L'anarchia ed il caos che caretterizzano oggi i rapporti tra le frazioni della borghesia, in particolare a livello internazionale, non sono solo il risultato del terremoto, costituito dal crollo del blocco dell'Est. Questo disfacimento ancora in corso, come mostrano i recenti eventi nella regione caucasica, non è - esso stesso - che una manifestazione di una realtà più profonda, la stessa realtà che spiega la guerra nella ex-Yugoslavia o i 900.000 ruandesi che marciscono nei campi profughi nello Zaire: la decadenza avanzata del capitalismo, la sua decomposizione come sistema storico.
Quando un sistema sociale entra nella sua fase di decadenza, cioè quando le leggi, i rapporti sociali di produzione che lo caratterizzano sono divenuti obsoleti, inadatti alle possibilità e alle necessità della società, la stessa base dei profitti e dei privilegi della classe dominante si riduce e si indebolisce a sua volta. La coesione della classe dominante tende allora a disgregarsi in una infinità di conflitti di interessi in ogni senso. Come animali selvatici sempre più affamati, che non possono sopravvivere che a spese degli altri, le frazioni sempre più numerose della classe al potere si dilaniano tra loro, distruggendo la civilizzazione che avevano contribuito a costruire. Come le molteplici armate della Roma decadente facevano cadere in rovina con i loro continui conflitti i resti dell'Impero in decomposizione, come i signori feudali del basso Medioevo distruggevano degli interi raccolti con i loro conflitti locali permanenti, così le potenze imperialiste del nostro secolo hanno fatto patire all'umanità le peggiori distruzioni della sua storia. I mezzi e le dimensioni del dramma sono cambiati. Le catapulte fatte di legno e di pelle di animali hanno lasciato il posto ai missili autoguidati e il campo di battaglia ha preso le dimensioni dell'intero pianeta. Ma la natura del fenomeno è la stessa. La società si autodistrugge in un caos indescrivibile, prigioniera di rapporti economici, sociali divenuti troppo stretti. Oggi, tuttavia, è l'esistenza stessa della umanità che è in gioco.
Le forze della disgregazione all'opera
Per misurare la dimensione del caos dominante oggi al livello dei rapporti internazionali, si possono distinguere due aspetti. Vi è da una parte un caos generale, "ordinario", onnipresente ed in piena espansione; dall'altra, all'interno di questo, vi sono degli antagonismi più importanti, espressione della tendenza alla ricostituzione di "blocchi" o di alleanze e che segnano delle linee di forza più determinanti: questo è il caso dell'antagonismo che oppone gli Stati Uniti, vecchio capo del blocco, alla Germania riunificata, che si candida al ruolo di capo di un nuovo blocco.
Il caos ordinario
Più i governi organizzano delle riunioni internazionali, dei summit tra responsabili delle grandi potenze, e più scoppiano in maniera aperta le divisioni. Le organizzazioni internazionali, sia che si tratti dell'ONU, della NATO, della CSCE, della UE, etc. appaiono sempre più come mascherate grottesche e impotenti, in cui solo il cinismo prevale sull'ipocrisia. I massmedia si compiacciono a piagnucolare sulle "incomprensioni" tra i paesi membri, sulle "divergenze di metodo" che paralizzano questi templi del "accordo delle nazioni". Ma la realtà dei rapporti internazionali è quella del regno di "tutti contro tutti". Ogni paese è costantemente combattuto tra la necessità di difendere i suoi interessi contro quelli degli altri e, simultaneamente, la necessità di alleanze per poter sopravvivere in una guerra sempre più irrazionale e spietata. I milioni di vittime che questi antagonismi,ogni anno, provocano ai quattro angoli del pianeta non fermano il gioco al massacro al quale si dedicano i capitali nazionali e, in primo luogo, le grandi potenze.
Gli ultimi mesi del 1994 sono stati ricchi di nuove manifestazioni di questo caos frenetico in cui le alleanze si fanno e si disfano in una instabilità sempre maggiore.
Il segno più tangibile che rivela oggi l'importanza e la profondità di questa instabilità si trova nella evoluzione attuale dei rapporti tra gli Stati Uniti e la Gran Bretagna. Quello che sembrava un riferimento immutabile nei rapporti internazionali, conosce i suoi momenti più difficli dal 1956, all'epoca della crisi del canale di Suez. The Economist, nel suo supplemento annuale, parla di "una amicizia che sfuma". Un rapporto del Pentagono, nello stesso senso, accusa la Francia di favorire la guerra in Jugoslavia per inasprire i rapporti tra gli Stati Uniti e la Gran Bretagna.
In un summit ordinario a Chartes, nell'ottobre 1994, la Gran Bretagna e la Francia decidono la realizzazione di un "gruppo di forze aeree combinate" e di una iniziativa comune volte ad incoraggiare la creazione di una forza interafricana di intervento che agirebbe nel quadro del "mantenimento della pace" nell' Africa, anglofona o francofona. Gli inglesi non considerano più l'Unione Europea come "un sottomarino dei Francesi in seno alla NATO" ed i giornalisti insistono sulla forza che rappresenta l'alleanza delle due sole potenze nucleari d'Europa.
Così, oggi, la Gran Bretagna non fa che allontanarsi dagli Stati Uniti; essa cerca di adottare, per difendere i suoi propri interessi, delle politiche che sono apertamente in contrasto con questi, come si può constatare in Africa e soprattutto nei Balcani.
L'alleanza americano-russa, altro pilastro della costruzione del "nuovo ordine mondiale", è stata messa anch'essa a dura prova. La questione dell'allargamento della NATO verso i paesi che facevano prima parte del blocco dell'URSS (ciò che la Russia chiame il suo "estero vicino"), in particolare la Polonia e la Repubblica ceca, diventa giorno dopo giorno il pomo di discordia maggiore tra le due potenze. "Nessun paese terzo può dettare le condizioni di allargamento della NATO", ha risposto seccamente un funzionario americano alle proteste della Russia.
L'asse franco-tedesco, colonna vertebrale dell'Unione europea, si vede a sua volta messo in discussione : "Noi siamo ad anni luce dalla posizione tedesca", dichiarava un funzionario francese per riassumere l'opposizione francese ad ogni "comunitarizzazione" della politica estera e della sicurezza della UE. La Francia teme che l'Europa diventi semplicemente un "super-Stato tedesco". D'altronde la Germania paventa fortemente un'alleanza franco-britannica nel 1995 contro la visione di una Europa federale alla tedesca e che non avrebbe altro obiettivo che controbilanciare le aspirazioni egemoniche di Bonn.
Oggi la coesione dei grandi blocchi della guerra fredda appare come un lontano ricordo di unità e di ordine, tanto il "concerto delle nazioni" è divenuto una cacofonia barbara. Una cacofonia che ha il volto delle 500.000 vittime del genocidio ruandese, dei milioni di cadaveri che, dalla Cambogia all'Angola, dal Messico all'Afghanistan, insanguinano il pianeta.
All'interno di questo processo di disgregazione, l'implosione dell'ex-URSS non è ancora completata. La federazione della Russia, che veniva considerata l'ultima spiaggia contro le forze centrifughe che avevano fatto scoppiare il vecchio impero, si trova confrontato a queste stesse forze al suo interno, nelle piccola repubblica di Abkhazia, nella repubblica del Tataristan ... in totale in più di una dozzina di regioni. L'intervento massiccio dell'esercito russo in Cecenia (1) traduce la volontà di una parte della classe dominante russa di mettere un freno a queste tendenze che continuano a disgregare ciò che era, appena cinque anni fa, la potenza imperialista capace di rivaleggiare con gli Stati Uniti.
Ma il grado raggiunto dalla decomposizione nella ex-URSS è tale che questa operazione di "ristabilimento dell'ordine" è sul punto di trasformarsi in una nuova fonte di caos interno.
Sul posto, la resistenza all'intervento russo è stata più violenta e "popolare" del previsto. E' in una atmosfera di isterismo nazionalista e anti-russo generalizzato nella popolazione che il presidente della Cecenia, Dudaiev, ha potuto esclamare, al momento dell'inizio dell'avanzata dell'esercito russo: "Il suolo deve bruciare sotto i loro piedi! E' una guerra a morte!" . Il presidente della repubblica russa di Ingoucenia, altra repubblica caucasica, vicina alla Cecenia, ha minacciato l' estensione del conflitto proclamando: "La guerra del Caucaso é cominciata!".
Fin dai primi scontri, i russi hanno incontrato una viva resistenza che ha inflitto loro rapidamente delle serie perdite in uomini e materiale.
Ma soprattutto, questa operazione ha provocato una nuova frattura nella classe dirigente russa, già molto divisa. Sul terreno, fin dall'inizio, uno dei generali russi (Ivan Babitchev) rifiuta di avanzare sulla capitale Grozny e fraternizza con la popolazione cecena : "Non è colpa nostra se siamo qui. Questa operazione è in contrasto con la Costituzione. E' vietato utilizzare l'esercito contro il popolo." Nel momento in cui scriviamo, molti altri generali si sarebbero localmente collegati a questo movimento di contestazione.
A Mosca, le divisioni sono altrettanto drammatiche. "Oggi in Russia vi sono due conflitti per la Cecenia, uno nel Caucaso e un altro, più pericoloso, a Mosca.", dichiarava all'inizio dell'operazione Emile Paine, uno dei consiglieri di Boris Eltsin. In effetti, contro l'intervento si proclamano sia dei militari "prestigiosi" che il vecchio primo ministro di Eltsin, Egor Gaidar o anche Gorbaciov...
Per il presidente Clinton, la crisi in Cecenia è un "problema interno" e per Willy Claes, Segretario Generale della NATO, "un affare interno". "Non è negli interessi (degli Stati Uniti) nè certo in quelli della Russia avere una Russia in disgregazione" ha dichiarato Warren Christopher alla televisione, il 14 dicembre, mostrando l'inquietudine profonda della borghesia americana rispetto ai problemi del suo alleato.
Ma il problema non è così "interno" come lo si vuol far credere. Da una parte perchè la Cecenia gode di una certa simpatia da parte delle forze straniere, in particolare della vicina Turchia e, probabilmente, della Germania. D'altra parte perchè questa situazione non è che una manifestazione spettacolare di un processo mondiale.
Questo imputridimento drammatico della situazione in Russia non è solo, come pretendono i discorsi "liberali", la conseguenza dei danni fatti dallo stalinismo (mistificatoriamente identificato con il comunismo); non è una specificità dell'Europa orientale. La Russia non è che uno dei luoghi in cui la decomposizione generalizzata del capitalismo mondiale è più avanzata.
Le tendenze alla ricostituzione dei blocchi
Un insieme di briganti imperialisti non può esistere senza la tendenza alla costituzione di bande e di capi banda. I numerosi conflitti che oppongono le nazioni capitaliste tendono inevitabilmente a strutturarsi secondo gli antagonismi che oppongono i più potenti. E tra questi antagonismi, quello che oppone i due principali boss influenza tutti gli altri: l'opposizione tra gli Stati Uniti e la Germania riunificata, tra il vecchio capo del blocco occidentale e il solo serio pretendente a costituire la testa di un nuovo blocco. Questo conflitto si manifesta nella vita politica di numerosi paesi.
Il summit dell'Organizzazione della Conferenza Islamica, per esempio, tenuto a Casablanca (dicembre 1994) non ha potuto evitare di diventare un attacco dei paesi islamici alleati degli Stati Uniti contro quelli che si riavvicinano all'Europa. Fin dall'inizio lo schieramento condotto da Hassan II del Marocco (punta di lancia riconosciuta della diplomazia americana) e Moubarak d'Egitto (il paese nel mondo che, dopo Israele, riceve il più grosso aiuto americano), ha polemizzato con "certi Stati islamici" che appoggiano i terroristi, che "hanno venduto la loro anima al demonio", cioè all'Iran e al Sudan, i cui legami con le potenze europee sono noti.
In Messico, nello Stato del Chiapas, dove si trovano gli Zapatisti, vi sono due governatori: uno del PRI, il partito al governo in Messico dal 1929, che ha sempre saputo agire in stretta alleanza con il grande fratello "yankee" pur servendosi di un linguaggio "anti-imperialista"; l'altro, Avendano, il governatore alleato degli Zapatisti, che rifiuta di riconoscere l'elezione del candidato del PRI a causa delle frodi, e controlla un terzo dei comuni della provincia. Quest'ultimo dichiara che solo l'Europa può dargli l'appoggio necessario per trionfare.
Nella stessa Europa, la questione della scelta tra l'opzione americana e l'opzione tedesco-europea lacera le classi dominanti. In Gran Bretagna, in seno al partito al potere, da tempo permane un braccio di ferro che si è recentemente concretizzato nel fatto che gli "euroscettici" hanno messo praticamente Major in minoranza alla camera dei Comuni sulla questione dei contributi da versare all'Unione Europea. Major sta pensando alla possibilità di un referendum sulla questione.
In Italia, paese per molto tempo definito "la portaaerei degli Stati Uniti in Europa", ma anche uno dei pilastri della Unione Europea, la guerra tra i due campi scuote la classe politica, anche se la vera posta in gioco resta per lo più mascherata. Carlo de Benedetti non ha tuttavia avuto timore di attaccare il governo di Berlusconi (pro-americano) in termini espliciti: "l'Italia si allontana dall'Europa ed entra in una spirale distruttiva". E' questa opposizione di fondo che è la prima ragione dell'instabilità governativa in cui è tuffato questo paese.
In Francia, la classe politica, in piena campagna elettorale presidenziale, vive tante profonde divisioni in questo canpo, in particolare tra i partiti della maggioranza governativa. Ed è a colpo di scandali e di arresti di uomini politici che si regolano i contrasti.
Poichè non hanno questo tipo di scelta da fare, solo le borghesie tedesca e americana sembrano un pochino coerenti per quel che riguarda la loro politica internazionale, anche se non senza difficoltà.
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Dopo il crollo dell'URSS, la Germania ha fatto grossi passi in avanti sul piano internazionale: oltre alla sua riunificazione, essa ha sviluppato con sicurezza la sua zona di influenza sui paesi dell'Europa centrale, vecchi membri del blocco dell'Est; ha intensificato i suoi legami con dei paesi molto importanti strategicamente come la Turchia o l'Iran, e la Malesia; essa ha proseguito nella costruzione e l'allargamento della Unione Europea con l'integrazione di nuovi paesi che le sono particolarmente vicini, come l'Austria; nella ex-Yugoslavia, ha imposto il riconosciemnto internazionale della Slovenia e della Croazia, suoi alleati, che le aprono un accesso al Mediterraneo. La nuova Germania riunificata si è così affermata senza equivoci come il solo candidato credibile alla costituzione di un blocco antagonista a quello degli USA.
La politica internazionale americana si caratterizza con una offensiva che ha due dimensioni principali: da una parte, preservare la posizione dominante del capitale americano; dall'altra, distruggere sistematicamente le posizioni dei nuovi rivali europei. Gli Stati Uniti riaffermano la loro posizione di prima potenza facendo ricorso a delle operazioni militari spettacolari, che costringono spesso i vecchi alleati a schierarsi dietro di loro (guerra del Golfo del 1991, intervento in Somalia, invasione di Haiti, nuova operazione nel Golfo nell'ottobre 1994, ecc.); col mantenere in piedi degli organismi internazionali concepiti alla fine della II guerra mondiale, per assicurare il loro controllo sugli alleati, come la NATO, senza d'altronde ingannare i principali interessati ("Più che mai gli Stati Uniti vogliono fare della Nato una succursale del dipartimento di Stato e del Pentagono" - dichiarava recentemente un diplomatico francese (2); con il consolidare e tenere ben strette le proprie zone di influenza più vicine attraverso la creazione di "zone di libero scambio", come il NAFTA che raggruppa gli Stati Uniti, il Canada ed il Messico, o i progetti di nuovi accordi per raggruppare tutta la zona del Pacifico o la totalità del continente americano (durante il mese di dicembre 1994, Clinton ha convocato successivamente, in Malesia poi a Miami, due summit spettacolari di capi di Stato, destinati a promuovere questi progetti).
Parallelamente gli Stati Uniti attaccano metodicamente le zone di influenza dei vecchi "alleati" europei, in particolare quelle delle ex-potenze coloniali e principali forze militari del continente: la Francia, e la Gran Bretagna. Gli Stati Uniti hanno così cacciato la Francia dal Libano, dall'Irak, dal Ruanda. Minacciano fortemente le sue posizioni negli altri paesi dell'Africa nera e magrebina (in particolare l'Algeria, dove appoggiano delle frazioni del movimento islamico). Hanno inoltre reso più debole la posizione della Gran Bretagna in alcune delle sue vecchie riserve di caccia, come l'Africa del sud e il Kuwait.
Se i blocchi costituiti nel fuoco dell'ultima guerra mondiale sono stati per decenni dei fattori di relativa stabilità, perlomeno al loro interno, oggi la lotta per la costituzione di nuovi blocchi si rivela al contrario uno dei principali fattori di instabilità e di caos.
La decomposizione delle relazioni internazionali nel capitalismo decadente della fine del 20° secolo assume le forme del trionfo di "tutti contro tutti" e dell'accentuarsi della legge del più forte.
La guerra nella ex-Yugoslavia costituisce il focolaio degli scontri più significativo del periodo. 250.000 persone uccise, un milione di feriti a poche centinaia di chilometri dai grandi centri industriali dell'Europa; quattordici paesi militarmente presenti dietro le bandiere delle Nazioni Unite (3); cinque grandi potenze (Stati Uniti, Russia, Germania, Francia, Gran Bretagna) che utilizzano le molteplici divisioni della classe dominante locale, acuite dal crollo dell'URSS, per farne un campo di battaglia (in cui la carne da cannone è essenzialmente autoctona) e che, dall'alto del loro "gruppo di contatto", tirano le fila dell'evolversi dei rapporti di forza in campo.
Chi è dietro chi nella ex-Yugoslavia?
"So che l'opera della Forpronu era discutibile. Ma l'idea dell'ONU, organizzazione di pace al di sopra delle nazioni, mi piaceva molto. Io ero piuttosto naif . Ora, ho l'impressione che per cinque mesi ho aiutato i Serbi. Io ho l'intima convinzione che la Francia è dalla parte serba, che la Francia pensa che il casino nei Balcani sarebbe minore con la stabilità serba." (4)
Queste parole di un casco blu francese di 25 anni (5) riassumono bene il contrasto esistente tra le illusioni di coloro che credono ai discorsi dei loro governanti sulla Yugoslavia e la cruda realtà sul terreno.
Dacchè esistono le classi, per imbrigliare gli sfruttati nelle carneficine guerriere, le classi dominanti hanno sempre fatto ricorso alle menzogne e alle mistificazioni. Le religioni ed i loro preti sono così sempre stati il complemento indispensabile dei militari e dei responsabili politici. Nella nostra epoca, è il totalitarismo dei massmedia, l'indottrinamento delle masse, scientificamente organizzato in modo "dittatoriale" o sotto le forme più sofisticate della "democrazia", che gioca questo ruolo di reclutatore di carne da cannone e di giustificatore dei massacri. La guerra nella ex-Yugoslavia non fa eccezione alla regola. Ma raramente una guerra sarà stata coperta da una tale quantità di menzogne e di ipocrisia.
Le potenze implicate dichiarano tutte di volere la pace e la Forpronu si considera una "organizzazione di pace al di sopra delle nazioni". Ma tutte appoggiano, armano una delle parti impegnate sul campo, senza dirlo apertamente, cioè mostrandosi in pubblico ostili alla parte che in segreto esse sostengono. In realtà, dietro i discorsi umanitari e pacifisti, ogni potenza spinge alla guerra, non fosse altro che per intralciare le alleanze e i passi in avanti dei concorrenti. Così, per esempio, il Pentagono ha reso pubblico un rapporto secondo il quale la Francia tenta di far continuare il conflitto nella ex-Yugoslavia per inasprire i contrasti tra gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, il che è certamente vero; gli Stati Uniti e la Gran Bretagna hanno entrambi altrettanto interesse al proseguimento della guerra, al fine di acuire l'opposizione tra Francia e Germania; la Russia vi ritrova il riconoscimento del suo statuto di grande potenza e si permette di giocare utilizzando gli antagonismi che oppongono le potenze occidentali tra loro; quanto alla Germania, che ha messo il fuoco alle polveri con il suo appoggio all'indipendenza della Slovenia e della Croazia, essa non può volere la pace che quando vedrà le posizioni dei suoi alleati sul posto favorevolmente consolidate.
Il velo delle menzogne umanitarie e pacifiste si è un po' più lacerato recentemente in occasione dell'inizio dei grandi scontri per la sacca di Bihac. Questa zona, al nord della Bosnia, occupa un posto strategicamente importante, nel cuore della Krajina, quella parte della Croazia controllata dai serbi. E' importante per i bosniaci e per i serbi, ma essa è soprattutto cruciale per la Croazia (6). L'importanza della posta in gioco ha fatto venire alla luce, ancora più chiaramente del solito, in che modo le potenze internazionali partecipano alla guerra.
Gli Stati Uniti hanno platealmente incoraggiato l'esercito bosniaco a marciare su Bihac, togliendo unilateralmente l'embargo sulla vendita di armi a questo paese. Ciò ha sollevato un coro di proteste da parte delle altre potenze che tuttavia sanno tutte da molto tempo che Washington arma segretamente la Bosnia e le ha anche fornito dei "consiglieri militari". Il ministro francese degli affari esteri riassumeva la reazione generale dei membri della NATO contro le enormi libertà che si prende il primo dei boss : "Noi lamentiamo che un membro permanente del Consiglio di sicurezza abbia potuto unilateralmente esonerarsi dall'applicazione di una risoluzione che aveva votato e di decisioni prese di comune accordo in seno all'Alleanza" (7).
Ma l'atteggiamento dei francesi, come quello dei loro alleati del momento, i britannici, non è più conforme alle decisioni prese nelle conferenze diplomatiche. L'impressione del casco blu francese di avere "aiutato i Serbi", mentre si supponeva dovesse proteggere la popolazione civile contro questi ultimi, non è sbagliata. Due mesi fa, il governo francese aveva ritirato i suoi caschi blu dall'enclave di Bihac (furono rimpiazzati dalle inesperte truppe del Bangladesh) aprendo la porta ai futuri scontri. Per tutto il tempo dell'attacco dei Serbi, le truppe della Forpronu (dirette dai britannici e dai francesi) danno prova di una complice impotenza. Il 5dicembre, Izetbegovic, il presidente bosniaco, denuncia apertamente i Francesi e gli inglesi come "i protettori dei Serbi". Il senatore americano Robert Dole, futuro capo della maggioranza repubblicana al Senato, dichiara che, dall'inizio del conflitto, l'ONU non ha fatto che "aiutare gli agressori Serbi". Il governo croato denuncia Yashushi Akashi, il giapponese, rappresentante speciale del Segretario generale dell'ONU nella ex-Yugoslavia, come "pro-serbo" (8).
Di fronte a queste accuse ancora una volta i governi francese e britannico giocano a fare gli offesi e minacciano di ritirare le loro truppe. Gli Stati Uniti, che hanno sempre ripetuto di non potersi permettere di inviare un solo "ragazzo" nella terra Yugoslava, sembrano approfittare dell'occasione per dichiarare che, in questo caso, sarebbero pronti ad inviare 25.000 uomini per aiutare il ritiro della Forpronu. "E' a ciò che servono gli alleati", ha dichiarato un funzionario americano (9). E' da notare che la Germania si è affrettata anche essa ad offrire i suoi servigi, cioè i bombardieri Tornado, per contribuire alla partenza dei francesi e degli inglesi.
Gli eventi di Bihac hanno mostrato, ancora una volta, come gli americani appoggiano la Bosnia, ed i Francesi, con i britannici, i Serbi. L'atteggiamento degli Stati Uniti che dichiarano, da quando i Serbi sono entrati nella città di Bihac, : "i Serbi hanno vinto la guerra in Bosnia", mostra, d'altronde, che Washington non dimentica la Croazia ed il suo alleato tedesco. La posizione degli USA è chiara: i Croati devono accettare i rapporti di forza imposti dai Serbi, essi devono fare la pace con i Serbi della Krajina, cioè accettare che l'enclave di Bihac, così come il terzo dei territori croati che i Serbi hanno conquistato nella prima parte della guerra, restino nelle mani dei Serbi. Così, rispetto alla Germania, gli Stati Uniti utilizzano i Serbi. Il recente viaggio "privato" di Carter per discutere direttamente con i serbi di Bosnia ne è una prova.
Non vi è niente di "umanitario" nell'intervento delle grandi potenze nella ex-Yugoslavia. Non si tratta che di una guerra per i più sordidi interessi imperialisti. Una guerra che, contrariamente alle litanie ripetute da più di tre anni, è lungi dall'incamminarsi verso una conclusione pacifica: l'offensiva americana si è scontrata con una grossa resistenza, e ciò non può che essere fonte dell'intensificazione dei conflitti; d'altronde, la Croazia non ha ancora attuato le sue minacce di intervento, ma, se lo farà, la conflagrazione sarà ancora più generale.
Il capitalismo in decomposizione non può vivere senza guerre e le guerre non possono essere eliminate senza il rovesciamento del capitalismo.
