Nella Ruhr, nel cuore della Germania, più di 80.000 lavoratori hanno invaso le strade e bloccato le strade per protestare contro l'annuncio di licenziamenti nelle miniere. Il 21 e 22 settembre, al di fuori di qualunque consegna sindacale (il che è significativo in un paese apprezzato per la "disciplina" dei "partner sociali"), i minatori della regione di Dortmund hanno scioperato spontaneamente, trascinando con sé le loro famiglie, i loro bambini, dei disoccupati e dei lavoratori di altri settori, chiamati a manifestare la loro solidarietà.
Quando le notizie delle dimostrazioni sono state rese note dai giornali, una gran quantità di persone sono scese in piazza per esprimere il loro sostegno e la loro solidarietà. Ma la borghesia era pronta a questa esplosione di collera e i sindacati si erano ritagliati dei margini di trattativa come ad esempio la riduzione del numero di licenziamenti.
Ma la cosa sorprendente è che i minatori, dopo un paio di giorni di lotta, sono tornati al lavoro. Questo ritorno al lavoro, lungi dal significare una caduta di combattività, esprime piuttosto sia il fatto che i lavoratori stanno ancora cercando di capire quanto profondi siano gli attacchi che stanno subendo ed anche un segno di maturità nella misura in cui hanno voluto evitare di bruciare le loro risorse in azioni inutili e ostinate.
Questo movimento esprime un passo avanti non solo a livello di combattività ma anche a livello di coscienza. Soprattutto in relazione alla riflessione sulla natura della crisi, sull'importanza centrale della questione sociale e della posizione del proletariato come classe nella società antagonista agli interessi del capitale. Possiamo così vedere come alcuni degli aspetti del riflusso della coscienza dei lavoratori in seguito al collasso del blocco dell'est cominciano visibilmente ad invertirsi.
Questo movimento, assieme alle notizie frammentarie ma insistenti su episodi di lotta di classe un pò ovunque nel mondo, conferma che siamo ormai entrati pienamente nella ripresa delle lotte, anche se molti sono i problemi che restano.
LA RIPRESA DELLA LOTTA DI CLASSE
Oggi più che mai la sola forza che può intervenire contro la catastrofe economica è la classe operaia. E' infatti la sola classe sociale capace di frantumare le barriere nazionali, settoriali e di categoria dell'"ordine capitalista". E' viceversa la divisione all'interno del proletariato, rafforzata dalla decomposizione attuale della società, a mantenere queste barriere, a lasciare campo libero alle misure "sociali" in tutte le direzioni prese nei vari paesi.
L'interesse della classe operaia, di tutti quelli che subiscono ovunque lo stesso sfruttamento e gli stessi attacchi da parte dello Stato capitalista, del governo, dei padroni, dei partiti e dei sindacati, è l'unità più ampia possibile del massimo numero di persone, nell'azione e nella riflessione, per trovare i mezzi per organizzarsi e per sviluppare una direzione nella lotta contro il capitalismo.
Il fatto che gli operai di Germania, dopo aver subito l'anno scorso per dei mesi le manovre sindacali, reagiscano adesso alla stangata che subiscono, è un segno del risveglio della combattività del proletariato internazionale. Questo avvenimento, il più significativo del momento, non è isolato. Nello stesso momento hanno luogo altre manifestazioni in Germania, tra le altre: 70.000 operai contro il piano di licenziamenti alla Mercedes, diverse decine di migliaia a Duisburg contro 10.000 licenziamenti nella metallurgia. In diversi paesi aumenta il numero di scioperi che, sebbene siano spesso canalizzati dai sindacati grandi e piccoli, mostrano tuttavia che è finita la passività. Quello che dobbiamo attenderci è una lenta e lunga serie di manifestazioni operaie, di scontri tra proletariato e borghesia, a livello internazionale.
La ripresa internazionale della lotta di classe nelle condizioni di oggi non è facile. Numerosi fattori contribuiscono a frenare e finanche ad impedire lo sviluppo della combattività e della coscienza del proletariato:
Questi ostacoli il proletariato li dovrà affrontare nello sviluppo stesso delle sue lotte. Il capitalismo mostra sempre più il fallimento generale ed irreversibile del proprio sistema. La brutale accelerazione della crisi, moltiplicando in poco tempo le sue conseguenze disastrose contro la classe operaia, ha certo sulle prime l'effetto di uno shock, ma costituisce anche un terreno favorevole ad una mobilitazione sul terreno di classe, intorno alla difesa degli interessi fondamentali del proletariato. L'intervento attivo delle organizzazioni rivoluzionarie, che sono parte attiva della lotta di classe e che difendono la prospettiva del comunismo, contribuirà poi a che la classe operaia trovi i mezzi per organizzare e orientare questo scontro nel senso dei suoi interessi e quindi nel senso degli interessi di tutta l'umanità.
LA FINE DEI "MIRACOLI"
Ormai da parecchio nessuno osa più parlare di "miracolo economico" nel cosiddetto terzo mondo visto il livello di miseria raggiunto in quest'area del mondo. Il continente africano è ormai praticamente quasi del tutto abbandonato a sé stesso. In Asia la vita umana vale meno di quella di un animale nella maggior parte delle regioni. Di anno in anno le carestie toccano regioni sempre più ampie, coinvolgendo decine di milioni di persone. In America latina epidemie di malattie che erano completamente scomparse stanno facendo stragi.
D'altra parte la prosperità e il benessere promessi, all'indomani del crollo del blocco dell'Est, proprio alle popolazioni di questi paesi sono ben lungi dall'arrivare. Di fatto le iniezioni di "capitalismo liberale" fatte allo stalinismo agonizzante non hanno salvato dal fallimento economico questa forma estrema di statalizzazione puramente capitalista che si è nascosta per sessanta anni dietro la menzogna di "socialismo" o di "comunismo". Anche lì la povertà aumenta in maniera vertiginosa e le condizioni di vita sono sempre più catastrofiche per l'immensa maggioranza della popolazione.
Anche nei paesi "sviluppati" i "miracoli economici" sono ormai finiti. La piaga della disoccupazione e gli attacchi alle condizioni di vita della classe operaia su tutti i fronti riporta brutalmente in primo piano la crisi economica. Mentre la propaganda del "capitalismo trionfante" sul "fallimento del comunismo" non cessa di martellare che non c'è "niente di meglio che il capitalismo", la crisi economica mostra sempre di più che il peggio è davanti a noi.
I FORTI ATTACCHI CONTRO LA CLASSE OPERAIA
La crisi mette a nudo le contraddizioni fondamentali di un capitalismo non solo incapace di assumere la sopravvivenza della società ma responsabile peraltro della distruzione delle stesse forze produttive, prima tra tutte quella del proletariato.
Oggi che la crisi raddoppia di intensità gli Stati "democratici" sono presi alla gola, devono levarsi la maschera. Piuttosto che offrire una qualunque prospettiva, anche lontana, di prosperità e di pace, il capitalismo schiaccia ulteriormente le condizioni di vita della classe operaia e fomenta la guerra. Le residue illusioni che si mantengono tra i lavoratori delle grandi concentrazioni industriali dell'Europa occidentale, dell'America del nord e del Giappone sui "privilegi" che gli si fa credere di avere ancora per tenerli buoni, tendono a crollare in seguito agli attacchi che ricadono su questo settore di proletariato.
La menzogna della "ristrutturazione" dell'economia, che è servita da giustificazione nelle precedenti ondate di licenziamenti nei settori "tradizionali" dell'industria e dei servizi, fa ormai acqua da tutte le parti. Infatti è nei settori dell'industria già "modernizzati", come l'automobilistica o l'aeronautica, nei settori "di punta" come l'elettronica e l'informatica, nei servizi più "vantaggiosi" delle banche e delle assicurazioni, nel settore pubblico già ampiamente "sgrassato" nel corso degli anni '80, nei settori delle poste, della salute e della scuola, che ricadono i numerosi piani di riduzione degli effettivi, di cassa integrazione e di licenziamenti, che toccano centinaia di migliaia di lavoratori.
Nessun settore scappa alle "esigenze" della crisi economica generale dell'economia mondiale. La necessità per ogni unità capitalista ancora in attività di "ridurre i propri costi" per reggere alla concorrenza si manifesta a tutti i livelli, dall'impresa più piccola a quella più grande, fino allo Stato cui compete la responsabilità della difesa della "competitività" del capitale nazionale. Nei paesi più "ricchi", essi stessi trascinati nella recessione, la disoccupazione aumenta ormai in maniera vertiginosa. Non esiste in tutto il mondo capitalista nessuna regione in cui l'economia abbia buona salute.
In media un lavoratore su cinque è disoccupato nei paesi industrializzati. E un disoccupato su cinque lo è da più di un anno, con sempre minori possibilità di ritrovare un impiego. L'esclusione totale di ogni mezzo normale di sussistenza diviene un fenomeno di massa: i "nuovi poveri" e i "senza fissa dimora" si contano ormai a milioni, ridotti alle peggiori privazioni nelle grandi città.
La disoccupazione di massa che si sviluppa oggi non costituisce una riserva di mano d'opera per una futura ripresa dell'economia. Non vi sarà alcuna ripresa che permetterà al capitalismo di integrare o reintegrare nella produzione la massa crescente di decine di milioni di disoccupati dei paesi "sviluppati". Anzi finanche il minimo vitale alla loro sussistenza viene sempre più messo in discussione. La massa di disoccupati di oggi non costituisce più l'"esercito di riserva" del capitalismo, quello di cui parlava Marx nel secolo scorso. Questa va infatti a ingrossare la massa di tutti quelli che sono già completamente esclusi da ogni accesso a delle condizioni di esistenza normali, come nei paesi del "terzo mondo" o dell'ex blocco dell'est. Essa è concretamente la manifestazione della tendenza alla pauperizzazione assoluta provocata dal fallimento definitivo del modo di produzione capitalista.
Per quelli che mantengono ancora un lavoro, gli aumenti di salario sono ridicoli e comunque erosi dall'inflazione, quando non sono del tutto bloccati. Sempre più frequenti sono poi le riduzioni nette di salario. A questo attacco diretto al salario si aggiungono poi gli aumenti dei vari contributi, tasse e imposte, degli affitti delle case, dei trasporti, della sanità e per tasse e libri scolastici. La realtà di oggi è che una parte crescente delle entrate delle famiglie deve essere consacrata al sostegno di figli o di parenti senza lavoro.
La classe operaia deve combattere energicamente questa situazione. I sacrifici reclamati agli operai oggi, da ogni Stato, in nome della solidarietà "nazionale", non faranno che produrre altri sacrifici domani perché non esiste "uscita dalla crisi" nel quadro del capitalismo.
DI FRONTE AD UNA CRISI IRREVERSIBILE E' INDISPENSABILE LA LOTTA DI CLASSE
Ormai anche quelli che si fanno difensori della menzogna del buon funzionamento del capitalismo hanno più di un problema a giustificare la loro posizione. Ora che le statistiche mostrano dei valori di crescita assolutamente ridicoli, non osano neanche più parlare di "ripresa economica". Tutt'al più parlano di una "pausa" nella recessione, avendo cura di precisare che "se una ripresa interverrà, questa sarà molto debole e molto lenta...". Questo linguaggio prudente mostra come la classe dominante sia ancora più sguarnita oggi rispetto alle precedenti recessioni degli ultimi 25 anni.
Nessuno osa più prevedere l'"uscita dal tunnel". Quelli che non vedono il carattere irreversibile della crisi e credono nell'immortalità del modo di produzione capitalista non possono che ripetere che "ci sarà necessariamente una ripresa economica poiché vi è sempre stata una ripresa dopo ogni crisi". Questa formula, che ricorda il vecchio adagio del contadino secondo cui "dopo la pioggia, viene sempre il sereno", la dice lunga sull'incapacità assoluta della classe capitalista di padroneggiare le leggi della propria economia.
Ultimo esempio in ordine di tempo: lo sfaldamento dello SME (Sistema monetario europeo) per tutto un periodo di quest'anno fino al suo crollo nel corso dell'estate. L'impossibilità per gli Stati dell'Europa occidentale di dotarsi di una moneta unica costituisce un brutale colpo di arresto al progetto di costruzione di una "unità europea" che doveva, secondo i suoi difensori, essere un esempio della capacità del capitalismo di instaurare una cooperazione economica, politica e sociale. Dietro le turbolenze monetarie dell'estate, quello che è emerso è ancora una volta la legge incontenibile dello sfruttamento e della concorrenza capitalista secondo cui:
Mentre all'interno di ogni singola nazione le borghesie affilano le loro armi contro la classe operaia, sul piano internazionale si moltiplicano i motivi di disaccordi e di scontri. "L'intesa tra i popoli", il cui modello doveva essere quello tra i grandi paesi capitalisti, cede il passo ad una guerra economica senza quartiere. Il mercato mondiale è ormai da tempo saturo. E' divenuto troppo stretto per permettere il normale funzionamento dell'accumulazione del capitale, l'allargamento della produzione e dei consumi necessari alla realizzazione del profitto, motore di questo sistema.
Ma a differenza dei dirigenti di una semplice impresa capitalista che, in caso di fallimento, mettono la chiave sotto la porta, procedono alla liquidazione dell'azienda e vanno a cercare altrove i profitti che sono venuti a mancare, la classe capitalista nel suo insieme non può pronunciare il proprio fallimento e procedere alla liquidazione del modo di produzione capitalistico. Ciò significherebbe pronunciare la propria scomparsa, cosa che nessuna classe sfruttatrice sarebbe capace di fare. La classe dominante non si ritirerà dalla scena sociale in punta di piedi dicendo "ho fatto il mio tempo". Essa difenderà viceversa fino alla fine, con le unghie e con i denti, i suoi interessi e privilegi.
Tocca alla classe operaia distruggere il capitalismo. In conseguenza della sua collocazione nei rapporti di produzione capitalisti, essa è la sola capace di bloccare la macchina infernale del capitalismo decadente. Non disponendo di alcun potere economico nella società, senza interessi particolari da difendere, il proletariato non ha altro da vendere al capitalismo se non la propria forzalavoro. Esso è pertanto la sola forza portatrice di una prospettiva di nuovi rapporti sociali liberati dalla divisione in classi, dalla penuria, dalla miseria, dalle guerre e dalle frontiere.
L'unica prospettiva che resta per l'umanità è quella di una rivoluzione comunista internazionale, prospettiva su cui la classe si incamminerà cominciando a fornire oggi una risposta di massa agli attacchi feroci del capitalismo, primo passo di una lotta storica contro la distruzione sistematica delle forze produttive oggi in atto a livello mondiale.
settembre 93 OF
L'EVOLUZIONE DEI CONFLITTI IMPERIALISTI
1) Raramente, dopo la fine della seconda guerra mondiale, il mondo ha conosciuto una moltiplicazione e un'intensificazione dei conflitti guerrieri come quelle a cui si assiste oggi. Si diceva che la guerra del Golfo, all'inizio del 1991, avrebbe instaurato un "nuovo ordine mondiale", basato sul "Diritto". Dopo, la serie di conflitti che doveva succedere alla fine della divisione del mondo tra i due mastodontici imperialismi non ha smesso di estendersi ed acuirsi. L'Africa e l'Asia del sud-est, terreni tradizionali degli scontri imperialisti, hanno continuato ad essere sconvolti da convulsioni e dalla guerra. Liberia, Ruanda, Angola, Somalia, Afganistan, Cambogia: questi paesi sono oggi sinonimo di scontri armati e di desolazione malgrado tutti gli "accordi di pace" e gli interventi della "comunità internazionale" patrocinati direttamente o indirettamente dall'ONU. A queste "zone in tempesta" sono venuti ad aggiungersi il Caucaso e l'Asia centrale che pagano al caro prezzo dei massacri inter etnici la scomparsa dell'URSS. Infine, quel porto di stabilità costituito dall'Europa dalla fine della seconda guerra mondiale è oggi in preda ad uno dei conflitti più sanguinosi e barbari che si siano visti. Questi scontri esprimono in modo tragico le caratteristiche del mondo capitalista in decomposizione. Essi derivano, in buona parte, dalla situazione nuova creatasi a causa di quello che costituisce, a tutt'oggi, la manifestazione più importante di questa nuova fase della decadenza capitalista: il crollo dei regimi stalinisti e del blocco dell'Est. Ma, contemporaneamente, questi conflitti sono ulteriormente aggravati da quella che è una delle caratteristiche generali e fondamentali di questa decadenza: l'antagonismo tra le diverse potenze imperialiste. Così, il sedicente "aiuto umanitario" in Somalia non è che un pretesto ed uno strumento dello scontro tra la due principali potenze che si oppongono oggi in Africa: gli Stati Uniti e la Francia. Dietro le varie cricche che si disputano il potere a Kabul si profilano gli interessi delle potenze regionali come il Pakistan, l'India, l'Iran, la Turchia, l'Arabia Saudita, potenze che, per parte loro, iscrivono i loro interessi ed i loro antagonismi all'interno di quelli dei "Grandi" come gli Stati Uniti o la Germania. Infine, le convulsioni che hanno messo a ferro e fuoco l'ex-Yugoslavia a poche centinaia di chilometri dall'Europa "avanzata", traducono, esse stesse, i principali antagonismi che dividono oggi il pianeta.
