gli uomini dell'ONU - con alla loro testa i Caschi blu belgi - furono evacuati dai loro governi appena comparvero i temibili “machete”. Ed anche recentemente, nel 2004, è sotto lo sguardo dei Caschi blu che è stato permesso il massacro di popolazioni durante i combattimenti per il controllo della città di Bukavu.
Da questo si capisce meglio perché numerosi abitanti rigettano apertamente i loro “falsi protettori” dell’ONU lanciando al loro passaggio pietre ed altri proiettili per protestare contro la loro passività criminale.
In fin dei conti tuttavia, le popolazioni della RDC - e con esse la classe operaia - non sono purtroppo giunte alla fine della loro pena. Infatti, sebbene totalmente smembrata ed in totale decomposizione dopo 12 anni di distruzioni massicce, la RDC non smetterà tuttavia d’attirare più che mai i diversi avvoltoi assetati di sangue. Da un lato, perché è piena di ogni sorta di materie prime particolarmente ricercate sul mercato mondiale[2], dall’altro, perché essa costituisce di fatto un punto strategico per il suo immenso territorio, 4 volte la Francia, il Congo Kinshasa, e con esso tutta la regione, resterà il bersaglio privilegiato di tutte le potenze imperialiste che se lo contendono con le unghie e con i denti. Il capitalismo non è solamente in crisi economica: è anche il campo di morte che corrode la faccia del pianeta.
Caramina (21 novembre)
L’aggravamento della crisi economica mondiale rivela sempre più il fallimento di un sistema che non ha più alcun avvenire da offrire ai figli della classe operaia. Ma questi movimenti sociali non sono soltanto dei movimenti della gioventù ma si integrano nelle lotte operaie che si sviluppano a livello mondiale. La dinamica attuale della lotta di classe internazionale, marcata dall’entrata delle giovani generazioni sulla scena della storia, conferma che l’avvenire si trova sicuramente nelle mani della classe operaia. Di fronte alla disoccupazione, alla precarietà, alla miseria e allo sfruttamento, il vecchio slogan del movimento operaio “Proletari di tutti i paesi, unitevi” è più che mai attuale.
Invitiamo i nostri lettori a prendere visione dei nostri contributi sull’argomento (*) e a partecipare alla discussione che si svilupperà su questi temi in occasione delle nostre prossime riunioni pubbliche che avranno luogo a:
Per maggiori informazioni, fare riferimento al riquadro “Riunioni Pubbliche” che si trova qui a destra.
(*) La classe operaia sta già rispondendo alla crisi capitalista [29], Solidarietà con il movimento degli studenti in Grecia! [30], Grecia: una dichiarazione di lavoratori in lotta [31], La lotta degli studenti, in Italia come in Europa, una tappa importante della lotta di classe [32], Noi la crisi non la paghiamo [26]. Vedi anche gli altri articoli sulla pagina in lingua francese.La borghesia e la stampa ai suoi ordini si preoccupano del "ritorno del pensiero marxista" e de "l'attualità di Marx e del marxismo" meno di venti anni dopo aver proclamato trionfalmente "la morte del marxismo e del comunismo" e aver cercato di seppellirli in pompa magna dopo il crollo del blocco dell'Est e dei regimi stalinisti. Che essi tremino di nuovo non è per niente strano nella misura in cui, di fronte allo scatenarsi della crisi e agli orrori mostruosi perpetrati da questo sistema putrescente, la ripresa internazionale delle lotte operaie spinge i proletari verso la presa di coscienza che esiste una prospettiva per fare uscire l'umanità dall'impasse in cui l'ha condotta il capitalismo.