E' vitale che il proletariato comprenda la vera natura di questa nuova guerra dei Balcani. Non per dilettarsi ad analizzare le strategie imperialiste in sè, ma per combattere il senso di impotenza che la borghesia cerca di instillare rispetto a questo conflitto. Comprendere il ruolo determinante che giocano le grandi potenze in questa guerra, significa comprendere che il proletariato dei paesi centrali ha la possibilità di fermare una tale follia. Che lui solo può offrire una via di uscita alla barbara situazione di stallo nella quale la decadenza del capitalismo spinge l'umanità e di cui la guerra nella ex-Yugoslavia non è che una delle manifestazioni più spettacolari.
RV, 27 dicembre 1994
1. Questa piccola repubblica della Federazione Russa (un milione e mezzo di abitanti, 13.000 chilometri quadrati) situata tra il Mar Nero ed il Mar Caspio, ricca di petrolio, tra-dizionale luogo di passaggio e di traffici di ogni tipo (armi, droga in particolare), organizzata in gran parte secondo il sistema di clan familiari con ramificazioni anche nelle gran-di città della Russia sotto forme mafiose, a maggioranza mussulmana, si è autoproclamata indipendente nel 1991. Questa indipendenza non è mai stata riconosciuta nè dalla Russia nè da altri. Dall'estate 1994, la Russia vi ha provocato una guerra civile, armando e sostenendo un movimento di rivolta della minoranza russa contro il regime di Dudaiev.
2. Libération, 1/12/1994.
3. Le forze del Forpronu in Yugoslavia contano 23.000 uomini in Bosnia-Erzegovina, con quasi 8.000 automezzi. Paesi partecipanti: Belgio, Canada, Danimarca, Stati Uniti, Spagna, Granbretagna, Francia, Italia, Paesi Bassi, Norvegia e Turchia, membri della Nato, ai quali bisogna aggiungere il Pakistan, il Bangladesh e l'Ucraina.
4. Libération, 13/12/1994.
5. Si tratta di un giovane che stava facendo il suo regolare servizio militare e che ha accettato di partire "volontario per l'azione estera", cioè contrattando un salario come mercenario. La borghesia delle principali potenze industriali occidentali non può ancora permettersi di inviare dei soldati di leva in una operazione militare perché non troverebbe d’accordo il proletariato.
6. Le autorità croate hanno dichiarato, dall'inizio degli scontri di Bihac, che non potrebbero accettare la caduta dell'enclave: "Noi abbiamo detto che se non vi è soluzione negoziata a Bihac, vista la sua importanza strategica, visto il numero dei rifugiati che rischia di riaggiungere il nostro paese, noi saremmo obbligati ad intervenire... L'occidente ci ha costretto a non intervenire fino ad oggi..." (Dichiarazioni di un alto funzionario croato, Le Monde, 29/11/94). "L'esercito croato è pronto per la guerra, ma ciò avverrà al momento propizio, tanto sul piano interno che internazionale." (Dichiarazione del comandante in capo dell'esercito croato, Liberation, 30/11/94).
7. Le Monde, 16/11/94.
8. Akashi si era già rivelato al momento della presa di Gorazde da parte dei Serbi nell'aprile 1994, con il suo rifiuto di ricorrere ai raid aerei per fermare l'offensiva serba.
9. International Herald Tribune, 9/12/94.
Ad ascoltare la propaganda della classe dominante, si potrebbe credere che questa non ha che una preoccupazione: il bene dell'umanità. I discorsi ideologici sulla "difesa delle libertà e della democrazia", sui "diritti dell'uomo" o l' "aiuto umanitario" è in completa contraddizione con la realtà. Il clamore con cui vengono accompagnati questi discorsi è pari alla menzogna che essi diffondono. Come già diceva Goebbels, il capo della propaganda nazista: "Più la menzogna è grande, maggiori sono le possibilità che vi si creda". Questa "regola" viene applicata continuamente dalla borghesia mondiale. Lo Stato del capitalismo decadente ha sviluppato tutto un apparato mostruoso di propaganda, riscrivendo la storia, coprendo di un frastuono assordante gli avvenimenti, per mascherare la natura barbara e criminale del capitalismo, che non è più portatore di alcun progresso per l'umanità. Questa propaganda pesa notevolmente sulla coscienza della classe operaia. D'altronde questo è il suo scopo.
L'articolo che segue mostra come dietro i discorsi propagandistici di circostanza, la borghesia del capitalismo decadente è una classe di gangsters, le cui molteplici frazioni sono pronte a tutto per la difesa dei loro interessi nello scontro che le vede confrontarsigareggiare nell'arena capitalista ed imperialista e nel fronte che le unisce di fronte al pericolo proletario.
Per ben combattere il nemico, bisogna conoscerlo. Ciò è particolarmente vero per il proletariato per il quale la coscienza, la chiarezza di cui deve dar prova nella sua lotta, è l'arma principale. La sua capacità di smascherare le menzogne della classe dominante, di vedere dietro lo schermo della propaganda, in particolare quella "democratica", la realtà della barbarie del capitalismo e della classe che lo incarna, è determinante per la sua futura capacità di giocare il proprio ruolo storico: porre fine con la rivoluzione comunista al periodo più cupo che l'umanità abbia mai conosciuto.
Dopo molti anni, gli scandali a ripetizione che hanno smagliato la vita politica della classe dominante in Italia, in particolare le vicissitudini della Loggia P2 (Propaganda 2), della rete Gladio e dei legami con la mafia, hanno permesso di sollevare un angolo del velo pudico con cui si copre lo Stato democratico e di avere sentore della realtà sordida e criminale del suo funzionamento. La pista sanguinosa dei molteplici attentati terroristici e mafiosi, dei "suicidi" sullo sfondo di crolli finanziari trova la sua origine nel cuore stesso dello Stato, nelle sue tortuose manovre per assicurare la propria egemonia. Uno "scandalo" caccia l'altro e la classe dominante sa ben utilizzare l'apparente novità di ogni episodio per far dimenticare i precedenti. Oggi le altre grandi "democrazie" occidentali indicano col dito la borghesia italiana colpevole di tali misfatti, per meglio far credere che si tratta di una situazione particolare e specifica. Machiavelli e la Mafia, così come il Chianti ed il Parmigiano non sono prodotti tipici italiani? Tuttavia, tutta la storia scandalistica della borghesia italiana e le ramificazioni che essa mette a nudo mostra esattamente il contrario. Ciò che è specifico per l'Italia è che le apparenze democratiche qui sono più fragili che nelle altre democrazie storiche. Quando si guarda un pò più da vicino, gli scandali in Italia mettono in evidenza che ciò che essi svelano non è caratteristico dell'Italia, ma è al contrario l'espressione della tendenza generale del capitalismo decadente al totalitarismo statale e degli antagonismi imperialisti mondiali che hanno segnato il 20° secolo.
La storia dell'Italia dall'inizio del secolo lo mostra ampiamente.
LA MAFIA: al cuore dello Stato e della strategia imperialista
Nella metà degli anni 20 Mussolini dichiarò guerra alla Mafia. "Io la prosciugherò come ho prosciugato le paludi pontine" afferma. Le truppe del prefetto Mori hanno proprio questo incarico in Sicilia. Ma gli anni passano e Cosa Nostra resiste e quando si profila la prospettiva della 2^ guerra mondiale, la Mafia con le sue solide basi nel sud Italia e negli Stati Uniti diventa un elemento strategico importante per i futuri belligeranti. Nel 1937, Mussolini, interessato a rafforzare la sua influenza tra gli italo-americani per tentare di installare così una "quinta colonna" in territorio nemico, accoglie a braccia aperte Vito Genovese, il consigliere di Lucky Luciano, boss della Mafia americana, nei guai con la giustizia. Genovese diventa un protetto del regime fascista, invitato più volte alla tavola del Duce a mangiare gli spaghetti dell'amicizia in compagnia, tra gli altri, di celebrità come il conte Ciano, genero di Mussolini e Ministro degli affari esteri e di Herman Goering. Riceverà nel 1943 la più alta onorificenza del regime fascista; il Duce in persona gli appunterà sul petto l'Ordine di Commendatore. Genovese restituisce il favore al regime fascista, eliminando dei mafiosi che non comprendono le nuove regole del gioco, organizzando l'assassinio a New York di un giornalista italo-americano, Carlo Tresca, responsabile di un influente giornale antifascista, Il Martello. Ma soprattutto il luogotenente di Lucky Luciano mette a profitto la sua situazione di privilegio per mettere sù una struttura di traffico in ogni genere e sviluppare la sua rete di influenza: il prefetto di Napoli, Albini, diventa un suo fedelissimo e Genovese riesce a farlo nominare nel 1943 sottosegretario di Stato agli interni. Ciano, che si dà alla droga, cade anche lui nelle mani di Genovese, da cui dipende per il suo approvvigionamento.
In questo periodo negli Stati Uniti, con l'entrata in guerra nel 1941, viene riconosciuta l'importanza strategica della Mafia. Sul piano interno, si tratta di evitare la creazione di un fronte all'interno degli immigrati italiani, e la Mafia che controlla - tra l'altro - i sindacati dei portuali e dei camionisti, settori vitali per il trasporto delle provviste degli eserciti, diventa in queste condizioni un interlocutore fondamentale dello Stato americano. Per rafforzare la sua posizione, la Mafia organizza nel febbraio 1942 il sabotaggio, nel porto di New York, del piroscafo Normandia, incendiato mentre erano in corso i lavori di trasformazione in battello per il trasporto di truppe. Poco dopo uno sciopero generale dei portuali, fomentato dal sindacato mafioso paralizza l'attività del porto. Alla fine, la Marina americana chiede a Washington l'autorizzazione a negoziare con la Mafia ed il suo capo Lucky Luciano, allora in prigione; autorizzazione che Roosevelt si affretterà a concedere. Benchè questo fatto sia sempre stato smentito dallo Stato americano ed i dettagli dell'operazione Underworld (questo fu il suo nome) sempre classificati come segreti, benchè Lucky Luciano abbia sempre proclamato fino alla morte che tutto ciò non erano che "pazzie e stronzate per dei coglioni" (dal testamento di Lucky Luciano), dopo decenni di silenzio, il fatto che lo Stato americano abbia stipulato un'alleanza con la Mafia è oggi generalmente riconosciuto. Conformemente a quanto promesso, Luciano verrà liberato alla fine della guerra ed "esiliato" in Italia. Per giustificare questa grazia, Thomas Dewey, colui che da procuratore aveva organizzato l'arresto e il processo di Luciano dieci anni prima, e che, grazie a questa pubblicità, era nel frattempo diventato il governatore dello Stato di New York, dichiarò in un'intervista al New York Post: "Una inchiesta esauriente ha stabilito che l'aiuto apportato da Luciano alla Marina durante la guerra è stato considerevole e prezioso."
La Mafia ha effettivamente reso servizi molto importanti allo Stato americano durante la guerra. Dopo aver piazzato le sue carte in entrambi i campi, quando a metà del 1942 il rapporto di forze pende nettamente a favore degli Alleati, la Mafia mette le sue forze a disposizione degli Stati Uniti. Sul piano interno, impegna i suoi sindacati nello sforzo di guerra. Ma è soprattutto in Italia che mostra il suo ruolo. Durante lo sbarco del 1943 in Sicilia le truppe americane beneficiano dell'efficace sostegno della Mafia locale. Sbarcati il 10 luglio, i soldati americani fanno una vera passeggiata, incontrano poca opposizione e dopo solo sette giorni Palermo è sotto il loro controllo. Contemporaneamente, l'8^ armata britannica, che probabilmente non ha beneficiato dello stesso sostegno mafioso, ha dovuto battersi per cinque settimane e subire numerose perdite per raggiungere parzialmente i suoi obiettivi.
Questa alleanza con la Mafia avrebbe, secondo alcuni storici, salvato la vita a 50.000 soldati americani. Il generale Patton a partire da questo momento chiamerà il padrino siciliano Don Calogero Vizzini, organizzatore di questa sconfitta italo-tedesca, il "Generale Mafia".In cambio, questi, che era stato alcuni anni in prigione, verrà eletto sindaco della sua città, Villalba, sotto l'occhio compiaciuto degli Alleati. Una settimana dopo la caduta di Palermo, il 25 luglio, Mussolini è eliminato dal Gran Consiglio fascista ed un mese dopo l'Italia capitola. In questo processo che segue lo sbarco in Sicilia, il ruolo della rete di influenza costituita da Genovese sarà molto importante. Così, Ciano partecipa a fianco di Badoglio all'eliminazione di Mussolini. La struttura di mercato nero messa in piedi nella zona di Napoli lavorerà in perfetta armonia con le forze Alleate per un reciproco profitto. Vito Genovese diventerà l'uomo di fiducia di Charlie Poletti, governatore militare americano di tutta l'Italia occupata. In seguito Genovese, di ritorno negli Stati Uniti, diventerà là il principale boss mafioso del dopoguerra.
L'alleanza che si è stretta durante la guerra tra lo Stato americano e la Mafia non si scioglie con la fine del conflitto. L'Onorata Società è un partner che si rivelato troppo efficace ed utile per rischiare che vada a servire altri interessi, quando con la fine della seconda guerra mondiale, lo Stato americano vede profilarsi l'emergenza di un nuovo rivale imperialista: l'URSS.
LA RETE "GLADIO": una struttura di manipolazione per gli interessi strategici del blocco
Nell'ottobre 1990, il presidente del consiglio Giulio Andreotti rivela l'esistenza di una organizzazione clandestina, parallela ai servizi segreti ufficiali, finanziata dalla CIA, integrata alla NATO ed incaricata di far fronte ad una eventuale invasione russa e, per estensione, a lottare contro l'influenza comunista: la rete Gladio. Con ciò egli provoca un bel casino, e non solo in Italia, ma a livello internazionale, perchè questo tipo di struttura era stato costituito in tutti i paesi del blocco occidentale sotto il controllo degli Stati Uniti.
"Ufficialmente", la rete Gladio è stata costituita nel 1956, ma la sua origine vera risale alla fine della guerra. Prima ancora che la seconda guerra mondiale fosse finita, quando il destino delle forze dell'Asse era già segnato, il nuovo antagonismo che si sviluppa tra gli Stati Uniti e l'URSS polarizza l'attività degli stati maggiori e dei servizi segreti. I crimini di guerra e le responsabilità sono dimenticate in nome della guerra che comincia contro l'influenza del nuovo avversario russo. In tutta Europa, i servizi Alleati, ed in particolare, americani, operano un reclutamento a tutto campo dei vecchi fascisti e nazisti, di pendagli da forca, di ogni sorta di avventurieri, in nome della sacrosanta lotta contro il "comunismo". I "vinti" trovano in ciò una occasione per rifarsi una verginità a buon mercato.
In Italia, la situazione è particolarmente delicata per gli interessi occidentali. Vi è il Partito stalinista più forte dell'Europa occidentale che esce dalla guerra con un'aureola di gloria per il suo determinate ruolo nella resistenza contro il fascismo. Mentre si preparano le elezioni del 1948, in conformità alla nuova costituzione nata con la Liberazione, aumenta l'inquietudine tra gli strateghi occidentali, perchè nessuno è certo del risultato, ed una vittoria del PCI sarebbe una catastrofe. In effetti mentre la Grecia è preda della guerra civile ed il PC minaccia di prendervi il potere con la forza, e la Jugoslavia è ancora nell'orbita russa, la caduta dell'Italia sotto l'influenza dell'URSS costituirebbe un disastro strategico di primaria importanza per gli interessi occidentali, con il rischio di perdere il controllo del Mediterraneo e dunque l'accesso al Medio Oriente.
Per far fronte a questa minaccia, la borghesia italiana dimentica in fretta le divisioni della guerra. Nel marzo 1946, viene sciolto l'Alto Commissariato per le sanzioni contro il fascismo, incaricato di epurare lo Stato dagli elementi che si erano troppo invischiati nel sostegno a Mussolini. I partigiani sono smobilitati. Le autorità nominate dai Comitati di liberazione, in particolare a capo della polizia, sono sostituite da responsabili già nominati da Mussolini. Dal 1944 al 1948, si stima che il 90 % del personale dell'apparato statale del regime fascista viene reintegrato nelle sue funzioni.
La campagna elettorale che dovrebbe santificare la nuova repubblica democratica è al suo culmine. L'apparato finanziario ed industriale, l'esercito, la polizia, che erano stati i principali sostenitori del regime fascista, si mobilitano e, di fronte al pericolo "comunista", abbracciano la causa della difesa della democrazia occidentale, il loro vecchio nemico. Il Vaticano, frazione essenziale della borghesia italiana che, dopo aver sostenuto il regime di Mussolini, aveva fatto il doppio gioco durante la guerra, come d'abitudine, si lancia così nella campagna elettorale ed il Papa davanti ai 300.000 fedeli riuniti in Piazza San Pietro, dichiara che "colui che offrirebbe aiuto ad un partito che non riconosce Dio sarebbe un traditore ed un disertore". La Mafia, nel sud Italia, si impegna attivamente nella campagna elettorale, finanziando la Democrazia Cristiana, dando indicazioni di voto alla sua clientela.
Tutto ciò sotto l'occhio benevolo e con il sostegno attivo degli Stati Uniti, Nei fatti lo stato americano non risparmia i suoi sforzi. Negli USA, viene lanciata una campagna "lettere all'Italia", perchè gli italo-americano inviino alla loro famiglia in Italia delle lettere con la raccomandazione di un "buon" voto. La radio Voce dell'America che durante la guerra, deprecava i misfatti del regime fascista, da ora per tutta la giornata denuncia i pericoli del "comunismo". Due settimane prima delle elezioni, viene approvato il Piano Marshall, ma gli Stati Uniti non avevano atteso questo per inondare di dollari il governo italiano. Alcune settimane prima era stato votato dal Congresso un aiuto di 227 milioni di dollari. I partiti e le organizzazioni ostili al PCI ed al Fronte democratico ad esso federato ricevono un aiuto suonante e traboccante: la stampa americana stima in 20 milioni di dollari le somme spese in queste circostanze.
Ma nel caso in cui tutto questo non fosse sufficiente a sconfiggere il Fronte democratico del PCI, gli Stati Uniti preparano una strategia segreta destinata a far fronte ad un eventuale governo dominato dagli stalinisti. Le diverse frazioni della borghesia italiana contrarie al PCI - responsabili dell'apparato statale, esercito, polizia, grandi industriali e finanzieri, Vaticano, boss mafiosi - sono contattati dai servizi segreti americani che coordinano le loro azioni. Viene creata la struttura di una rete clandestina di resistenza ad una eventuale vittoria "comunista". Il reclutamento avviene tra i "vecchi" fascisti, l'esercito, la polizia, l'ambiente mafioso e, in generale, tra tutti gli "anti-comunisti" convinti. Il risorgere di gruppi fascisti è incoraggiato in nome della difesa delle "libertà". Vengono clandestinamente distribuite delle armi. E' presa in considerazione l'eventualità di un colpo di Stato militare e non è un caso se, pochi giorni prima delle elezioni, 20.000 carabinieri sono impegnati in manovre con mezzi blindati e se il ministro degli Interni, Mario Scelba, dichiara di aver organizzato una struttura capace di far fronte ad una insurrezione armata. In caso di vittoria del PCI è prevista la secessione della Sicilia. Gli Stati Uniti possono contare per ciò su Cosa Nostra che sostiene con questa intenzione la lotta "indipendentista" di Salvatore Giuliano, mentre lo stato maggiore americano considera seriamentte l'ipotesi di una occupazione della Sicilia e della Sardegna da parte delle sue forze armate.
Alla fine, il 16 aprile 1948, con il 48 % dei voti la Democrazia Cristiana la spunta con 40 seggi di maggioranza. Il PCI è mandato all'opposizione. Gli interessi occidentali sono salvi. Ma le prime elezioni della nuova repubblica democratica italiana uscita dalla Liberazione non hanno avuto niente di democratico. Esse sono il prodotto di una gigantesca manipolazione. E in ogni caso, se il risultato fosse stato sfavorevole, le forze "democratiche" dell'Occidente sarebbe state pronte ad organizzare un colpo di Stato, a seminare il disordine, a suscitare una guerra civile per restaurare il loro controllo sull'Italia. E' sotto questi auspici e in queste condizioni "democratiche" che è nata la repubblica italiana. Ne porta i segni ancora oggi.
Per giungere a questo risultato elettorale, al di là del quadro ufficiale del funzionamento "democratico", è stata messa in piedi sotto la lunga mano degli Stati Uniti una struttura clandestina, che raggruppa i settori della borghesia più favorevoli agli interessi occidentali che costituisce la cricca dominante dello Stato italiano. Quella che sarà più tardi chiamata la rete Gladio raggruppa così segretamente un cervello politico: il vertice; un corpo economico: i differenti clan interessati che ne tirano profitto finanziandolo; un braccio armato: la soldataglia, reclutata dai servizi segreti, ed incaricata degli affari sporchi. Questa struttura ha mostrato la sua efficacia e verrà tenuta in piedi. Nei fatti con lo sviluppo degli antagonismi imperialisti del periodo detto della "guerra fredda", con la presenza di un PC molto potente in Italia, quello che era valido dal punto di vista degli interessi strategici occidentali all'indomani della guerra resta attuale.
Tuttavia, manipolare i risultati elettorali, attraverso uno stretto controllo dei partiti politici, dei principali organi dello Stato, dei mass media e del cuore dell'economia, non era sufficiente. Sussisteva il pericolo di un rovesciamento della situazione a favore del PCI. Alla fine della guerra, per fronteggiare la "sovversione comunista", l'organizzazione Gladio (o il suo equivalente, comunque si chiamasse) ha preparato l'eventualità di un colpo di Stato militare per conto del blocco occidentale.
Tuttavia, a ben considerare, questi complotti, più che dei veri tentativi di colpo di Stato falliti, sembrano al contrario dei preparativi "nel caso in cui" e delle manovre per mantenere una certa atmosfera politica. Nei fatti, nel 1969, l'Italia è scossa da un'ondata di scioperi, l'"autunno caldo", che segna la ripresa della lotta di classe e risveglia, nella testa degli strateghi della NATO, la paura di una destabilizzazione della situazione sociale italiana. All'indomani del 1969, viene elaborata una strategia destinata a ristabilire l'ordine e a rafforzare lo Stato: la "strategia della tensione".
LA "STRATEGIA DELLA TENSIONE": la provocazione come metodo di governo
Nel 1974, Roberto Caballero, un funzionario del sindacato fascista CISNAL, dichiara in un'intervista a L'Europeo: "Quando dei tumulti scuotono il paese (disordini, tensioni sindacali, violenze), l'Organizzazione si mette in azione per creare le condizioni di un ristabilimento dell'ordine; se i disordini non ci sono, vengono creati dall'organizzazione stessa, per il tramite di tutti quei gruppi di estrema destra (quando non si tratta di gruppi di estrema sinistra) oggi implicati nei processi sulla sovversione nera" e precisa anche che il gruppo dirigente di questa organizzazione "che comprende rappresentanti dei servizi segreti italiani ed americani così come di potenti società multinazionali, ha scelto una strategia di disordine e di tensioni che giustifica il ristabilimento dell'ordine".
Nel 1969 sono 145 gli attentati commessi. Il punto culminante, quell'anno, sarà raggiunto il 12 dicembre con le esplosioni a Roma e Milano, che fanno 16 morti e un centinaio di feriti. L'inchiesta su questi attentati si indirizza per tre anni sulla pista anarchica prrima di orientarsi, malgrado tutti gli ostacoli frapposti, sulla pista nera, quella della estrema destra e dei servizi segreti. Il 1974 è segnato da due esplosioni mortali a Brescia (7 morti, 90 feriti) e su di un treno, l'Italicus (12 morti, 48 feriti). Ancora una volta viene alla luce la pista nera. Tuttavia a partire da quest'anno, il 1974, il terrorismo "nero" dell'estrema destra lascia il posto al terrorismo delle Brigate rosse che raggiunge il suo culmine con il rapimento e l'assassinio del presidente del Consiglio, Aldo Moro. Ma nel 1980 l'estrema destra ricompare violentemente con il sanguinoso attentato della stazione di Bologna (90 morti) che le viene alla fine attribuito. Ancora una volta l'istruttoria tocca i servizi segreti e nuovamente dei generali responsabili di questi servizi andranno sotto processo.
La "strategia della tensione" è stata attuata con cinismo ed efficacia per accentuare un clima di terrore e giustificare così il rafforzamento dei mezzi di repressione e di controllo della società da parte dello Stato. Il legame tra il terrorismo di estrema destra ed i servizi segreti è stato chiaramente sottolineato dalle inchieste condotte, anche se queste nel complesso sono state insabbiate. Invece, per quel che riguarda il terrorismo di estrema sinistra, fatto da gruppi come le Brigate rosse e Prima linea, questi legami non sono stati ancora dimostrati in modo chiaro dalle inchieste di polizia. Tuttavia, anche là, con il passare del tempo, si accumulano gli elementi che tendono a dimostrare che il terrorismo "rosso" è stato incoraggiato, manipolato, utilizzato, se non talvolta direttamente diretto dallo Stato e dai suoi servizi segreti paralleli.