2) L'ex-Yugoslavia è diventata un punto focale nelle rivalità tra le principali potenze del mondo. Se gli scontri ed i massacri che vi si svolgono da due anni hanno trovato terreno fertile negli antagonismi etnici ancestrali messi sotto silenzio dal regime stalinista, e che il crollo di questo ha fatto risorgere, certo i sordidi calcoli delle grandi potenze hanno costituito un fattore notevole di accentuazione di questi antagonismi. E' certo perché la Germania ha incoraggiato la secessione delle Repubbliche del nord, Slovenia e Croazia, allo scopo di costituirsi uno sbocco verso il Mediterraneo, che si è aperta il vaso di Pandora iugoslavo. E' certo perché gli altri Stati europei, insieme agli Stati Uniti, si erano opposti a questa offensiva tedesca che hanno, direttamente o indirettamente con il loro immobilismo, incoraggiato la Serbia e le sue milizie a scatenare la "purificazione etnica" nel nome della "difesa delle minoranze". Nei fatti, l'ex-Yugoslavia costituisce una specie di riassunto, un esempio parlante e tragico dell'insieme della situazione mondiale nel campo dei conflitti imperialisti.
3) In primo luogo, gli scontri che devastano oggi questa parte del mondo sono una nuova conferma della totale irrazionalità economica della guerra imperialista. Già da molto tempo, e sulla scia della "Sinistra comunista di Francia", la CCI ha rilevato la differenza fondamentale tra le guerre del periodo ascendente del capitalismo, che avevano una certa razionalità per lo sviluppo di questo sistema, e quelle del periodo di decadenza che non fanno che esprimere la totale assurdità economica di un modo di produzione agonizzante. Se l'aggravarsi degli antagonismi imperialisti ha come causa ultima la fuga in avanti di tutte le borghesie nazionali poste di fronte al blocco totale dell'economia capitalista, i conflitti guerrieri non potrebbero apportare alcuna "soluzione" alla crisi, sia a livello dell'insieme dell'economia mondiale che per quella di un qualunque paese in particolare. Come già notava Internationalisme nel 1945, non è più la guerra che è al servizio dell'economia, ma piuttosto l'economia che si è messa al servizio della guerra e della sua preparazione. E questo fenomeno non ha fatto che amplificarsi successivamente. Nel caso della ex-Yugoslavia, nessuno dei protagonisti può sperare nel benché minimo profitto economico dalla sua implicazione nel conflitto. E' evidente per tutte le Repubbliche che si fanno la guerra attualmente: le massicce distruzioni dei mezzi di produzione e della forza lavoro, la paralisi dei trasporti e dell'attività produttiva, l'enorme prelievo rappresentato dagli armamenti a danno dell'economia locale non vanno a beneficio di nessuno dei nuovi Stati in campo. Ugualmente, contrariamente all'idea che si è diffusa nell'ambiente politico proletario, questa economia totalmente devastata non potrà assolutamente costituire un mercato solvibile per la produzione eccedente dei paesi industrializzati. Non sono dei mercati che le grandi potenze si disputano nel territorio della ex-Yugoslavia ma delle posizioni strategiche destinate a preparare quella che è diventata la principale attività del capitalismo decadente: la guerra imperialista ad un livello sempre più vasto.
4) La situazione nella ex-Yugoslavia viene ugualmente a confermare un punto che la CCI aveva sottolineato da molto tempo: la fragilità dell'edificio europeo. Questo, con le sue varie istituzioni, si era costituito essenzialmente come strumento del blocco americano di fronte alla minaccia del blocco russo. L'interesse comune dei differenti Stati dell'Europa occidentale di fronte a questa minaccia (che non escludeva il tentativo di alcuni tra loro, come la Francia di De Gaulle di limitare l'egemonia americana) aveva costituito un fattore notevole di stimolo alla cooperazione, specialmente economica, tra questi stati. Una tale cooperazione non era stata in grado di superare le rivalità economiche tra loro, risultato che non poteva essere raggiunto nel capitalismo, ma aveva permesso l'instaurarsi di una certa "solidarietà" di fronte alla concorrenza commerciale del Giappone e degli Stati Uniti. Con il crollo del blocco dell'est, le basi dell'edificio europeo si sono trovate lesionate. Ormai, l'Unione Europea, che il trattato di Maastricht dalla fine del 1991 ha fatto succedere alla CEE, non potrebbe più essere considerato come uno strumento di un blocco occidentale che ha lui stesso cessato di esistere. Al contrario, questa struttura è divenuta l'arena degli antagonismi imperialisti che sono nati o sono venuti a galla con la scomparsa della vecchia configurazione del mondo. E' quanto è stato messo molto ben in evidenza dagli scontri in Jugoslavia, con la profonda divisione degli Stati europei incapaci di mettere in atto una benché minima politica comune di fronte ad un conflitto che si sviluppava alle loro porte. Oggi, "l'Europa unita" può ancora essere utilizzata dall'insieme dei suoi membri come bastione contro la concorrenza commerciale del Giappone e degli Stati Uniti o come strumento contro l'immigrazione e le lotte della classe operaia. Ma la sua componente diplomatica e militare ne fanno l'oggetto di una disputa sempre più acuta tra quelli (particolarmente la Francia e la Germania) che vogliono farle svolgere un ruolo come struttura capace di rivaleggiare con la potenza americana (preparando la costituzione di un futuro blocco imperialista) e gli alleati degli Stati Uniti (essenzialmente la Gran Bretagna ed i Paesi bassi) che invece svolgono il ruolo di freno di una tale tendenza. (1)
5) L'evoluzione del conflitto nei Balcani è venuta ugualmente ad illustrare una delle altre caratteristiche della situazione mondiale: gli ostacoli sul cammino della ricostituzione di un nuovo sistema di blocco imperialista. Come la CCI ha sottolineato fin dal 1989, la tendenza verso un tale sistema è stata messa all'ordine del giorno da quando il vecchio è scomparso con il crollo del blocco dell'Est. L'emergere di un candidato alla direzione di un nuovo blocco imperialista, che rivaleggi con quello che sarebbe capeggiato dagli Stati Uniti, si è rapidamente confermato con l'avanzata delle posizioni della Germania in Europa centrale e nei Balcani, e ciò quando la libertà di manovra militare e diplomatica di questo paese era ancora limitata dagli obblighi ereditati dalla sua sconfitta nella seconda guerra mondiale. L'ascesa della Germania si è largamente basata sulla sua potenza economica e finanziaria, ma ha anche potuto beneficiare del sostegno di un suo vecchio complice all'interno della CEE, la Francia (azione concertata rispetto all'Unione Europea, creazione di un esercito comune, ecc.). Tuttavia, la Yugoslavia ha evidenziato tutte le contraddizioni che dividono questo tandem: mentre la Germania sosteneva senza indugi la Slovenia e la Croazia, la Francia ha mantenuto per un lungo periodo una politica pro-serba che l'ha fatta schierare con la posizione iniziale della Gran Bretagna e degli Stati Uniti, il che ha permesso a questa potenza di frapporre ostacoli all'interno dell'alleanza privilegiata tra i due principali paesi europei. Anche se questi due paesi hanno consacrato delle energie particolari al fatto che il cruento imbroglio jugoslavo non comprometta la loro cooperazione (vedi il sostegno della Bundesbank al franco francese contro gli attacchi della speculazione), è sempre più chiaro che non ripongono le stesse speranze nella loro alleanza. La Germania, per la sua potenza economica e la sua posizione geografica, aspira alla leadership di una "Grande Europa" che non sarebbe se non l'asse centrale di un nuovo blocco imperialista. Se è d'accordo nel far giocare un tale ruolo alla struttura europea, la borghesia francese, che dal 1870 ha potuto constatare a sue spese la potenza della sua vicina orientale, non vuole però accontentarsi del posto di secondo piano che questa si propone di concederle. E' perciò che la Francia non è interessata ad uno sviluppo troppo ingente della potenza militare tedesca (accesso al Mediterraneo, armamento nucleare, in particolare) che vedrebbe sminuire le carte vincenti di cui essa ancora dispone per tentare di mantenere una certa parità con la sua vicina nella direzione dell'Europa e alla testa della contestazione della egemonia americana. La riunione di Parigi dell'11 marzo fra Vance, Owen e Milosevic sotto la presidenza di Mitterrand, sta lì ad illustrare, ancora una volta, questa realtà. Così, una delle condizioni perché si ricostituisca una nuova divisione del mondo tra due blocchi imperialisti, l'accrescimento molto sostanzioso delle capacità militari della Germania porta con sé la minaccia di difficoltà serie tra i due paesi europei che sono candidati a capeggiare un nuovo blocco. Il conflitto nella ex-Jugoslavia è dunque venuto a confermare che non è per niente sicuro che giunga a compimento la tendenza verso la ricostituzione di un tale nuovo blocco: la situazione geopolitica specifica delle due borghesie che se ne fanno le principali protagoniste è una ulteriore difficoltà che si somma a quelle generali proprie del periodo di decomposizione che acuisce il "ciascuno per sé" tra tutti gli Stati.
6) Il conflitto nella ex-Jugoslavia infine viene a confermare una delle caratteristiche maggiori della situazione mondiale: i limiti dell'efficacia dell'operazione "Tempesta del Deserto" del 1991 destinata ad affermare la leadership degli Stati Uniti sul mondo. Come la CCI ha affermato all'epoca, questa operazione di grande respiro non aveva come principale bersaglio il regime di Saddam Hussein e nemmeno gli altri paesi della periferia che avrebbero potuto essere tentati ad imitare l'Irak. Per gli Stati Uniti, ciò che si trattava anzitutto di affermare, era il loro ruolo di "gendarme del mondo" di fronte alle convulsioni derivanti dal crollo del blocco russo ed in particolare di ottenere l'obbedienza da parte delle altre potenze occidentali che, con la fine della minaccia venuta dall'Est, si sentivano spuntare le ali. Appena pochi mesi dopo la guerra del Golfo, l'inizio degli scontri in Yugoslavia ha mostrato il fatto che queste stesse potenze, ed in particolare la Germania, erano ben determinate a far prevalere i loro interessi imperialisti a scapito degli Stati Uniti. In un secondo tempo questo paese, se da un lato è riuscito a mettere in evidenza l'impotenza della Unione europea rispetto ad una situazione che è di sua competenza e la mancanza di accordo che regna nelle fila di quest'ultima, compreso tra i migliori alleati che sono la Francia e la Germania, non è riuscito tuttavia a contenere realmente l'avanzata degli altri imperialismi, in particolare quello tedesco che ha, complessivamente, raggiunto i suoi fini nella ex-Yugoslavia. Un tale smacco è evidentemente grave per la prima potenza mondiale perché non può che andare a favore della tendenza di numerosi paesi, su tutti i continenti, a mettere a profitto la nuova situazione mondiale per allentare la morsa a loro imposta dallo Zio Sam per decenni. E' per questa ragione che cresce l'attivismo degli Stati Uniti attorno alla Bosnia subito dopo aver fatto mostra della loro forza militare con il massiccio e spettacolare spiegamento "umanitario" in Somalia e l'interdizione dello spazio aereo del sud dell'Irak.
7) Anche quest'ultima operazione militare ha confermato una serie di fatti evidenziati dalla CCI prima. Essa ha mostrato il fatto che il vero bersaglio individuato dagli Stati Uniti in questa parte del mondo non è l'Irak, poiché è servita a rafforzare il regime di Saddam Hussein sia all'interno che all'estero, ma piuttosto i loro "alleati", coinvolti ancora una volta, ma con minor successo del 1991 (il terzo ladrone della "coalizione", la Francia, si è accontentata questa volta di inviare degli aerei da ricognizione). In particolare, essa ha costituito un messaggio in direzione dell'Iran, la cui crescente potenza militare si accompagna al rafforzamento dei suoi legami con alcuni paesi europei, precisamente la Francia. Questa operazione è venuta a confermare ugualmente, poiché il Kuwait non era più coinvolto, che la guerra del Golfo non era motivata dalla questione del prezzo del petrolio o della conservazione da parte degli Stati Uniti della loro "rendita petrolifera", come avevano affermato i gauchistes e anche, ad un certo punto, alcuni gruppi dell'ambiente proletario. Se questa potenza è interessata a conservare e rafforzare la sua presa sul Medio Oriente ed i suoi giacimenti petroliferi, non è fondamentalmente per delle ragioni commerciali o strettamente economiche. E' innanzitutto per essere in grado, se ce ne sarà bisogno, di privare i suoi rivali giapponesi ed europei dei loro approvvigionamenti di una materia prima essenziale per un'economia sviluppata e maggiormente per ogni impresa militare (materia prima di cui dispone d'altronde abbondantemente il principale alleato degli Stati Uniti, la Gran Bretagna).
8) Così, i recenti eventi hanno confermato che, di fronte ad un accentuarsi del caos mondiale e del "ciascuno per sé" ed all'ascesa in forza dei suoi nuovi rivali imperialisti, la prima potenza mondiale dovrà sempre più fare uso della forza militare per preservare la sua supremazia. I terreni potenziali di scontro non mancano e non fanno che moltiplicarsi. Fin da oggi, il subcontinente indiano, dominato dall'antagonismo fra Pakistan ed India, si trova sempre più coinvolto, come testimoniano per esempio gli scontri in questo ultimo paese tra comunità religiose, che se sono una testimonianza della decomposizione, sono attizzati da questo antagonismo. Ugualmente, l'Estremo Oriente è oggi il teatro di manovre imperialistiche di grande ampiezza come, in particolare, il riavvicinamento tra la Cina ed il Giappone (sigillato dalla visita a Pechino per la prima volta nella storia, dell'Imperatore giapponese). E' più che probabile che questa configurazione delle linee di forze imperialiste non farà che confermarsi nella misura in cui:
Gli antagonismi che mettono alle strette la prima potenza mondiale ed i suoi alleati non risparmiano nemmeno il continente americano in cui i tentativi ripetuti di colpo di stato contro Carlos Andres Perez in Venezuela o la costituzione della NAFTA, al di là delle loro cause o implicazioni economiche e sociali, hanno come fine di frapporre ostacoli alle mire e all'accrescimento dell'influenza di alcuni stati europei. Così la prospettiva mondiale sul piano delle tensioni imperialiste è caratterizzata da un'ascesa ineluttabile di queste con una crescente utilizzazione della forza militare da parte degli Stati Uniti, e non è certo la recente elezione del democratico Clinton alla testa di questo paese che potrebbe rovesciare questa tendenza, ma al contrario. Fino ad oggi queste tensioni si sono sviluppate essenzialmente come ripercussioni del crollo del vecchio blocco dell'Est. Ma sempre più saranno aggravate dalla caduta catastrofica nella sua crisi mortale dell'economia capitalista.
L'EVOLUZIONE DELLA CRISI ECONOMICA
9) L'anno 1992 si è caratterizzato con un aggravarsi considerevole della situazione dell'economia mondiale. In particolare, la recessione aperta si è generalizzata raggiungendo paesi inizialmente risparmiati, come la Francia, e tra i più solidi come la Germania ed il Giappone. Se l'elezione di Clinton rappresenta la prosecuzione, ed anche il rafforzamento, della politica della prima potenza mondiale sull'arena imperialista, essa simboleggia la fine di tutto un periodo nell'evoluzione della crisi e delle politiche borghesi per farvi fronte. Essa prende atto della caduta definitiva delle "reaganomics" che avevano suscitato le speranze più folli nelle fila della classe dominante e numerose illusioni tra i proletari. Oggi, nei discorsi borghesi, non si fa più alcun cenno alle mitiche virtù della "deregulation" e del "meno Stato". Anche uomini politici appartenenti a forze che si erano fatte sostenitrici delle "reaganomics", come Major in Gran Bretagna, ammettono, di fronte all'accumularsi delle difficoltà dell'economia, la necessità in essa di "più Stato".
10) Gli "anni Reagan", prolungati dagli "anni Bush", non hanno affatto rappresentato una inversione della tendenza storica, propria della decadenza capitalistica, di rafforzamento del capitalismo di Stato. Durante questo periodo, delle misure come l'aumento massiccio delle spese militari, il salvataggio del sistema delle casse di risparmio da parte dello Stato federale (che comporta un prelevamento di 1000 miliardi di dollari dal suo bilancio) o la caduta volontaristica dei tassi di interesse al disotto del livello dell'inflazione hanno rappresentato una crescita significativa dell'intervento dello Stato nell'economia della prima potenza mondiale. Nei fatti, quali che siano i temi ideologici impiegati, quali che siano le modalità, la borghesia non può mai, nel periodo di decadenza, rinunciare a fare appello allo Stato per assemblare i pezzi di un'economia che tende al collasso, per tentare di barare con le leggi capitalistiche (ed è il solo che possa farlo, in particolare attraverso la stampa della carta moneta). Tuttavia, con:
lo Stato federale non poteva evitare un intervento molto più aperto, a viso scoperto, in questa economia. In questo senso, il significato dell'elezione del democratico Clinton alla testa dell'esecutivo americano non può essere ridotto a dei soli imperativi ideologici. Questi imperativi non sono trascurabili, proprio allo scopo di favorire una maggiore adesione dell'insieme della popolazione degli Stati Uniti alla politica imperialista della borghesia di questo paese. Ma, molto più importante, il "New Deal" di Clinton è il segno della necessità di un riorientamento significativo della politica di questa borghesia, un riorientamento che Bush, troppo legato alla politica precedente, non era il più adatto ad attuare.
11) Questo riorientamento politico, contrariamente alle promesse del candidato Clinton, non potrebbe rimettere in discussione il peggioramento delle condizioni di vita della classe operaia, che viene definita "classe media" per i bisogni della propaganda. Le centinaia di miliardi di dollari di economia annunciati da Clinton alla fine di febbraio 1993, rappresentano una crescita considerevole dell'austerità destinata ad alleggerire l'enorme deficit federale e a migliorare la competitività della produzione USA sul mercato mondiale. Tuttavia, questa politica si confronta con dei limiti insuperabili. La riduzione del deficit, se sarà veramente realizzata, non potrà che accentuare le tendenze al rallentamento dell'economia che era stata drogata da questo stesso deficit per quasi un decennio. Un tale rallentamento, riducendo le entrate fiscali (malgrado l'aumento previsto delle imposte) porterà ad aggravare ancora questo deficit. Così, quali che siano le misure applicate, la borghesia si trova di fronte ad un vicolo cieco: invece di un rilancio dell'economia e di una riduzione del suo indebitamento (ed in particolare quello dello Stato), essa è condannata, con una scadenza che non potrà essere rimandata per molto, ad un nuovo rallentamento dell'economia ed ad un aumento irreversibile dell'indebitamento.