Alcuni sputano il loro veleno proclamando apertamente il loro terrore ancestrale e la loro fobia verso Marx ed i rivoluzionari e continuando a coprirli di fango e delle peggiori calunnie. Rimettono in giro la più grande menzogna della storia propagata lungo tutto il XX secolo: l'identificazione di Marx, del marxismo, del comunismo e della classe operaia con una delle forme peggiori della contro-rivoluzione, il terrore staliniano. Questi serpenti a sonagli continuano ad agitare freneticamente le loro appendici ideologiche e si commuovono per il "ritorno pericoloso dell'ideologia totalitaria", corollario, secondo loro, degli "eccessi del liberalismo" e dell'aumento vistoso delle diseguaglianze sociali. Si tratta in realtà della stessa paura per la rivoluzione proletaria che anima oggi tutti quelli che si mettono a incensare Marx per esorcizzarlo cercando di recuperarlo. Così, si vedono sempre più giornalisti o universitari che non esitano a lodarlo per farne il progenitore ed il padre profetico tutelare degli "altermondialisti", o ancora il precursore degli ecologisti. Tutto ciò viene ad illustrare ancora una volta la messa in guardia che Lenin faceva con lucidità:
"Accade oggi alla dottrina di Marx quel che è spesso accaduto nella storia alle dottrine dei pensatori rivoluzionari e dei capi delle classi oppresse in lotta per la loro liberazione. Le classi dominanti hanno sempre ricompensato i grandi rivoluzionari, durante la loro vita, con incessanti persecuzioni; la loro dottrina è stata sempre accolta con il più selvaggio furore, con l'odio più accanito e con le più impudenti campagne di menzogne e di diffamazioni. Ma, dopo morti, si cerca di trasformarli in icone inoffensive, di canonizzarli, per così dire, di cingere di una certa aureola di gloria il loro nome, a "consolazione" e mistificazione delle classi oppresse, mentre si svuota del contenuto la loro dottrina rivoluzionaria, se ne smussa la punta, la si avvilisce." (Lenin, Stato e Rivoluzione, cap. 1).
Questa citazione quasi profetica si è rivelata con tutta la sua pertinenza nella menzogna permanente che tutti i regimi staliniani del pianeta che hanno imperversato per cinquanta anni hanno utilizzato per giustificare lo sfruttamento feroce dei proletari intrecciando elogi ai grandi rivoluzionari. Servendosi di Marx e di Engels, mummificandoli come Stalin aveva fatto con Lenin, costruendo loro delle statue, hanno teso sistematicamente a smussare, a svuotare o a deformare il contenuto rivoluzionario delle loro idee e delle loro azioni, con l'aiuto attivo delle borghesie "democratiche" che veniva in soccorso per fare una pubblicità aperta e massima dell'assolutismo e della repressione "marxiste" dei paesi stalinisti.
E se la borghesia cerca ancora oggi di fare di Marx una "icona inoffensiva" è proprio perché quest'ultimo era un autentico rivoluzionario che ha sviluppato nel corso della sua vita la lotta la più accanita contro il capitalismo al punto che la sua opera, ed il suo metodo, si mostrano di una tale potenza rivoluzionaria da affermarsi ancora oggi come l'arma la più efficace per la lotta dei proletari in vista del rovesciamento del capitalismo. Per tutta la borghesia, più che mai, come lo proclamava già la prima frase del Manifesto, "Uno spettro si aggira per l'Europa (ed oggi per il mondo intero): lo spettro del comunismo."
W (20 settembre 2008)
[1] Vedi Révolution Internationale n° 366, mars 2006 : "A propos du livre d'Attali : Karl Marx était-il un démocrate ou un révolutionnaire? [33]"
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[3] https://it.internationalism.org/en/tag/4/70/francia
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[17] mailto:giorgioalbano@ymail.com
[18] http://www.darwinisme.org
[19] https://it.internationalism.org/content/scioperi-nelle-raffinerie-di-petrolio-e-nelle-centrali-elettriche-inglesi-la-lotta-di-classe
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[23] https://it.internationalism.org/en/tag/3/49/imperialismo
[24] https://it.internationalism.org/en/tag/4/79/spagna
[25] http://www.ateneinrivolta.org/content/lettera-di-militari-greci-che-si-rifiutano-di-reprimere-la-lotta-di-studenti-e-lavoratori
[26] https://it.internationalism.org/content/noi-la-crisi-non-la-paghiamo
[27] https://www.youtube.com/watch?v=aOLJKz1577M&eurl=https://politicaesocieta.blogosfere.it/2008/10/cossiga-la-strategia-di-piazza-navona-blocco-studentesco-e-collettivi-ecco-chi-v&feature=player_embedded
[28] https://it.internationalism.org/en/tag/4/55/africa
[29] https://it.internationalism.org/content/la-classe-operaia-sta-gia-rispondendo-alla-crisi-capitalista
[30] https://it.internationalism.org/content/solidarieta-con-il-movimento-degli-studenti-grecia
[31] https://it.internationalism.org/content/grecia-una-dichiarazione-di-lavoratori-lotta
[32] https://it.internationalism.org/content/la-lotta-degli-studenti-italia-come-europa-una-tappa-importante-della-lotta-di-classe
[33] https://fr.internationalism.org/ri366/attali.htm
[34] https://it.internationalism.org/en/tag/2/24/marxismo-la-teoria-della-rivoluzione