Bisogna notare che gli attentati delle Brigate rosse hanno alla fine lo stesso risultato di quelli dei neofascisti: creare un clima di insicurezza favorevole alle campagne ideologiche dello Stato volte a giustificare il rafforzamento delle sue forze repressive. Nella seconda metà degli anni 1970, essi vengono come il cacio sui maccheroni per far dimenticare ciò che le inchieste cominciavano a mettere in evidenza: cioè che gli attentati, dal 1969 al 1974, non erano opera di anarchici, ma di elementi fascisti utilizzati dai servizi segreti. Accompagnati da una fraseologia rivoluzionaria, questi attentati "rossi" sono il mezzo migliore per seminare la confusione nel processo di chiarificazione della coscienza che era sul punto di operarsi in seno alla classe operaia. Essi consentono di far sentire notevolmente il peso della repressione sugli elementi più avanzati del proletariato e nell'ambiente rivoluzionario, assimilati al terrorismo. In breve, dal punto di vista dello Stato, il terrorismo "rosso" è molto più utile di quello "nero". E' d'altra parte per questo che, in un primo tempo, i massmedia della borghesia al servizio dello Stato attribuiscono i primi attentati realizzati dall'estrema destra a degli anarchici; questo era lo scopo della manovra: una provocazione.
"Può capitare che di fronte alla sovversione comunista i governi dei paesi Alleati diano prova di passività o indecisione. Lo spionaggio militare degli Stati Uniti deve avere i mezzi per lanciare delle operazioni speciali capaci di convincere i governi alleati e l'opinione pubblica della realtà del pericolo d'insurrezione. Lo spionaggio militare degli Stati Uniti dovrebbe cercare di infiltrarsi nei centri di insurrezione tramite agenti in missione speciale incaricati di formare alcuni gruppi di azione in seno ai movimenti più radicali." Questa citazione è estratta da US Intelligence Field Manual, manuale delle spie americane, che i responsabili di Washington dicono falso. Ma esso è stato riconosciuto autentico dal Colonello Oswald Le Winter, vecchio agente della CIA e ufficiale di collegamento in Europa, in un documentario televisivo su Gladio. Il fatto fu confermato da Licio Gelli, capo della Loggia P2 in una intervista per questo stesso documentario televisivo. Le Winter, inoltre, dà un esempio del suo contenuto concreto dichiarando in questa stessa intervista: "Nelle Brigate rosse c'erano infiltrati così come nella Baader-Meinhof e Action Directe. Molte di queste organizzazioni terroriste di sinistra erano infiltrate e sotto controllo", e precisa che "dei rapporti e dei documenti emessi dal nostro ufficio di Roma attestavano che le Brigate rosse erano state infiltrate e che il loro nucleo dirigente riceveva gli ordini da Santovito.". Il generale Santovito era all'epoca il capo dei servizi segreti italiani (SISMI). Fonte più affidabile, Federico Umberto d'Amato, vecchio capo della polizia politica e ministro degli Interni dal 1972 al 1974, racconta con fierezza: "Le Brigate rosse sono state infiltrate. E' stato difficile perchè erano dotate di una struttura molto chiusa e molto efficace. Ciò nonostante, sono state infiltrate in modo sostanziale, con ottimi risultati."
Più di ogni altro attentato commesso dalle Brigate rose, il rapimento di Aldo Moro , l'assassinio della sua scorta, il suo sequestro e la sua esecuzione finale nel 1978, fanno sospettare una manovra di un clan nello Stato e dei servizi segreti. Ci si meraviglia che le Brigate rosse, composte da giovani elementi ribelli, molto motivati e convinti, ma senza una grande esperienza della guerra clandestina, abbiano potuto condurre a buon fine un'operazione di tale portata. L'inchiesta mette in luce molti fatti sconvolgenti: presenza di un membro dei servizi segreti sul luogo del rapimento, i proiettili sparati hanno subito un trattamento speciale utilizzato nei servizi speciali, ecc. Mentre lo scandalo suscitato dalla scoperta del coivolgimento dello Stato negli attentati dal 1969 al 1974, falsamente attribuiti agli anarchici, cominciava ad essere dimenticato, rinasceva il dubbio nell'opinione pubblica italiana sulla presenza dello Stato dietro gli attentati delle Brigate rosse. Nei fatti Aldo Moro è rapito alla vigilia della firma del "Compromesso storico" che doveva sugellare un'alleanza di governo tra la Democrazia cristiana ed il PCI, e di cui Moro era l'artefice. La sua vedova dichiara: "Avevo saputo da mio marito, o da un'altra persona, che intorno al 1975 lo avevano avvertito che i suoi tentativi di portare tutte le forze politiche a governare insieme per il bene del paese non piacevano a certi gruppi e a certe persone. Gli avevano detto che se si ostinava a voler realizzare il suo progetto politico, rischiava di pagare molto cara la sua testardaggine.". Il "Compromesso storico" avrebbe avuto per risultato di aprire le porte del governo al PCI. Moro, che era al corrente, in quanto presidente del Consiglio, dell'esistenza di Gladio, pensava probabilmente che il lavoro di infiltrazione svolto per anni in seno a questo partito, per sottrarlo all'influenza dell'Est, ed il suo allontanamento crescente dalle scelte politiche russe, lo rendevano accettabile agli occhi dei suoi alleati occidentali. Ma il modo in cui lo Stato lo abbandonò durante il suo sequestro mostra che le cose non stavano così. Alla fine il "Compromesso storico" non fu firmato. La morte di Moro corrisponde dunque perfettamente alla logica degli interessi difesi da Gladio. E quando D'Amato parla di "ottimi risultati" ottenuti con l'infiltrazione nelle Brigate rosse, pensa all'assassinio di Moro?
Le varie inchieste urtavano sempre con l'ostruzionismo di certi settori statali, le manovre amministrative dilatorie e il sacrosanto segreto di Stato. Ma con lo smascheramento della Loggia P2 nel 1981, i giudici vedono i loro sospetti confermati per quel che riguardava l'esistenza di una struttura parallela, di un governo occulto che tirava le corde nell'ombra e organizzava la "strategia della tensione".
LA LOGGIA P2: il vero potere occulto dello Stato
Nel 1981 la Guardia di Finanza scopre la lista di 963 "fratelli" membri della Loggia P2. Su questa lista figurano il Gotha della borghesia italiana: 6 ministri in carica, 63 alti funzionari ministeriali, 60 politici tra cui Andreotti e Cossiga, 18 giudici e procuratori, 83 grandi industriali tra cui Agnelli, Pirelli, Falck, Crespi, banchieri quali Calvi e Sindona, membri del Vaticano come il Cardinale Casaroli, grandi nomi del settore delle comunicazioni come Rizzoli, proprietario del Corriere della Sera, o Berlusconi, quasi tutti i responsabili dei servizi segreti degli ultimi anni, tra cui i generali Allavena, capo del SIFAR dal giugno 1965 al giugno 1966, Miceli nominato alla testa dei servizi segreti nel 1970, l'ammiraglio Casardi, suo successore, il generale Santovito, allora capo del SISMI, 14 generali dell'esercito, 9 ammiragli, 9 generali dei carabinieri, 4 generali dell'aereonautica e 4 della guardia di finanza, per non citare che gli ufficiali più alti in grado. Ma vi erano anche universitari, sindacalisti, responsabili di gruppi di estrema destra. Ad esclusione dei radicali, degli estremisti di sinistra e del PCI, tutto il ventaglio politico italiano vi è rappresentato. Questa lista tuttavia non è certamente completa. Al momento dello scandalo furono citati numerosi altri nomi, senza che potesse essere apportata alcuna prova. Sono anche corse voci, non verificabili, sulla partecipazione di influenti membri del PCI alla P2.
Tuttavia, si potrebbe pensare che in questo non vi è niente di strano. Nei fatti, capita spesso di ritrovare nelle fila della franco-massoneria numerosi notabili che praticano i suoi riti e che la utilizzano per coltivare le loro relazioni e riempire le loro agende di indirizzi. La personalità del Gran Maestro, Licio Gelli, è tuttavia inquietante.
A capo di questa loggia, Gelli è sconosciuto al grande pubblico, ma lo sviluppo dedll'inchiesta e le rivelazioni che si succedono mostrano l'influenza determinante che egli ha esercitato sulla politica italiana durante gli anni. Personaggio dalla storia edificante, Gelli ha cominciato la sua carriera come membro del partito fascista. A 18 anni milita nelle "camicie nere" che vanno a combattere in Spagna. Durante la guerra collabora attivamente con i nazisti ai quali consegna dozzine di partigiani e di disertori. A partire dal 1943 sembra che cominci a fare il doppio gioco contattando la Resistenza ed i servizi segreti americani. Dopo la guerra si rifugia in Argentina e ritorna senza problemi in Italia nel 1948. All'inizio degli anni '60 si iscrive alla Franco-massoneria, partecipa alla loggia Propaganda due, di cui diventa rapidamente il Gran Maestro e dove è raggiunto dai principali responsabili dei servizi segreti. La sua potenza allora è confermata da numerose testimonianze. Al matrimonio di uno dei suoi figli, eminenti personalità come il presidente del Consiglio Amintore Fanfani e, sembra, il papa Paolo VI, inviano dei sontuosi regali. Secondo gli inquirenti, in segno di amicizia, Agnelli gli avrebbe offerto un telefono in oro massiccio. All'inizio degli anni '80, Gelli telefona quasi ogni giorno al presidente del Consiglio, al ministro del Commercio e dell'Industria, a quello degli Affari esteri, ai dirigenti dei principali partiti politici della Penisola (democristiano, socialista, socialdemocratico, repubblicano, liberale e neofascista). Nella sua casa vicino Firenze e nei saloni privati del lussuoso albergo Excelsior in cui riceve, sfila il Gotha dello stato maggiore italiano, in particolare Andreotti, che è nei fatti il suo rappresentante politico ufficiale, la sua anima nera.
La conclusione della commissione di inchiesta sulla Loggia P2 non manca di interesse. Essa afferma che Gelli "appartiene ai servizi segreti di cui è il capo; la Loggia P2 e Gelli sono l'espressione di una influenza esercitata dalla massoneria americana e dalla CIA su Palazzo Giustiniani dopo la sua riapertura dopo la guerra; un'influenza che testimonia della dipendenza economica rispetto alla Massoneria americana e al suo capo Frank Gigliotti.". Gigliotti è lui stesso un agente della CIA. Nel 1990, un ex-agente della CIA, Richard Brenneke, in una intervista alla televisione che fa scandalo dichiara: "Il governo degli Stati Uniti finanziava la P2 fino a 10 milioni di dollari per mese.". Ecco è tutto chiaro. La P2 e Gladio sono la stessa cosa. L'atto d'accusa del 14 giugno 1986 testimonia della "esistenza in Italia di una struttura segreta composta da militari e da civili che, essendosi dati per scopo ultimo il condizionamento degli equilibri politici esistenti attraverso il controllo dell'evoluzione democratica del paese, ha tentato di realizzare questo obiettivo servendosi dei mezzi più vari, tra i quali il ricorso diretto agli attentati commessi da organizzazioni neo-fasciste" e parla di "una sorta di governo invisibile nel quale la P2, dei settori deviati dei servizi segreti, il crimine organizzato ed il terrorismo sono strettamente legati."
Ma tuttavia, questa lucida constatazione dei giudici non fa cambiare granché nel funzionamento dello Stato italiano. Sospettato di aver finanziato l'attentato di Bologna, Gelli se ne va all'estero. Arrestato in una banca svizzera il 13 settembre 1982, mentre ritirava 120 milioni di dollari da un conto cifrato, l'anziano personaggio sarà l'autore di una inverosimile evasione dalla prigione ginevrina il 10 agosto 1983, e svanirà nel nulla, fino a che, quattro anni dopo, si consegnerà alle autorità svizzere. Dalla Svizzera Gelli sarà estradato in Italia. Ma mentre, in sua assenza, era stato, nel 1988, condannato a 10 anni di prigione, verrà rigiudicato nel 1990 e alla fine assolto. Lo scandalo della P2 è banalizzato, dimenticato. La Loggia P2 è scomparsa ma, non abbiamo dubbi, un'altra struttura occulta ha dovuto rimpiazzarla, altrettanto efficace. Nel 1990, Cossiga, presidente della Repubblica e ex-membro della P2, potrà dichiarare con soddisfazione a proposito di Gladio che è "fiero del fatto che il segreto abbia potuto essere conservato per 45 anni". Dimenticate le dozzine di vittime degli attentati, dimenticati i molteplici assassinii. Nuovi scandali vengono a far dimenticare i vecchi.
QUALCHE LEZIONE
Tutti questi avvenimenti, in cui la grande storia dell'Italia confina con il crimine e la rende diversa, hanno avuto poca risonanza al di fuori della penisola. Tutto ciò è apparso come dei "fatti italiani", senza rispondenza con ciò che capitava nelle altre grandi democrazie occidentali. Nella stessa Italia, il ruolo della Mafia è stata presentato soprattutto come un prodotto regionale del Sud d'Italia, la "strategia della tensione" come l'opera di settori deviati dei servizi segreti, e gli scandali politici come un semplice problema di corruzione di alcuni politici. In breve, le vere lezioni sono state evitate e, tra scandali e rivelazioni, tra processi reclamizzati e dimissioni di responsabili statali, è stata mantenuta in piedi l'illusione di una lotta dello Stato contro queste minacce all'ordine democratico. Tuttavia, quello che mette chiaramente in evidenza questa breve storia degli "affari" che hanno scosso la repubblica italiana dagli anni 1930 è tutt'altro.
- Gli "affari" non sono un prodotto specifico italiano, ma il risultato dell'attività internazionale della borghesia, in un contesto di rivalità imperialiste acuite. In queste condizioni questo significa che l'Italia, lungi dall'essere un'eccezione, è al contrario un esempio di ciò che esiste dappertutto.
- Non sono l'espressione di una minoranza deviata della classe dominante, ma traducono il funzionamento totalitario dello Stato del capitalismo decadente, anche se questo si nasconde dietro la maschera della democrazia.
Sia la storia dell'ascesa di Cosa Nostra che le rivelazioni dell'esistenza delle reti Gladio e della Loggia P2, mostrano che non si tratta di affari italiani, bensì di affari internazionali.
Ciò è particolarmente evidente nell'affare Gladio. La rete Gladio era, per definizione, una struttura segreta della NATO, dunque internazionale. Era la cinghia di trasmissione clandestina del controllo degli Stati Uniti sui paesi del loro blocco, destinata ad opporsi alle manovre dell'imperialismo avverso e ai rischi di destabilizzazione sociale con tutti i mezzi, anche i meno leciti. E' per questo che era segreta. Come esisteva e agiva in Italia, essa è esistita ed ha agito negli altri paesi del blocco occidentale. Non vi è ragione perchè sia altrimenti: alle stesse cause, gli stessi effetti.
Con questo chiarimento, si possono meglio comprendere le forze che erano all'opera dietro il colpo di Stato dei colonelli in Grecia nel 1967, quello di Pinochet in Cile nel 1973, o ancora tutti quelli che si sono avuti in America Latina durante gli anni 1970.
Ancora, non è solo in Italia che, a partire dalla fine degli anni 1960, si sono sviluppate delle ondate di attentati terroristici, che hanno aiutato lo Stato a condurre delle intense campagne ideologiche volte a scombussolare la classe operaia che riprendeva il cammino della lotta e giustificare così il rafforzamento del suo apparato repressivo. In Germania, in Francia, in Gran Bretagna, in Giappone, in Spagna, in Belgio, negli Stati Uniti, alla luce dell'esempio italiano, si può pensare con ragione che dietro le azioni terroristiche di gruppi di estrema destra, di estrema sinistra, nazionalisti, vi è la mano dello Stato e dei suoi servizi segreti, e l'espressione di una strategia internazionale organizzata sotto gli auspici del blocco.
Inoltre, l'esempio edificante in Italia del ruolo della Mafia rivela che non si tratta di un fenomeno molto recente nè di un prodotto specificamente locale. L'integrazione della Mafia nel cuore dello Stato italiano non è un fatto nuovo: essa data da più di cinquanta anni. Non è il prodotto di una semplice e lenta cancrena affarista che colpirebbe solo i politici più corrotti: è il risultato del rovesciamento delle alleanze che si è operato durante la seconda guerra mondiale. La Mafia, per conto degli Alleati, ha giocato un ruolo determinante nella caduta del regime di Mussolini e, come ricompensa dei suoi servigi, ha guadagnato un posto centrale nello Stato. L'alleanza creatasi con la guerra, non si scioglie con la fine di questa. La Mafia resterà, come cricca della borghesia italiana, il principale punto d'appoggio degli Stati Uniti. Il peso ed il ruolo importante della Mafia in seno allo Stato italiano è dunque, prima di tutto, il risultato della strategia imperialista americana.
Alleanza contro natura tra il campione americano della difesa della democrazia e il simbolo del crimine in nome degli imperativi strategici mondiali? Alleanza sì, contro natura certamente no. La realtà italiana non fa che mettere in evidenza un fenomeno mondiale del capitalismo decadente: nel nome dei sacrosanti imperativi della ragion di Stato e degli interessi imperialisti, le grandi potenze che tutti i giorni, sui mezzi di informazione, declamano le loro convinzioni democratiche, stringono, nel retroscena, delle alleanze che mostrano la falsità di tutti i loro discorsi ufficiali. E' una banalità constatare che tutti i dittatori che imperversano alla periferia sottosviluppata del capitalismo restano in piedi grazie al patrocinio interessato di una potenza o di un'altra. Vale lo stesso per i clans mafiosi nel mondo: la loro attività può svilupparsi impunemente perchè essi sanno rendere anche dei servizi preziosi ai diversi imperialismi dominanti che si dividono il paese.
Sono sempre più spesso parte integrante delle frazioni dominanti della borghesia dei paesi in cui operano. Questo è evidente per tutta una serie di paesi la cui produzione ed esportazione di droga costituisce l'attività economica principale, favorendo in seno alla classe dominante l'ascesa delle bande che controllano questo settore dell'economia capitalista che assume sempre più importanza. Ma questa realtà non è appannaggio dei paesi sottosviluppati e l'esempio viene dall'alto della gerarchia del capitalismo mondiale. Così l'alleanza tra lo Stato americano e la Mafia italiana, durante la seconda guerra mondiale, trova la sua corrispondenza a livello interno negli Stati Uniti dove, nella stessa occasione, la branca americana di Cosa Nostra è nei fatti invitata a partecipare con i suoi mezzi agli affari di Stato. Ancora in Giappone la situazione non fa che ricordare quella dell'Italia e i recenti scandali scoppiativi mettono in luce l'onnipresenza dei legami tra i politici e la Mafia locale. L'esempio italiano è dunque altrettanto valido per le prime due potenze economiche mondiali dove ciò che si chiama Mafia ha conquistato un posto privilegiato in seno allo Stato. Ciò non è tuttavia solamente dovuto al peso economico considerevole a seguito del dominio di settori economici estremamente redditizi - droga, gioco, prostituzione, racket, ecc -, ma anche ai servizi "specializzati" che queste bande di gangsters possono fornire e che rispondono perfettamente ai bisogni dello Stato del capitalismo decadente.
E' vero che la borghesia, anche la più "rispettabile", ha sempre saputo, quando ciò era necessario, utilizzare i servizi di agenti speciali, o quelli delle sue frazioni meno frequentabili per delle attività "non ufficiali", cioè illegali anche secondo le sue leggi. Nel 19° secolo, gli esempi non mancano: lo spionaggio certamente, ma anche l'utilizzo di picchiatori per spezzare degli scioperi o l'utilizzazione di Mafie locali per favorire la penetrazione coloniale. Ma in questa epoca questo aspetto della vita del capitalismo era limitato e circostanziale. Dopo la sua entrata nella fase di decadenza all'inizio del secolo, il capitalismo è in una situazione di crisi permanente. Non può più, per assicurare il suo dominio, basarsi sulla tangibilità del progresso che apporta, perchè questo non c'è più. Per perpetuare il suo potere, sempre più, deve ricorrere alla menzogna e alla manipolazione. Inoltre, nel corso del 20° secolo, segnato da due guerre mondiali, l'acuirsi delle tensioni imperialiste è divenuto un fattore determinante della vita del capitalismo. In quel campo di battaglia che è diventato il pianeta, tutti i colpi, anche i più sordidi, sono consentiti per assicurarne la sopravvivenza. Per rispondere a queste necessità, il funzionamento dello Stato ha dovuto adattarsi. Nella misura in cui la manipolazione e la menzogna, vuoi per i bisogni della difesa imperialista vuoi per il controllo sociale, sono divenuti degli aspetti essenziali della sua sopravvivenza, il segreto e la sua conservazione sono diventati un aspetto centrale della vita dello Stato capitalista; il funzionamento democratico classico della borghesia e del suo Stato, come era nel 19° secolo, non è più possibile. Esso non è mantenuto che come illusione destinata a mascherare la realtà di un funzionamento statale totalitario, che non ha niente più di democratico. Non solo il potere effettivo si è concentrato nelle mani dell'esecutivo, a spese del legislativo, la cui rappresentazione, il parlamento, è divenuto un semplice paravento destinato ad alimentare le campagne propagandistiche, ma di più, in seno stesso a questo esecutivo, il potere è concentrato nelle mani degli specialisti del segreto e delle manipolazioni di tutti i tipi. In queste condizioni non solo lo Stato ha dovuto reclutare un'abbondante mano d'opera specializzata, creando una moltitudine di servizi speciali, gli uni più segreti degli altri, ma al suo interno è stata conseguentemente favorita l'ascesa delle fazioni della borghesia più esperta nel segreto e nell'attività "illegale". In questo processo lo Stato totalitario ha esteso la sua presa sull'insieme della società, compresi i suoi bassifondi, giungendo ad una simbiosi straordinaria in cui diventa difficile distinguere un rappresentante politico da un uomo d'affari, da un agente segreto o da un gangster, e viceversa.
Questa è la ragione di fondo del ruolo crescente dei settori mafiosi nella vita del capitale. Ma la Mafia non è il solo esempio. L'affare della Loggia P2 mostra che la Massoneria è uno strumento ideale, per il suo funzionamento occulto e le sue ramificazioni internazionali, per essere utilizzato come rete di influenza da parte dei servizi segreti per i bisogni della politica imperialista. E' d'altra parte da molto tempo che le diverse sette massoniche nel mondo sono state coinvolte dal potere statale e messe al servizio delle potenze imperialiste occidentali che le utilizzano secondo i loro piani. Questo è d'altra parte probabilmente il caso della maggior parte delle società segrete di una certa importanza.
Ma la Loggia P2 non era solo uno strumento della politica imperialista americana. Essa era innanzitutto una parte del capitale italiano e mostrava, al di là del linguaggio democratico, la realtà del funzionamento dello Stato e del suo totalitarismo. Essa raggruppava al suo interno dei clan della borghesia che dominano in modo occulto lo Stato da anni. Ciò non vuol dire che raggruppava tutta la borghesia italiana. Già a priori il PCI ne era escluso, rappresentando un'altra fazione dall'orientamento in politica estera rivolto a Est. E' ugualmente probabile che in seno al capitale italiano esistano altre cricche, il che potrebbe spiegare perchè è scoppiato lo scandalo. All'interno della Loggia P2 coabitavano d'altronde vari clan accomunati da interessi convergenti sotto la protezione americana di fronte al comune pericolo rappresentato dall'imperialismo russo e dalla sovversione "comunista". La lista trovata nella villa di Gelli permette di individuare alcuni di questi gruppi: i grandi industriali del nord, il Vaticano, un settore molto importante dell'apparato statale, in particolare gli stati maggiori dell'esercito e dei servizi segreti, e in maniera più discreta, la Mafia. Il legame di questa ultima con la Loggia P2 si rivelava con la presenza dei banchieri Sindona e Calvi, il primo morto avvelenato in prigione e il secondo stranamente impiccato sotto un ponte di Londra, entrambi implicati in scandali finanziari quando gestivano contemporaneamente i fondi del Vaticano e quelli della Mafia. Strane alleanze, perfettamente significative del capitalismo contemporaneo. La Loggia P2 ci presenta un cocktail sulfureo che mostra ancora una volta che spesso la realtà supera la finzione più sfrenata: società segrete, Vaticano, partiti politici, ambienti industriali, affaristici e finanziari, Mafia, giornalisti, sindacalisti, universitari, ecc..
Nei fatti con la Loggia P2 è venuto alla luce il vero centro di decisione occulto che ha governato i destini del capitalismo italiano dopo la guerra. Gelli si definiva lui stesso, con un umorismo cinico, il "grande burattinaio", quello che, dietro le quinte tirava le corde e le cui "marionette" erano gli uomini politici. Il grande gioco democratico dello Stato italiano non era dunque che un'abile messinscena. Le decisioni più importanti erano prese in tutt'altri posti rispetto alle strutture ufficiali (assemblee nazionali, ministeri, presidenza del Consiglio, ecc.) dello Stato italiano. Questa struttura segreta di potere si è mantenuta in piedi indipendentemente dai risultati delle molteplici consultazioni elettorali che si sono svolte durante tutti questi anni. D'altronde, la Loggia P2 aveva tutti gli assi nella manica per manipolare le elezioni, come nel 1948, e mantenere il PCI in disparte. Quasi tutti i leaders dei partiti democristiani, repubblicani, socialisti, erano suoi devotissimi e il gioco "democratico" della "alternanza" non era che un imbroglio. La realtà del potere, quella, non cambiava. Dietro le quinte, Gelli e la sua Loggia P2 continuavano a controllare lo Stato.