12) Lo stallo nel quale si trova l'economia americana non fa che esprimere quello dell'insieme dell'economia mondiale. Tutti i paesi sono stretti in una morsa le cui ganasce hanno per nome caduta della produzione ed esplosione dell'indebitamento (ed in particolare quello dello Stato). E' la manifestazione eclatante della crisi di sovrapproduzione irreversibile nella quale affonda il modo di produzione capitalista da più di due decenni. Successivamente, l'esplosione dell'indebitamento del "terzo mondo", dopo la recessione mondiale del 1973-74, poi l'esplosione del debito americano (sia interno che estero), dopo quella del 1981-82, avevano permesso all'economia mondiale di limitare le manifestazioni dirette, e soprattutto di mascherare l'evidenza, di questa sovrapproduzione. Oggi, le drastiche misure che si propone di applicare la borghesia USA segnano la messa da parte definitiva della "locomotiva" americana che aveva tirato l'economia mondiale negli anni 1980. Il mercato interno degli Stati Uniti si ferma sempre più, ed in modo irreversibile. E se ciò non succede per una migliore competitività delle merci made in USA, ciò avverrà attraverso un aumento senza precedenti del protezionismo di cui Clinton, fin dal suo insediamento, ha dato un assaggio (aumento dei diritti sui prodoti agricoli, l'acciaio, gli aerei, chiusura dei mercati pubblici, ...). Così, la sola prospettiva che possa attendere il mercato mondiale è quella di un restringimento crescente ed irrimediabile. E ciò tanto più perché esso è di fronte ad una crisi catastrofica del credito simbolizzata dai fallimenti delle banche sempre più numerosi: a forza di abusare in modo folle dell'indebitamento, il sistema finanziario internazionale si trova sull'orlo di un'esplosione che porterà al precipitare in modo apocalittico del crollo dei mercati e della produzione.
13) Un altro fattore che viene ad aggravare lo stato dell'economia mondiale è il caos crescente che si sviluppa nelle relazioni internazionali. Quando il mondo viveva sotto l'egida dei due giganti imperialisti, la necessaria disciplina che dovevano rispettare gli alleati all'interno di ciascun blocco non si esprimeva solo sul piano militare e diplomatico, ma anche sul piano economico. Nel caso del blocco occidentale, è attraverso delle strutture come l'OCSE, il FMI, il G7 che gli alleati, che erano nello stesso tempo i principali paesi avanzati, avevano stabilito, sotto l'egida del capo fila americano, un coordinamento delle loro politiche economiche e un modus vivendi per contenere le loro rivalità commerciali. Oggi, la scomparsa del blocco occidentale, che fa seguito al crollo di quello dell'Est, ha inferto un colpo decisivo a questo coordinamento (anche se se ne sono mantenute le vecchie strutture) e lascia il campo libero del "ciascuno per sé" nelle relazioni economiche. Concretamente, la guerra commerciale non può che scatenarsi ancora di più, venendo ad accentuare le difficoltà e l'instabilità dell'economia mondiale che ne sono la causa. E' quanto manifesta l'attuale paralisi nei negoziati del GATT. Questi avevano ufficialmente per oggetto di limitare il protezionismo tra "compagni" al fine di favorire gli scambi mondiali e dunque la produzione delle differenti economie nazionali. Il fatto che questi negoziati siano divenuti un'asta, in cui gli antagonismi imperialisti si sovrappongono alle semplici rivalità commerciali, non può che provocare l'effetto inverso: una maggiore disorganizzazione ancora di questi scambi, delle accresciute difficoltà per le economie nazionali.
14) Così, la gravità della crisi ha raggiunto, con l'inizio dell'ultimo decennio del secolo, un livello qualitativamente superiore a quanto il capitalismo abbia mai conosciuto finora. Il sistema finanziario mondiale cammina sull'orlo del precipizio al rischio continuo e crescente di precipitarvi. La guerra commerciale sta per scatenarsi ad un livello mai visto. Il capitalismo non potrà trovare una nuova "locomotiva" per rimpiazzare la locomotiva americana ormai fuori uso. In particolare, i mercati straordinari che si era pensato avrebbero rappresentato i paesi anticamente dominati da regimi stalinisti non sono mai esistiti se non nell'immaginazione di qualche settore della classe dominante (e anche in quella di alcuni gruppi dell'ambiente proletario). Lo sfaldamento senza speranza di queste economie, il baratro senza fondo che esse rappresentano per ogni tentativo di investimento che si propone di raddrizzarle, le convulsioni politiche che agitano la classe dominante e che vengono ulteriormente ad amplificare la catastrofe economica, tutti questi elementi indicano che esse sono sul punto di sprofondare in una situazione simile a quella del Terzo Mondo, che lungi dal poter costituire una boccata d'ossigeno per le economie più sviluppate, esse diventeranno un fardello che peserà sempre più sulle loro spalle. Infine, se in queste ultime l'inflazione ha qualche possibilità di essere contenuta, come è fino ad oggi, ciò non si concretizza affatto in un superamento delle difficoltà economiche che ne sono l'origine. E' al contrario l'espressione della riduzione drammatica dei mercati che esercita una potente pressione alla caduta sul prezzo delle merci. La prospettiva dell'economia mondiale è dunque alla caduta crescente della produzione con la messa da parte di una parte sempre più considerevole del capitale investito (fallimenti a catena, desertificazione industriale, ecc.) e una riduzione drastica del capitale variabile, il che significa, per la classe operaia, oltre che degli attacchi accresciuti contro tutti gli aspetti del salario, dei licenziamenti massicci, una crescita senza precedenti della disoccupazione.
LE PROSPETTIVE DELLA LOTTA DI CLASSE
15) Gli attacchi capitalistici di ogni tipo che si scatenano oggi e che non possono che amplificarsi, colpiscono un proletariato che è stato sensibilmente indebolito nel corso degli ultimi tre anni, un indebolimento che ha toccato sia la sua coscienza che la sua combattività.
E' il crollo dei regimi stalinisti d'Europa e lo smembramento dell'intero blocco dell'Est alla fine del 1989, che ha costituito il fattore essenziale di regresso della coscienza nel proletariato. L'identificazione, fatta da tutti i settori borghesi, per mezzo secolo, di questi regimi col "socialismo", il fatto che questi regimi non siano caduti sotto i colpi della lotta di classe operaia ma al seguito di una implosione della loro economia, ha permesso lo scatenamento di massicce campagne sulla "morte del comunismo", sulla "vittoria definitiva dell'economia liberale" e della "democrazia", sulla prospettiva di un "nuovo ordine mondiale" fatto di pace, di prosperità e di rispetto del Diritto. Se la stragrande maggioranza dei proletari delle grandi concentrazioni industriali aveva smesso, già da tempo, di farsi illusioni sui pretesi "paradisi socialisti", la scomparsa ingloriosa dei regimi stalinisti ha tuttavia inferto un colpo decisivo all'idea che poteva esistere sulla terra una cosa diversa dal sistema capitalista, che l'azione del proletariato poteva condurre ad una alternativa a questo sistema. Ed un tale danno alla coscienza nella classe è stata ulteriormente aggravato dall'esplosione dell'URSS, in seguito al colpo di stato fallito di agosto 1991, una esplosione che riguardava il paese che era stato il teatro della rivoluzione proletaria all'inizio del secolo.
D'altra parte, la crisi del Golfo a partire dall'estate 1990, l'operazione "Tempesta del deserto" all'inizio del 1991, hanno generato un profondo senso di impotenza tra i proletari che si sentivano totalmente incapaci di agire o di avere un peso rispetto a degli eventi della cui gravità erano coscienti, ma che restavano di competenza esclusiva di "quelli in alto". Questo sentimento ha potentemente contribuito ad indebolire la combattività operaia in un contesto in cui questa combattività era già stata alterata, benché in modo minore, dai fatti dell'est l'anno precedente. E questo indebolimento della combattività è stato ancora aggravato dall'esplosione dell'URSS, due anni dopo il crollo del suo blocco, come dallo sviluppo contemporaneo degli scontri nella ex-Jugoslavia.
16) Gli eventi che sono precipitati dopo il crollo del blocco dell'Est, apportando su tutta una serie di questioni una smentita alle campagne borghesi del 1989, hanno contribuito a scalzare una parte delle mistificazioni nelle quali era stata spinta la classe operaia. Così, la crisi e la guerra del Golfo hanno cominciato a portare dei colpi decisivi alle illusioni sull'instaurazione di una "era di pace" che Bush aveva annunciato all'epoca della caduta del rivale imperialista dell'Est. Nello stesso tempo, il comportamento barbaro della "grande democrazia" americana e dei suoi accoliti, i massacri perpetrati contro i soldati iracheni e le popolazioni civili hanno contribuito a smascherare la menzogne sulla "superiorità" della democrazia, sulla vittoria del "diritto delle nazioni" e dei "diritti dell'uomo". Infine, l'aggravarsi catastrofico della crisi, la recessione aperta, i fallimenti, le perdite registrate dalle imprese considerate come le più prospere, i licenziamenti massicci in tutti i settori e in particolare in queste imprese, la crescita inesorabile della disoccupazione, tutte queste manifestazioni irrisolvibili che incontra l'economia capitalista sono sul punto di regolare il loro conto alle menzogne sulla "prosperità" del sistema capitalista, sulla sua capacità di superare le difficoltà che avevano ingoiato il suo preteso rivale "socialista". La classe operaia non ha ancora digerito l'insieme dei colpi che erano stati inferti nel periodo precedente alla sua coscienza. In particolare l'idea che può esistere un'alternativa al capitalismo non deriva automaticamente dalla constatazione crescente del fallimento di questo sistema e può ben sfociare nella disperazione. Ma in seno alla classe le condizioni di un rigetto delle menzogne borghesi, di porsi delle questioni in profondità sono sul punto di svilupparsi.
17) Questa riflessione nella classe operaia prende corpo in un momento in cui l'accumulazione degli attacchi capitalisti e la loro crescente brutalità la obbligano a scuotersi dal torpore che l'aveva invasa da molti anni. Di volta in volta:
sono venuti a mettere in evidenza che il proletariato era sul punto di aprire la morsa che lo imprigionava dall'inizio degli anni 1990, che si liberava dalla paralisi che l'aveva costretto a subire senza reagire gli attacchi sferrati da allora dalla borghesia. Così, la situazione attuale si distingue fondamentalmente da quella che era stata messa in evidenza al precedente congresso della CCI quando si era constatato che: "... gli apparati della sinistra della borghesia hanno tentato già da molti mesi di lanciare dei movimenti di lotta prematuri con lo scopo di intralciare questa riflessione (in seno al proletariato) e di spargere ulteriore confusione nelle fila operaie." In particolare, l'atmosfera di impotenza che dominava allora tra la maggioranza dei proletari e che favoriva le manovre borghesi volte a provocare delle lotte minoritarie destinate ad impantanarsi nell'isolamento, tende sempre più a lasciare il posto alla volontà di scontrarsi con la borghesia, di rispondere con determinazione ai suoi attacchi.
18) Così, fin da oggi, il proletariato dei principali paesi industrializzati è in grado di rialzare la testa confermando ciò che la CCI non ha mai smesso di affermare: "il fatto che la classe operaia detiene sempre tra le sue mani le chiavi dell'avvenire" (Risoluzione del 9° Congresso della CCI) e che aveva annunciato con fiducia: "... è certo perché il corso storico non è stato rovesciato, perché la borghesia non è riuscita con le sue molteplici campagne e manovre ad infliggere una sconfitta decisiva al proletariato dei paesi avanzati e ad imbrigliarlo dietro le sue bandiere, che il riflusso subito da quest'ultimo, sia al livello della sua coscienza che della sua combattività, sarà necessariamente superato." (Risoluzione del 29 marzo 1992, Revue Internationale n° 70). Tuttavia questa ripresa della lotta di classe si annuncia difficile. I primi tentativi fatti dal proletariato dopo l'autunno 1992 mettono in evidenza che esso subisce ancora il peso del riflusso. In buona parte, l'esperienza, le lezioni acquisite nel corso delle lotte degli anni 1980, non sono state ancora fatte proprie dalla grande maggioranza degli operai. In cambio, la borghesia ha, fin d'ora, dato prova di aver tratto gli insegnamenti dalle lotte precedenti:
Inoltre, la borghesia si è mostrata capace di utilizzare il riflusso della coscienza nella classe per introdurre dei falsi obiettivi e rivendicazioni nelle lotte operaie (divisione del lavoro, "diritti sindacali", difesa dell'impresa, ecc.).
19) Più in generale, è ancora lungo il cammino che attende il proletariato prima che sia capace di affermare la sua prospettiva rivoluzionaria. Dovrà evitare le trappole classiche che tutte le forze della borghesia disporranno sistematicamente sul suo cammino. Nello stesso tempo dovrà confrontarsi con tutto il veleno che la decomposizione del capitalismo fa penetrare fra le fila operaie e che la classe dominante (di cui le difficoltà politiche legate alla decomposizione non intaccano la sua capacità di manovra contro il suo nemico mortale) utilizzerà in maniera cinica:
20) Questo ultimo aspetto della situazione attuale mette in rilievo la complessità della questione della guerra come fattore della presa di coscienza del proletariato. Questa complessità è stata già ampiamente analizzata dalle organizzazioni comuniste, e specie dalla CCI, nel passato. Fondamentalmente essa consiste nel fatto che, se la guerra imperialista costituisce una delle manifestazioni maggiori della decadenza del capitalismo, simboleggiando in particolare l'assurdità di un sistema all'agonia ed indicando la necessità di rovesciarlo, il suo impatto sulla coscienza nella classe operaia dipende strettamente dalle circostanze nelle quali essa scoppia. Così la guerra del Golfo, due anni fa, ha contribuito seriamente a che gli operai dei paesi avanzati (paesi che erano praticamente tutti implicati in questa guerra, direttamente od indirettamente) superassero le illusioni diffuse dalla borghesia l'anno precedente, partecipando così alla chiarificazione della coscienza del proletariato. Invece la guerra nella ex-Jugoslavia non ha affatto contribuito al processo di chiarificazione della coscienza del proletariato, il che è comprovato dal fatto che la borghesia non ha avuto bisogno di organizzare delle manifestazioni pacifiste nel momento in cui molti paesi avanzati (come la Francia e la Gran Bretagna) hanno, fin d'ora, inviato migliaia di uomini sul campo. Lo stesso dicasi per l'intervento massiccio del gendarme USA in Somalia. E' chiaro così che, quando il gioco sordido dell'imperialismo può dissimularsi dietro i paraventi "umanitari", cioè finché gli è permesso di presentare i suoi interventi guerrieri come destinati ad alleviare l'umanità dalle calamità dovute alla decomposizione capitalista, non può, attualmente, essere messo a profitto dalle grandi masse operaie per rafforzare la loro coscienza e la loro determinazione di classe. Tuttavia, la borghesia non potrà in tutte le circostanze nascondere il volto odioso della sua guerra imperialista dietro la maschera dei "buoni sentimenti". L'ineluttabile aggravarsi degli antagonismi tra le grandi potenze, costringendole, anche in assenza del pretesto "umanitario" (come per la guerra del Golfo), a degli interventi sempre più diretti, massicci e carnefici (il che costituisce, in fin dei conti, una delle caratteristiche maggiori di tutto il periodo di decadenza del capitalismo), tenderà a far aprire gli occhi agli operai sulle vere poste in gioco della nostra epoca. Ciò è vero per la guerra come per altre manifestazioni dello stallo storico del sistema capitalistico: quando sono una conseguenza della decomposizione di questo sistema, esse si presentano come un ostacolo alla presa di coscienza nella classe; non è che intese come manifestazione generale dell'insieme della decadenza che esse possono costituire un elemento positivo in questa presa di coscienza. E questa potenzialità tenderà a divenire sempre più realtà a mano a mano che la gravità della crisi e degli attacchi borghesi, cosi come lo sviluppo delle lotte operaie, permetteranno alle masse proletarie di identificare la linea che unisce l'impasse economico del capitalismo ed il suo tuffarsi nella barbarie guerriera.