Anche in questo, non vi è alcun motivo per parlare di una specificità italiana, anche se altrove il centro occulto di decisione non prende necessariamente l'aspetto un po' folcloristico di una loggia massonica. Da qualche anno l'aggravarsi brutale della crisi e lo sconvolgimento degli schieramenti imperialisti, dovuto alla scomparsa del blocco dell'Est, hanno messo sottosopra le alleanze tra i gruppi che esistono in seno a ciascun capitale nazionale. Lungi dall'essere espressione di una repentina volontà di restaurare un funzionamento democratico, le campagne che si sviluppano oggi in numerosi paesi, in nome della pulizia dello Stato dai suoi elementi più putridi, non sono che l'espressione del regolamento di conti tra le diverse cricche per il controllo centrale dello Stato. La manipolazione dei massmedia, l'uso a ragion veduta dei dossier compromettenti, sono le armi di questa lotta che può anche prendere altre forme più sanguinose.
Nei fatti, tutto ciò mostra, a ben vedere, che lungi dall'essere un'eccezione, l'Italia, che da anni è teatro di scandali politici era l'esempio edificante e premonitore di ciò che si è oggi generalizzato.
JJ
Nei numeri 90, 91, 92 della rivista Programme Communiste (Rivista teorica, in francese, del Partito Comunista Internazionale, che in italiano pubblica il giornale Il Comunista) (1) si trova un lungo studio su "La guerra imperialista nel ciclo borghese e nell'analisi marxista", che fa il punto delle concezioni di questa organizzazione su una questione di primaria importanza per il movimento operaio. Le posizioni politiche fondamentali che vi sono affermate costituiscono una chiara difesa dei principi proletari di fronte a tutte le menzogne portate avanti dai vari agenti della classe dominante. Certi sviluppi teorici, però, sui quali sono fondati questi principi e le previsioni che ne vengono fuori, non sono sempre all'altezza delle affermazioni di principio e rischiano di indebolirle anziché di rafforzarle. Questo articolo si propone di sottomettere a critica queste concezioni teoriche errate al fine di sviluppare su basi più solide possibili la difesa dell'internazionalismo proletario.
La CCI, contrariamente ad altre organizzazioni che si richiamano anch'esse alla Sinistra Comunista (soprattutto i vari Partiti Comunisti Internazionali appartenente alla corrente 'bordighista'), ha sempre stabilito un chiara distinzione fra le formazioni che si trovano nel campo proletario da quelle che si trovano in quello borghese (come i differenti rappresentanti della corrente trotskista, per esempio). Con queste ultime non potrebbe esserci nessun dibattito politico: la responsabilità dei rivoluzionari è quella di denunciarli come strumenti della classe dominante destinati, grazie al loro linguaggio "operaio" o "rivoluzionario", a deviare il proletariato dal suo terreno di classe per sottometterlo, mani e piedi legati, agli interessi del capitale. Per contro, fra le organizzazioni del campo proletario, il dibattito politico è non solo una possibilità, ma un dovere. Questo dibattito non ha niente a che vedere con uno scambio di idee quale può ritrovarsi nei seminari universitari, è una lotta per la difesa e la chiarezza delle posizioni comuniste. In questo senso può prendere la forma di una viva polemica, proprio perché le questioni in gioco sono di primaria importanza per il movimento di classe e perché ogni comunista sa bene che un piccolo errore teorico o politico può avere delle conseguenze drammatiche per il proletariato. Però, anche nella polemica occorre sapere riconoscere ciò che è corretto nelle posizioni dell'organizzazione che si critica.
Una ferma difesa delle posizioni di classe
Il PCInternazionale ("Il Comunista") si richiama alle posizioni della sinistra comunista italiana, cioè una delle correnti internazionali che ha mantenuto delle posizioni di classe durante la degenerazione dell'Internazionale Comunista nel corso degli anni '20. Nell'articolo pubblicato da Programme Communiste (PC) si può constatare che su tutta una serie di questioni essenziali questa organizzazione non ha perso di vista le posizioni di questa corrente. In particolare questo articolo contiene una riaffermazione chiara delle posizioni comuniste di fronte alla guerra imperialista. La denuncia di questa non ha niente a vedere con quella dei pacifisti o degli anarchici:
"Il marxismo è completamente estraneo alle formule vuote ed astratte che fanno dell'"antibellicismo" un principio astorico e che vedono in maniera metafisica nelle guerre il Male assoluto. Il nostro atteggiamento si fonda su un'analisi storica e dialettica delle crisi belliche in legame con la nascita, lo sviluppo e la morte delle forme sociali.
Distinguiamo dunque:
a) le guerre di progresso (o di sviluppo) borghese nell'area europea dal 1792 al 1871
b) le guerre imperialiste caratterizzate dall'urto reciproco fra nazioni nel capitalismo ipersviluppato
c) le guerre rivoluzionarie proletarie". (PC, n° 90, p. 19)
"L'orientamento fondamentale è quello di prendere posizione per le guerre che spingono in avanti lo sviluppo generale della società e contro le guerre che lo ostacolano o lo ritardano. In conseguenza, siamo per il sabotaggio delle guerre imperialiste, non perché queste siano più crudeli o più spaventose delle precedenti, ma perché si oppongono al divenire storico dell'umanità; perché la borghesia imperialista e il capitale mondiale non giocano più alcun ruolo 'progressista', ma, al contrario, sono divenuti un ostacolo allo sviluppo generale della società..." (PC, n° 90, p.22).
La CCI potrebbe sottoscrivere pienamente queste frasi che sono le stesse che abbiamo scritto a parecchie riprese nella nostra stampa territoriale e in questa stessa rivista. (2)
Ugualmente, la denuncia del pacifismo del PCInt. è particolarmente chiara e penetrante:
"...il capitalismo non è 'vittima' della guerra provocata da questo o quell'energumeno, o da "spiriti maligni" resti di epoche barbare contro i quali occorrerebbe, periodicamente, difendersi. (...) il pacifismo borghese deve necessariamente sfociare nel bellicismo. Il sogno idilliaco di un capitalismo pacifico nei fatti non è innocente. E' un sogno grondante sangue. Se si ammette che capitalismo e pace possono coesistere in maniera non contingente e momentanea, ma in maniera permanente, quando crescono i venti di guerra si è obbligati a riconoscere che qualcosa di estraneo minaccia lo sviluppo pacifico, umanitario del capitalismo e che questo, dunque, va difeso, anche con le armi se gli altri mezzi non bastano raggruppando attorno ad esso gli uomini di buona volontà e gli "amanti della pace". Il pacifismo compie allora la sua giravolta finale e si tramuta in bellicismo, in fattore attivo e agente diretto della mobilitazione bellica. Si tratta dunque di un processo obbligato che deriva dalla dina-mica interna del pacifismo. Questo tende a trasformarsi naturalmente in bellicismo..." (PC n° 90, pag. 22).
Da questa analisi del pacifismo il PCInt. fa uscire fuori un orientamento corretto rispetto ai pretesi movimenti contro la guerra che vediamo fiorire periodicamente nella nostra epoca. Con il PCInt., noi consideriamo che può esistere evidentemente un antimilitarismo di classe (come quello che si è manifestato nel corso della I guerra mondiale e che ha portato alla rivoluzione in Russia e in Germania). Ma questo antimilitarismo non può svilupparsi partendo dalle mobilitazioni orchestrate dalle anime candide della borghesia:
"Rispetto agli attuali "movimenti per la pace", la nostra consegna "positiva" è quella di un intervento dall'esterno a carattere propagandistico e di proselitismo verso gli elementi proletari catturati dal pacifismo e inglobati nelle mobilitazioni piccolo borghesi al fine di strapparli da questo genere di inquadramento e di azione politica. Diciamo in particolare a questi elementi che non è nelle parate pacifiste di oggi che si prepara l'antimilitarismo di domani, ma nella lotta intransigente di difesa delle condizioni di vita e di lavoro dei proletari, rompendo con gli interessi dell'impresa e dell'economia nazionale. Come le disciplina del lavoro e la difesa dell'economia nazionale preparano la disciplina delle trincee e la difesa della patria, il rifiuto di difendere e di rispettare oggi gli interessi dell'impresa e dell'economia nazionale preparano l'antimilitarismo e il disfattismo di domani." (PC n° 92, p.61). Come vedremo più avanti il disfattismo non è più una parola d'ordine adatta alla situazione presente o a venire; nonostante ciò teniamo a sottolineare tutta la validità di questo atteggiamento.
Infine l'articolo di PC è ugualmente molto chiaro per quanto riguarda il ruolo della democrazia borghese nella preparazione e nello svolgersi della guerra imperialista:
"...Nei 'nostri' stati civili, il capitalismo regna grazie alla democrazia (...) quando il capitalismo spinge sulla scena cannoni e generali, lo fa appoggiandosi sulla democrazia, i suoi meccanismi e riti ipnotici" (PC n° 91, p. 38).
"L'esistenza di un regime democratico permette allo Stato una maggiore efficacia militare perché permette di potenziare al massimo tanto la preparazione alla guerra quanto la capacità di resistenza del paese in guerra." (ibid.)
"... il fascismo in pratica può fare appello solo al sentimento nazionale, spinto fino all'isteria razzista, per cementare 'l'unità nazionale', mentre la democrazia possiede una risorsa ancora più potente per saldare l'insieme della popolazione alla guerra imperialista: il fatto che la guerra emana direttamente dalla volontà popolare liberamente espressa nelle elezioni, e appare così, grazie alla mistificazione delle consultazioni elettorali, come una guerra di difesa degli interessi e delle speranze delle masse popolari e in particolare delle masse lavoratrici". (PC n° 91, p.41)
Abbiamo riprodotto queste lunghe citazioni da 'Programme Communiste' (e avremmo potuto darne altre, in particolare concernenti le illustrazioni storiche delle tesi presentate) perché esse rappresentano esattamente la nostra posizione sulle questioni viste sopra. Piuttosto che riaffermare con parole nostre i nostri principi riguardanti la guerra imperialista, ci è parso utile mettere in evidenza la profonda unità di vedute che esiste su questa questione in seno alla Sinistra Comunista, unità di vedute che costituisce il nostro patrimonio comune.
Tuttavia, come è importante sottolineare questa unità di principi, è altrettanto dovere dei rivoluzionari mettere in evidenza le inconseguenze e le incoerenze teoriche dalla corrente 'bordighista' che indeboliscono considerevolmente la sua capacità di dare una bussola efficace al proletariato. E la prima di queste inconseguenze risiede nel rifiuto di questa corrente di riconoscere la decadenza del modo di produzione capitalistico.
La "non-decadenza" alla maniera bordighista
Il riconoscimento che dall'inizio del secolo e particolarmente dalla I guerra mondiale la società capitalista è entrata nella fase di decadenza costituisce una delle pietre angolari della prospettiva del movimento comunista. Nel corso del primo olocausto imperialista, rivoluzionari come Lenin, per appoggiare la necessità da parte del proletariato di rifiutare ogni partecipazione a questo, di "trasformare la guerra imperialista in guerra civile", si basano su un'analisi simile (vedi in particolare 'L'imperialismo, fase suprema del capitalismo'). Analogamente l'entrata del capitalismo nel periodo di decadenza è al centro delle posizioni politiche dell'Internazionale Comunista al momento della sua fondazione nel 1919. E' proprio perché il capitalismo è diventato un sistema decadente che non c'è più lo spazio per lottare al suo interno per ottenere delle riforme, come era preconizzato dai partiti operai della II Internazionale, ma che il solo compito che possa darsi il proletariato è quello di realizzare la rivoluzione mondiale. E' in particolare su questa base di granito che, in seguito, la Sinistra Comunista internazionale e, soprattutto, la sua frazione italiana ha potuto elaborare l'insieme delle sue posizioni politiche (3).
Tuttavia, è l'originalità di Bordiga e della corrente di cui è stato l'ispiratore quella di negare che il capitalismo sia entrato nel periodo di decadenza (4). Tuttavia il PCInt. (Il Comunista) è obbligato a riconoscere che dall'inizio del secolo qualcosa è cambiato, sia nella natura delle crisi economiche che in quella della guerra.
Sulla natura della guerra, le citazioni del PCInt. che abbiamo riprodotto sopra parlano da sole: esiste effettivamente una differenza fondamentale fra le guerre che potevano essere condotte dagli stati capitalisti nel secolo scorso. Ad esempio, 6 decenni separano le guerre napoleoniche contro la Prussia dalla guerra franco-prussiana del 1870, mentre quest'ultima è lontana solo 4 decenni da quella del 1914. Ma la guerra del 1914 tra la Francia e la Germania è fondamentalmente differente da tutte le precedenti fra queste due nazioni: è per questo che Marx poteva chiamare gli operai tedeschi a partecipare alla guerra del 1870 (vedere il primo Indirizzo del Consiglio Generale dell'AIT sulla guerra franco-tedesca) sempre situandosi perfettamente sul terreno della classe proletaria, mentre i socialdemocratici tedeschi che chiamavano gli operai alla "difesa nazionale" nel 1914 si ponevano decisamente sul terreno borghese. E' esattamente ciò che i rivoluzionari come Lenin o Rosa Luxemburg hanno difeso con le unghie e con i denti a quell'epoca contro i socialsciovinisti che pretendevano di ispirarsi alle posizioni di Marx nel 1870: questa posizione non era più valida perché la guerra aveva cambiato natura, e questo cambiamento risultava esso stesso da un cambiamento fondamentale nella vita dell'insieme del modo di produzione capitalistico.
Programme Communiste, d'altronde, non dice cose diverse quando afferma (come abbiamo visto sopra) che le guerre imperialiste "si mettono contro il divenire storico dell'umanità; perché la borghesia imperialista e il capitalismo mondiale non giocano più alcun ruolo 'progressista', ma , al contrario, sono diventate un ostacolo allo sviluppo generale della società". Ugualmente, riprendendo una citazione di Bordiga, considera che "Le guerre imperialiste mostrano che la crisi di disgregazione del capitalismo è inevitabile in ragione dell'apertura del periodo in cui la sua espansione non esalta più l'aumento delle forze produttive, ma ne fa dipendere l'accumulazione da un distruzione ancora più grande" (PC n° 90, p.25). Nonostante ciò, chiuso nei vecchi dogmi bordighisti, il PCInt. è incapace di trarne la conseguenza logica da un punto di vista del materialismo storico: il fatto che il capitalismo mondiale sia divenuto un ostacolo allo sviluppo generale della società significa semplicemente che questo modo di produzione è è entrato nel periodo di decadenza. Quando Lenin o la Luxemburg, nel 1914, facevano questa constatazione, non tiravano fuori un coniglio dal cilindro: non facevano che applicare scrupolosamente la teoria marxista alla comprensione dei fatti storici dell'epoca. Il PCInt. (Il Comunista) come l'insieme degli altri "PCInt." appartenenti alla corrente 'bordighista', si richiamano al marxismo. E' un'ottima cosa: oggi solo delle organizzazioni che basano le loro posizioni programmatiche sugli insegnamenti del marxismo possono pretendere di difendere la prospettiva rivoluzionaria del proletariato. Sfortunatamente il PCInt. ci dà la prova della difficoltà che incontra nella comprensione di questo metodo. In particolare ama impiegare abbondantemente il termine "dialettica", ma, come l'ignorante che per nascondersi usa parole difficili, non sa di che cosa parla.
Per esempio, per quanto riguarda la natura delle crisi, ecco che cosa possiamo leggere in PC:
"Le crisi decennali del giovane capitalismo avevano un'incidenza piuttosto piccola; avevano più il carattere di crisi commerciali internazionali che della macchina industriale. Esse non incidevano sulle potenzialità della struttura industriale (...) Erano crisi di disoccupazione, cioè di chiusura delle industrie. Le crisi moderne sono crisi di disgregamento di tutto il sistema che, in seguito, deve, penosamente, ricostruire le diverse strutture." (PC n° 90, p.28).
Segue tutta una serie di statistiche che dimostrano l'ampiezza considerevole delle crisi del XX secolo, senza paragone con quelle del secolo scorso. Qui, non percependo che la differenza di ampiezza fra questi due tipi di crisi è rivelatrice non solo di una differenza fondamentale fra esse, ma anche del modo di vita del sistema che colpiscono, il PCInt. dimentica uno degli elementi di base della dialettica: la trasformazione della quantità in qualità. In effetti per il PCInt. la differenza fra i due tipi di crisi resta nell'ambito del quantitativo e non ne riguarda i meccanismi fondamentali. Ed è ciò che rivela scrivendo:
"Nel secolo scorso si registrarono otto crisi mondiali: 1836, 1848, 1856, 1883, 1886 e 1894. La durata media dei cicli secondo i lavori di Marx era di 10 anni. A questo ritmo "giovanile" segue, nel periodo che va dall'inizio del secolo al 2° conflitto mondiale, una successione più rapida delle crisi: 1901, 1908, 1914, 1920, 1929. A un capitalismo smisuratamente cresciuto corrisponde un aumento della composizione organica (...) cosa che porta a una crescita del tasso dell'accumulazione: la durata media del ciclo si riduce così a 7 anni." (PC n° 90, p.27).
Questa aritmetica sulla durata dei cicli dimostra che il PCInt. mette sullo stesso piano le convulsioni economiche del secolo scorso con quelle di questo secolo, senza comprendere che la natura stessa della nozione di ciclo è fondamentalmente cambiata. Accecato dalla parola divina di Bordiga, il PCInt. non vede che, secondo le parole di Trotsky, le crisi del XIX secolo erano i battiti del cuore del capitalismo, mentre quelle del XX secolo sono i rantoli della sua agonia.
E' la stessa cecità manifestata dal PCInt. quando tenta di mettere in evidenza il legame fra crisi e guerra. In maniera molto argomentata e sistematica, mancando di essere rigorosa (lo vedremo oltre), PC tenta di stabilire che, nel periodo attuale, la crisi capitalista sbocca necessariamente nella guerra mondiale. E' una preoccupazione del tutto meritevole perché ha il merito di rifiutare il discorso illusorio e criminale del pacifismo. Non viene, però, in mente al PCInt. di chiedersi se il fatto che le crisi del XIX secolo non conducevano alla guerra mondiale, o almeno a guerre localizzate, non derivi da una differenza di fondo rispetto a quelle del XX secolo. Ancora una volta il PCInt. dà prova di un "marxismo" ben misero: non di tratta nemmeno di una incomprensione di ciò che significa la parola dialettica, si tratta di un rifiuto o almeno di incapacità di esaminare in profondità - al di là di una fissazione su apparenti analogie che potrebbero esistere fra i cicli del passato e quelli di oggi - i fenomeni principali, quelli determinanti, della vita del modo di produzione capitalistico.
Così il PCInt. si mostra incapace, a proposito di una questione così importante come quella della guerra imperialista, di applicare in maniera soddisfacente la teoria marxista, comprendendo la differenza fondamentale che esiste fra la fase ascendente del capitalismo e quella di decadenza. La confessione palese di questa incapacità risiede nel fatto che il PCInt. tenta di attribuire alle guerre del periodo attuale una razionalità economica simile a quella che potevano avere le guerre del secolo scorso.
Razionalità e irrazionalità della guerra
La nostra stampa ha già pubblicato numerosi articoli sulla questione dell'irrazionalità della guerra nel periodo di decadenza del capitalismo (5). La nostra posizione non ha niente a che vedere con una "scoperta originale" della nostra organizzazione; essa è basata sulle acquisizioni fondamentali del marxismo dall'inizio del XX secolo, espresse soprattutto da Lenin e Rosa Luxemburg. Queste acquisizioni sono state formulate con molta chiarezza nel 1945 dalla Sinistra Comunista di Francia contro la teoria revisionista sviluppata da Vercesi alla vigilia della seconda guerra mondiale, teoria che aveva condotto la sua organizzazione, la Frazione Italiana della Sinistra Comunista, ad una paralisi totale al momento dello scoppio del conflitto imperialista:
"All'epoca del capitalismo ascendente, le guerre (...) esprimevano la marcia ascendente di maturazione, di allargamento e di espansione del sistema economico capitalista. (...) Ogni guerra si giustificava e portava i suoi frutti aprendo un nuovo campo di un maggiore espansione, assicurando lo sviluppo di una produzione capitalistica maggiore (...) La guerra fu il mezzo indispensabile al capitalismo per aprirsi possibilità di ulteriore sviluppo, in un'epoca in cui queste possibilità potevano essere aperte solo per mezzo della violenza. In seguito, il crollo del mondo capitalista, che ha storicamente esaurito tutte le possibilità di sviluppo, mostra nella guerra moderna, la guerra imperialista, l'espressione di questo crollo, che senza aprire nessuna possibilità di sviluppo ulteriore per la produzione non fa che affondare nell'abisso le forze produttive e accumulare a un ritmo accelerato rovine su rovine." (Rapporto sulla situazione internazionale alla Conferenza della Sinistra Comunista di Francia del luglio 1945, ripubblicata sulla nostra Révue Internationale n° 59)
Abbiamo visto che anche il PCInt. fa questa distinzione, però non ne trae le giuste conclusioni e, dopo avere fatto un passo in una giusta direzione, ne fa due in senso inverso cercando una razionalità economica alle guerre imperialiste del XX secolo.
Questa razionalità, "la dimostrazione delle ragioni economiche fondamentali che spingono tutti gli stati alla guerra" (PC n° 92, p.54) il PCInt. cerca di trovarla nella citazione di Marx: "Una distruzione periodica di capitale è diventata una condizione necessaria all'esistenza di un qualsiasi tasso di interesse corrente (...) Considerato da questo punto di vista, queste terribili calamità che siamo abituati ad attendere con tanta paura e apprensione (...) non sono probabilmente che il correttivo naturale e necessario di una opulenza eccessiva ed esagerata, la 'vis medicatrix' grazie alla quale il nostro sistema sociale quale è attualmente configurato ha la possibilità di liberarsi di tanto in tanto di un sovrappiù sempre rinascente che ne minaccia l'esistenza e di tornare a uno stato sano e solido" (Grundrisse). In realtà, la distruzione di capitale, evocata qui da Marx, è quella provocata dalle crisi cicliche della sua epoca (e non dalla guerra) in un momento in cui le crisi costituiscono i battiti del cuore del sistema capitalistico (anche se esse pongono già in prospettiva i limiti storici di questo sistema). In numerosi passi della sua opera, Marx dimostra che il modo con cui il capitalismo supera le crisi risiede non solo in una distruzione (o piuttosto una devalorizzazione) di capitale momentaneamente eccedente ma anche, e soprattutto, nella conquista di nuovi mercati, particolarmente all'esterno della sfera dei rapporti di produzione capitalistici (6). E poiché il mercato mondiale non si estende indefinitamente, poiché i settori extra-capitalisti non possono che restringersi fino a scomparire completamente man mano che il capitale sottomette il pianeta alle sue leggi, il capitalismo è condannato a convulsioni sempre più catastrofiche.
E' un'idea che sarà sviluppata in maniera più sistematica da Rosa Luxemburg nell'Accumulazione del capitale ma che essa non ha per niente inventato, come certi ignoranti pretendono. Una simile idea appare d'altronde in filigrana in certi passaggi del testo di PC ma, quando questo fa riferimento a Rosa Luxemburg, non è per appoggiarsi sui suoi notevoli sviluppi teorici che spiegano con grande chiarezza il meccanismo delle crisi del capitalismo e in particolare perché le leggi di questo sistema lo condannano storicamente, ma è per riprendere per proprio conto la sola idea veramente contestabile che si possa trovare nell'Accumulazione del capitale, la tesi secondo la quale il militarismo potrebbe costituire un 'campo d'accumulazione' che dà parziale sollievo al capitalismo di fronte alle sue contraddizioni economiche (vedi PC n° 91, pp. da 31 a 33). Sfortunatamente proprio in una simile idea si era smarrito Vercesi alla fine degli anni '30, cosa che l'ha condotto a pensare che il formidabile sviluppo della produzione di armamenti a partire dal 1933, permettendo un rilancio della produzione capitalista, allontanava di gran lunga la prospettiva di una guerra mondiale. Per contro, quando PC vuole dare una spiegazione sistematica del meccanismo della crisi, al fine di mettere in evidenza il legame che esiste fra questa e la guerra imperialista, adotta una visione unilaterale basata in maniera preponderante sulla tesi della caduta tendenziale del tasso di profitto.
"Da quando il modo di produzione capitalista è divenuto dominante, la guerra è legata in maniera determinista alla legge stabilita da Marx della caduta tendenziale del tasso del profitto medio che è la chiave della tendenza del capitalismo verso la catastrofe finale" (PC n° 90, p.23).
Segue un riassunto, che PC prende a prestito da Bordiga, (Dialogato con Stalin), della tesi di Marx secondo la quale l'aumento continuo nel valore delle merci (per il progresso costante delle tecniche produttive) di ciò che è dovuto alle macchine e alle materie prime in rapporto a ciò che è dovuto al lavoro dei salariati, conduce a una tendenza storica alla caduta del saggio del profitto, nella misura in cui solo il lavoro degli operai è in grado di produrre un profitto (di produrre più valore di quanto costi).