21) Così, l'evidenza della crisi mortale del modo di produzione capitalista, manifestazione prima della sua decadenza, le terribili conseguenze che essa avrà per tutti i settori della classe operaia, la necessità per questa di sviluppare, contro queste conseguenze, le lotte nelle quali ricomincia ad impegnarsi, vanno a costituire un potente fattore nella sua presa di coscienza. L'aggravarsi della crisi evidenzierà sempre più che essa non deriva da una "cattiva gestione", che i borghesi "virtuosi" e gli Stati "propri" sono altrettanto incapaci degli altri di superarla, che essa esprime l'impasse mortale di tutto il capitalismo. Lo spiegamento massiccio delle lotte operaie costituirà un potente antidoto contro gli effetti deleteri della decomposizione, permettendo di superare progressivamente, con la solidarietà di classe che queste lotte implicano, l'atomizzazione, il "ciascuno per sé" e tutte le divisioni che pesano sul proletariato: tra categorie, branche di industria, tra immigrati e nazionali, tra disoccupati e operai al lavoro. In particolare, se a causa del peso della decomposizione, i disoccupati non hanno potuto, nel corso del decennio passato, e contrariamente agli anni 1930, entrare nella lotta (se non in maniera molto puntuale) se non potranno giocare un ruolo d'avanguardia paragonabile a quello dei soldati nella Russia del 1917, come si sarebbe potuto prevedere, lo sviluppo massiccio delle lotte proletarie permetterà loro, specie nelle manifestazioni di strada, di ricongiungersi alla lotta generale della loro classe, e ciò tanto più che, tra loro, la proporzione di quelli che hanno già un'esperienza di lavoro associato e della lotta sul luogo di lavoro non potrà andare che crescendo. Più in generale se la disoccupazione non è un problema specifico dei senza lavoro ma piuttosto una questione che tocca e riguarda tutta la classe operaia, in particolare in quella che costituisce una manifestazione tragica ed evidente del fallimento storico del capitalismo, sono certo queste stesse lotte a venire che permetteranno all'insieme del proletariato di prenderne pienamente coscienza.
22) E' così, e fondamentalmente, attraverso queste lotte di risposta agli attacchi incessanti contro le sue condizioni di vita che il proletariato dovrà superare le conseguenze del crollo dello stalinismo che ha apportato un colpo di una tale violenza alla sua apprensione della sua prospettiva, alla sua coscienza che esiste un'alternativa rivoluzionaria alla società capitalista moribonda. Queste lotte "ridaranno fiducia alla classe operaia, le ricorderanno che essa costituisce, fin da oggi, una forza considerevole nella società e permetteranno ad una massa crescente di operai di rivolgersi nuovamente verso la prospettiva del rovesciamento del capitalismo" (Risoluzione del 29 marzo 1992). E più questa prospettiva sarà presente nella coscienza operaia, più la classe disporrà di carte vincenti per giocare le trappole borghesi, per sviluppare pienamente le sue lotte, per prenderle efficacemente in mano, estenderle e generalizzarle. Per sviluppare questa prospettiva, la classe non ha solo per compito di riprendersi dal disorientamento subito nell'ultimo periodo e di riappropriarsi delle lezioni delle sue lotte degli anni 1980; essa dovrà così riannodare il filo storico delle sue tradizioni comuniste. L'importanza centrale di questo sviluppo della coscienza non può che sottolineare l'immensa responsabilità che spetta alla minoranza rivoluzionaria nel periodo attuale. I comunisti devono partecipare attivamente a tutte le lotte di classe al fine di svilupparne le potenzialità, di favorire al meglio il recupero della coscienza del proletariato indebolita dal crollo dello stalinismo, di contribuire a ridargli fiducia in sé stesso e di mettere in evidenza la prospettiva rivoluzionaria che queste lotte contengono implicitamente. Ciò va di pari passo con la denuncia della barbarie militare del capitalismo decadente e, più in generale, la messa in guardia contro la minaccia che questo sistema in decomposizione fa pesare sulla sopravvivenza stessa dell'umanità. L'intervento deciso dell'avanguardia comunista è una condizione indispensabile del successo definitivo della lotta di classe proletaria.
CCI, aprile 1993
(1) Sembra così ancora una volta che gli antagonismi imperialisti non ricoprano automaticamente le rivalità commerciali, anche se, con il crollo del blocco dell'Est, la carta imperialista mondiale di oggi è più vicina rispetto a quella precedente , il che permette ad un paese come gli Stati Uniti di utilizzare, precisamente nei negoziati del GATT, la sua potenza economica e commerciale come arma di ricatto nei confronti dei suoi alleati. Come la CEE poteva essere talvolta uno strumento del blocco imperialista dominato dalla potenza americana pur favorendo la concorrenza commerciale dei suoi membri contro quest'ultima, dei paesi come la Gran Bretagna o i Paesi Bassi possono molto ben fondarsi oggi sull'Unione Europea per far valere i loro interessi commerciali rispetto a questa potenza pur rappresentando i suoi interessi imperialisti in Europa.
E' dunque necessario dimostrare che tutte le chiacchiere sull'unità europea servono solo a preparare la strada a nuove alleanze militari in vista del confronto armato, sbocco ultimo della crisi capitalista.
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I differenti progetti di unificazione europea sono spesso presentati come tappe verso la creazione della nuova "Nazione Europa" capace di avere un notevole peso economico e politico nel mondo. Una simile idea ha avuto una grande popolarità, tanto più che settori interi della borghesia se ne sono fatti portavoce entusiastici, parlando di "Stati Uniti d'Europa", sull'esempio degli Stati Uniti d'America.
L'IMPOSSIBILITA' DI UNA NUOVA NAZIONE VITALE NELLA DECADENZA DEL CAPITALISMO
Gli Stati Uniti di Europa oggi sono un'utopia e chi afferma il contrario non prende in considerazione i due presupposti indispensabili alla loro realizzazione. Il primo fattore è di carattere generale ed è che la formazione di nuove nazioni può avvenire solo in periodi storici particolarmente favorevoli e questo non lo è. Il secondo fattore è quello della violenza necessaria ad un simile processo, che non può essere portato a termine grazie alla "buona volontà dei governi" o "le aspirazioni dei popoli", qualsiasi cosa dica la propaganda borghese. L'esistenza stessa della borghesia è legata alla proprietà (privata o statale che sia) e la nascita di uno Stato comporta necessariamente l'espropriazione violenta di alcune frazioni nazionali borghesi da parte di altre. E' d'altronde sufficiente dare uno sguardo alla storia della nascita delle nazioni dal Medio Evo ai giorni nostri per rendersene conto.
Nel Medio Evo la situazione sociale, economica e politica è stata così descritta da Rosa Luxemburg: "Durante il Medio Evo, quando il feudalesimo dominava, i legami tra le parti e regioni di uno stesso Stato erano estremamente deboli. Così, ogni città importante produceva con il suo circondario cittadino la maggioranza delle merci di cui aveva bisogno; analogamente aveva le sue leggi, il suo governo, le sue milizie; le città più grandi e ricche dell'occidente a volte conducevano per conto proprio delle guerre e concludevano trattati con potenze straniere. Ogni comunità di una certa importanza aveva una sua vita isolata ed ogni porzione del dominio di un signore feudale o anche ognuna delle proprietà di un semplice cavaliere costituivano un piccolo Stato semi-indipendente" (1).
Ma all'interno stesso del feudalesimo sono già all'opera le forze che metteranno all'ordine del giorno il suo superamento: "La rivoluzione nei metodi produttivi e nelle relazioni commerciali avvenuta alla fine del Medio Evo, l'aumento dei mezzi di produzione e lo sviluppo di un'economia basata sulla circolazione del danaro e sul commercio internazionale, assieme alla creazione degli eserciti permanenti, tutto ciò favorì lo sviluppo del potere monarchico e l'affermazione dell'assolutismo. La tendenza centrale dell'assolutismo fu la creazione di un apparato statale centralizzato. Il 16° e 17° secolo costituiscono il fulcro dello scontro tra la centralizzazione assolutistica ed i resti del particolarismo feudale" (1). Il processo di costruzione di Stati moderni centralizzati, cominciato dai monarchi assolutisti, fu portato a termine dalla borghesia: "L'abolizione delle dogane interne e delle autonomie, sia fiscali sia giudiziarie, nelle varie municipalità e nelle terre signorili, furono le prime preoccupazioni della borghesia moderna. Di pari passo andò la creazione di una possente macchina statale che combinasse tutte le funzioni: dall'amministrativa sotto controllo del governo centrale alla legislativa affidata al Parlamento, dalle forze armate unificate sotto il comando del governo, alle dogane uniformate di fronte ai paesi stranieri, alla moneta unica valida in tutto il paese, ecc. Analogamente lo Stato moderno ha uniformato il più possibile l'educazione laica nelle scuole, l'insegnamento religioso nelle parrocchie, organizzando secondo gli stessi principi l'insieme dell'apparato statale. In una parola, la tendenza dominante del capitalismo è la massima centralizzazione possibile" (1).
All'interno di questo processo di formazione delle nazioni moderne la guerra ha sempre giocato un ruolo di primo ordine, sia per eliminare le resistenze interne dei settori retrogradi, sia per delimitare in modo vantaggioso le frontiere rispetto agli Stati confinanti. La Germania ci offre un buon esempio del ruolo della violenza nella costituzione di uno Stato forte: dopo aver sconfitto l'Austria e sottomesso i principi tedeschi, è la vittoria del 1871 contro la Francia che permette alla Prussia di imporre in modo stabile l'unità tedesca.
Analogamente la costituzione degli Stati Uniti d'America nel 1776, benché le sue origini non nascano da una società feudale (le colonie americane conquistarono l'indipendenza con le armi contro la madrepatria inglese), fornisce un'ulteriore illustrazione in questo senso: "Il primo nucleo dell'Unione delle colonie inglesi in Nord America, che erano state fino ad allora l'una indipendente dall'altra, che differivano tra loro sia politicamente che socialmente e che avevano interessi per molti versi divergenti, questo primo nucleo fu creato dalla rivoluzione" (1). Ma bisognò attendere la vittoria del Nord nella guerra di secessione del 1861 perché venisse a termine la costruzione di uno Stato moderno dalla forte coesione come sono gli Stati Uniti oggi: "E' in quanto difensori del centralismo che gli Stati del Nord agirono, rappresentando così lo sviluppo del grande capitale moderno, del moderno macchinismo, della libertà individuale e della libertà di fronte alla legge, cioè i veri e propri caratteri del lavoro salariato, della democrazia e del progresso borghese" (1).
L'800 vede la costituzione di nuove nazioni (Germania, Italia) o la lotta accanita per una tale costituzione (Ungheria, Polonia). Tutto questo "non è assolutamente fortuito, ma corrisponde alla spinta esercitata dall'economia capitalista in pieno sviluppo che trova nella nazione il quadro più appropriato per il suo ulteriore sviluppo" (2).
L'entrata del capitalismo nella sua fase di decadenza, agli inizi del secolo, impedisce ormai l'emergere di nuove nazioni capaci di inserirsi come validi concorrenti nella pattuglia dei paesi più industrializzati (3). Non a caso le sei maggiori potenze industriali negli anni '80 (Usa, Giappone, Russia, Germania, Francia e Inghilterra) sono le stesse sei dall'inizio del secolo. Nel contesto della decadenza del capitalismo e della competizione imperialista per mercati ormai saturi di merci, le nazioni arrivate in ritardo sull'arena mondiale tendono a restare sempre più in ritardo rispetto al plotone di testa. Marx sottolineava già nell'800 l'antagonismo permanente che esiste fra tutte le frazioni nazionali della borghesia: "La borghesia vive in uno stato di guerra permanente: prima contro l'aristocrazia, poi contro quelle frazioni della stessa borghesia i cui interessi contrastano con il progresso dell'industria, sempre contro la borghesia di tutti i paesi stranieri" (4). Se la contraddizione con le resistenze feudali è stata ormai liquidata dal capitalismo, quella fra le diverse nazioni borghesi non ha fatto che esacerbarsi nella fase di decadenza. Basta questo a mostrare il carattere ipocrita e menzognero di tutte le chiacchiere sulla unione pacifica di diversi paesi.
Tutte le nazioni che nasceranno in questa fase, come per esempio la Jugoslavia (28 settembre 1918), risulteranno da modifiche di frontiere, da spezzettamenti di paesi sconfitti durante le guerre mondiali, e si troveranno quindi del tutto prive degli attributi necessari ad una grande nazione.
La fase attuale ed ultima della decadenza, quella della decomposizione della società, non solo è sfavorevole alla nascita di nuove nazioni, ma addirittura spinge alla disgregazione quelle dotate di minore coerenza. L'URSS è esplosa per questo e la sua esplosione ha agito come moltiplicatore di dissociazione in tutto l'Est europeo, dalla Cecoslovacchia alla Jugoslavia.
Poiché l'Europa non si è costituita in nazione alla fine dell'800, quando la nascita di nuove nazioni era ancora possibile, è del tutto impossibile che ci riesca adesso. Tuttavia, vista l'importanza dell'area - la più forte concentrazione industriale del mondo - è inevitabile che essa sia il teatro in cui si annodano e si sciolgono le alleanze imperialiste determinanti nel rapporto di forze internazionale. Così, dalla fine della II guerra mondiale fino al crollo dell'Est, l'Europa ha costituito la prima linea di fronte al blocco russo. Ancora oggi, dopo la disgregazione dell'ormai inutile blocco occidentale, l'Europa è il teatro principale del confronto fra Stati Uniti e Germania, i capifila dei futuri blocchi imperialisti, se arriveranno a costituirsi. A questa rete di alleanze imperialiste si sovrappone (ed a volte si contrappone) la mutevole rete di alleanze economiche contro la concorrenza di altri paesi.
L'EUROPA: UNO STRUMENTO DELL'IMPERIALISMO AMERICANO
Dopo la II guerra mondiale, l'Europa - semi distrutta - rischiava di cadere nelle mani dell'imperialismo russo. Per gli Usa era vitale sostenerla per renderla meno vulnerabile: il piano Marshall, votato nel 1948 e che prevedeva per il periodo 1948-1952 un aiuto di 17 miliardi di dollari, fu lo strumento di cui l'imperialismo Usa si servì per raggiungere i suoi obiettivi (5). La sua attuazione fu una delle pedine mosse in quegli anni dai due capifila imperialisti per costituire i loro blocchi. Nello stesso 1948 il blocco occidentale mette a segno la rottura della Jugoslavia con Mosca, il che impedisce la costituzione di una Federazione Balcanica filorussa assieme alla Bulgaria ed all'Albania, e la creazione del Patto di Assistenza di Bruxelles, che lega militarmente gli Stati del BENELUX, la Francia e la Gran Bretagna. Questo patto si trasformerà l'anno successivo nel Patto Atlantico, che porterà infine alla creazione della NATO nel 1950. Nel frattempo la Russia non dorme: dà inizio alla "guerra fredda" con il blocco di Berlino ed il colpo di stato filorusso in Cecoslovacchia (1948), costituisce nel 1949 il COMECON (Consiglio di assistenza economica) fra i paesi del suo blocco. Dall'Europa la polarizzazione dilaga nel resto del mondo: tanto per fare un esempio, dal 1946 al 1954 si svolge il primo round del confronto indocinese che terminerà con la disfatta delle truppe francesi a Dien Bien Phu.
Il piano Marshall funge da collante per i paesi beneficiari e la struttura che lo gestisce, l'"Organizzazione Europea di Cooperazione Economica", è l'antesignana di tutti gli "accordi" che la seguiranno. Tuttavia sono le necessità imperialistiche a dettare questi accordi ed in particolare quello della "Comunità Europea del Carbone e dell'Acciaio" (Ceca). "Il partito europeista animato da Robert Shumann si afferma nel 1949-50, nel momento in cui più si teme un'offensiva dell'URSS, e in cui si desidera rafforzare la capacità di resistenza europea, mentre contemporaneamente si varano sul piano politico il Consiglio di Europa e la Nato. Così si precisa il disegno di superare i particolarismi e di procedere verso la messa in comune delle grandi risorse europee, che sono alle basi della sua potenza, e cioè il carbone e l'acciaio" (6). E' così che nel 1952 nasce la Ceca, mercato comune per il carbone e l'acciaio tra Francia, Germania, Italia e BENELUX. Benché questa nuova comunità sia più autonoma della OECE, la sua funzione essenziale è ancora il rafforzamento economico - e dunque politico - della prima linea occidentale di fronte al blocco russo. Il fatto che la Gran Bretagna non faccia parte della Ceca non costituisce un indebolimento di questa vista la posizione geografica della Gran Bretagna e il suo forte legame con gli Usa.
La creazione della CEE (Comunità Economica Europea) nel 1957, con lo scopo di arrivare "alla soppressione graduale dei diritti di dogana, all'armonizzazione delle politiche monetarie, finanziarie e sociali, alla libera circolazione della mano d'opera ed al libero gioco della concorrenza" (6) costituisce un'altra tappa del processo di rafforzamento della coesione del blocco occidentale. Anche se, in prospettiva, essa costituisce un potenziale concorrente degli Usa, la CEE è in un primo momento uno stimolo al loro sviluppo economico: "L'Europa costituisce il luogo privilegiato degl'investimenti economici americani che, dopo il 1950, si sono moltiplicati di 15 volte. Il movimento dei capitali è rimasto relativamente modesto fino al 1957 (anno di creazione della CEE, ndr), per accelerare in seguito. La creazione del mercato continentale europeo portò gli americani a modificare la loro strategia per diversi motivi: la creazione di un sistema comunitario di tariffe rischiava di escluderli; i vecchi investimenti rischiavano di essere superati perché, all'interno di un mercato unificato risultava, tanto per fare un esempio, più vantaggioso investire in Italia o in Belgio, in termini di manodopera, tasse o sovvenzioni statali. Infine e soprattutto il nuovo mercato europeo rappresentava un insieme paragonabile agli Usa in popolazione, potenza industriale e, a medio termine, in livello di vita e presentava dunque delle potenzialità di vendita da non sottovalutare" (6).
In effetti lo sviluppo economico dell'Europa fu tale (nel corso degli anni '60 diventò la prima potenza industriale del mondo) che i suoi prodotti diventarono concorrenti diretti di quelli americani. Ma la somma statistica delle varie economie non significava affatto unità economica o politica, resa impossibile dai contrastanti interessi economici. Tanto per fare un esempio la Germania richiedeva un allargamento della CEE e maggiori scambi con gli Usa perché aveva bisogno di collocare le sue eccedenze di merci, mentre la Francia si batteva per una CEE più chiusa per proteggere la sua industria dalla concorrenza internazionale. Lo scontro fra la Francia e gli altri paesi si polarizza sulle reiterate domande di ammissione dell'Inghilterra che fino ad allora non aveva voluto aderire. Il governo De Gaulle, per scrollarsi di dosso la tutela americana, sosteneva che non poteva partecipare alla Comunità un paese che avesse relazioni "privilegiate" con gli Usa.
Così, "la CEE fu un successo molto relativo e non riuscì ad imporre una strategia comune. Il fallimento dell'EURATOM, nel 1969-70, ed il mezzo successo dell'aereo europeo Concorde, sono lì a testimoniarlo" (6). Tutto questo non deve sorprenderci nella misura in cui una strategia comune ed autonoma dell'Europa sul piano politico e in buona parte su quello economico, si sarebbe necessariamente scontrata con i limiti imposti dalla disciplina del blocco dominato dagli Usa.
Con il crollo del blocco avversario dell'Est questa disciplina è scomparsa provocando la dissoluzione, nei fatti, del blocco occidentale che era tenuto insieme dalla necessità di opporsi all'imperialismo russo. Il solo fattore di coesione attuale dell'Europa è di ordine economico, e cioè la necessità di accordarsi in qualche modo contro la concorrenza americana e giapponese. Ma questo fattore di coesione di per sè stesso è troppo debole per resistere alle tensioni imperialiste crescenti che attraversano e dilaniano l'Europa.
L'EUROPA: TERRENO DI LOTTA PER IL PREDOMINIO DA PARTE DEI GRANDI IMPERIALISMI
Gli accordi economici che sono alla base della CEE affermano il libero scambio all'interno della comunità, con tuttavia delle clausole che permettono ai vari paesi di proteggere almeno in parte certi settori della loro produzione. Di pari passo si sviluppano le misure protezionistiche, aperte o dissimulate, contro i paesi estranei alla CEE. In effetti gli accordi non mirano tanto ad eliminare la concorrenza fra i paesi europei, quanto a combattere la concorrenza Usa e giapponese. Ne sono una testimonianza gli ostacoli ipocriti messi all'importazione di auto giapponesi, per proteggere l'industria automobilistica europea. Così come ne è testimonianza (sull'altro fronte) l'accanimento con cui gli Usa cercano di incrinare il fronte europeo durante i negoziati GATT, riuscendovi, tra l'altro, nella faccenda delle sovvenzioni all'agricoltura.
Al di là di queste misure strettamente economiche ne esistono altre, allo stato di progetto o già in vigore, il cui scopo evidente è quello di rafforzare i legami fra i vari paesi. Così, per "proteggersi contro l'immigrazione di massa" e contemporaneamente contro "i fattori di destabilizzazione interna", sono stati approvati gli accordi di Schengen, firmati da Francia, Germania, Italia, Belgio, Lussemburgo ed Olanda, cui si sono poi aggiunti Spagna e Portogallo.
Il significato di questi accordi non è tanto economico quanto politico perché rafforzando l'interdipendenza dei paesi membri, aprono la possibilità ad una maggiore indipendenza rispetto agli Usa. E questa possibilità non è una ipotesi campata in aria perché fra i paesi firmatari c'è la Germania che è il solo paese che abbia una possibilità di costituire un nuovo blocco contrapposto agli Usa. E' per questa ragione che Inghilterra e Olanda, fedeli alleati europei degli Stati Uniti, si dedicano ad un aperto lavoro di sabotaggio di questi tentativi di costruzione di un'Europa più "politica".
Le tensioni interimperialiste escono ancora più allo scoperto quando si tratta di accordi di cooperazione militare fra i paesi europei che sono in prima linea nel progetto di resistenza rispetto all'egemonia Usa. La condanna inglese della creazione della Brigata franco-tedesca, così come la reazione olandese: "L'Europa non deve essere sottomessa agli accordi franco-tedeschi", mostrano chiaramente gli schieramenti sul campo. Non a caso gli Usa, al di là di qualche dichiarazione di pura facciata, si sono sempre opposti al trattato di Maastricht, e questo nonostante il fatto che i suoi alleati inglesi ed olandesi siano in grado di paralizzare dall'interno gli accordi grazie al loro diritto di veto (8).
E' tuttavia evidente che anche questo ostruzionismo degli alleati degli Usa può arrivare fino ad un certo punto, pena la loro progressiva emarginazione dagli accordi europei. Se si arrivasse a tanto, la Comunità Europea si spaccherebbe, con evidenti danni economici per tutti, ma si accelererebbero i preparativi di costituzione di un nuovo blocco opposto agli Stati Uniti.
UN TERRENO PROPIZIO ALLE CAMPAGNE IDEOLOGICHE CONTRO LA CLASSE OPERAIA
Dato che il "progetto europeo" non è che una favola, che serve solo a mascherare il processo di costituzione di un nuovo blocco imperialista, la classe operaia non ha evidentemente niente da guadagnare a scendere in campo a favore di questo o quell'imperialismo. Vanno quindi rispediti al mittente sia gli appelli dei nazionalisti "ultrà", che si presentano come i "garanti dell'integrità nazionale" o anche come i "difensori degli interessi operai minacciati dall'Europa del capitale", sia gli appelli dei non meno nazionalisti sostenitori della "casa europea". Fra le menzogne utilizzate da questi ultimi alcune sono diventate veri e propri slogan della propaganda borghese.
"L'unità della maggioranza dei paesi europei porterà la pace nel mondo o almeno in Europa". Alla base di questa stupidaggine c'è l'idea che, se Francia e Germania sono alleate, non sarà più riproponibile lo scenario della I e II guerra mondiale. Questo sarà forse possibile (sempre che la Francia non cambi idea all'ultimo momento, passando al campo Usa), ma non cambia granché. Lo sviluppo di un'unità politico-militare dell'Europa non significa altro che l'apertura di una dinamica di formazione di un nuovo blocco imperialista intorno alla Germania. Se la classe operaia lascia alla borghesia le mani libere per costituire un nuovo blocco, allora ci sarà una nuova guerra mondiale ed a questo punto da che parte stiano i francesi non cambierà granché per i proletari.
"Una simile unione permetterebbe agli europei di evitare le calamità (miseria, fame, massacri etnici) che devastano la maggioranza degli altri paesi". Questa idea è complementare a quella precedente. Da una parte si cerca di far credere che potranno esistere delle isole felici, non toccate dalla crisi mondiale del capitalismo. Dall'altra si cerca di martellare nelle teste degli operai che questo miracolo sarebbe possibile se la classe operaia europea si affidasse alle frazioni "illuminate" e "lungimiranti" della sua borghesia, abbandonando al suo destino i proletari degli altri paesi. In una parola se accetta di sottomettersi alla difesa dei loro interessi nazionali, a sue spese.
"La classe operaia è in buona parte su posizioni reazionarie e nazionaliste, visto che si oppone in maggioranza all'unità europea". E' vero che, sottoposti alla propaganda borghese, gli operai si sono fatti spesso trascinare in questo falso dibattito, in particolare in occasione dei referendum su Maastricht. Ed è ugualmente vero che non sono stati insensibili ad appelli "in difesa delle loro condizioni di vita" che nascondevano in modo più o meno velato richiami al nazionalismo o alla xenofobia vera e propria. Questa è certamente una debolezza da parte dei lavoratori che sono permanentemente esposti alla pressione dell'ideologia. Ma alla borghesia non basta spingerli a schierarsi su un falso fronte, deve anche rinfacciare loro di essersi schierati. E così tutta la repellente schiera di commentatori, preti e sociologi imperversa su giornali e televisioni a spiegare che è fra gli operai che si trovano i "nuovi razzisti", in modo da dividere ulteriormente la classe in "reazionari" e "progressisti".
Di fronte alle menzogne sul "superamento delle frontiere" o sulla "Europa dei popoli", così come di fronte agli appelli alla chiusura nazionalista per "proteggersi dai costi sociali dell'Unione Europea" gli operai non hanno nessuna scelta da fare. La loro sola via è quella della lotta intransigente contro tutte le frazioni della borghesia per la difesa delle loro condizioni di esistenza e lo sviluppo di una prospettiva rivoluzionaria, attraverso la crescita della loro solidarietà ed unità internazionale di classe. La loro sola via di salvezza è la messa in pratica della vecchia e sempre attuale parola d'ordine del movimento operaio: "Gli operai non hanno patria. Proletari di tutti i paesi, unitevi!".
20/2/93 M.
1. Rosa Luxemburg, in "La questione nazionale".
2. "La lotta del proletariato nella decadenza del capitalismo. Lo sviluppo di nuove nazioni capitaliste", in Revue Internationale n.23.
3. Vedi l'articolo "Nazioni nate morte", Revue Internationale n.69.
4. Il Manifesto Comunista
5. Non a caso l'iniziativa di questo piano di aiuti "civili" fu il super generale Marshall, capo di Stato Maggiore dell'esercito Usa durante la II guerra mondiale.
6. "La seconda metà del XX secolo", libro 6°, pag.241, Pierre Leon, in "Storia economica e sociale del mondo".
7. Una simile iniziativa mostra come la Francia (ma anche la Spagna e l'Italia) senta il bisogno di rafforzarsi di fronte al potente e vicino alleato tedesco.
8. La politica degli Stati Uniti come su un duplice binario. Da una parte si oppongono ai tentativi francesi e tedeschi di associarsi per rendersi autonomi. Dall'altra creano un loro "Mercato Comune" per prepararsi ad una situazione mondiale sempre più difficile. La NAFTA, Associazione per il libero scambio nordamericano, mercato comune con Messico e Canada, non è un semplice accordo economico, ma un tentativo di rafforzare il controllo sull'area direttamente influenzata dagli Usa, sia contro le tendenze alla decomposizione sia contro le "incursioni" dei concorrenti europei e giapponesi.
Quando la classe operaia mostra apertamente la sua forza, minacciando di paralizzare la macchina produttiva, facendo indietreggiare lo Stato, scatenando un fermento di vita nell'insieme della società, come fu il caso, per esempio, durante lo sciopero di massa dell'estate 1980 in Polonia, la questione: "la classe operaia è la forza rivoluzionaria della nostra epoca?" sembra assurda. In Polonia, come in tutte le lotte sociali che hanno scosso il capitalismo, il cuore del movimento sociale non era altro che il cuore della classe operaia: i cantieri navali del Baltico, la siderurgia di Nova Huta, le miniere della Slesia.
Quando gli operai arrivano a rompere le forze che li atomizzano in polvere impotente, quando la loro unione esplode in faccia alla classe dominante, facendo vacillare tutto il suo edificio, costringendola a fare marcia indietro, è facile, se non evidente, comprendere come e perchè la classe operaia è la sola forza capace di concepire e di intraprendere un rovesciamento rivoluzionario della società.
Ma quando la lotta aperta cessa, quando il capitale riprende il controllo e reinstalla la sua cappa di piombo sulla società, ciò che sembrava così evidente in un dato momento pare sfumare anche nel ricordo, e il capitale decadente impone ai suoi sudditi la propria sinistra visione del mondo: quella di una classe operaia sottomessa, atomizzata, che entra in ranghi silenziosi tutte le mattine in fabbrica, incapace di rompere le sue catene.
Non mancano allora dei "teorici" per spiegare a chi vuole ascoltarli che la classe operaia è nei fatti parte integrante del sistema, che essa ha un posto da difendere e che solo degli illuministi ciechi per il loro fanatismo possono vedere in questa massa di individui sottomessi la portatrice della nuova società.
Quelli che difendono sempre apertamente le bontà del sistema capitalista, sia nella forma "occidentale" che stalinista, non hanno altro credo. Ma i periodi di riflusso della lotta operaia fanno anche regolarmente riapparire dei gruppi o pubblicazioni che teorizzano i "dubbi" sulla natura storica della classe operaia, dubbi che si esprimono anche tra quelli che rivendicano la rivoluzione comunista e che, inoltre, non hanno illusioni nè sulla natura dei paesi cosiddetti "socialisti", nè su quella dei partiti occidentali sedicenti "operai".
La vecchia idea anarchica e populista secondo la quale la rivoluzione sarà essenzialmente l'opera non di una classe economica specifica, ma dell'insieme degli uomini che, in un modo o in un altro, subiscono l'inumanità del capitalismo, guadagna terreno.
Proprio come al momento del riflusso delle lotte operaie dopo l'ondata del 1968-744, l’ideologia "modernista", l'ideologia della "teoria moderna della rivoluzione" che rigetta "il vecchio movimento operaio" e il suo "marxismo impolverato" sembra conoscere attualmente, con il ripiegamento delle lotte operaie dopo la Polonia, un certo ritorno. Ne sono testimonianza, fra le altre, in Francia l'apparizione della rivista La Banquise ed il passaggio al ritmo trimestrale della rivista La guerre sociale, e in Gran Bretagna la riapparizione di Solidarity (1).
Queste pubblicazioni sono relativamente differenti fra di loro, ma esse condividono tutte lo stesso rigetto di questa idea di base del “vecchio marxismo”: la classe operaia è la sola forza veramente rivoluzionaria della società; la distruzione del capitalismo e l'apertura verso una società comunista esigono un periodo di transizione caratterizzato dalla dittatura politica di questa classe.
Non abbiamo l'intenzione di sviluppare qui una critica completa dell'insieme delle idee difese da questo tipo di corrente. (...).
Quello che ci importa è riaffermare, in un momento di riflusso provvisorio delle lotte della classe operaia e di maturazione accelerata delle contraddizioni sociali che conducono alla rivoluzione comunista, il ruolo centrale di questa classe, perché essa è la classe rivoluzionaria e perché, quando si ignora questa realtà essenziale della nostra epoca, ci si condanna da una parte a non comprendere il corso della storia che si sviluppa sotto i nostri occhi (vedere il pessimismo larvato de La Banquise) e dall'altra parte a cadere nelle trappole più grossolane dell'ideologia borghese (vedere le ambiguità di La guerre sociale e di Solidarity sul sindacato Solidarnosc in Polonia).
Ciò è tanto più necessario in quanto, come gli studenti radicali del '68, certi gruppi modernisti sviluppano spesso un'analisi lucida e documentata di certi aspetti del capitalismo decadente, cosa che non fa che aggiungere credibilità alle loro scempiaggini politiche.
CHE COSA E' IL PROLETARIATO?
Per Marx, come per tutti i marxisti, i termini di classe operaia e di proletariato sono sempre stati sinonimi. Tuttavia fra quelli che mettono in discussione la natura rivoluzionaria della classe operaia, senza tuttavia osare richiamarsi direttamente all'anarchismo o al populismo radicale della fine del secolo scorso, é frequente inventare una distinzione fra i due termini. La classe operaia comprenderebbe gli operai e gli impiegati che vediamo tutti i giorni sotto il dominio del capitale con le loro lotte per miglioramenti salariali e per l'occupazione. Il proletariato sarebbe una forza rivoluzionaria dai contorni più o meno indeterminati, comprendente un po' tutto quello che, in un momento o in un altro, può rivoltarsi contro l'autorità dello Stato. Esso può andare dall'operaio della metallurgia al teppista di professione, passando per le prostitute, ricchi o poveri, omosessuali o studenti, secondo il pensiero "modernista". (Vedere il fascino che esercitavano i fuorilegge sull'Internazionale Situazionista o su Le Mouvement Communiste; vedere il giornale Il teppista della metà degli anni '70; vedere la fissazione di Solidarity sul femminismo).
Per la rivista Invariance (di Camatte), nel 1974, la definizione di proletariato finì per essere allargata al suo massimo: l'intera umanità. Dalla comprensione che il dominio del capitale era diventato sempre più totalitario e impersonale sulla società se ne deduceva che era tutta la "comunità umana" che doveva rivoltarsi contro il capitale. Cosa che equivaleva a negare la lotta di classe come dinamica della rivoluzione.
Oggi, La Guerre sociale ci offre un'altra definizione, più restrittiva, ma di poco più precisa:
"Il proletario non è l'operaio, e nemmeno gli operai e gli impiegati, lavoratori dei livelli bassi. Il proletario non è il produttore, anche se il produttore può essere proletario. Il proletario è quello che è 'tagliato da', è 'l'escluso', è il 'senza risorse'" (La guerre sociale n.6, "Lettera aperta ai compagni del 'Partito Comunista Internazionale mantenuto'", dicembre 1982).
E' vero che il proletariato é escluso, tagliato da ogni capacità reale di controllo sulla vita sociale, e dunque sulla sua propria vita; é vero che, contrariamente a certe classi sfruttate precapitalistiche, egli non possiede i suoi mezzi di produzione e vive senza risorse. Ma non é solo questo. Il proletario non è un "povero" come un altro. Egli é anche un produttore, il produttore del plusvalore che viene trasformato in capitale. Egli é sfruttato collettivamente, e la sua resistenza al capitale è immediatamente collettiva. E queste sono differenze sostanziali.
Allargare la definizione di proletariato non significa accrescere la classe rivoluzionaria, ma diluirla nella nebbia dell'umanesimo.
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La Banquise, al seguito di Invariance, crede di poter fare riferimento a Marx per allargare la nozione di proletariato.