Occorre segnalare che nella sua analisi, PC (e Bordiga, citato abbondantemente) non ignora la questione dei mercati e il fatto che la guerra imperialista sia la conseguenza della concorrenza tra Stati imperialisti:
"La progressione geometrica della produzione impone a ciascun capitalismo nazionale di esportare, di conquistare sui mercati esterni degli sbocchi adeguati per la produzione. E siccome ciascun polo nazionale d'accumulazione è sottoposto alla stessa regola, la guerra fra gli stati imperialisti è inevitabile. Dalla guerra economica e commerciale, dai conflitti finanziari, dalle dispute per le materie prime, dagli scontri politici e diplomatici che ne vengono fuori, si arriva finalmente alla guerra aperta. Il conflitto latente fra stati scoppia all'inizio sotto forma di conflitti militari limitati a certe zone geografiche, di guerre localizzate in cui le grandi potenze non si affrontano direttamente, ma per interposte persone; ma esso scoppia infine in una guerra generalizzata, caratterizzata dall'urto diretto dei grandi mostri statali dell'imperialismo, lanciati gli uni contro gli altri dalla violenza delle loro contraddizioni interne. Tutti gli stati minori sono presi nel conflitto il cui teatro si estende necessariamente a tutto il pianeta. Accumulazione-crisi-guerre locali-guerra mondiale." (PC n°90, p.24)
Non si può che sottoscrivere questa analisi che ritaglia ciò che i marxisti hanno messo in avanti a partire dalla prima guerra mondiale. Però, là dove casca l'asino è che la ricerca dei mercati esterni è vista da PC solo come la conseguenza della caduta tendenziale del tasso del profitto, mentre, al di là di questo aspetto specifico, il capitalismo come un tutto ha un bisogno permanente di mercati al di fuori della propria sfera di dominio, come l'ha magistralmente dimostrato Rosa Luxemburg, per potere realizzare la parte di plusvalore destinata a essere reinvestita dal capitale in un ciclo ulteriore in vista della sua accumulazione. A partire da questa visione unilaterale, PC attribuisce alla guerra imperialista una funzione economica precisa, conferendole una vera razionalità nel funzionamento del capitalismo:
"La crisi trae la sua origine dall'impossibilità di proseguire l'accumulazione, impossibilità che si manifesta quando l'accrescimento della massa della produzione non riesce più a compensare la caduto del saggio del profitto. La massa di pluslavoro totale non è più in grado di assicurare profitto al capitale anticipato, di riprodurre le condizioni di redditività degli investimenti. Distruggendo capitale costante (lavoro morto) su grande scala, la guerra gioca un ruolo economico fondamentale: grazie alle spaventose distruzioni dell'apparato produttivo, permette, nei fatti, una futura gigantesca espansione della produzione per rimpiazzare ciò che è stato distrutto, dunque una espansione parallele del profitto, del plusvalore, cioè del pluslavoro di cui si ciba il capitale. Le condizioni di ripresa del processo di accumulazione sono ristabilite. Il ciclo economico riparte. (...) Il sistema capitalistico mondiale entra vecchio in guerra ma vi trova un bagno di ringiovanimento nel bagno di sangue che gli dà nuova gioventù e ne esce con la vitalità di un robusto neonato" (PC n° 90, p.24).
La tesi di PC non è nuova. Essa è stata messa in avanti e sistematizzata da Grossmann negli anni '20 e ripresa, dopo di lui, da Mattick, uno dei teorici del movimento consiliarista. Essa può riassumersi in modo molto semplice nei termini seguenti: distruggendo capitale costante, la guerra fa abbassare la composizione organica del capitale e permette, perciò, un innalzamento del saggio del profitto. Il fatto è che non è mai stato provato che al momento delle riprese che hanno seguito le guerre mondiali, la composizione organica del capitale sia stata inferiore a quanto lo fosse stata alla vigilia. E' successo proprio il contrario. Se si prende il caso della II guerra mondiale, ad esempio, è chiaro che nei paesi colpiti dalle distruzioni della guerra la produttività media del lavoro e dunque il rapporto fra capitale costante e capitale variabile ha rapidamente raggiunto, all'inizio degli anni '50, quello che era nel 1939. Nei fatti, il potenziale produttivo ricostruito è considerevolmente più moderno di quello che era stato distrutto. E', d'altronde, ciò che PC constata esso stesso per farne giustamente una delle cause del boom del dopo-guerra (!): "L'economia di guerra trasmette inoltre al capitalismo tanto i progressi tecnologici e scientifici realizzati dalle industrie militari che gli impianti industriali creati per la produzione di armamenti. Questi, in effetti, non furono distrutti tutti dai bombardamenti, né - nel caso tedesco - dallo smantellamento realizzato dagli alleati. (...) La distruzione su larga scala di infrastrutture, di fabbriche, di cantieri,, di mezzi di trasporto ecc., e l'allestimento di mezzi di produzione ad alta composizione tecnologica provenienti dall'industria di guerra ... tutto ciò ha creato il miracolo." (PC n°92, p.38).
Quanto agli Stati Uniti, in assenza di distruzioni in casa propria, la composizione organica del loro capitale, nel 1945, era ben superiore a quella di sei anni prima. Tuttavia il periodo di "prosperità" che accompagna la ricostruzione si prolunga ben al di là (fino a metà degli anni '60) del momento in cui il potenziale produttivo dell'anteguerra è stato ricostituito facendo ritornare la composizione organica al suo valore precedente (7).
Avendo già dedicato numerosi testi alla critica delle concezioni di Grossmann-Mattick alle quali PC, sulla scia di Bordiga, si richiama, non la riprenderemo qui. Per contro è importante segnalare le aberrazioni teoriche (e aberrazioni tout-court) alle quali le concezioni di Bordiga, riprese dal PCInt., conducono.
Le aberrazioni della visione del PCInternazionale
La preoccupazione centrale del PCInt è completamente corretta: dimostrare il carattere ineluttabile della guerra. In particolare si vuole rifiutare fermamente la visione del "superimperialismo" sviluppata soprattutto da Kautsky all'epoca della I guerra mondiale e destinata a "dimostrare" che le grandi potenze avrebbero potuto mettersi d'accordo tra loro al fine di stabilire un dominio in comune e pacifico del mondo. Una simile concezione, evidentemente, era uno dei ferri di lancia delle menzogne pacifiste che volevano far credere agli operai che si sarebbe potuto mettere fine alle guerre senza avere bisogno di distruggere il capitalismo. Per rispondere a una simile visione, PC fornisce il seguente argomento:
"Un superimperialismo è impossibile; se per ipotesi l'imperialismo riuscisse a sopprimere i conflitti fra gli stati, le sue contraddizioni interne lo costringerebbero a dividersi nuovamente in poli nazionali concorrenti e dunque in blocchi statali in conflitto. La necessità di distruggere enormi masse di lavoro morto non può essere soddisfatta dalle sole catastrofi naturali" (PC n°90, pag. 26).
Insomma, la funzione fondamentale dei blocchi imperialisti, o della tendenza verso la loro costituzione, è quella di creare le condizioni in grado di permettere distruzioni su larga scala. Con una simile visione, non si vede perché gli stati capitalisti non potrebbero intendersi fra loro al fine di provocare, quando necessario, simili distruzioni permettendo un rilancio del tasso di profitto e della produzione. Essi dispongono di mezzi sufficienti per operare simili distruzioni mantenendo un controllo su di esse al fine di preservare al meglio i rispettivi interessi. Ciò che PC rifiuta di prendere in considerazione è che la divisione in blocchi imperialisti è il logico risultato della concorrenza a morte in cui i differenti settori del capitale si lanciano, una concorrenza che fa parte dell'essenza stessa di questo sistema e che si inasprisce quando la crisi lo colpisce con tutta la sua violenza. In questo senso, la costituzione di blocchi imperialistici non risulta per niente da una sorta di tendenza, ancora incompleta, verso l'unificazione degli stati capitalistici ma, al contrario, dalla necessità in cui si trovano di formare alleanze militari nella misura in cui nessuno di essi potrebbe fare la guerra a tutti gli altri. Il fatto più importante nell'esistenza dei blocchi non è la convergenza di interessi che può esistere fra gli stati alleati (convergenza che può essere rimessa in causa come dimostrano tutte le giravolte di alleanze che abbiamo visto nel corso del 20° secolo), ma l'antagonismo fondamentale fra i blocchi, espressione al massimo livello delle rivalità insormontabili che esistono fra tutti i settori nazionali del capitale. E' per questo che l'idea di un "superimperialismo" è un controsenso nei termini.
Con l'utilizzo di argomenti deboli o contestabili, il rifiuto del PCInt. dell'idea del "superimperialismo" perde considerevolmente la sua forza, cosa che non è il migliore mezzo per combattere le menzogne della borghesia. E' particolarmente evidente quando, dopo il passaggio citato prima, prosegue:
"Sono delle volontà umane, delle masse umane che devono fare le cose, delle masse umane alzate le une contro le altre, delle energie e delle intelligenze tese a distruggere ciò che altre energie e altre intelligenze difendono".
Qui si constata tutta la debolezza della tesi del PCInt.: francamente con i mezzi di cui dispongono oggi gli stati capitalisti e in particolare l'arma nucleare, in che le "volontà umane" e soprattutto le "masse umane" sono indispensabili per provocare un grado sufficiente distruzioni, se tale è la funzione della guerra secondo il PCInt?
In fin dei conti, la corrente "bordighista" non poteva che pagare che con gravi oscillazioni teoriche e politiche la debolezza delle analisi sulle quali fonda la sua posizione sulla guerra e i blocchi imperialisti. E' così che dopo avere espulso dalla porta la nozione di un superimperialismo, la lascia entrare dalla finestra con la nozione di un "condominio russo-americano" sul mondo:
"La II guerra mondiale ha dato origine ad un equilibrio correttamente descritto dalla formula di un "condominio russo-americano" (...) se la pace ha regnato finora nelle metropoli imperialiste, è proprio a causa di questo dominio degli USA e dell'URSS..." (PC n°91, p.47).
"in realtà la "guerra fredda" degli anni '50 esprime l'insolente sicurezza dei vincitori del conflitto e la stabilità degli equilibri mondiali sanzionata a Yalta; essa rispondeva in questo caso a esigenze di mobilitazione ideologica e a imbrigliare le tensioni sociali esistenti all'interno dei blocchi. La nuova "guerra fredda" che prende il posto della distensione nella seconda metà degli anni '70 risponde all'esigenza di imbrigliare antagonismi non più (o non ancora) fra le classi, ma fra stati che sopportano sempre meno il vecchio sistema di alleanze. La risposta russa e americana alle pressioni sempre più grandi consiste nel cercare di orientare l'aggressività dei loro alleati in direzione del campo opposto" (PC n° 92, p.47)
Insomma, la prima guerra fredda non aveva altra motivazione ideologica che quella di "imbrigliare gli antagonismi fra le classi". E' veramente il modo alla rovescia: se all'indomani della prima guerra mondiale, abbiamo assistito a un reale rinculo degli antagonismi imperialisti e a un parallelo rinculo dell'economia di guerra, è perché la borghesia aveva come principale preoccupazione quella di opporsi all'ondata rivoluzionaria iniziata nel '17 in Russia, di stabilire un fronte comune contro la minaccia del comune nemico mortale di tutti i settori della borghesia: il proletariato mondiale. Se la II guerra mondiale è immediatamente sfociata sullo sviluppo degli antagonismi imperialisti fra i principali vincitori, con il mantenimento di un grado molto elevato di economia di guerra, è proprio perché la minaccia che poteva rappresentare un proletariato già profondamente colpito dalla controrivoluzione, era stata completamente sradicata nel corso stesso della guerra e immediatamente dopo da una borghesia istruita dalla propria esperienza storica (vedi in particolare "Le lotte operaie in Italia nel '43", su Rivista Internazionale n° 17). Nei fatti, la guerra di Corea, la guerra di Indocina e più tardi quella del Vietnam, senza contare tutte quelle del Medio Oriente che vedevano lo Stato di Israele, sostenuto fermamente dagli USA, opporsi ai paesi arabi sostenuti dall'URSS (per non parlare delle diecine di altre guerre fino a quella dell'Afghanistan che si è prolungata fino alla fine degli anni '80) non avevano niente a che vedere con un antagonismo fondamentale fra i due grandi mostri imperialisti ma ad una sorta di bluff corrispondente sia a semplici campagne ideologiche contro il proletariato, sia alla necessità, per ciascuna delle superpotenze, di mantenere l'ordine nel proprio giardino.
D'altronde quest'ultima idea è contraddetta da PC stesso che attribuisce alla distensione fra i due blocchi, fra la fine degli anni '50 e la metà degli anni '70, la stessa funzione della guerra fredda: "In realtà la distensione non fu che la risposta delle due superpotenze alle linee di frattura che apparivano sempre più nettamente nelle loro rispettive sfere di influenza. Ciò che essa significava, era una accresciuta pressione di Mosca e di Washington sui loro alleati per contenerne le spinte centrifughe". (PC n° 92, pag. 43)
E' vero che i comunisti non devono mai prendere per oro colato ciò che dicono la borghesia, i suoi giornalisti e i suoi storici; ma pretendere che dietro la maggior parte delle guerre (più di un centinaio) che hanno devastato il mondo dal 1945 fino alla fine degli anni '80, non c'era la mano delle grandi potenze, significa voltare le spalle a una realtà osservabile da chiunque; è anche rimettere in causa quello PC afferma giustamente lui stesso: "Il conflitto latente fra gli stati scoppia all'inizio sotto forma di conflitti militari limitati a certe zone geografiche, di guerre localizzate in cui le grandi potenze non si affrontano direttamente, ma per interposte persone" (vedi sopra).
Nei fatti, il PCInt. può sempre spiegare con la "dialettica" la contraddizione fra ciò che dice e la realtà, o fra le sue diverse argomentazioni: ci dà soprattutto la prova che il rigore non è il suo forte e che gli succede di raccontare qualsiasi cosa, fatto che non serve per combattere efficacemente le menzogne borghesi e rafforzare la coscienza del proletariato.
E' proprio questo che è in questione, fino alla caricatura, quando, per combattere le menzogne del pacifismo, si appoggia su un articolo di Bordiga del 1950 che fa dell'evoluzione della produzione dell'acciaio l'indice più importante, se non il più importante, dell'evoluzione del capitalismo stesso: "La guerra nell'epoca capitalista, cioè il più feroce tipo di guerra, è la crisi prodotta inevitabilmente dalla necessità di consumare l'acciaio prodotto e di lottare per il diritto di monopolio della produzione supplementare di acciaio" (Sua maestà l'acciaio, in Battaglia Comunista n° 18/1950).
Sempre preoccupato dalla volontà di attribuire una "razionalità" alla guerra, PC è portato a lasciare intendere che la guerra imperialista non solo è cosa buona per il capitalismo, ma anche per l'insieme dell'umanità e dunque per il proletariato, quando afferma che: "...il prolungamento della pace borghese al di là dei limiti definiti da un ciclo economico che reclama la guerra, anche se essa fosse possibile, non potrebbe sboccare che in una situazione ancora peggiore di quella della guerra". Segue allora una citazione dell'articolo di Bordiga:
"Fermiamoci a supporre...che invece delle due guerre <mondiali>... avessimo avuto la pace borghese, la pace industriale. In circa 35 anni la produzione sarebbe aumentata di 20 volte; sarebbe diventata ancora 20 volte più grande dei 70 milioni del 1915, arrivando oggi <1950, ndr> a 1400 milioni. Ma tutto questo acciaio non si mangia, non si consuma, non si distrugge se non massacrando i popoli. I due miliardi di uomini pesano circa 140 milioni di tonnellate; essi produrrebbero in un solo anno 10 volte il proprio peso d'acciaio. Gli dei punirono Mida trasformandolo in una massa d'oro; il capitale avrebbe trasformato gli uomini in una massa di acciaio, la terra, l'acqua, l'aria nella quale vivono in una prigione di metallo. La pace borghese ha dunque delle prospettive più bestiali della guerra."
Si tratta proprio di un delirio di Bordiga come ne era troppo spesso colpito questo rivoluzionario. Ma anziché prendere le distanze da queste divagazioni, il PCInt., al contrario, carica la dose:
"Soprattutto se si considera che la terra, trasformata in un globo d'acciaio, non sarebbe che un luogo di putrefazione in cui merci e uomini in eccesso si decomporrebbero pacificamente. Ecco signori pacifisti quale potrebbe essere il frutto del 'ritorno alla ragione' dei governi, la loro conversione a una 'cultura di pace'! Ma è proprio perciò che non è la Follia, ma la Ragione - certo, la Ragione della società borghese - a spingere tutti i governi verso la guerra, verso la salutare ed igienica guerra." (PC n° 92, pag. 54)
Bordiga, scrivendo le righe alle quali si richiama il PCInt. girava le spalle a una delle stesse basi dell'analisi marxista: il capitalismo produce merci e chi dice merci dice possibilità di soddisfare un bisogno per quanto pervertito possa essere, come il "bisogno" di strumenti di morte e di distruzione da parte degli stati capitalisti. Se produce acciaio in grande quantità, è effettivamente per soddisfare la domanda degli stati in armamenti pesanti destinati alla guerra. Però questa produzione non può andare al di là della domanda: se le in-dustrie siderurgiche non riescono a vendere il loro acciaio ai militari, perché questi ne hanno già preso una quantità sufficiente, non proseguono la produzione col rischio del fallimento delle loro imprese, non sono pazzi. Per contro Bordiga lo è un po' quando pensa che la produzione dell'acciaio potrebbe proseguire indefinitamente senza altro limite che quello imposto dalle distruzioni della guerra imperialista.
Fortunatamente per il PCInt. il ridicolo non uccide, ma è con una grande risata che gli operai rischiano di accogliere le sue elucubrazioni e quelle del suo ispiratore. E' estremamente triste per la causa che il PCInt. si sforza di difendere: utilizzando argomenti stupidi e ridicoli contro il pacifismo è, involontariamente, portato a fare il gioco di questo nemico del proletariato.
In questa disgrazia, tuttavia, c'è qualcosa di buono: con i suoi argomenti deliranti per giustificare la "razionalità" della guerra, il PCInt. demolisce una simile idea. E non è una cosa malvagia quando questa idea lo porta a mettere in avanti una prospettiva che rischia di smobilitare il proletariato facendogli sottovalutare il pericolo che il capitalismo fa pesare sull'umanità. Una tale idea si trova riassunta nella seguente affermazione:
"Viene fuori così <dalla guerra come manifestazione di una razionalità economica> che la lotta interimperialista e lo scontro fra potenze rivali non potrà mai portare alla distruzione del pianeta perché si tratta proprio non di avidità eccessive, ma della necessità di sfuggire alla sovrapproduzione. Quando l'eccedente è distrutto, la macchina di guerra si ferma, quale che sia il potenziale distruttivo delle armi messe in gioco, perché spariscono le cause della guerra" (PC n° 92, pag. 55).
FM
1. E' necessario fare questa precisazione perché attualmente esistono 3 organizzazioni che si chiamano Partito Comunista Internazionale: due provengono dall'antica organizzazione dallo stesso nome spezzatasi nel 1982 e che pubblicava in italiano "Il Programma Comunista"; oggi questi due tronconi pubblicano "Il Programma Comunista" e "Il Comunista". Il terzo PCInt. che si è formato in seguito ad una scissioni del 1974 pubblica "Il Partito Comunista".
2. Vedi in particolare: "Guerra e militarismo", in Rivista Internazionale n. 12
3. Su questa questione vedi più particolarmente il nostro studio "Comprendere la decadenza del capitalismo" nelle Révue Internationale nn. 48, 49, 50, 52, 54, 55, 56, 58. La questione del legame fra l'analisi della decadenza e le posizioni politiche è trattata nel n° 49.
4. Vedi "Comprendere la decadenza del capitalismo". Le critiche delle posizioni di Bordiga si trovano in particolare nei n. 48, 54, 55 della Révue Internationale.
5) Vedi soprattutto "La guerra nel capitalismo" in Révue Internationale n° 41) e "Guerra e militarismo nella decadenza" in Rivista Internazionale n. 12
6. Vedi il testo "La decadenza del capitalismo" e numerosi articoli nella Révue Internationale, in particolare "Marxismo e teoria delle crisi", in italiano nella Rivista Internazionale n° 13, e, sul n° 76 in francese, inglese e spagnolo, "Il comunismo non è un bel ideale ma una necessità materiale"
7. Sullo studio dei meccanismi economici della ricostruzione, vedi "Comprendere la decadenza del capitalismo", Révue Internationale nn. 55 e 56.
L'attualità del metodo di Bilan
Ogni volta che i partiti dell'estrema destra conseguono un buon risultato elettorale o che le bande dei naziskin danno la caccia ad immigrati e rifugiati politici nell'ex Repubblica Democratica Tedesca, la propaganda della borghesia "democratica", con in prima fila sinistra ed estrema sinistra, ricomincia ad agitare lo spettro del "pericolo fascista".
Ogni volta che la teppaglia xenofoba e razzista colpisce, si levano al cielo le grida di condanna delle "forze democratiche", senza distinzioni di corrente politica. Si stigmatizza vivamente il successo "popolare" dell'estrema destra alle elezioni e si deplora ancora più vivamente la passività della popolazione, che viene presentata come compiacente verso le azioni odiose di queste canaglie. Lo Stato "democratico" può allora fare apparire la sua repressione come una garanzia di libertà, come la sola forza capace di fare barriera al flagello del razzismo ed al ritorno del fascismo di sinistra memoria. Tutto questo fa parte della propaganda della classe dominante, che moltiplica gli appelli alla "difesa della democrazia", in continuità con le precedenti campagne ideologiche su "il trionfo del capitalismo e la fine del comunismo".
Queste campagne antifasciste si basano su due grandi menzogne: la prima, che pretende di presentare lo Stato borghese ed i suoi partiti politici come una diga contro le "dittature totalitarie"; la seconda, che fa credere che regimi di tipo fascista potrebbero vedere la luce nell'Europa occidentale dei nostri giorni.
Di fronte a queste menzogne la lucidità mostrata dai rivoluzionari degli anni '30 ci permette di meglio comprendere qual è il corso storico attuale, come viene mostrato dall'articolo di Bilan di cui riportiamo degli estratti.
Questo articolo fu scritto circa 60 anni fa, in pieno periodo di vittoria del fascismo in Germania ed un anno prima dell'instaurazione del Fronte Popolare in Francia. Le analisi che esso sviluppa sull'atteggiamento delle "forze democratiche" di fronte al montare del nazismo in Germania, così come sulle condizioni storiche necessarie al trionfo di simili regimi, rimangono pienamente attuali a smentita dei contemporanei corifei dell'antifascismo.
La Frazione di Sinistra del Partito Comunista d'Italia, costretta all'esilio (soprattutto in Francia) dal fascismo mussoliniano, difendeva, contro corrente rispetto a tutto il "movimento operaio" dell'epoca, la lotta indipendente del proletariato in difesa dei suoi interessi e delle sue prospettive rivoluzionarie: la lotta cioè contro tutte le forme del capitalismo.
Contro chi pretendeva che i proletari dovessero sostenere le forze democratico‑borghesi per impedire la vittoria del fascismo, Bilan dimostrava con la forza dei fatti come in Germania le istituzioni e le forze politiche "democratiche", lungi dall'essersi schierate come un argine contro il nazismo, gli avevano amorosamente preparato la culla:
"...dalla Costituzione di Weimar ad Hitler si sviluppa un processo di perfetta continuità organica". Bilan chiariva che il regime nazista non era affatto una mostruosità, ma una delle forme del capitalismo, una forma resa possibile e necessaria dalle condizioni storiche: "... il fascismo si é dunque edificato su una duplice base: da una parte le sconfitte del proletariato, dall'altra le necessità imperiose di una economia messa alle strette da una crisi economica profonda"
Il fascismo in Germania, così come la "democrazia coi pieni poteri" in Francia, non sono che aspetti dell'accelerazione del processo di statalizzazione ( regolamentazione, dice Bilan) della vita economica e sociale del capitalismo degli anni '30, un capitalismo confrontato ad una crisi economica senza precedenti che esasperava gli antagonismi interimperialisti. Ma ciò che decideva se questa tendenza doveva concretizzarsi sotto forma di "fascismo" o di "democrazia coi pieni poteri" era il rapporto fra le due principali classi della società: la borghesia e la classe operaia. Per Bilan, la vittoria del fascismo era possibile solo se il proletariato era già stato sconfitto sia fisicamente che ideologicamente. Il fascismo in Italia e Germania aveva come suo compito concludere un annientamento della classe operaia già iniziato dalla "socialdemocrazia".
Quelli che oggi parlano di minaccia fascista incombente, oltre a riportare in auge la politica antiproletaria degli "antifascisti" dell'epoca, "dimenticano" proprio questa condizione storica messa in evidenza da Bilan. Le attuali generazioni di proletari, in particolare in Europa occidentale, non sono state né fisicamente disfatte, né sottomesse ideologicamente. In queste condizioni, la borghesia non può fare a meno delle armi "dell'ordine democratico". La propaganda ufficiale agita lo spauracchio del fascismo solo per meglio incatenare gli sfruttati alla dittatura capitalista della democrazia.