"Il prodotto si trasforma(...) in prodotto sociale, prodotto comune di un lavoratore complessivo, cioè di un personale da lavoro combinato, le cui membra hanno una parte più grande o più piccola nel maneggio dell'oggetto del lavoro. Quindi col carattere cooperativo del processo lavorativo si amplia necessariamente il concetto del lavoro produttivo e del veicolo di esso, cioè del lavoratore produttivo. Ormai per lavorare produttivamente non è più necessario por mano personalmente al lavoro, è sufficiente essere organo del lavoratore complessivo e compiere una qualsiasi delle sue funzioni subordinate." (Marx, Il Capitale, Libro I, sezione V, cap. 14, Editori Riuniti)
Tuttavia, quello che Marx mette in rilievo qui non è che tutti nel mondo sarebbero diventati produttivi o proletari. Quello che egli sottolinea, è che la qualità specifica del compito assolto da questo o quel lavoratore non costituisce, nel capitalismo sviluppato, un criterio, una determinazione valida per stabilire se egli è produttivo o no. Modificando il processo di produzione secondo i suoi bisogni, il capitale sfrutta l'insieme della forza lavoro che esso compra, come quella di un lavoratore produttivo. L'utilizzazione concreta che esso fa di ognuno dei suoi salariati, operaio di panetteria o impiegato d'ufficio, produttore di armi o spazzino, è secondario dal punto di vista del sapere chi è sfruttato dal capitale. E' l'insieme complessivo che lo è. Il proletariato, la classe operaia include senz'altro oggi la maggior parte dei lavoratori del settore detto "terziario".
Per quanto si sia sviluppata, la dominazione del capitale non ha generalizzato a tutta la società la condizione di proletario. Il capitale ha generato una enorme massa di marginalizzati senza lavoro, soprattutto nei paesi sottosviluppati. Esso ha lasciato sopravvivere dei settori precapitalisti, come i piccoli contadini, il piccolo commercio, l'artigianato, le libere professioni.
Il capitale domina tutti i settori della società. E tutti quelli che subiscono il suo dominio nella miseria hanno delle ragioni per rivoltarsi contro di esso. Ma solo la parte che è direttamente legata al capitale attraverso il salariato e la produzione di plusvalore è veramente antagonista al capitale: essa sola costituisce il proletariato, la classe operaia.
PERCHÉ IL PROLETARIATO E' LA CLASSE RIVOLUZIONARIA?
Prima di Marx, la dinamica della storia della società rimaneva un mistero. Si faceva ricorso a delle nozioni di tipo religioso, come "La Provvidenza", al genio dei capi militari, o alla Storia con al S maiuscola, per tentare, invano, di tracciare un quadro coerente. Dimostrando il posto centrale della lotta di classe in questa dinamica, il marxismo ha, per la prima volta, permesso di comprenderla.
Tuttavia, facendo ciò, il marxismo non ha fornito una maniera di interpretare il mondo, ma una visione del mondo che permette allo stesso tempo di trasformarlo. Marx considerava che la sua scoperta fondamentale non era l'esistenza della lotta di classe in sè - che i teorici borghesi avevano già individuato - ma il fatto che la lotta di classe conduce alla dittatura del proletariato.
L'antagonismo inconciliabile tra classe operaia e capitale - dice Marx - deve condurre a una lotta rivoluzionaria per la distruzione dei rapporti sociali capitalisti e l'instaurazione di una società di tipo comunista. Questa rivoluzione avrà come protagonista la classe operaia; essa si dovrà organizzare in maniera autonoma, in quanto classe, rispetto al resto della società ed esercitare una dittatura politica al fine di distruggere da cima a fondo le basi del vecchio regime.
E' questa analisi che i modernisti rigettano:
"Per trasformare realmente le loro condizioni di esistenza, i proletari non devono sollevarsi in quanto 'classe operaia'; ma è questo la cosa più difficile, perché essi si battono proprio a partire dalle loro condizioni di esistenza. La contraddizione non sarà chiarita teoricamente se non quando essa sarà stata superata nella pratica." (La Banquise n° 1, "Prima della sconfitta", p. 11). "Il proletariato non deve ergersi in forza sociale prima di cambiare il mondo". (idem, n° 2, "La storia delle nostre origini", p. 29).
"Ma, fin d'ora, si finisce per chiudersi in questa oppressione se non la si attacca in quanto proletari, o in quanto esseri umani, e non sulla base di una specificità - che diventa sempre più illusoria - da conservare o da difendere. Il peggio è fare di questa specificità il depositario di una capacità di rivolta". (La guerre sociale, n° 5, "Verso la comunità umana", p. 32, sottolineatura nostra).
I modernisti non sanno che cos'è il proletariato fondamentalmente perché essi non comprendono perché il proletariato è rivoluzionario. Perché dovrebbe organizzarsi separatamente, in quanto classe, visto che esso deve battersi per l'eliminazione delle classi? Per i modernisti la classe operaia, in quanto classe, non è più rivoluzionaria di altri: in quanto classe, la sua lotta resta limitata ai miglioramenti salariali e alla difesa del lavoro da schiavo. Invece di costituirsi in classe politica, il proletariato dovrebbe cominciare con il negarsi come classe e affermarsi in quanto "esseri umani".
Il peggio, dice La guerre sociale, è fare di una specificità - essere operaio, per esempio - il depositario di una capacità di rivolta.
Con i modernisti, la storia sembra sempre cominciare con loro. La Comune di Parigi, lo sciopero di massa in Russia nel 1905, la Rivoluzione d'ottobre del 1917, il movimento rivoluzionario in Germania nel 1919, tutto ciò non ha dimostrato niente, non ha insegnato niente.
"La contraddizione non sarà chiarita teoricamente se non quando essa sarà stata superata nella pratica" dice La Banquise. Ma chi ha condotto le lotte rivoluzionarie contro il capitale da più di mezzo secolo se non la classe operaia che si batteva per la difesa delle sue aspirazioni specifiche?
Perché è sempre stato così?
"Perché nel proletariato pienamente sviluppato è fatta astrazione da ogni umanità, perfino dalla parvenza; perché nelle condizioni di vita del proletariato sono riassunte tutte le condizioni di vita dell'odierna società nella loro forma più inumana; perché l'uomo nel proletariato ha perduto sé stesso, ma, contemporaneamente, non solo ha acquistato la coscienza teorica di questa perdita, bensì è stato spinto direttamente dalla necessità ormai incombente, ineluttabile, assolutamente imperiosa - dall'espressione pratica della necessità - alla ribellione contro questa inumanità; ecco per quali ragioni il proletariato può e deve emanciparsi. Ma esso non può emanciparsi senza sopprimere le proprie condizioni di vita. Esso non può sopprimere le proprie condizioni di vita senza sopprimere tutte le inumane condizioni di vita della società attuale, che si riassumono nella sua situazione." (Marx, "La sacra famiglia", cap. 4, Ed. Riuniti).
Questa è la specificità della classe operaia: i suoi interessi immediati e storici coincidono con quelli dell'intera umanità, il che non è per nessuna altra classe della società. Il proletariato non può liberarsi del salariato capitalista, la forma più matura dello sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo, senza eliminare ogni forma di sfruttamento, "tutte le inumane condizioni di vita della società attuale". Ma da ciò non deriva affatto che tutte le parti dell'umanità possiedano la forza materiale e la coscienza indispensabile per intraprendere una rivoluzione comunista.
La classe operaia trae la sua forza innanzitutto dalla sua posizione centrale nel processo di produzione. Il capitale non è macchine e materie prime; il capitale è un rapporto sociale. Quando, attraverso la sua lotta, la classe operaia rifiuta questo rapporto, il capitale è immediatamente paralizzato. Non c'è capitale senza plusvalore, non c'è plusvalore senza lavoro dei proletari, è in questo che risiede la potenza dei movimenti di sciopero di massa. Ciò spiega in parte perché la classe operaia può intraprendere materialmente la distruzione del capitalismo. Ma ciò non basta per spiegare perché essa può gettare le basi di una società comunista.
Gli schiavi di Spartaco, nell'antichità, o i servi della gleba nel feudalesimo avevano anch'essi una situazione centrale, determinante nel processo di produzione. Tuttavia le loro rivolte non potevano sboccare in una prospettiva comunista.
"La divisione della società in una classe che sfrutta e una classe che è sfruttata, in una classe che domina e una classe che è oppressa, è stata la conseguenza necessaria del precedente angusto sviluppo della produzione. Sino a quando il complessivo lavoro sociale fornisce solo un provento che supera soltanto di poco ciò che è necessario per un'esistenza stentata di tutti, sino a quando perciò il lavoro impegna tutto o quasi tutto il tempo della maggioranza dei membri della società, necessariamente la società si divide in classi." (Engels, "AntiDuhring, parte 3, cap. 2, Editori Riuniti).
Il proletariato è portatore del comunismo perché la società capitalista ha creato i mezzi materiali della sua realizzazione. Sviluppando le ricchezze materiali della società al punto di permettere una abbondanza sufficiente per sopprimere le leggi economiche, cioè le leggi della gestione della penuria, il capitalismo ha aperto una prospettiva rivoluzionaria per la classe che esso sfrutta.
Infine, il proletariato è portatore della rivoluzione comunista perché è il portatore della coscienza comunista. Se si escludono le visioni semireligiose precapitalistiche di una società senza sfruttamento, il progetto di una società comunista senza proprietà privata, senza classi, dove la produzione sia orientata esclusivamente verso il soddisfacimento dei bisogni umani, appare e si sviluppa con l'esistenza della classe operaia e delle sue lotte. Le idee socialiste di Babeuf, Saint-Simon, Owen, Fourier, traducono lo sviluppo della lotta operaia alla fine del 18° secolo e all'inizio del 19°. La nascita del marxismo, la prima teoria coerente e scientificamente fondata del comunismo coincide con l'apparizione della classe operaia come forza politica specifica (Movimento Cartista in Inghilterra, Rivoluzioni del 1848). Da allora, in una maniera o in un'altra, con più o meno chiarezza a seconda dei casi, tutte le lotte importanti della classe operaia hanno ripreso le idee comuniste.
Le idee comuniste, la teoria rivoluzionaria, non si sono sviluppate che attraverso e in vista della comprensione delle lotte operaie. Tutti i grandi passi avanti della teoria della rivoluzione comunista sono state il prodotto, non delle pure deduzioni logiche di qualche pensatore da biblioteca, ma dell'analisi militante e impegnata dei grandi passi del movimento reale della classe operaia.
Ancora, è per questo che è solamente la classe operaia che ha messo in pratica (Comune di Parigi, Ottobre '17) la distruzione del potere capitalista in una direzione comunista.
La storia del movimento comunista non è altro che la storia del movimento operaio.
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Questo vuol dire che il proletariato può fare la rivoluzione tutto solo ignorando il resto della società? Dopo il 19° secolo, il proletariato sa che il comunismo deve essere "l'unificazione del genere umano". L'esperienza della rivoluzione russa ha dimostrato l'importanza per la sua lotta dell'appoggio di tutti gli strati sfruttati. Ma l'esperienza ha anche messo in evidenza che solo il proletariato è capace di offrire un programma rivoluzionario coerente. L'unificazione dell'umanità, e in un primo tempo di tutti gli sfruttati, non può farsi che sulla base dell'attività e del programma della classe operaia. Organizzandosi in maniera separata, il proletariato non divide la società, esso si dà i mezzi per condurre la sua unificazione comunista.
E' perciò che, contrariamente a quello che affermano i modernisti, la marcia verso la rivoluzione comunista comincia con l'organizzazione unitaria della classe operaia come forza autonoma, con la dittatura del proletariato.
LO SCOMBUSSOLAMENTO DEL MODERNISMO
Il periodo storico
Comprendere il periodo storico attuale ignorando che è la classe operaia che è la forza rivoluzionaria, è difficile quanto capire la fine del regime feudale senza tener conto dello sviluppo della borghesia rivoluzionario.
Difficilmente si può sapere se le condizioni di un rovesciamento rivoluzionario si sviluppano o meno se non si sa ancora identificare il protagonista di una tale rivoluzione.
Chiunque conosce la storia del movimento operaio e comprende la sua natura rivoluzionaria sa che il processo che conduce il proletariato alla rivoluzione comunista non ha niente di lineare o di automatico. E' una dinamica dialettica fatta di arretramenti e di avanzate, dove solo una lunga pratica ed esperienza della lotta permette a dei milioni di proletari, sotto la pressione della miseria, di unificarsi, di ritrovare le lezioni delle lotte passate, si scoperchiare la cappa ideologica della classe dominante, per lanciarsi in un nuovo assalto contro l'ordine stabilito.
Ma quando nelle lotte operaie come classe non si vede che delle lotte senza uscita, senza comprenderle nella loro dinamica e potenzialità rivoluzionarie, non si può che rimanere sconcertati. Se non si vede nelle lotte come quelle della Polonia '80 che delle lotte "interne al capitalismo", è normale che si sia depressi, 15 anni dopo il Maggio '68; è normale che non si veda il fatto che, malgrado il riflusso momentaneo delle lotte operaie dopo il 1980, gli scioperi che, puntualmente, scoppiano qui e lì nel cuore dei paesi industrializzati (Belgio '82, Italia '83) dimostrano che non si assiste ad un imbrigliamento degli operai dietro gli interessi dell'economia nazionale e i suoi rappresentanti sindacali, ma, al contrario, a degli scontri sempre più violenti fra operai e sindacati.
E' così che il n° 1 de La Banquise si apre con questa frase caratterizzata dalla nostalgia delle barricate del 1968 a Parigi e da un tono depressivo:
"Sotto le pietre, la spiaggia, dicevamo prima della grande glaciazione. Oggi, la banchisa ha ricoperto tutto. Dieci, venti, cento metri di ghiaccio sopra le pietre, allora, la spiaggia..."
E' una depressione tanto senile quanto era infantile l'illusione degli studenti radicali del '68 che credevano che si potesse "tutto, e subito".
L'impotenza e la confusione del modernismo di fronte alla lotta operaia
Non è per niente un caso che pubblicazioni moderniste come Solidarity o La Guerre sociale abbiano cessato di uscire al momento delle lotte operaie in Polonia. Come la piccola borghesia di cui è una espressione "radicale", la corrente modernista vive nell'ambiguità e l'esitazione tra il rigetto dell'ideologia borghese e un disprezzo per le lotte terra terra degli operai. Quando la forza della rivoluzione si afferma, anche in maniera embrionaria, come in Polonia, la storia tende a sbarazzarsi delle ambiguità e quindi delle ideologie che vi pullulano. E' quello che è momentaneamente successo al modernismo durante l'anno 1980.
Ma lo scombussolamento politico di questa corrente non si arresta disgraziatamente all'impotenza. Essa può arrivare alla difesa delle posizioni più piattamente gauchistes quando deve pronunciarsi su una lotta operaia.
E' così che La Guerre Sociale si ritrova a fianco di trotskysti e altri democratici a ripetere che il sindacato Solidarnosc - l'organizzatore della sconfitta del proletariato in Polonia - è un organo proletario:
"Incontestabilmente Solidarnosc è un organo del proletariato. Il fatto che alla sua testa ci siano degli elementi usciti da strati sociali non operai (intellettuali ed altri) non toglie nulla al fatto che il proletariato fin dall'inizio si sia riconosciuto in esso. Come spiegare, se no, l'adesione della quasi totalità del proletariato polacco? Come spiegare l'influenza del sindacato su questo?" ("La Guerre Sociale", n° 6)
E' questo il modo di ragionamento limitato tipico dei gauchistes nello spirito della III Internazionale in degenerazione. Secondo questa logica la Chiesa polacca, che ha più fedeli polacchi di Solidarnosc, dovrebbe essere anch’essa "incontestabilmente un organo del proletariato"... e il Papa, Lenin!
La Guerre Sociale parla anche in termini generali della natura dei sindacati, ma solo per resuscitare la vecchia zuppa ambigua del gruppo "Pouvoir Ouvrier" (fine degli anni '60, proveniente anch'esso da Socialisme ou Barbarie) della “doppia natura dei sindacati”:
“Il sindacato non è un organo del capitale, una macchina da guerra contro il proletariato, ma l'espressione organizzativa del suo rapporto col capitale, antagonismo e cooperazione. Esso esprime allo stesso tempo che il capitale non è niente senza il proletariato e, in termini immediati, viceversa." (idem)
Nel capitalismo decadente non c'è cooperazione tra capitale ed operai che possa tornare a profitto di questi ultimi. La visione che identifica, nella nostra epoca, i sindacati alla classe operaia, non è nient'altro che quella della propaganda delle classi dominanti (che sanno d'altronde cooperare a livello mondiale per costruire una credibilità a Solidarnosc). Essa poggia sull'idea che ci possa essere conciliazione tra l'interesse del capitale e l'interesse del proletariato; essa ignora la natura rivoluzionaria della classe operaia. E' così che la Guerre Sociale può fare candidamente la seguente constatazione:
"La differenza sostanziale tra Solidarnosc e il proletariato polacco è che il primo teneva conto degli interessi economici nazionali e internazionali, necessari alla sopravvivenza del sistema, mentre il secondo ha proseguito la difesa dei suoi interessi immediati senza preoccuparsi minimamente dei problemi della valorizzazione del capitale" (Idem)
Solo ignorando la natura rivoluzionaria del proletariato, considerando questo essenzialmente come una parte del capitale e non come il suo distruttore, si può vedere una qualunque identità tra gli "interessi economici nazionali e internazionali" del capitale e gli "interessi immediati" del proletariato.
* * * * *
Il proletariato è la prima classe rivoluzionaria che sia allo stesso tempo una classe sfruttata. Il processo di lotte che lo conduce alla rivoluzione comunista è inevitabilmente marcato da periodi di riflusso, di ripiego. Questi ripieghi non si concretizzano solo in una diminuzione del numero di lotte operaie. Anche sul piano della coscienza il proletariato subisce un disorientamento che si traduce nell'indebolimento delle sue espressioni politiche rivoluzionarie e facilita il risorgere delle correnti che coltivano "il dubbio" sulla classe operaia.
La rottura del 1968, dopo quasi un mezzo secolo di controrivoluzione trionfante, ha aperto un corso verso lo sviluppo di scontri di classe sempre più decisivi. Questo corso non è stato rovesciato dal riflusso del dopo Polonia, come non lo fu con il riflusso del 1975-78. Le condizioni storiche di questo riflusso di consumano alla stessa velocità con cui si approfondisce la crisi economica del capitalismo e la realtà si incarica di distruggere, lentamente ma sistematicamente, i pilastri dell'ideologia borghese decadente (natura operaia dei paesi dell'est, Stato sociale, democrazia parlamentare, sindacati, lotte di liberazione nazionale, ecc.).
Maturano tutte le condizioni affinché la lotta del proletariato torni a ricordare, con tutta la sua forza, l'avvenire dell'umanità è rovesciare tutti i dubbi sulla sua natura rivoluzionaria.
RV
1. Questi tre gruppi sono direttamente o indirettamente legati a Socialisme ou Barbarie, rivista degli anni 50-60, il cui principale animatore, Castoriadis (alias Chaulieu, Cardan, Coudray) teorizzò lungamente il superamento del marxismo.
Se la risposta del proletariato alla prima guerra mondiale è abbastanza nota, meno noti sono gli episodi di lotta di classe che non mancarono di manifestarsi anche durante la seconda guerra mondiale, in particolare in Italia. Quando gli storici e i propagandisti della borghesia ne parlano, è per cercare di dimostrare che gli scioperi del '43 in Italia costituirono l'inizio della resistenza "antifascista", e quest'anno, nel cinquantenario di quegli episodi, i sindacati italiani non hanno mancato di rilanciare questa mistificazione, con le loro "commemorazioni" nazionaliste e patriottiche.
E' alla confutazione di queste menzogne, e alla riaffermazione della capacità della classe di rispondere alla guerra imperialista sul suo proprio terreno che è dedicato questo articolo.
1943: IL PROLETARIATO ITALIANO SI OPPONE AI SACRIFICI DELLA GUERRA
In effetti già nella seconda metà del 1942, quando ancora le sorti della guerra erano tutte aperte e il fascismo sembrava saldo al potere, nelle grandi fabbriche del nord Italia ci furono scioperi sporadici contro il razionamento e per aumenti salariali. Non erano che le prime avvisaglie del malcontento che la guerra aveva creato tra le fila proletarie, per tutti i sacrifici che essa comportava.
Il 5 marzo 1943 comincia lo sciopero alla Mirafiori di Torino, nel giro di pochi giorni si allarga ad altre fabbriche coinvolgendo decine di migliaia di operai. Le rivendicazioni sono molto chiare e semplici: aumento delle razioni di viveri, aumenti salariali e... fine della guerra. Nel corso del mese le agitazioni si allargano alle grandi fabbriche di Milano, all'intera Lombardia, alla Liguria e in altre parti d'Italia.
La risposta del potere fascista fu quello del bastone e della carota: arresto degli operai più in vista ma anche concessioni rispetto alle rivendicazioni più immediate. Benché Mussolini sospettasse che dietro gli scioperi ci fossero le forze antifasciste, non poteva permettersi il lusso di far crescere la protesta operaia. E in effetti i suoi sospetti erano poco fondati, gli scioperi sono totalmente spontanei, partono dalla base operaia e dal suo malcontento contro i sacrifici della guerra, tant'è vero che agli scioperi partecipavano anche gli operai "fascisti".
"L'elemento tipico di questa azione fu il suo carattere classista che, sul piano storico, conferisce agli scioperi del 1943-44 una fisionomia propria, unitaria, tipica, anche rispetto all'azione generale condotta unitariamente dai Comitati di liberazione nazionale" (Sergio Turone: Storia del sindacato in Italia, pag. 14) (1).
"Valendomi solo del mio prestigio di vecchio organizzatore sindacale affrontai migliaia di operai che ripresero subito il lavoro, benché i fascisti si dimostrassero completamente passivi negli stabilimenti e purtroppo in qualche caso fomentassero gli scioperi. Fenomeno questo che mi impressionò enormemente" (Dichiarazione del sottosegretario Tullio Cianetti, citata nel libro di Turone, pag. 17).
Il comportamento degli operai non impressionò solo i gerarchi fascisti, ma l'intera borghesia italiana, che negli scioperi di marzo vide il rinascere dello spettro proletario, un nemico ben più pericoloso degli avversari sul campo di battaglia. Da questi scioperi la borghesia trae la consapevolezza che il regime fascista non è più adatto a contenere il malcontento operaio e prepara la sua sostituzione e la riorganizzazione delle sue forze "democratiche".
Il 25 luglio il re destituisce Mussolini, lo fa arrestare e dà l'incarico di formare un nuovo governo al maresciallo Badoglio. Una delle prime preoccupazioni di questo governo è la rifondazione dei sindacati "democratici" per creare nuovi contenitori in cui far confluire la protesta operaia che nel frattempo si era data propri organismi di conduzione e quindi era al di fuori di qualunque controllo. Il ministro delle Corporazioni (si chiamava ancora così!), Leopoldo Piccardi, fa liberare il vecchio dirigente sindacale socialista Bruno Buozzi dal confino e gli propone l'incarico di commissario alle organizzazioni sindacali. Buozzi chiede e ottiene come vice-commissari il comunista Roveda e il democristiano Quadrello. La scelta della borghesia è ben studiata, Buozzi è molto conosciuto per aver partecipato agli scioperi del 1922 (l'occupazione delle fabbriche), in cui aveva dimostrato la sua fede borghese adoperandosi per contenere la possibile crescita del movimento.
Ma gli operai non sapevano che farsene della democrazie borghese e delle sue promesse. Se avevano sfidato il regime fascista era innanzitutto perché non ne potevano più dei sacrifici imposti loro dalla guerra, e il governo Badoglio chiedeva loro di continuare a sopportarla.
Così a metà agosto '43 gli operai di Torino e Milano scendono di nuovo in sciopero chiedendo con ancora più forza di prima la fine della guerra. Le autorità locali rispondono ancora una volta con la repressione, ma più efficace di questa risultò il viaggio di Piccardi, Buozzi e Roveda al nord per incontrare i rappresentanti degli operai e convincerli a riprendere il lavoro. Prima ancora di avere rifondato le loro organizzazioni, i sindacalisti del regime "democratico" cominciano il loro sporco lavoro antioperaio!
Presi tra repressione, concessioni e promesse, gli operai ritornano al lavoro, aspettando gli eventi. Questi cambiano rapidamente. Già nel luglio gli alleati erano sbarcati in Sicilia, l'8 settembre Badoglio firma l'armistizio con gli alleati, scappa al sud insieme al re e chiede alla popolazione di continuare la guerra contro i nazifascisti. Dopo qualche manifestazione di entusiasmo, la reazione è quella di una smobilitazione disordinata. Molti soldati gettano via le divise e se ne tornano a casa, oppure si nascondono.
Gli operai, che non erano capaci di insorgere sul proprio terreno di classe, non accettano di prendere le armi contro i tedeschi e tornano al lavoro, preparandosi ad avanzare le loro rivendicazioni immediate contro i nuovi padroni dell'Italia del nord. In effetti l'Italia è divisa in due: al sud ci sono le truppe alleate e una parvenza di governo legale; al nord comandano invece di nuovo i fascisti, o per meglio dire le truppe tedesche.
Anche senza una partecipazione popolare, nei fatti la guerra continua. I bombardamenti alleati nel nord Italia si fanno ancora più duri e con essi diventano più dure le condizioni di vita degli operai. Così, nel novembre-dicembre gli operai riprendono la via della lotta, affrontando questa volta una repressione ancora più dura. Accanto agli arresti stavolta c'è una minaccia ancora più pericolosa: la deportazione in Germania.
Coraggiosamente gli operai avanzano le loro rivendicazioni. A novembre scioperano gli operai di Torino, le cui rivendicazioni vengono in buona parte accettate. All'inizio di dicembre scendono in sciopero gli operai di Milano, anche qui promesse e minacce da parte delle autorità tedesche. Significativo il seguente episodio: "Alle 11,30 arriva il generale Zimmerman il quale intima: chi non riprende il lavoro esca dallo stabilimento; chi esce è dichiarato nemico della Germania. Tutti gli operai escono dallo stabilimento" (Da un giornale clandestino del PCI, citato da Turone, pag. 47). A Genova il 16 dicembre gli operai scendono in piazza, ma questa volta le autorità tedesche usano il pugno forte: ci sono scontri con morti e feriti, scontri che proseguono sempre con la stessa durezza per tutto il mese di dicembre in tutta la Liguria.
E' questo il segnale della svolta: il movimento si è indebolito, anche a causa della divisione dell'Italia in due; i tedeschi, in difficoltà sul fronte, non possono più consentire l'interruzione della produzione e affrontano con risolutezza la questione operaia (anche perché questa comincia a presentarsi, con scioperi, all'interno della stessa Germania); infine il movimento comincia a snaturarsi, a perdere il suo carattere spontaneo e classista, grazie anche al lavorio delle forze "antifasciste" che cercano di dare alla protesta operaia il carattere di lotta "di liberazione", favoriti in questo dal fatto che numerose avanguardie operaie per sfuggire alla repressione riparano in montagna, dove vengono arruolate nelle bande partigiane. In effetti ci sono ancora scioperi nella primavera del '44 e del '45, ma ormai la classe operaia ha perso l'iniziativa.
GLI SCIOPERI DEL 1943: UNA LOTTA CLASSISTA E NON UNA GUERRA ANTIFASCISTA
La propaganda borghese cerca di presentare tutto il movimento di scioperi dal '43 al '45 come una lotta antifascista. I pochi elementi che abbiamo ricordato dimostrano che non è così. Gli operai lottano contro la guerra e i sacrifici che essa impone loro. E per farlo si scontrano contro i fascisti quando questi sono ufficialmente al potere (nel marzo), contro il governo non più fascista di Badoglio (nell'agosto), contro i nazisti quando questi sono i veri padroni del nord Italia (nel dicembre).
Quello che invece è vero è che le forze "democratiche" e della sinistra borghese, PCI in testa, fin dall'inizio cercano di snaturare il carattere classista della lotta operaia per deviarla su quello borghese della lotta patriottica e antifascista. Ed è a questo lavoro che dedicano tutti i loro sforzi: colte di sorpresa dal carattere spontaneo del movimento, le forze "antifasciste" sono costrette ad inseguirlo, cercando nel corso stesso degli scioperi di inserire le loro parole d'ordine "antifasciste" in mezzo a quelle degli scioperanti; spesso i militanti locali si mostrano incapaci di farlo, prendendosi per questo tutti i rimproveri dei dirigenti dei loro partiti. Tutti presi dalla loro logica borghese, i dirigenti di questi partiti non riescono, o hanno difficoltà, a capire che per gli operai lo scontro è sempre contro il capitale, quale che sia la forma in cui si presenta: "ricordiamo quanta fatica facemmo nei primi tempi della lotta di liberazione a far capire a operai e contadini che non avevano una formazione comunista (sic!), che capivano che bisognava lottare contro i tedeschi magari, ma che dicevano 'per noi, che siano padroni gli italiani o i tedeschi, poi non ha tanta differenza'" (E. Sereni, dirigente all'epoca del PCI, in "Il governo del CL", citato da Romolo Gobbi: Operai e resistenza, pag.34) (2).
E no, signor Sereni, gli operai capivano benissimo che il loro nemico era il capitalismo, che era contro di esso che bisognava battersi, quale che fosse la forma in cui si presentava; così come voi, borghesi come i fascisti che combattevate, capivate che era proprio questo il pericolo contro cui vi battevate!
Non siamo certo tra quelli che negano la necessità della lotta politica per una vera emancipazione del proletariato; il problema è quale politica, su quale terreno, in che prospettiva. Quella della lotta "antifascista" era una politica tutta patriottica e nazionalborghese, che non metteva in discussione il potere del capitale. Invece, anche se solo in nuce, la più semplice rivendicazione "pane e pace", se portata fino in fondo, e fu questo che gli operai italiani non furono capaci di fare, conteneva in sé la prospettiva della lotta al capitalismo, che questa pace e questo pane non era capace di concedere.
NEL 1943 LA CLASSE OPERAIA DIMOSTRA DI NUOVO LA SUA NATURA ANTAGONISTA AL CAPITALE...
"Pane e pace", una parola d'ordine semplice e immediata, che fece tremare di paura la borghesia mettendo in pericolo i suoi piani imperialisti. Pane e pace era la parola d'ordine su cui si era mosso il proletariato russo nel 1917 e a partire dalla quale aveva cominciato il suo cammino rivoluzionario che lo portò alla presa del potere nell'ottobre. Ed infatti anche nel 1943 non mancarono gruppi operai che negli scioperi del '43 avanzavano la parola d'ordine di formazione dei Soviet, ed è noto, così come è riconosciuto a volte anche dalle ricostruzioni dei partiti "antifascisti", che in buona parte degli operai la partecipazione alla resistenza era vista non in funzione patriottica ma anticapitalista.
Infine, il timore della borghesia era giustificata dal fatto che movimenti di sciopero ci furono anche in Germania nello stesso 1943 e successivamente in Grecia, Belgio, Francia e Gran Bretagna (3).
Con questi movimenti la classe operaia ritorna sulla scena sociale minacciando il potere borghese. L'aveva già fatto, vittoriosamente, nel 1917, quando la rivoluzione russa aveva costretto i contendenti a mettere fine prematuramente alla guerra mondiale, per affrontare tutti uniti il pericolo proletario che dalla Russia si andava estendendo all'intera Europa.
Come abbiamo visto, gli scioperi in Italia accelerarono la caduta del fascismo ed anche l'uscita dell'Italia dalla guerra. Con questa sua azione la classe operaia confermò anche nella seconda guerra mondiale di essere l'unica forza sociale capace di opporsi alla guerra. Contrariamente infatti al pacifismo piccolo-borghese, che manifesta per "chiedere" al capitalismo di essere meno bellicoso, la classe operaia, quando agisce sul proprio terreno di classe, mette in discussione il potere stesso del capitalismo, e quindi la sua possibilità di continuare le proprie imprese belliche.
Potenzialmente, gli scioperi del '43 contenevano la stessa minaccia del 1917: la prospettiva di un processo rivoluzionario del proletariato.
Le frazioni rivoluzionarie dell'epoca colsero, sopravvalutandola, questa possibilità e si diedero da fare per favorirla. La Frazione Italiana della Sinistra Comunista (che pubblicava prima della guerra la rivista Bilan), superando le difficoltà che aveva conosciuto all'inizio della guerra, tenne, insieme al neonato Nucleo Francese della Sinistra Comunista, una conferenza nell'agosto del 1943 a Marsiglia, sull'onda dell'analisi secondo cui gli avvenimenti italiani avevano aperto una fase prerivoluzionaria per cui era giunto il momento della "trasformazione della frazione in partito" e del ritorno in Italia per contrastare il tentativo dei falsi partiti operai di "mettere il bavaglio alla coscienza rivoluzionaria" del proletariato. Comincia così tutto un lavoro di difesa del disfattismo rivoluzionario che portò la Frazione a diffondere nel giugno del 1944 un manifesto agli operai d'Europa irreggimentati nei diversi eserciti in guerra perché fraternizzassero e rivolgessero la loro lotta contro il capitalismo, quello democratico come quello fascista.
Anche i compagni che erano rimasti in Italia si riorganizzano e, sulla base di un'analisi simile a quella di Bilan, fondano il Partito Comunista Internazionalista. Questa organizzazione comincia anch'essa un lavoro di disfattismo rivoluzionario, combattendo il patriottismo delle formazioni partigiane e propagandando la rivoluzione proletaria (4).
Dopo cinquant'anni, se non possiamo non ricordare con orgoglio il lavoro e l'entusiasmo di questi compagni (alcuni dei quali persero la vita per questo), dobbiamo però riconoscere che l'analisi che li sorreggeva era sbagliata.
...MA LA GUERRA NON E' LA SITUAZIONE MIGLIORE PER LO SVILUPPO DI UN PROCESSO RIVOLUZIONARIO
I movimenti di lotta che abbiamo ricordato, e in particolare quelli dell'Italia nel 1943, dimostrano indubbiamente il risorgere del proletariato sul proprio terreno di classe e l'inizio di un potenziale processo rivoluzionario. Tuttavia l'esito non fu lo stesso del movimento nato contro la guerra nel 1917: il movimento del 1943 in Italia non riuscì a mettere fine alla guerra come quello in Russia e poi in Germania dell'inizio del secolo, e nemmeno riuscì ad evolvere fino ad uno sbocco rivoluzionario (che solo avrebbe potuto anche mettere fine alla guerra).
Le ragioni di questa sconfitta sono diverse, alcune di ordine generale, altre specifiche della situazione in cui si svilupparono questi avvenimenti.
Innanzitutto se è vero che la guerra spinge il proletariato ad agire in modo rivoluzionario, questo avviene principalmente nei paesi vinti. Il proletariato dei paesi vincitori resta generalmente molto più sottomesso ideologicamente alla classe dominante, cosa che contrasta l'indispensabile estensione mondiale che la sopravvivenza del potere proletario richiede. Inoltre, se la lotta arriva ad imporre la pace alla borghesia, essa si priva di per ciò stesso delle condizioni straordinarie che hanno fatto nascere questa lotta. In Germania, per esempio, il movimento rivoluzionario che condusse all'armistizio del 1918 soffrì fortemente, dopo questo, della pressione di tutta una parte di soldati che tornati dal fronte non avevano che un desiderio: rientrare nelle loro famiglie, gioire di questa pace tanto desiderata e a così caro prezzo conquistata. In realtà, la borghesia tedesca aveva tirato le lezioni della Rivoluzione in Russia in cui il proseguimento della guerra da parte del governo provvisorio, successore del regime zarista dopo il febbraio '17, aveva costituito il miglior alimento dell'ascesa rivoluzionaria in cui i soldati avevano giocato un ruolo di primo piano. Per questo il governo tedesco firmò l'armistizio con l'Intesa fin dall'11 novembre, due giorni dopo l'inizio dell'ammutinamento nella flotta da guerra a Kiel.