Nelle sue formulazioni, Bilan parla ancora dell'URSS come di uno "Stato operaio" e dei partiti comunisti fedeli a Mosca come di "partiti centristi". Bisognerà in effetti attendere la seconda guerra mondiale perché la Sinistra Italiana completi l'analisi della natura capitalista dell'URSS e dei partiti stalinisti. In ogni caso, i rivoluzionari già negli anni '30 non mancavano di denunciare vigorosamente e senza esitazioni gli stalinisti come una delle forze "che lavorano alla stabilizzazione dell'insieme del mondo capitalistico" ed "un fattore della vittoria del fascismo". Il lavoro di Bilan si svolge in un periodo di totale disfatta della lotta rivoluzionaria del proletariato, all'inizio stesso del gigantesco compito rappresentato dall'analisi critica della più grande esperienza della storia: la Rivoluzione Russa. E' del tutto logico che le sue formulazioni risentissero ancora dell'enorme attaccamento dei rivoluzionari a questa esperienza unica. Ma, al di là di queste confusioni, il suo lavoro costituisce un momento prezioso ed insostituibile di chiarificazione politica, di cui resta ancora oggi interamente attuale il metodo, consistente nell'analizzare senza concessioni la realtà, ponendosi sempre dal punto di vista storico ed internazionale della lotta operaia.
L'ANNIENTAMENTO DEL PROLETARIATO TEDESCO E L'AVVENTO DEL FASCISMO, MARZO 1935
E' attraverso l'analisi critica degli avvenimenti del dopoguerra, delle vittorie e delle sconfitte rivoluzionarie, che ci sarà possibile acquisire una visione storica del periodo attuale, che sia tanto vasta da abbracciare i fenomeni essenziali che si sono manifestati. Se é giusto affermare che la rivoluzione russa si trova al centro della nostra critica, della critica che essa stessa ci permette, bisogna immediatamente aggiungere che la Germania é l'anello più importante della catena che attualmente strangola il proletariato mondiale.
In Russia la debolezza strutturale del capitalismo, la coscienza del proletariato russo, rappresentata dai bolscevichi, non permisero un'immediata concentrazione delle forze mondiali della borghesia intorno al settore pericolante, mentre in Germania tutti gli avvenimenti del dopoguerra sono espressione di questo intervento, facilitato da un capitalismo forte delle sue tradizioni democratiche e da un proletariato che arrivava in ritardo a prendere coscienza dei suoi compiti storici.
Gli avvenimenti di Germania (dall'annientamento degli Spartachisti alla vittoria del fascismo) contengono già in se stessi una critica dell'ottobre 1917. Si tratta già di una risposta del capitalismo a posizioni politiche spesso inferiori a quelle che permisero la vittoria dei bolscevichi. Ecco perché un'analisi seria della Germania dovrebbe partire da un esame delle Tesi del 3° e 4° Congresso dell'Internazionale Comunista, che contengono degli elementi che non vanno oltre la Rivoluzione Russa, ma la oppongono all'assalto feroce delle forze borghesi contro la rivoluzione mondiale. Questi Congressi hanno elaborato delle posizioni di difesa del proletariato, schierato intorno allo Stato sovietico, in un momento in cui lo sconvolgimento del mondo capitalista rendeva necessaria un'offensiva sempre crescente degli operai di tutti i paesi in contemporanea con un'avanzata ideologica della loro organizzazione internazionale. Gli avvenimenti del 1923 in Germania, soffocati proprio grazie a queste posizioni che si scontravano frontalmente con lo sforzo rivoluzionario degli operai, furono in essi stessi la più sferzante smentita di questi Congressi.
La Germania prova in modo clamoroso l'insufficienza del patrimonio ideologico lasciatoci dai bolscevichi; e questo non per l'insufficienza dei loro sforzi, ma per l'insufficienza degli sforzi dei comunisti nel mondo intero, ed in particolare in Germania. Ed infatti, quando e dove si é fatta una critica della lotta ideologica e politica degli spartachisti? Che noi si sappia, a parte le piatte ripetizioni di qualche giudizio di carattere generale di Lenin, non si é fatto il minimo sforzo. Certo, si parte in guerra contro il "luxemburghismo", si versa ovviamente qualche lacrima sull'annientamento degli spartachisti, si condannano i crimini di Noske e Scheidemann, ma di fare un'analisi seria non se parla neppure. Eppure, se l'ottobre 1917 esprime una negazione categorica della democrazia borghese, il 1919 l'esprime su un piano più avanzato. Se i bolscevichi dimostrarono che il partito del proletariato rappresenta una guida vittoriosa solamente se rigetta, nel corso della sua formazione, ogni alleanza con correnti opportuniste, gli avvenimenti del 1923 provano che la fusione degli spartachisti e degli indipendenti al Congresso di Halle, era stata un'aggiunta alla confusione del PC di fronte alla battaglia decisiva.
In conclusione, invece di elevare il livello della lotta proletaria ancora più in alto dell'ottobre, invece di negare più risolutamente le forme della dominazione del capitalismo, i compromessi con le forze nemiche, in previsione di un imminente assalto rivoluzionario, non potevano che facilitare il raggruppamento delle forze capitaliste riportando le posizioni politiche proletarie ad un livello più basso di quello che aveva permesso la vittoria degli operai russi. In questo senso la posizione contro il parlamentarismo del compagno Bordiga al 2° Congresso costituiva un tentativo di spingere in avanti le posizioni d'attacco del proletariato mondiale, mentre la posizione di Lenin era un tentativo di impiegare questo strumento storicamente superato in una situazione che non presentava ancora tutti gli elementi per questo attacco. Gli avvenimenti hanno dato ragione a Bordiga, non tanto su questo fatto, quanto su una valutazione complessiva che conteneva in sé la critica dei fatti del 1919 in Germania e che consisteva nell'allargare lo sforzo distruttivo del proletariato prima delle nuove battaglie che dovevano decidere la sorte dello Stato proletario e della rivoluzione mondiale.
Noi cercheremo in quest'articolo di esaminare l'evoluzione delle posizioni di classe del proletariato tedesco, in modo da mettere in evidenza quegli elementi di principio che possano completare il contributo bolscevico, criticare la loro pura e semplice riproposizione in situazioni nuove, contribuire al lavoro di critica degli avvenimenti del dopoguerra.
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Nella Costituzione di Weimar, articolo 165, si trova il seguente passaggio: "operai ed impiegati vi (nei Consigli operai) collaboreranno su un piano di parità, insieme agli imprenditori, alla regolamentazione delle questioni di salario e di lavoro, oltre che allo sviluppo generale economico delle forze produttive." Questo caratterizza, come meglio non si potrebbe, un periodo in cui la borghesia tedesca aveva capito che non solo doveva espandere il suo apparato politico fino alla democrazia più allargata, arrivando fino al riconoscimento dei Consigli operai ("Rate"), ma che doveva anche dare agli operai l'illusione del potere economico. Dal 1919 al 1923 il proletariato ebbe l'impressione di essere la forza politicamente predominante nel Reich. A partire dalla guerra mondiale i sindacati, incorporati nell'apparato statale, erano diventati dei pilastri indispensabili al sostegno di tutto l'edificio capitalista ed i soli organismi in grado di mobilitare gli sforzi proletari in vista della ricostruzione dell'economia tedesca e di un apparato stabile di dominazione borghese. La democrazia borghese rivendicata dalla social‑democrazia mostra così di essere il solo mezzo in grado di impedire l'evoluzione rivoluzionaria della lotta operaia, che fu incanalata attraverso un potere politico diretto nei fatti dalla borghesia, la quale poteva contare sull'appoggio sindacale per riportare a galla l'industria. E' in questo periodo che vedono la luce "la prima legislazione sociale del mondo", i contratti collettivi di lavoro, i comitati di fabbrica che tendono talvolta ad opporsi ai sindacati riformisti o arrivano a raccogliere la spinta rivoluzionaria dei proletari, come ad esempio nella Ruhr nel 1921‑22. La ricostruzione tedesca, effettuatasi in questo tripudio di libertà e diritti operai, portò, come tutti sanno, all'inflazione del 1923, espressione delle difficoltà che un capitalismo vinto e terribilmente impoverito provava nel rimettere in moto il suo apparato produttivo. Contemporaneamente si verificò la reazione di un proletariato che vedeva ridursi a niente il suo salario nominale, la sua "gigantesca" legislazione sociale, la sua facciata di potere politico. Se nel 1923 il proletariato tedesco fu battuto, malgrado i "governi operai" in Sassonia ed in Turingia, malgrado un PC con una larga influenza, non ancora corroso dal centrismo e per di più diretto da vecchi spartachisti, se la vittoria mancò nonostante tutte le condizioni favorevoli assicurate dalle difficoltà dell'imperialismo tedesco, é a Mosca che bisogna cercarne le cause, nelle Tesi del 3° e 4° Congresso che, accettate dagli spartachisti, invece di completare il "Programma di Spartaco" del 1919, si situavano molto al di sotto di quest'ultimo. Malgrado i suoi rari equivoci, i discorsi di Rosa Luxemburg contengono una negazione feroce delle forze democratiche del capitalismo, una prospettiva sia economica che politica, e non di vaghi "governi operai" e di fronti uniti con dei partiti controrivoluzionari.
A nostro avviso, la sconfitta del 1923 é la risposta degli avvenimenti alla stagnazione del pensiero critico comunista, che ripeteva invece di innovare, rifiutandosi di trarre dalla realtà stessa delle linee programmatiche nuove, e questo nel momento in cui il capitalismo mondiale occupava la regione tedesca della Ruhr, determinando così un'ondata di risentimento nazionalista capace di canalizzare o quanto meno confondere la coscienza degli operai e perfino dei dirigenti del PC.
Una volta scampato a questo momento critico, il capitalismo tedesco poté beneficiare dell'aiuto finanziario di paesi come gli USA, convinti della sparizione momentanea di ogni pericolo rivoluzionario. E' il momento per un'ondata di concentrazioni e fusioni industriali e finanziarie senza precedenti, sulla base di una razionalizzazione sfrenata, mentre il governo Stresemann succede ad una serie di governi socialisti o socialisteggianti. La socialdemocrazia appoggia questo consolidamento strutturale di un capitalismo che cerca nella sua organizzazione disciplinata la forza per tenere testa ai suoi avversari di Versailles ed agita di fronte agli operai il mito della democrazia economica, della difesa dell'industria nazionale, del vantaggio di trattare solamente con alcuni padroni, il cui cartello diventava una specie di premessa del socialismo.
Dal 1925‑26, e fino ai primi sintomi della crisi mondiale, il movimento di organizzazione dell'economia tedesca cresce continuamente. Si potrebbe quasi dire che il capitalismo tedesco, che aveva potuto tenere testa al mondo intero grazie alle sue forze industriali ed alla militarizzazione di un apparato economico incredibilmente possente, ha proseguito, dopo le agitazioni sociali del dopoguerra, il suo sforzo di organizzazione economica ultracentralizzata indispensabile nella fase delle guerre interimperialiste, e lo ha fatto riprendendo, sotto la spinta delle difficoltà mondiali, il cammino dell'organizzazione economica di guerra. Nel 1926 nascono i grandi Konzerns (cartelli industriali) dello Stihlwerein, delle industrie IG‑Farben, dell'Allgemeine Electrizitat Gesellchaft, la cui costituzione é d'altronde facilitata dall'inflazione e dal conseguente incremento dei valori industriali.
Già prima della guerra, l'organizzazione economica della Germania ‑i Cartelli, i Konzerns, la fusione del capitale finanziario ed industriale‑ aveva raggiunto un livello superiore. Ma é dal 1926 che il movimento si accelera e dei Konzerns come la Thyssen, la Rheinelbe‑Union, la Phoenix e la Rheinische Stahlwerke si fondono fra di loro per formare la Stahlwerein, che controlla tutta l'industria del carbone e dei suoi derivati: la metallurgia e tutte le attività connesse. Ai forni Thomas, che funzionano con minerale di ferro (persi dalla Germania con la Lorena e l'Alta Slesia ) si sostituiscono i forni Siemens‑Martin, che possono impiegare rottami di ferro.
Questi Konzerns rapidamente controllano in modo rigoroso ed indiscusso tutta l'economia tedesca e si ergono come un muro contro cui il proletariato si rompe la testa; il loro sviluppo é accentuato dagli investimenti di capitali americani ed in parte dagli ordinativi russi. Ma é a partire da questo momento che il proletariato, che nel 1923 ha perso ogni illusione sulla sua potenza politica reale, si trova confrontato allo scontro decisivo. La socialdemocrazia sostiene il capitalismo tedesco, dimostra che i Konzerns sono degli embrioni di socialismo, invoca i contratti collettivi basati sulla conciliazione delle parti, come via che porta alla democrazia economica. Il PC subisce la sua "bolscevizzazione" che, concludendosi con la politica del "social‑fascismo", coinciderà con i piani quinquennali in Russia, ma lo porterà a giocare un ruolo analogo ‑ma non identico‑ a quello della socialdemocrazia.
Peraltro, é in quest'epoca di razionalizzazioni, di costruzione di giganteschi konzerns, che appaiono in Germania le basi economiche e le necessità sociali dell'apparizione del nazismo nel 1933. La concentrazione accentuata delle masse proletarie in seguito alle ristrutturazioni capitaliste, una legislazione sociale gettata come zuccherino per evitare dei movimenti rivoluzionari, ma troppo costosa per il capitalismo, una disoccupazione permanente fonte di instabilità sociale, dei pesanti carichi finanziari esterni (riparazioni di guerra) rendono necessari attacchi continui ai salari già erosi dall'inflazione. Ciò che rendeva necessaria la dominazione fascista era la minaccia che il proletariato aveva rappresentato nel dopoguerra, e che ancora rappresentava, minaccia da cui il capitalismo si era potuto salvaguardare grazie alla socialdemocrazia, ma che richiedeva ora una struttura politica corrispondente alla concentrazione forzata nel frattempo realizzata sul piano economico. Come l'unificazione del Reich fu preceduta dalla concentrazione e centralizzazione industriale del 1865‑70, così la vittoria del nazismo fu preceduta da una riorganizzazione fortemente imperialista dell'economia tedesca. Riorganizzazione necessaria per salvare l'insieme della classe dominante messa con le spalle al muro dal Trattato di Versailles. Quando oggi si parla degli interventi economici del fascismo, della "sua" economia regolamentata, della "sua" autarchia, si distorce considerevolmente la realtà. Esso rappresenta semplicemente la struttura sociale che era necessaria al capitalismo alla fine di una data evoluzione economica e sociale. Il capitalismo tedesco non avrebbe mai potuto affidarsi al fascismo nel 1919, quando era in piena anarchia, tanto più che incombeva la minaccia proletaria. Fu per questo che il tentativo golpista di Kapp nel 1920 fu combattuto da frazioni della borghesia, così come dagli Alleati, che ben comprendevano l'utilità inestimabile dei socialtraditori socialdemocratici. In Italia, al contrario, i sommovimenti rivoluzionari non si verificano in un quadro di decomposizione del capitalismo, ma di debolezza; é la coscienza di questa debolezza che spinge la borghesia ad evitare lo scontro durante l'occupazione delle fabbriche, affidandosi ai socialisti, e che le permette anche di reagire immediatamente, una volta passato il pericolo, affidandosi questa volta al fascismo.
In effetti, tutte le innovazioni del fascismo, dal punto di vista economico, consistono in un'accentuazione della "disciplina" economica, del legame dei grandi konzerns allo Stato (nomina di commissari per le diverse branche dell'economia), della ufficializzazione di un'economia di guerra.
La democrazia come bandiera del dominio capitalista, non può corrispondere alle esigenze di un'economia ridotta alle strette dalla guerra, minacciata dal proletariato, e la cui estrema centralizzazione non é che un modo di resistere in attesa di un nuovo massacro bellico, un modo di trasporre sul piano mondiale le sue difficoltà interne. Tanto più che la democrazia presuppone una certa mobilità nei rapporti economici e politici, una possibilità di cambiamento di posizione per gruppi ed individui che, pur mantenendo fissa la difesa dei privilegi di una sola classe, deve tuttavia dare a tutte le classi la sensazione che l'ascesa sociale sia possibile. Nel periodo di ricostruzione dell'economia tedesca nel dopoguerra i konzerns, legati allo Stato, esigevano da quest'ultimo il rimborso delle concessioni che le battaglie operaie riuscivano a strappare loro, rendendo così impossibile la sopravvivenza della democrazia, perché la prospettiva del momento non era quella di sfruttare gli abbondanti benefici di un impero coloniale o di battersi per i mercati mondiali, ma quella di combattere contro Versailles e le sue riparazioni di guerra. La sola via era quella della lotta brutale e violenta contro la classe operaia e da questo punto di vista, come da quello economico, il capitalismo tedesco mostrava il cammino che gli altri paesi dovevano intraprendere, anche se con mezzi diversi. E' evidente che senza l'aiuto del capitalismo mondiale la borghesia tedesca non sarebbe mai riuscita a realizzare i suoi obbiettivi. Per permettere l'annientamento degli operai si dovettero eliminare tutte le ditte americane che intralciavano il monopolio dello sfruttamento operaio da parte della borghesia tedesca; poi consentire delle moratorie nei pagamenti; infine annullare del tutto il peso delle Riparazioni. C'é in più voluto l'intervento dello Stato Sovietico, che ha abbandonato gli operai tedeschi per i suoi Piani Quinquennali, indebolendo le loro coscienze e divenendo così un fattore della vittoria del fascismo.
Un esame della situazione che va dal marzo 1923 al marzo 1933 permette di comprendere che dalla Costituzione di Weimar a Hitler si sviluppa un processo di continuità perfetta ed organica. La disfatta operaia si situa dopo un momento di tripudio di democrazia borghese e "socialisteggiante" espressa da Weimar e permette la ricostituzione del fronte capitalista. A partire da adesso il cappio si restringe un poco per volta. Presto, nel 1925, tocca ad Hindenburg, che diventa il difensore di questa Costituzione. A mano a mano che il capitalismo ricostituisce la sua armatura, la democrazia si restringe, salvo riallargarsi nei momenti di tensione sociale, dove si vedono ancora perfino dei governi socialisti di coalizione (H.Muller). Ma, nella misura in cui socialisti e centristi aumentano lo sbandamento degli operai, la democrazia tende a sparire (governo Bruning ed i suoi decreti‑legge) per lasciare il campo, infine, al fascismo, che non troverà più nessuna opposizione operaia. Tra il più bel fiore della democrazia, Weimar, ed il fascismo non si manifesterà nessuna opposizione: il primo permetterà di allontanare la minaccia rivoluzionaria, isolerà i proletari, annebbierà la loro coscienza, il secondo, alla fine di questa evoluzione, sarà il tallone di ferro capitalista che concluderà il lavoro, realizzando una rigida unità della società capitalista sulla base dell'annientamento di ogni minaccia proletaria.
Noi non faremo come quei pedanti e professorucoli vari, che a cose fatte tentano di "correggere" la storia e si sforzano di trovare la spiegazione dei fatti di Germania nell'erronea applicazione di questa o quella formula. E' evidente che il proletariato tedesco non poteva vincere che alla sola condizione di liberare (grazie alle frazioni di sinistra) l'Internazionale Comunista dalla nefasta influenza dissolvitrice del centrismo e di raggrupparsi intorno a posizioni che negassero ogni forma di democrazia e di "nazionalismo proletario" ed ogni pretesa di raggrupparsi intorno ai suoi interessi ed alle sue conquiste. Da questo punto di vista la politica del "socialfascismo" non era una posizione che andasse al di là della palude democratica, poiché non spiegava il decorso degli avvenimenti, ma si limitava a imbrogliarli; in realtà serviva solo da spiegazione della scissione sindacale fatta in nome dell'organizzazione Sindacale Rossa. Non era un Fronte Democratico a poter salvare il proletariato tedesco, ma la sua negazione; ma questa prospettiva di lotta doveva disperdersi, una volta subordinata ad uno Stato proletario che ormai lavorava al consolidamento dell'insieme del mondo capitalistico.
Come oggi si potrebbe parlare di "fascistizzazione" dei paesi capitalisti caratterizzati dalle "democrazie dai pieni poteri", così se ne potrebbe parlare a proposito dell'evoluzione del capitalismo in Germania, se si volesse caratterizzare il ruolo svolto da una democrazia a "pelle di zigrino", che si restringeva continuamente fino ad arrivare al marzo 1933. In questo corso storico la democrazia é stato un elemento dal peso decisivo ed é scomparsa sotto i colpi del fascismo solo quando é diventato impossibile impedire l'effervescenza delle masse senza contrapporgli un altro movimento di massa. La Germania, ancor più che l'Italia, ci mostra già una transizione legale da Von Papen a Schleicher, e da quest'ultimo a Hitler, sotto l'egida del difensore della Costituzione di Weimar: Hinderburg. Ma, così come in Italia, il fermento delle masse necessitava di ondate di massa per demolire le organizzazioni operaie e decimare il movimento operaio. E' possibile che lo sviluppo della situazione nei nostri paesi marchi ancora un passo vanti rispetto a queste esperienze e che le democrazie dai pieni poteri, non avendo di fronte a se dei proletariati reduci da tentativi rivoluzionari degni di nota, e potendo in più contare su una situazione privilegiata rispetto ad Italia e Germania (profitti coloniali), possano, parallelamente agli interventi per disciplinare l'economia, riuscire a annientare il proletariato senza dover eliminare completamente le forze tradizionali della democrazia, che, dal canto loro, faranno un apprezzabile sforzo di adattamento (Piano CGT in Francia, Piano De Man in Belgio).
Il fascismo non si spiega né come classe distinta dal capitalismo, né come emanazione delle classi medie esasperate. Esso realizza una nuova forma di dominio di un capitalismo che, attraverso la democrazia, non arriva più a legare tutte le classi intorno alla difesa dei suoi privilegi. Esso non introduce un nuovo modo di organizzazione sociale, ma una sovrastruttura adeguata ad un'economia altamente sviluppata e che deve distruggere politicamente il proletariato per impedire ogni possibile relazione tra le contraddizioni sempre più acute del capitalismo e la presa di coscienza rivoluzionaria degli operai. Gli statistici non mancheranno di ricordare la notevole massa di piccoli borghesi in Germania (5 milioni, compresi intellettuali ed impiegati), per tentare di presentare il fascismo come il "loro" movimento. Ma la realtà é che la piccola borghesia é sprofondata in una fase storica in cui le forze produttive, che la schiacciano e le fanno comprendere la sua impotenza, determinano una polarizzazione degli antagonismi sociali intorno ai due protagonisti fondamentali: la borghesia ed il proletariato. Le viene dunque meno anche la possibilità di barcamenarsi fra l'una e l'altro e tende istintivamente verso chi gli promette il mantenimento del suo ruolo gerarchico nella struttura sociale. Invece di combattere contro il capitalismo, il piccolo borghese, impiegato col colletto inamidato o bottegaio, tende a gravitare intorno ad un guscio sociale che vorrebbe abbastanza solido da far regnare "l'ordine e la calma" ed assicurare il rispetto della sua dignità, mentre le lotte operaie senza sbocco lo esasperano e peggiorano solo la situazione. Ma se il proletariato si leva in piedi e parte all'assalto, la piccola borghesia non può che inchinarsi ed accettare la realtà. Quando si presenta il fascismo come un movimento di piccoli borghesi si falsifica dunque la realtà storica, nascondendo le sue basi reali. Il fascismo canalizza tutti i contrasti che mettono in pericolo la conservazione del capitalismo e li indirizza al suo consolidamento; mette insieme il desiderio di calma del piccolo borghese, l'esasperazione del disoccupato affamato, l'odio cieco dell'operaio disorientato e soprattutto la volontà capitalista di eliminare ogni elemento di perturbazione dell'economia militarizzata e di ridurre al minimo i costi di mantenimento di un esercito di disoccupati permanenti.
In Germania il fascismo si é dunque edificato sulla doppia base delle disfatte proletarie e delle necessità imperiose di un'economia messa alle strette da una crisi economica profonda. E' sotto Bruning, in particolare, che ha preso piede, quando gli operai erano ormai incapaci di difendere i loro salari furiosamente attaccati ed i disoccupati i loro sussidi ridotti a colpi di decreti legge. E' allora che nelle fabbriche, nei cantieri i nazisti creano le loro cellule d'azienda, non rifuggendo neanche di fronte all'uso degli scioperi rivendicativi, sicuri che, grazie ai socialisti ed ai centristi, gli scioperi non sarebbero usciti dai limiti voluti. Ed é quando il proletariato si rivela battuto in parte, nel Novembre 1932, prima delle elezioni di Von Papen che aveva appena sciolto il governo socialista di Prussia, che scoppia lo sciopero dei trasporti pubblici a Berlino, diretto da comunisti e fascisti. Questo sciopero disgrega il proletariato berlinese poiché i comunisti si mostrano già incapaci di espellere i fascisti dal movimento, di allargarlo, di farne l'annuncio di una lotta rivoluzionaria. La frammentazione del proletariato tedesco si accompagna, da una parte, allo sviluppo del movimento fascista che ritorce contro di lui le armi operaie, dall'altra a misure di ordine economico, di aiuto crescente al capitalismo (ricordiamo a questo proposito che é Von Papen che adotta le misure di sostegno alle aziende che occupano dei disoccupati pagandogli un salario ridotto).
Insomma, per la vittoria di Hitler nel 1933 non fu necessaria nessuna violenza: era un frutto maturo grazie a socialisti e centristi, lo sbocco normale di una forma democratica sorpassata dagli eventi. Da forza disaggregata, dispersa, il proletariato doveva ora diventare un elemento attivo nel consolidamento di una società completamente orientata verso la guerra. E' per questo che i fascisti non potevano limitarsi a tollerare degli organismi di classe, anche se diretti da traditori del proletariato, ma dovevano al contrario estirpare la minima traccia di lotta di classe per meglio polverizzare gli operai e farne degli strumenti ciechi delle mire imperialiste del capitalismo tedesco.
Il 1933 può essere considerato come l'anno di realizzazione sistematica dell'opera di imbavagliamento fascista. I sindacati vengono annientati e sostituiti dai consigli di azienda controllati dal governo. Nel Gennaio 1934 appare il sigillo giuridico a completamento dell'opera: la Carta del Lavoro, che regola il problema dei salari, proibisce gli scioperi, sancisce l'onnipotenza dei padroni e dei commissari fascisti, trasforma in realtà il legame completo fra economia centralizzata e Stato.
Nei fatti, se il capitalismo italiano ci ha messo degli anni a partorire il suo "Stato corporativo", il capitalismo tedesco, più sviluppato, c'é arrivato rapidamente. Lo stato ritardatario dell'economia italiana, rispetto a quella del Reich, ha reso difficile la costruzione di una struttura sociale capace di comprimere automaticamente ogni eventuale soprassalto operaio; invece la Germania, che possedeva una economia più avanzata, ha potuto passare immediatamente alla regolamentazione dei rapporti sociali legati intimamente ai settori della produzione controllati dai commissari di Stato.
In queste condizioni, il proletariato tedesco ‑come d'altra parte quello italiano‑ non ha più una sua vita autonoma. Per ritrovare una coscienza di classe, dovrà attendere che le nuove situazioni di domani facciano a pezzi la camicia di forza con cui lo ha imbrigliato il capitalismo. Nel frattempo, non é certo il caso di fare declamazioni sulla possibilità di un lavoro illegale di massa nei paesi fascisti, ciò che d'altronde ha già consegnato fin troppi eroici militanti nelle mani dei carnefici di Roma e di Berlino. Bisogna considerare le antiche organizzazioni richiamantesi al proletariato come dissolte dall'influenza fascista e passare al lavoro teorico di analisi storica, che é preliminare per la ricostruzione di nuovi organismi che possano portare il proletariato alla vittoria, attraverso la critica vivente del passato.
BILAN
Secondo l'erronea idea "popolare" il comunismo sarebbe una società in cui tutto è diretto dallo Stato. Non c'è portavoce della borghesia, dai professori universitari ai giornalisti, che non propaghi instancabilmente questa idea che è alla base dell'identificazione fra comunismo e paesi stalinisti dell'Est.
Ma una menzogna anche ripetuta mille volte rimane sempre una menzogna. Per Marx, per Engels e per tutti i rivoluzionari che hanno seguito i loro passi, il comunismo è una società senza Stato, una società dove gli essere umani dirigono la loro vita senza che ci sia una potenza coercitiva a inquadrarli, senza governo, senza esercito, senza prigioni e senza frontiere.
Ma anche a questa versione del comunismo la borghesia ha la risposta pronta: "Certo, certo, ma non è altro che un'utopia, un sogno irrealizzabile: la società moderna è troppo complessa, troppo ramificata e gli esseri umani sono troppo inaffidabili, violenti ed avidi di potere e privilegi". I professori più raffinati (come ad esempio J. Talmon, autore del libro "Le origini della democrazia totalitaria") sono lì pronti a spiegare che qualsiasi tentativo di creare una società senza Stato non può che far nascere un mostruoso Stato-Leviatano, come quello apparso in Russia sotto Stalin.
E tuttavia c'è qualcosa che non quadra.... Se la visione di un comunismo senza Stato non è altro che un'utopia, un sogno inoffensivo, perché mai i padroni dell'attuale Stato spendono tante energie a ripetere la bugia per cui comunismo = controllo statale sulla società? Vuoi vedere che la versione autentica del comunismo costituisce veramente una sfida sovversiva all'ordine esistente e che questo è possibile perché questa versione corrisponde alle necessità del movimento reale che è necessariamente costretto a scontrarsi con lo Stato e con la società da lui protetta?
Se il marxismo costituisce il punto di vista teorico ed il metodo di lavoro di questo movimento, del movimento del proletariato internazionale, allora è facile vedere perché tutte le varianti dell'ideologia borghese, comprese quelle ad etichetta "marxista", hanno sempre fatto carte false pur di seppellire la teoria marxista dello Stato sotto immense discariche di immondizie intellettuali. Quando nel 1917 ha scritto Stato e rivoluzione Lenin parlava già di "riportare alla luce" la vera posizione marxista da sotto gli strati di scorie riformiste. Oggi, dopo tutte le campagne di propaganda sull'equazione capitalismo di Stato stalinista = comunismo, bisogna scavare ancora di più. Ecco il perché di questo articolo centrato su quell'avvenimento straordinario che fu la Comune di Parigi, prima rivoluzione proletaria della storia che per la classe operaia è stata una fonte preziosa di esperienza.
LA I INTERNAZIONALE: ANCORA UNA VOLTA, LA LOTTA POLITICA
Nel 1864 Marx usciva da più di un decennio di profonda immersione nel lavoro di ricerca teorica per ritornare all'impegno politico pratico. Nel decennio seguente l'essenziale delle sue energie sarà investito in due questioni politiche essenziali: la formazione di un partito internazionale dei lavoratori e la conquista del potere politico da parte del proletariato.
Dopo il lungo riflusso della lotta di classe seguito alla disfatta delle grandi insurrezioni sociali del 1848, il proletariato europeo cominciava a mostrare segni di ripresa a livello di coscienza e combattività. Lo sviluppo del movimento di scioperi su rivendicazioni sia economiche che politiche, la formazione di sindacati e cooperative operaie, la mobilitazione operaia su questioni di politica "estera", come il sostegno all'indipendenza della Polonia o alle forze antischiaviste nella guerra civile americana, tutto questo aveva convinto Marx che il periodo di disfatta volgeva ormai al termine. Per questo diede il suo sostegno all'iniziativa dei sindacati inglesi e francesi di formare nel settembre 1864 l'Associazione Internazionale dei Lavoratori (1). Come dice Marx stesso nel Rapporto del Consiglio Generale dell'Internazionale al Congresso di Bruxelles del 1868: "Questa Associazione non è figlia nè di una setta, nè di una teoria. Essa è il prodotto spontaneo del movimento proletario, a sua volta creato dalle tendenze naturali ed incomprimibili della società moderna" (2). Il fato che le motivazioni di molti dei fondatori dell'Internazionale avessero poco in comune con le idee di Marx (ad esempio lo scopo principale dei sindacati inglesi era quello di utilizzare l'Internazionale per arginare l'afflusso di crumiri da altri paesi durante gli scioperi), non impedì dunque a quest'ultimo di giocarvi un ruolo decisivo; membro del Consiglio Generale per quasi tutta la sua esistenza, ne ha scritto molti dei documenti più importanti. L'Internazionale era allora il prodotto di un movimento proletario ad un certo grado del suo sviluppo storico, in una fase in cui stava ancora definendosi come una forza all'interno della società borghese. In una tale situazione era possibile e necessario che la frazione marxista lavorasse nell'Internazionale a fianco di altre tendenze della classe operaia, partecipando alle sue attività immediate a livello delle lotte quotidiane degli operai. Allo stesso tempo i marxisti si battevano per liberare l'organizzazione dai pregiudizi borghesi e piccolo-borghesi ed impregnarla per quanto possibile della chiarezza teorica e politica necessaria per poter agire da avanguardia rivoluzionaria di una classe rivoluzionaria.
Non è questo il momento di fare la cronistoria di tutte le lotte dottrinarie e pratiche affrontate dalla frazione marxista all'interno dell'Internazionale. Basterà ricordare che esse erano basate su principi già codificati nel Manifesto Comunista e ulteriormente rinforzati dall'esperienza delle rivoluzioni del 1848:
Nel periodo che va dal 1864 al 1871, il dibattito sull'impegno in "politica" era in gran parte centrato sulla questione se la classe operaia dovesse o no partecipare all'attività politica in un ambito borghese (appello per il suffragio universale, partecipazione dei partiti operai al parlamento, lotta per i diritti democratici, etc.), con l'obiettivo di ottenere riforme e rinforzare la sua posizione all'interno della società capitalista. I bakuninisti ed i blanquisti (8), campioni dell'onnipotenza della volontà rivoluzionaria, rifiutavano di analizzare le condizioni materiali concrete in cui agiva il movimento operaio e rigettavano tali tattiche come una deviazione dalla rivoluzione sociale. La frazione materialista di Marx dal canto suo constatava che il capitalismo in quanto sistema mondiale non aveva ancora creato tutte le condizioni per la trasformazione rivoluzionaria della società e che, di conseguenza, la classe operaia era ancora obbligata a lottare per delle riforme parziali, sia politiche che economiche. In questa lotta, non solo migliorava la sua condizione materiale, ma si preparava ed organizzava per la prova di forza rivoluzionaria che avrebbe inevitabilmente concluso la traiettoria storica del capitalismo verso la crisi e la catastrofe.
Questo dibattito sarebbe proseguito all'interno del movimento operaio nei decenni seguenti anche se in condizioni diverse e con diversi protagonisti. Ma nel 1871 un evento straordinario doveva far fare un salto di livello al dibattito sull'azione politica della classe operaia. Quello fu l'anno della prima rivoluzione proletaria della storia, l'anno della conquista effettiva del potere politico da parte della classe operaia: quello fu l'anno della Comune di Parigi.
La Comune e la concezione materialista della storia
"Ogni passo del movimento reale vale più di una dozzina di programmi" (9).
Il dramma e la tragedia della Comune di Parigi sono stati brillantemente analizzati da Marx in La guerra civile in Francia, pubblicato nell'estate del 1871 come Indirizzo Ufficiale dell'Internazionale. In questa polemica appassionata Marx mostra come una guerra tra nazioni, la Francia e la Prussia, si è trasformata in guerra tra classi: in seguito al disastroso crollo militare della Francia, il governo Thiers, con sede a Versailles, aveva concluso una pace impopolare e cercato di imporla a Parigi: Questo poteva solo essere fatto disarmando gli operai raggruppati nella Guardia Nazionale. Il 18 marzo 1871 truppe inviate da Versailles cercarono di impadronirsi dei cannoni della Guardia Nazionale: si trattava della prima tappa di una repressione massiccia che doveva colpire la classe operaia e le sue avanguardie rivoluzionarie. Ma gli operai di Parigi risposero scendendo in massa per le strade ed inducendo alla fraternizzazione le truppe di Versailles. Pochi giorni dopo fu proclamata la Comune.
Il nome di Comune era un ricordo della Comune rivoluzionaria del 1793, organo dei sanculotti durante le fasi più radicali della rivoluzione francese. Ma la seconda Comune aveva un significato completamente differente: non era rivolta verso il passato, ma verso il futuro, quello della rivoluzione comunista della classe operaia.
Marx durante l'assedio di Parigi aveva messo in guardia contro una insurrezione che, nelle condizioni militari del momento, sarebbe stata una "disperata follia" (10). Nonostante questo , non appena l'insurrezione si verificò, Marx e l'Internazionale presero posizione ed espressero una solidarietà incrollabile ai Comunardi -fra i quali i membri parigini dell'Internazionale giocarono un ruolo d'avanguardia, anche se quasi nessuno era di osservanza "marxista". Nessun altro atteggiamento era possibile di fronte alle infami calunnie lanciate dalla borghesia mondiale contro la Comune ed all'orribile vendetta che la classe dominante si prese su chi aveva osato sfidare la sua sacrosanta "civiltà": dopo il massacro di migliaia di combattenti sulle barricate, migliaia di altri, uomini, donne, bambini, furono abbattuti come bestie per le strade, incarcerati in condizioni disumane, deportati come forzati nelle colonie. Dai giorni della crocifissione dei ribelli di Spartaco, le classi dominanti non si erano più offerte il piacere di un simile bagno di sangue.
Ma al di là della questione elementare della solidarietà proletaria, c'è un altro motivo che ha spinto Marx a dare una enorme importanza alla Comune di Parigi. Anche se era storicamente "prematura", nel senso che non erano ancora presenti tutte le condizioni necessarie per la rivoluzione mondiale, la Comune è stata tuttavia lei stessa un avvenimento di portata mondiale, una tappa indispensabile sulla via di quella rivoluzione; è ancora oggi un tesoro di lezioni per il futuro, per la chiarificazione del programma comunista. Prima della Comune la frazione più avanzata della classe, i comunisti, avevano già compreso che la classe operaia doveva prendere il potere come primo passo verso la costruzione di una società senza classi. Ma nessuno sapeva in che forma il proletariato avrebbe stabilito la sua dittatura, perché un simile passo in avanti teorico poteva essere fatto solo basandosi sull'esperienza vivente della classe. L'esperienza in questione è stata appunto la Comune di Parigi, provando nel modo più vivente possibile che il programma comunista non è un dogma fisso e statico, ma evolve in stretta relazione con la pratica storica della classe operaia: non un'utopia, ma un grande esperimento scientifico il cui laboratorio è il movimento reale della società. E' del resto noto che Engels, nelle successive edizioni del Manifesto Comunista scritto nel 1848, aggiunse all'introduzione un punto specifico per affermare che l'esperienza della Comune aveva reso obsolete e superate le formulazioni del testo che esprimevano l'idea di impadronirsi dell'apparato statale esistente. Le conclusioni che Marx ed Engels hanno tirato dalla Comune sono, in altri termini, una dimostrazione ed una giustificazione del metodo materialistico storico. Come ben sintetizza Lenin in Stato e Rivoluzione:
"In Marx non vi è un briciolo di utopismo; egli non inventa, non immagina una società "nuova". No, egli studia, come un processo di storia naturale, la genesi della nuova società che sorge dall'antica, le forme di transizione tra l'una e l'altra. Egli si basa sui fatti, sull'esperienza del movimento proletario di massa e cerca di trarne insegnamenti pratici. Egli "si mette alla scuola" della Comune, come tutti i grandi pensatori rivoluzionari non esitavano a mettersi alla scuola dei grandi movimenti della classe oppressa,..." (11).
Il nostro scopo qui non è tracciare la storia della Comune, i cui principali eventi sono descritti in La guerra civile in Francia ed in molti altri lavori, alcuni dei quali scritti da rivoluzionari che, come Lissagaray, si erano battuti sulle barricate. Quello che cercheremo di fare è di esaminare che cosa precisamente Max ha imparato dalla Comune.
Marx contro l'adorazione dello Stato
"Non fu dunque una rivoluzione contro questa o quella forma di potere di Stato, legittimista, costituzionale, repubblicano o imperiale. Fu una rivoluzione contro lo Stato stesso, questo aborto soprannaturale della società; fu la riappropriazione del popolo e per il popolo della propria vita sociale." (12)
Le conclusioni che Marx ha tratto dalla Comune di Parigi, non erano pertanto un prodotto automatico dell'esperienza diretta degli operai. Esse erano una conferma ed un arricchimento di un elemento del pensiero di Marx che questi aveva assunto costantemente da quando aveva rotto con l'hegelismo per evolvere verso la causa proletaria.
Prima ancora di divenire chiaramente comunista Marx aveva già cominciato a criticare l'idealizzazione hegeliana dello Stato. Per Hegel il cui pensiero era nei fatti una mescolanza contraddittoria di radicalismo, derivato dalla spinta della rivoluzione borghese, ed il conservatorismo, ereditato dall'atmosfera opprimente dell'assolutismo prussiano, lo Stato, ed in particolare lo Stato prussiano esistente, era definito come l'incarnazione dello Spirito Assoluto, la forma perfetta dell'esistenza sociale. Nella sua critica di Hegel, Marx mostra al contrario che lungi dall'essere il prodotto superiore e più nobile dell'essere umano, il soggetto razionale dell'essere sociale, lo Stato, e soprattutto lo Stato prussiano burocratico, era un aspetto dell'alienazione dell'uomo, della sua perdita di controllo sui propri poteri sociali. Il pensiero di Hegel partiva da una logica capovolta: "Hegel parte dallo Stato e concepisce l'uomo come Stato soggettività; la democrazia parte dall'uomo e concepisce lo Stato come l'uomo oggettività" (13)
A quell'epoca il punto di vista di Marx era quello della democrazia borghese radicale (molto radicale nei fatti dato che, come abbiamo già dimostrato, la vera democrazia portava alla scomparsa dello Stato), un punto di vista secondo il quale l'emancipazione dell'umanità riguardava innanzitutto la sfera della politica. Ma ben presto, incominciando a vedere le cose dal punto di vista della prospettiva operaia, fu capace di capire che se lo Stato diventava estraneo alla società era perché questo è il prodotto di una società fondata sulla proprietà privata ed i privilegi di classe. Nei suoi scritti su La legge contro i ladri di legno, per esempio, egli incominciò ad assumere la concezione secondo la quale lo Stato è il guardiano dell'ineguaglianza sociale, di ristretti interessi di classe; in La questione ebraica iniziò a riconoscere che la reale emancipazione umana non poteva essere ristretta alla sola dimensione politica, ma richiedeva una forma di vita differente. Così fin dall'inizio del comunismo di Marx, questo ebbe sempre la preoccupazione di demistificare lo Stato.
Come abbiamo visto negli articoli su il Manifesto comunista, e le rivoluzioni del 1848 (14), nella misura in cui il comunismo emergeva in quanto corrente con una organizzazione ed un programma politico definito, egli proseguiva nello stesso spirito. Il Manifesto Comunista, scritto alla vigilia dei grandi sollevamenti sociali del 1848, vedeva come prospettiva non solo la presa del potere da parte del proletariato, ma l'estinzione dello Stato una volta che le sue radici, cioè la società divisa in classi, fossero state estirpate e soppresse. E le esperienze reali dei movimenti del 1848 permisero alla minoranza rivoluzionaria organizzata nella Lega comunista di fare molta luce sul cammino del proletariato verso il potere, mettendo in evidenza la necessità, in ogni sollevamento proletario, che la classe operaia conservi le sue proprie armi ed i suoi propri organi di classe, e suggerendo anche (nel 18 Brumaio di Luigi Bonaparte) che il compito per il proletariato rivoluzionario non era quello di perfezionare l'apparato dello Stato borghese, ma di distruggerlo.
In questo modo la frazione marxista non interpreterà l'esperienza della Comune senza patrimonio teorico: le lezioni della storia non sono "spontanee" nel senso in cui l'avanguardia comunista le sviluppa sulla base di un quadro d'idee già esistenti. Ma queste idee devono essere esse stesse costantemente riesaminate e testate alla luce dell'esperienza della classe operaia ed è merito degli operai parigini l'aver offerto una prova convincente che la classe operaia non può fare la rivoluzione impadronendosi di un apparato la cui struttura ed il cui modo di funzionamento sono adattati alla perpetuazione dello sfruttamento e dell'oppressione. Se il primo passo della rivoluzione proletaria è la conquista del potere politico, questo non può aversi senza la distruzione violenta dello Stato borghese esistente.
L'armamento degli operai
E' significativo il fatto che la Comune sia sorta dal tentativo del governo di Versailles di disarmare gli operai: ciò ha dimostrato che la borghesia non può tollerare un proletariato in armi. Al contrario, il proletariato può arrivare al potere solo con le armi in mano. La classe dominante più violenta ed impietosa della storia non permetterà mai di essere privata del potere attraverso un voto, essa dovrà essere costretta a farlo e la classe operaia non può difendere la sua rivoluzione contro tutti i tentativi di rovesciarla, se non dotandosi di una propria forza armata.
Nei fatti due delle critiche più rigorose fatte da Marx alla Comune sono che questa non aveva sufficientemente utilizzato la forza avendo manifestato una "paura superstiziosa" difronte alla Banca di Francia invece di occuparla e di utilizzarla come oggetto di patteggiamento, e che non si era lanciata all'offensiva contro Versailles quando questa non aveva ancora le risorse per condurre l'attacco controrivoluzionario del capitale.
Ma, malgrado queste debolezze, la Comune fece un passo avanti storico decisivo quando, in uno dei suoi primi decreti, decretò la dissoluzione dell'esercito esistente ed introdusse l'armamento generale della popolazione nella Guardia Nazionale che fu realmente trasformata in milizia popolare. Così facendo la Comune segnò il primo passo verso lo smantellamento del vecchio apparato statale, che trova la sua più alta espressione nell'esercito, in una forza armata che sorveglia la popolazione, obbedisce solo ai livelli superiori dell'apparato statale e non è sottoposto a nessun controllo dal basso.
Lo smantellamento della democrazia ad opera della democrazia operaia
A fianco all'esercito, e nei fatti strettamente interdipendente da questo, l'istituzione che concretizza più chiaramente lo Stato come una escrescenza parassitaria divenuta estranea alla società, è la burocrazia, questo insieme bizantino di funzionari permanenti che vedono lo Stato esclusivamente come loro proprietà privata. Anche qui la Comune prese delle misure immediate per liberarsi di questo parassita. Engels riassume molto succintamente queste misure nella sua Introduzione alla guerra civile in Francia:
"Contro questa trasformazione, inevitabile finora in tutti gli Stati, dello Stato e degli organi dello Stato, da servitori della società in padroni della società, la Comune applicò due mezzi infallibili. In primo luogo assegnò elettivamente tutti gli impegni amministrativi, giudiziari, educativi, per suffragio generale degli interessati e con diritto costante di revoca da parte di questi. In secondo luogo, per tutti i servizi, alti e bassi, pagò solo lo stipendio che ricevono gli altri operai. Il più alto assegno che pagava era di 6.000 franchi. In questo modo era posto un freno sicuro alla caccia agli impieghi e al carrierismo...." (15).
Anche Marx sottolineava che unendo le funzioni esecutive e legislative, la Comune era un "corpo agente", "non un organismo parlamentare" (16). In altri termini, essa era una forma superiore di democrazia rispetto al parlamento borghese: anche in giorni migliori di quelli, la divisione tra il potere legislativo e l'esecutivo faceva si che quest'ultimo tendeva a sfuggire al controllo del primo e generava una burocrazia sempre maggiore. Questa tendenza è stata pienamente confermata nell'epoca della decadenza del capitalismo nel corso della quale gli organi esecutivi dello Stato hanno fatto del legislativo una semplice apparenza, una facciata.
Ma senza dubbio la prova migliore del fatto che la democrazia proletaria incarnata dalla Comune era più avanzata di ogni altra forma che poteva esistere sotto la democrazia borghese, è il principio dei delegati revocabili:
"Invece di decidere ogni tre o sei anni quale membro della classe dominante dovesse mal rappresentare il popolo nel Parlamento, il suffragio universale doveva servire al popolo costituito in comuni..." (17).
Le elezioni borghesi sono fondate sul principio del cittadino atomizzato nella cabina elettorale, con un voto che non gli consente alcun controllo reale sui suoi "rappresentati". La concezione proletaria dei delegati eletti e revocabili, al contrario, non può funzionare che sulla base di una mobilitazione permanente e collettiva degli operai e degli oppressi. Secondo la tradizione delle sezioni rivoluzionarie dalle quali è sorta la Comune del 1793 (senza menzionare gli "agitatori" radicali eletti nei ranghi del Nuovo modello di esercito di Cromwell nella rivoluzione inglese), i delegati al Consiglio della Comune erano eletti da assemblee pubbliche tenute in ogni rione di Parigi. Formalmente parlando queste assemblee elettorali avevano il potere di formulare i mandati dei loro delegati e di revocarli se necessario. Nella pratica succedeva che la maggior parte del lavoro di supervisione e di pressione sui delegati della Comune era realizzato dai "Comitati di Vigilanza" e dai circoli rivoluzionari che sorgevano nei quartieri operai e che erano i luoghi dove si concentrava una intensa vita di dibattito politico, sia sulle questioni generali e teoriche alle quali erano confrontati gli operai, sia sulle questioni immediate di sopravvivenza, d'organizzazione e di difesa. La dichiarazione di principio del Club comunale che si riuniva nella chiesa di Saint Nicolas des Champs, nel tredicesimo "arrondissement", ci dà un'idea del livello di coscienza proletaria raggiunto dai proletari parigini nei due mesi di esistenza della Comune:
"I fini del Club Comunale sono i seguenti:
Combattere i nemici dei nostri diritti comuni, delle nostre libertà e della Repubblica.
Difendere i diritti del popolo, educarlo politicamente in modo che sia in grado di auto-governarsi.
Ricordare i principi ai nostri delegati se dovessero allontanarsene e sostenerli in tutti i loro sforzi per salvare la Repubblica. Ma soprattutto sostenere la sovranità del popolo che non deve mai rinunciare ai suoi diritti, a controllare l'azione dei suoi delegati.
Popolo, governa te stesso direttamente, attraverso delle riunioni politiche, attraverso la tua stampa; fai sentire la pressione su quelli che ti rappresentano - essi non possono andare troppo in là nella direzione rivoluzionaria...
Lunga vita alla Comune!".
Dal mezzo-Stato alla soppressione dello Stato
Fondata sulla mobilitazione permanente del proletariato in armi, la Comune, come dice Engels, "non era più uno Stato in senso stretto" (18). Lenin in Stato e rivoluzione cita questa frase e la sviluppa:
"La Comune cessava di essere uno Stato nella misura in cui essa non doveva più opprimere la maggioranza della popolazione, ma una minoranza (gli sfruttatori); essa aveva spezzato la macchina dello Stato borghese; invece di una forza particolare di oppressione, era la popolazione stessa che entrava in campo. Tutto ciò non corrisponde più allo Stato nel senso proprio della parola. Se la Comune si fosse consolidata, le tracce dello Stato si sarebbero "estinte" da sé: la Comune non avrebbe avuto bisogno di "abolire" le sue istituzioni: queste avrebbero cessato di funzionare a mano a mano che non avrebbero avuto più nulla da fare" (19).
In questo modo l'"anti-statalismo" della classe operaia opera a due livelli, o piuttosto in due tappe: prima la distruzione violenta dello Stato borghese; poi la sua sostituzione con una nuova specie di potere politico che nella misura del possibile evita gli "aspetti peggiori" i tutti gli Stati precedenti e che, in fin dei conti, rende possibile al proletariato di sbarazzarsi completamente dello Stato.
Dalla Comune al comunismo: la questione della trasformazione sociale
Il deperimento dello Stato è basato sulla trasformazione dell'infrastruttura economica e sociale, sull'eliminazione dei rapporti capitalisti di produzione e sul'evoluzione verso una comunità umana senza classi. Come abbiamo già detto, le condizioni materiali di una tale trasformazione non esistevano a livello mondiale nel 1871. In più la Comune fu al potere per soli due mesi ed in una sola città assediata, anche se ha ispirato tentativi rivoluzionari in altre città della Francia (Marsiglia, Lione, Tolosa, Narbonne, etc.).
Quando gli storici borghesi cercano di ridicolizzare le proclamazioni di Marx sulla natura rivoluzionaria della Comune, mettono in evidenza che la maggior parte delle misure economiche e sociali che essa ha preso erano ben poco socialiste: la separazione tra Chiesa e Stato, per esempio, è perfettamente compatibile con il repubblicanesimo borghese radicale. Anche le misure che avevano un impatto più specifico sul proletariato, come l'abolizione del lavoro di notte nei panifici, il sostegno alla formazione di sindacati, etc., erano concepite come una difesa degli operai contro lo sfruttamento piuttosto che come la soppressione dello sfruttamento stesso. Tutto questo ha portato alcuni "esperti" sulla Comune a vederci più l'ultimo respiro della tradizione giacobina che il primo vento della rivoluzione proletaria. D'altra parte, come ha notato Marx, si scambia la Comune per "una riproduzione dei Comuni medioevali, che prima precedettero questo stesso potere statale e poi ne divennero il sostrato" (20)
Tutte queste interpretazioni si basano su di una totale incomprensione della natura della rivoluzione proletaria. Le lezioni della Comune di Parigi sono fondamentalmente delle lezioni politiche, delle lezioni sulle forme e le funzioni del potere proletario, per la semplice ragione che la rivoluzione proletaria non può iniziare che come atto politico. Mancando di ogni potere economico nel seno della vecchia società, il proletariato non può ingaggiarsi in un processo di trasformazione sociale finchè non ha preso le redini del potere politico, e ciò a livello mondiale. La rivoluzione russa del 1917 è avvenuta in un periodo storico in cui il comunismo a livello mondiale era possibile e fu vittoriosa a livello di un grande paese. Ma anche qui, l'eredità fondamentale della rivoluzione russa è legata al problema del potere politico della classe operaia. Aspettarsi che la Comune potesse introdurre il comunismo in una sola città significa credere ai miracoli. Come dice Marx:
"La classe operaia non attendeva i miracoli dalla Comune. Essa non ha utopie belle e pronte da introdurre "par décret du peuple". Sa che per realizzare la propria emancipazione, e con essa quella forma più alta a cui la società odierna tende irresistibilmente per i suoi stessi fattori economici, dovrà passare per lunghe lotte, per una serie di processi storici che trasformeranno le circostanze e gli uomini. La classe operaia non ha da realizzare ideali, ma da liberare gli elementi della nuova società dei quali è gravida la vecchia e cadente società borghese" (21).
Contro tutte le false interpretazioni della Comune, Marx insisteva sul fatto che essa "fu essenzialmente un governo della classe operaia, il prodotto della lotta della classe dei produttori contro la classe appropriatrice, la forma politica finalmente scoperta, nella quale si poteva compiere l'emancipazione economica del lavoro" (22).
In questo passaggio Marx riconosce che la Comune fu innanzitutto e soprattutto una forma politica e che era fuori discussione che in una notte, sotto il suo dominio, si sarebbero realizzate delle utopie. E tuttavia, allo stesso tempo, egli riconosce che una volta che il proletariato ha preso le cose in mano, esso può e deve innescare, anzi "liberare", una dinamica che porta alla "trasformazione economica del lavoro", malgrado tutti i limiti obiettivi opposti a questa dinamica. E' per questo che la Comune, così come la rivoluzione russa, contiene delle lezioni valide anche per la futura trasformazione sociale.
Come esempio di questa dinamica, di questa logica verso la trasformazione sociale, Marx ha ricordato l'espropriazione delle fabbriche abbandonate dai capitalisti che erano fuggiti dalla città e la loro presa in carico da parte delle cooperative operaie che dovevano essere organizzate in una federazione unica. Per lui questo era una espressione immediata del fine ultimo della Comune, l'espropriazione generale degli espropriatori:
"Essa voleva fare della proprietà individuale una realtà, trasformando i mezzi di produzione, la terra ed il capitale, che ora sono essenzialmente mezzi di asservimento e di sfruttamento del lavoro, in semplici strumenti di lavoro libero ed associato. Ma questo è comunismo, "impossibile" comunismo!. Ebbene, quelli tra i membri delle classi dominanti che sono abbastanza intelligenti per comprendere la impossibilità di perpetuare il sistema esistente -e sono molti- sono diventati gli apostoli seccati e rumorosi della produzione cooperativa. Ma se la produzione cooperativa non deve restare una finzione ed un inganno, se essa deve subentrare al sistema capitalista; se delle associazioni cooperative unite devono regolare la produzione nazionale secondo un piano comune, prendendola così sotto il loro controllo e ponendo fine all'anarchia costante e alle convulsioni periodiche che sono la sorte inevitabile della produzione capitalista: che cosa sarebbe questo, o signori, se non comunismo, "possibile" comunismo?" (23).
La classe operaia come avanguardia degli oppressi
La Comune ci ha lasciato importanti elementi per comprendere i rapporti tra la classe operaia, una volta che ha preso il potere, e gli altri strati non sfruttatori della società, in questo caso la piccola-borghesia urbana ed i contadini. Agendo come avanguardia determinata dell'insieme della popolazione sfruttata, la classe operaia ha mostrato la sua capacità a conquistare la fiducia di questi strati, che sono meno capaci di agire in quanto forza unita. E per mantenere questi strati a fianco della rivoluzione, la Comune ha introdotto una serie di misure economiche che alleggerivano i loro compiti materiali: l'abolizione di ogni tipo di debito e di imposta, la trasformazione di quella che è l'incarnazione immediata dell'oppressione per il contadino, "le sue odierne sanguisughe, il notaio, l'avvocato, l'usciere e gli altri vampiri giudiziari, in agenti comunali salariati eletti da lui e davanti a lui responsabili" (24). Nel caso dei contadini, queste misure restavano largamente ipotetiche perché l'autorità della Comune non si estendeva ai distretti rurali. Ma gli operai di Parigi guadagnarono, in larga misura, il sostegno della piccola borghesia urbana, in particolare attraverso l'aggiornamento dell'obbligo dell'affitto e l'annullamento degli interessi.
Lo Stato come "male necessario"
Le strutture elettorali della Comune hanno anche permesso agli altri strati non sfruttatori di partecipare politicamente al processo rivoluzionario. Ciò era inevitabile e necessario e si sarebbe dovuto ripetere anche durante la rivoluzione russa. Ma allo stesso tempo, visto retrospettivamente, possiamo dire che una delle indicazioni del fatto che la Comune era una espressione "immatura" della dittatura del proletariato, che era espressione di una classe che non aveva ancora raggiunto il suo pieno sviluppo, sta nel fatto che gli operai non avevano organizzazioni specifiche indipendenti all'interno di queste nè un peso preponderante nei meccanismi elettorali. La Comune era eletta esclusivamente sulla base di unità territoriali (i quartieri) che, anche se dominate dal proletariato, non consentivano alla classe operaia di imporsi come una forza chiaramente autonoma (in particolare poi se la Comune si estendeva alla maggioranza dei contadini al di fuori di Parigi). E' per questo che i consigli operai del 1905 e del 1917-21, eletti dalle assemblee sui luoghi di lavoro e installati nei principali centri industriali, costituirono una forma più avanzata della dittatura del proletariato rispetto alla Comune. Possiamo anche arrivare ad affermare che la Comune corrispondeva più allo Stato composto da tutti i Soviet (degli operai, dei contadini, dei cittadini), che nacque dalla rivoluzione russa, che non all'organizzazione dei Consigli operai.
L'esperienza russa ha reso possibile chiarire il rapporto tra gli organi specifici della classe, i Consigli operai, e lo Stato sovietico nel suo insieme. In particolare essa ha mostrato che la classe operaia non può identificarsi direttamente con quest'ultimo, ma che al contrario essa deve esercitare una vigilanza costante e un controllo su questo Stato attraverso le proprie organizzazioni di classe che vi partecipano senza esserne inghiottite. Abbiamo già trattato questa questione in altri articoli, ma pensiamo sia importante insistere sul fatto che lo stesso Marx ha intravisto questo problema. La prima stesura de La guerra civile in Francia contiene il seguente passaggio:
"...La Comune non è il movimento sociale della classe operaia e, di conseguenza, il movimento rinnovatore di tutta l'umanità, ma soltanto lo strumento organico del suo movimento reale. La Comune non sopprime la lotta delle classi, mediante la quale la classe operaia si sforza di abolire, negandosi come tale, tutte le classi e, di conseguenza, ogni dominazione di classe... ma essa crea il clima più razionale nel quale questa lotta delle classi può svolgersi attraverso varie fasi nel modo più razionale e più consono all'essere umano." (25).
Si riscontra qui una chiara visione del fatto che la dinamica reale della trasformazione comunista non viene da uno Stato post-rivoluzionario poichè la funzione di questo, come per qualsiasi altro Stato, è di contenere gli antagonismi di classe, di impedirgli di dilaniare la società. Da cui il suo aspetto conservatore rispetto al movimento sociale reale del proletariato. Anche nella breve vita della Comune possiamo individuare delle tendenze in questa direzione. La Storia della Comune di Parigi di Lissagaray contiene molte critiche delle esitazioni, delle confusioni e, in certi casi, delle posizioni avanzate da alcuni delegati al Consiglio della Comune, molte delle quali incarnavano, nei fatti, un radicalismo piccolo-boghese obsoleto rimesso frequentemente in questione dalle assemblee dei quartieri più proletari. Uno dei club rivoluzionari locali arriva a dichiarare che bisognava dissolvere la Comune perché questa non era abbastanza rivoluzionaria!
In un passaggio famoso, Engels si immette nello stesso problema quando dice che lo Stato, il mezzo-Stato del periodo di transizione verso il comunismo, "...è un male che viene lasciato in eredità al proletariato riuscito vincitore nella lotta per il dominio di classe, i cui lati peggiori il proletariato non potrà fare a meno di amputare subito, nella misura del possibile, come fece la Comune, finchè una generazione cresciuta in condizioni sociali nuove, libere, non sia in grado di scrollarsi dalle spalle tutto il ciarpame statale." (26). Prova ulteriore che, per il marxismo, la potenza dello Stato è la misura dell'asservimento dell'uomo.
Dalla guerra nazionale alla guerra di classe
C'è un'altra lezione vitale della Comune che non è legata al problema della dittatura del proletariato, ma ad una questione particolarmente spinosa nella storia del movimento operaio: la questione nazionale.
Come abbiamo già detto, Marx e la sua tendenza nel seno della Prima Internazionale riconoscevano che il capitalismo non aveva ancora raggiunto l'apogeo del suo sviluppo. Nei fatti il capitalismo era ancora limitato dalle vestigia della società feudale e da altri resti arcaici. Per questo motivo Marx ha sostenuto alcuni movimenti nazionali nella misura in cui essi rappresentavano la democrazia borghese contro l'assolutismo e tendevano all'unificazione nazionale contro la frammentazione feudale. Il sostegno che l'Internazionale ha dato all'indipendenza della Polonia contro lo Zarismo russo, all'unificazione italiana e tedesca, ai Nordisti in America contro il Sud schiavista durante la Guerra Civile si basava su questa logica materialista. Questa era anche la causa che mobilitava la simpatia e la solidarietà attiva della classe operaia: in Gran Bretagna per esempio si facevano delle riunioni per il sostegno all'indipendenza polacca, delle grandi manifestazioni contro l'intervento britannico a fianco dei Sudisti in America, anche se la mancanza di cotone derivante dalla guerra comportava reali privazioni per gli operai tessili inglesi.
In questo contesto in cui la borghesia non aveva completamente concluso i suoi compiti storici progressisti, il problema delle guerre di difesa nazionale era ben reale ed i rivoluzionari dovevano prendere in seria considerazione ogni guerra tra Stati; ed il problema si pone con forza quando scoppia la guerra franco-prussiana. La politica dell'Internazionale verso questa guerra è riassunta nel Primo Indirizzo del Consiglio Generale dell'AIT sulla guerra franco-prussiana. Nella sua essenza si trattava di una presa di posizione di un internazionalismo proletario fondamentale contro le guerre "dinastiche" della classe dominante. Essa citava un Manifesto prodotto dalla sezione francese dell'Internazionale allo scoppio della guerra:
"Ancora una volta col pretesto dell'equilibrio europeo e dell'onore nazionale, le ambizioni politiche minacciano la pace nel mondo. Operai francesi, tedeschi e spagnoli! Uniamo le nostre voci in un solo grido di condanna contro la guerra!... La guerra per una questione di preponderanza o di dinastia non può essere agli occhi degli operai che una assurdità criminale." (27)
Tali sentimenti non erano limitati ad una minoranza socialista: Marx rapporta, nel Primo Indirizzo, come gli operai internazionalisti francesi perseguitavano gli sciovinisti pro-guerra nelle strade di Parigi.
Nello stesso tempo l'Internazionale difendeva l'idea che "da parte della Germania, la guerra è una guerra di difesa" (28). Ma questo non voleva dire intossicare gli operai di sciovinismo: in risposta alla presa di posizione della sezione francese, i tedeschi affiliati all'Internazionale, pur accettando tristemente che una guerra difensiva era un male inevitabile, dichiarano anche: "...la guerra presente è esclusivamente dinastica... Siamo lieti di stringere la mano fraterna offertaci dagli operai di Francia... Memori del motto dell'Associazione Internazionale dei Lavoratori: Proletari di tutti i paesi, unitevi! non dimentichiamo mai che gli operai di tutti i paesi sono nostri amici e i despoti di tutti i paesi sono nostri nemici" (29).
Il primo Indirizzo metteva anche in guardia gli operai tedeschi contro il pericolo della trasformazione della guerra in una guerra di aggressione da parte tedesca e riconosceva anche la complicità di Bismarck nella guerra, ancor prima delle rivelazioni sul telegramma d'Ems che ha provato fino a che punto Bismarck aveva attirato Bonaparte ed il suo "Secondo Impero" nella guerra. In ogni modo con la sconfitta dell'esercito francese a Sedan, la guerra è diventata veramente una guerra di conquista per la Prussia. Parigi fu assediata e la stessa Comune nacque sulla questione della difesa nazionale. Il regime di Bonaparte fu sostituito da una Repubblica nel 1870, perché l'Impero si era rivelato incapace di difendere Parigi; ora la stessa Repubblica provava che preferiva consegnare la capitale alla Prussia piuttosto che farla cadere nelle mani degli operai in armi.
Ma benchè all'inizio gli operai di Parigi pensavano ancora nei termini di una specie di patriottismo difensivo, di salvaguardia dell'onore nazionale da parte della stessa borghesia, il sollevamento della Comune marca un momento storico decisivo. Di fronte alla prospettiva di una rivoluzione operaia, le borghesie prussiana e francese unirono le proprie forze per schiacciarla: l'esercito prussiano rilascia i suoi prigionieri di guerra per gonfiare le truppe contro-rivoluzionarie francesi di Thiers e permette a queste ultime di attraversare le sue linee per portare l'assalto finale contro la Comune. Da questi avvenimenti Marx ha tirato una conclusione di portata storica:
"Il fatto che dopo la guerra più terribile dei tempi moderni l'esercito vincitore e l'esercito vinto fraternizzino per massacrare in comune il proletariato, questo fatto senza precedenti non indica, come pensa Bismarck, lo schiacciamento finale di una nuova società al suo sorgere, ma la decomposizione completa della società borghese. Il più alto slancio di eroismo di cui la vecchia società è ancora capace è la guerra nazionale; e oggi è dimostrato che questa è una semplice mistificazione governativa, la quale tende a ritardare la lotta delle classi e viene messa in disparte non appena la lotta di classe divampa in guerra civile. Il dominio di classe non è più capace di travestirsi con una uniforme nazionale; contro il proletariato i governi nazionali sono uniti" (30).
Da parte sua il proletariato rivoluzionario di Parigi aveva già cominciato a fare un certo numero di passi in avanti oltre la fase patriottica iniziale: di qui il decreto che permetteva agli stranieri di partecipare alla Comune "perché la bandiera della Comune è quella della repubblica universale", o ancora la distruzione pubblica della colonna Vendome, simbolo della gloria marziale della Francia...
La logica storica della Comune di Parigi era quella di andare verso una Comune mondiale, anche se ciò non era ancora possibile in quell'epoca. E' per questo che la sollevazione degli operai di Parigi durante la guerra franco-tedesca, quali che siano le frasi patriottiche che l'hanno accompagnata, era in realtà il segno precursore delle insurrezioni del 1917-18 esplicitamente contro la guerra e dell'ondata rivoluzionaria che le ha seguite.
Le conclusioni di Marx aprono così la prospettiva del futuro. Poteva essere prematuro nel 1871 dire che la società borghese era ridotta in polvere. Quest'anno ha potuto marcare la fine della questione nazionale in Europa, come viene notato da Lenin ne L'imperialismo, fase suprema del Capitalismo; ma continuava a porsi nelle colonie, mentre il capitalismo entrava nella sua ultima fase di espansione. In un senso più profondo, la denuncia da parte di Marx della mistificazione della guerra nazionale anticipava quella che sarebbe diventata una realtà generale una volta che il capitalismo fosse entrato nella sua fase di decadenza. D'ora in poi tutte le guerre sarebbero state delle guerre imperialiste e -per quanto riguarda il proletariato- non si sarebbe potuto più porre il problema in termini di difesa nazionale, a nessun titolo.
I sollevamenti del 1917-18 hanno anche confermato ciò che aveva detto Marx sulla capacità della borghesia di unificarsi di fronte alla minaccia proletaria: di fronte alla possibilità di una rivoluzione mondiale degli operai, le borghesie d'Europa, che si erano reciprocamente lacerate per quattro anni, scoprirono improvvisamente che avevano tutto l'interesse a fare la pace al fine di far naufragare la sfida proletaria contro il loro "ordine" basato sul sangue versato. Ancora una volta, i vari governi del mondo furono "una sola cosa contro il proletariato".
CDW
1. Il nome dell'Associazione Internazionale dei lavoratori, in inglese suonava International Workingmen's Association invece che Worker's Association. Il riferimento agli "uomini lavoratori" era evidentemente un riflesso dell'immaturità del movimento della classe, dato che il proletariato non ha nessun interesse ad istituire nei propri ranghi divisioni sessuali. Come in tutte le grandi insurrezioni sociali, la Comune di Parigi vide una straordinaria effervescenza fra le donne proletarie che non solo misero bruscamente in questione il loro ruolo "tradizionale", ma si mostrarono spesso tra i difensori più coraggiosi e radicali della Comune, sia nei Club rivoluzionari che sulle barricate. Questa effervescenza fu all'origine delle sezioni femminili dell'Internazionale, ciò che per l'epoca era un passo avanti, anche se tali forme di organizzazione separata oggi non ha più senso.
2. "Quarto rapporto annuale del Consiglio Generale dell'A.I.T.", in "Il Consiglio Generale della Prima Internazionale", 1866-1868, Edizioni di Mosca, ed. francese, p. 281.
3. Prime righe degli "Statuti Provvisori dell'Associazione", in "Il Consiglio Generale della Prima Internazionale", 1864-1866, Edizioni di Mosca, ed. francese, p.243.
4. Discorso a Londra per il 7° Anniversario dell'Internazionale, 1871.
5. Risoluzione della Conferenza di Londra dell'Internazionale sull'azione politica della classe operaia, settembre 1871.
6. La formulazione "costituzione del proletariato in partito" riflette un'ambiguità sul ruolo del partito che era a sua volta un riflesso dei limiti storici di quel periodo. L'Internazionale aveva in sé delle caratteristiche di organizzazione unitaria (sindacato, etc.) della classe e non solo quelle della sua organizzazione politica. Per tutto l'800 l'idea di un partito che o rappresentava la classe o era la classe stessa nella sua forma organizzata, era profondamente radicata nel movimento operaio. Queste confusioni non furono superate che nel nostro secolo, quando - dopo dolorose esperienze - divenne chiaro che bisognava fare una distinzione tra organizzazione politica ed organizzazioni unitarie. Comunque già allora esisteva una chiarezza di fondo sul fatto che il partito non è un'organizzazione che raggruppa tutta la classe, ma solo i suoi elementi più avanzati. Una definizione simile si trova già nel Manifesto Comunista e la stessa Prima Internazionale si considerava in termini analoghi quando affermava che il partito operaio era "la parte della classe operaia arrivata alla coscienza dei suoi interessi comuni di classe" ("La questione militare prussiana ed il Partito operaio tedesco", scritto da Engels nel 1865).
7. "Il Consiglio Generale della Prima Internazionale", 1864-1866, Edizioni di Mosca, ed. francese, p.241.
8. I blanquisti (seguaci di Auguste Blanqui) condividevano con i bakuninisti il volontarismo e l'impazienza, ma erano chiarissimi sul fatto che il proletariato doveva stabilire la sua dittatura per creare una società comunista. E' per questo che Marx, in certe occasioni importanti, ha potuto allearsi con i blanquisti contro i bakuninisti sulla questione dell'azione politica della classe operaia.
9. Lettera di Marx a Bracke, 1875.
10. Secondo Indirizzo del Consiglio Generale dell'AIT sulla guerra franco-tedesca, Londra, 9 settembre 1870.
11. Lenin, Opere scelte, Editori Riuniti, p.887.
12. Marx, "La guerra civile in Francia" Primo abbozzo di redazione, Edizione "La vecchia Talpa", Napoli, p. 216
13. Critica della dottrina dello Stato di Hegel, 1843.
14. Vedi la nostra Révue Internationale nn. 72 e 73.
15. Edizione Newton Compton, pag.67.
16. La guerra civile in Francia, Newton Compton, p. 110
17. Ibidem, p.114
18. Lettera a Bebel, 1875.
19. Lenin, Opere scelte, Editori Riuniti, p. 901
20. La guerra civile in Francia, Newton Compton, p. 115.
21. Ibidem, p.118.
22. Ibidem, p. 115.
23. Ibidem, p. 117.
24. Ibidem, p. 120.
25. La guerra civile in Francia, Primo abbozzo di redazione, Edizione "La vecchia talpa", Napoli, p.220
26. Introduzione a La guerra civile in Francia, Engels 1891, Newton Compton, p.68.
27. Manifesto "Ai lavoratori di tutti i paesi" del 12 luglio 1870 citato nel Primo indirizzo del Consiglio Generale sulla guerra franco-prussiana, in La guerra civile in Francia, Newton Compton, p.70.
28. Primo Indirizzo del Consiglio Generale sulla guerra franco-prussiana, ibidem, p.72.
29. Risoluzione adottata all'unanimità da una assemblea di delegati, rappresentanti 50.000 operai sassoni a Chemnitz, citato nel Primo Indirizzo..., ibidem, p.73.
30. La guerra civile in Francia, Newton Compton, p.140.
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[9] https://it.internationalism.org/en/tag/sviluppo-della-coscienza-e-dell-organizzazione-proletaria/sinistra-italiana
[10] https://it.internationalism.org/en/tag/4/70/francia
[11] https://it.internationalism.org/en/tag/storia-del-movimento-operaio/1871-la-comune-di-parigi
[12] https://it.internationalism.org/en/tag/2/24/marxismo-la-teoria-della-rivoluzione
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