Dall'altro lato, questi insegnamenti del passato sono messi a profitto dalla borghesia nel periodo che precede la seconda guerra mondiale. La classe dominante si lancia nella guerra solo dopo essersi assicurata che il proletariato fosse completamente assoggettato. La sconfitta del movimento rivoluzionario degli anni venti aveva spinto il proletariato in un profondo scombussolamento, alla demoralizzazione si erano aggiunte le mistificazioni sul "socialismo in un paese solo" e sulla "difesa della patria socialista". Questo scombussolamento consente peraltro alla borghesia di fare la prova generale della guerra mondiale attraverso la guerra di Spagna, dove l'eccezionale combattività del proletariato spagnolo viene deviata sul terreno della lotta antifascista e dove lo stalinismo riesce a trascinare su questo terreno borghese anche importanti battaglioni del restante proletariato europeo.
Infine, nel corso della guerra stessa, quando nonostante questa debolezza di partenza il proletariato comincia ad agire sul proprio terreno di classe, la borghesia prende subito le sue misure.
In Italia, dove più forte era il pericolo, la borghesia, come abbiamo visto, si affretta a cambiare regime e poi alleanze. Nell'autunno del 1943 l'Italia è divisa in due, con il sud in mano agli alleati e il resto occupato dai nazisti; su consiglio di Churchill ("bisogna lasciar cuocere l'Italia nel suo brodo"), gli alleati ritardano la loro avanzata verso il nord ottenendo così due risultati: da un lato si lascia all'esercito tedesco il compito di reprimere il movimento proletario, dall'altro si consente alle forze "antifasciste" il compito di deviare questo stesso movimento dal terreno di una lotta anticapitalista a quello della lotta antifascista. Nel giro di quasi un anno questa operazione riesce, e da allora l'azione proletaria, anche se continua a rivendicare miglioramenti immediati, non è più autonoma. D'altra parte agli occhi dei proletari la continuazione della guerra è dovuta all'occupazione nazista, per cui la propaganda delle forze antifasciste ha facile gioco.
Quella della guerra partigiana come lotta popolare è in gran parte una favola, perché essa fu una guerra vera e propria organizzata dalle forze alleate e antifasciste e in cui la popolazione veniva arruolata a forza (o con l'inganno ideologico) come in qualsiasi altra guerra; è però anche vero che il fatto che fu lasciato ai nazisti il compito di reprimere il movimento proletario e di risultare i responsabili della continuazione della guerra, favorì il crescere di un odio antifascista e quindi la propaganda delle forze partigiane.
In Germania, forte dell'esperienza del primo dopoguerra, la borghesia mondiale ha condotto un'azione sistematica per evitare il ritorno di avvenimenti simili a quelli del 1918-19. In primo luogo, poco prima della fine della guerra, gli Alleati procedono a uno sterminio di massa delle popolazioni dei quartieri operai attraverso bombardamenti senza precedenti di grandi città come Amburgo o Dresda, dove, il 13 febbraio 1945, 135.000 persone (il doppio di Hiroshima) muoiono sotto le bombe. Questo obiettivo non aveva nessun valore militare (e d'altra parte le armate tedesche erano già in piena rotta): si tratta in realtà di terrorizzare ed impedire ogni organizzazione del proletariato. In secondo luogo, gli Alleati rigettano ogni proposta di armistizio fino a che non hanno occupato la totalità del territorio tedesco: essi vogliono amministrare direttamente questo territorio sapendo che la borghesia tedesca vinta rischia di non essere capace di controllare da sola la situazione. Infine, dopo la capitolazione di questa, e in stretta collaborazione con essa, gli Alleati trattengono per lunghi mesi i prigionieri di guerra tedeschi, al fine di evitare la miscela esplosiva che il loro ricongiungimento con la popolazione civile avrebbe potuto costituire.
In Polonia, nel corso della seconda metà del 1944, è l'Armata Rossa che lascia lo sporco compito di massacrare gli operai insorti a Varsavia alle forze naziste: l'Armata Rossa aspettò dei mesi a pochi chilometri da Varsavia che le truppe tedesche soffocassero la rivolta. La stessa cosa avvenne a Budapest all'inizio del 1945.
Così in tutta l'Europa la borghesia, forte dell'esperienza del 1917, e messa sull'avviso dai primi scioperi operai, non aspetta che il movimento cresca e si rafforzi: con lo sterminio sistematico, con il lavoro di deviazione delle forze staliniste e antifasciste, essa riesce a bloccare il pericolo proletario e impedirgli di crescere.
50 ANNI DOPO IL 1943 IL PROLETARIATO DEVE TRARRE LE SUE LEZIONI
Il proletariato non riuscì a bloccare la seconda guerra mondiale, nè tantomeno riuscì a sviluppare un movimento rivoluzionario. Ma come per tutte le battaglie del proletariato, le sconfitte possono essere trasformate in armi per il domani, se il proletariato ne trae le giuste lezioni. E queste lezioni, tocca in primo luogo ai rivoluzionari metterle in evidenza, identificarle con chiarezza. Un tale lavoro presuppone in particolare che essi, sulla base di una profonda assimilazione dell'esperienza del movimento operaio, non restino prigionieri degli schemi del passato, come accade ancora oggi alla maggior parte dei gruppi rivoluzionari, come Battaglia Comunista o le diverse cappelle della tendenza bordighista.
In forma molto sintetica, ecco le principali lezioni che bisogna tirare dall'esperienza di mezzo secolo del proletariato.
Contrariamente a quello che pensavano i rivoluzionari del passato, la guerra generalizzata non crea le migliori condizioni per la rivoluzione proletaria. Questo è tanto più vero oggi in cui i mezzi di distruzione esistenti renderebbero un eventuale conflitto mondiale così devastante da impedire qualsiasi possibilità di reazione proletaria.
Se c'è una lezione che i proletari devono tirare dalla loro esperienza passata è che per lottare contro la guerra oggi, essi dovranno agire prima di una guerra mondiale; durante, sarebbe troppo tardi.
Oggi, le condizioni per un nuovo conflitto mondiale non ci sono ancora: da un lato il proletariato non è irreggimentato perché la borghesia possa scatenare un tale conflitto, unica soluzione che essa conosce alla sua crisi storica. Dall'altro lato il crollo del blocco dell'est, se ha messo in moto, come la CCI ha messo in evidenza, una tendenza alla formazione di due nuovi blocchi imperialisti, si è ancora molto lontani dalla loro effettiva costituzione, e senza blocchi non ci può essere guerra mondiale.
Questo non vuol dire che la tendenza alla guerra e delle guerre vere e proprie non esistano; dalla guerra del Golfo del 1991 a quella della Yugoslavia oggi, passando per i tanti conflitti diffusi per il mondo, ce ne è abbastanza per capire come il crollo del blocco dell'est non abbia aperto un periodo di nuovo ordine mondiale, ma al contrario un periodo di instabilità crescente che può portare a un nuovo conflitto mondiale (a meno che la società non sia distrutta prima dalla decomposizione) se il proletariato non lo precederà con la sua azione rivoluzionaria. La coscienza di questa tendenza alla guerra è un fattore importante per il rafforzamento di questa possibilità rivoluzionaria.
L'altro e più potente fattore di presa di coscienza del fallimento del capitalismo è la crisi economica, una crisi economica catastrofica che non può trovare soluzione all'interno del capitalismo. L'insieme di questi due fattori creano delle condizioni migliori per la crescita rivoluzionaria della lotta proletaria. Ma questo sarà possibile se i rivoluzionari stessi sapranno abbandonare le vecchie idee del passato e adattare il loro intervento alle nuove condizioni storiche.
HELIOS
1. Sergio Turone, Storia del Sindacato in Italia, editori Laterza.
2. Romolo Gobbi, Operai e Resistenza, Mussolini editore. Questo libro, benché marcato dall'impostazione consiliarista-apolitica dell'autore, mostra bene il carattere anticapitalista e spontaneo del movimento del '43; così come mostra bene, anche attraverso le ampie citazioni tratte dall'archivio del PCI, il carattere nazionalista e patriottico dell'azione del PCI in questo movimento.
3. Per altri particolari su questo periodo vedere: Danilo Montaldi, Saggio sulla politica comunista in Italia, edizioni Quaderni Piacentini.
4. Sull'azione della Sinistra Comunista durante la guerra, vedere il nostro libro La Sinistra Comunista Italiana 1927-52, richiedibile al nostro indirizzo.
L'esplosione dei nazionalismi in quella che fu l'URSS e del suo impero dell'Europa dell'Est, così come lo sviluppo di gigantesche campagne ideologiche "antifasciste" in particolare nei paesi dell'Europa occidentale, danno a queste righe scritte alla fine degli anni '40 tutta la loro attualità (2).
Per l'ordine costituito, oggi, è sempre più difficile giustificare ideologicamente il suo dominio: glielo impedisce il disastro generato dalle sue leggi. Ma di fronte alla sola forza capace di abbatterlo e di instaurare un altro tipo di società, di fronte al proletariato, la classe dominante dispone ancora di armi ideologiche capaci di dividere il suo nemico e di mantenerlo sottomesso alle frazioni nazionali del capitale. Il nazionalismo e l'"antifascismo" sono in prima linea nell'arsenale controrivoluzionario della borghesia.
A. Stinas riprende l'analisi marxista di Rosa Luxemburg sulla questione nazionale ricordando che nel capitalismo arrivato alla sua fase imperialista "(...) la nazione si è liberata della sua missione storica. Le guerre di liberazione nazionale e le rivoluzioni democratico-borghesi sono ormai prive di senso". A partire da ciò egli denuncia e distrugge l'argomentazione di tutti coloro che hanno chiamato a partecipare alla "resistenza antifascista" durante la II guerra mondiale con il pretesto che la sua stessa dinamica "popolare" e "antifascista" poteva condurre alla rivoluzione.
Stinas e l'Uci (Unione comunista internazionalista) fanno parte di quel pugno di rivoluzionari che durante la seconda guerra mondiale seppero andare controcorrente di fronte a tutti i nazionalismi e rifiutarono di sostenere la "democrazia" contro il fascismo, abbandonando l'internazionalismo proletario in nome della "difesa dell'Urss" (3).
Poiché sono poco conosciuti anche nel milieu rivoluzionario, in parte per il fatto che i loro lavori esistono solo in lingua greca, è utile dare qualche elemento sulla loro storia.
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Stinas apparteneva alla generazione dei comunisti che conobbero il grande periodo dell'ondata rivoluzionaria internazionale che mise fine alla I Guerra mondiale. Restò fedele per tutta la sua vita alle speranze sollevate dall'Ottobre rosso del 1917 e dalla rivoluzione tedesca del 1919. Membro del Partito Comunista Greco (in un periodo in cui i PC non erano ancora passati nel campo della borghesia) fino alla sua espulsione nel 1931, egli fu, in seguito, membro dell'Opposizione leninista che pubblicava il periodico Bandiera del Comunismo e che si richiamava a Trotsky, simbolo internazionale della resistenza allo stalinismo.
Nel 1933, in Germania, Hindenburg dà il potere a Hitler e il fascismo diventa il regime ufficiale. Stinas sostiene che la vittoria del fascismo suona la campana a morte dell'Internazionale Comunista (così come il 4 agosto del 1914 aveva segnato la morte della II Internazionale), che le sue sezioni sono definitivamente perse per la classe operaia, che da organi di lotta quali erano all'origine esse si sono trasformate in nemici del proletariato. Il compito dei rivoluzionari nel mondo intero è dunque la costituzione di nuovi partiti rivoluzionari al di fuori dell'IC e contro di essa.
Un intenso dibattito provoca una crisi nell'organizzazione trotskista e Stinas la lascia dopo essere stato posto in minoranza. Nel 1935 entra ne Il Bolscevico, un'organizzazione che si era staccata dall'archeomarxismo, per costituire, a partire da questa, una nuova organizzazione che prese il nome di Unione Comunista Internazionalista. L'Uci era all'epoca la sola sezione riconosciuta in Grecia della Lega Comunista Internazionalista (Lci) - la IV Internazionale sarà costituita solo nel 1938.
L'Uci, dal 1937, aveva rifiutato la parola d'ordine, fondamentale per la IV Internazionale, della "difesa dell'Urss". Stinas e i suoi compagni non erano arrivati a questa posizione come sbocco di un dibattito sulla natura sociale dell'Urss, ma dopo un esame critico delle parole d'ordine e della politica della Lci di fronte all'imminenza della guerra. L'Uci voleva sopprimere tutti gli aspetti del suo programma attraverso i quali il socialpatriottismo avrebbe potuto infiltrarsi con la copertura della difesa dell'Urss.
Durante la seconda guerra imperialista Stinas, da internazionalista intransigente, resta fedele ai principi del marxismo rivoluzionario quali quelli difesi ed applicati da Lenin e dalla Luxemburg durante la I guerra mondiale.
L'Uci, dopo il 1934, era la sola corrente trotskista in Grecia. Durante gli anni della guerra e dell'occupazione, isolato dagli altri paesi, questo gruppo era convinto che tutti i trotskisti lottassero allo stesso modo, controcorrente e sulle stesse linee dell'Uci.
Le prime informazioni sulla posizione dell'Internazionale Trotskista lasciarono Stinas e i suoi compagni a bocca aperta. La lettura del testo francese "I trotskisti nella lotta contro i nazisti" gli fornirono le prove che i trotskisti avevano combattuto i tedeschi come tutti i bravi patrioti. Poi seppero dell'atteggiamento odioso di Cannon e del Socialist Workers Party negli USA.
La IV Internazionale durante la guerra, cioè durante le condizioni che mettono alla prova le organizzazioni della classe operaia, si era sbriciolata. Le sue sezioni, alcune apertamente, altre con la scusa della "difesa dell'Urss", erano passate al servizio delle rispettive borghesie e avevano contribuito al massacro imperialista.
L'Uci, nell'autunno del 1947, ruppe ogni legame politico e organizzativo con la IV Internazionale. Negli anni che seguirono, anni del peggiore periodo controrivoluzionario, quando i gruppi rivoluzionari erano ridotti a minuscole minoranze e quando coloro che erano rimasti fedeli ai principi dell'internazionalismo proletario e della rivoluzione d'ottobre erano completamente isolati, Stinas diventò il principale rappresentante in Grecia della corrente "Socialisme ou barbarie". Questa corrente, che non arrivò mai a fare completa chiarezza sui rapporti di produzione capitalistici in Urss - sviluppando la teoria di una sorta di terza via fondata su una nuova divisione fra "dirigenti" e "diretti" - si allontanò sempre di più dal marxismo per chiudere definitivamente con esso negli anni '60. Alla fine della sua vita Stinas non ebbe più alcuna vera attività politica organizzata. Si avvicinò agli anarchici e morì nel 1987.
CR
MARXISMO E NAZIONE
La nazione è il prodotto della storia, come la tribù, la famiglia, la città. Ha un ruolo storico necessario e dovrà sparire una volta svolto questo compito.
La classe portatrice di questa organizzazione sociale è la borghesia. Lo stato nazionale si confonde con lo stato della borghesia e, storicamente, l'opera progressista della nazione e del capitalismo si ricongiungono: creare, con lo sviluppo delle forze progressive, le condizioni materiali del socialismo.
Questa opera progressista ha la sua fine nell'epoca dell'imperialismo, delle grandi potenze imperialiste, con i loro antagonismi e le loro guerre.
La nazione ha esaurito la sua missione storica. Le guerre di liberazione nazionale e le rivoluzioni democratico-borghesi sono ormai prive di senso.
All'ordine del giorno c'è la rivoluzione proletaria che non genera, nè mantiene, ma abolisce le frontiere e unisce tutti i popoli della terra in una comunità mondiale. La difesa della nazione e della patria, nella nostra epoca, non sono altro che la difesa dell'imperialismo, del sistema sociale che genera le guerre, che non può vivere senza guerra e che porta l'umanità al caos e alla barbarie. Questo è vero sia per le grandi potenze imperialistiche che per le piccole nazioni le cui classi dirigenti sono, e non possono che essere, i complici e gli alleati delle grandi potenze.
"Al momento attuale il socialismo è la sola speranza dell'umanità. Al di sopra di pezzi di mondo capitalista che finalmente stanno crollando, brillano a lettere di fuoco le parole del Manifesto Comunista: socialismo o caduta nella barbarie" (R. Luxemburg, 1918).
Il socialismo è compito degli operai del mondo intero e il terreno della sua edificazione, tutta l'estensione della crosta terrestre. La lotta per il rovesciamento del capitalismo e l'edificazione del socialismo unisce tutti gli operai del mondo. La geografia fissa una ripartizione di compiti: il nemico immediato degli operai di ciascun paese è la propria classe dirigente; è il loro settore del fronte internazionale di lotta per rovesciare il capitalismo mondiale.
Se le masse lavoratrici di ciascun paese non prendono coscienza che esse sono solo una parte di una classe che è mondiale, non potranno mai impegnarsi sul cammino della loro emancipazione sociale.
Non è il sentimentalismo che fa sì che la lotta per il socialismo in un dato paese sia parte integrante della lotta per la società socialista mondiale, ma l'impossibilità del socialismo in un solo paese. L'unico "socialismo" dai colori nazionali e con l'ideologia nazionale che ci ha dato la storia è quello di Hitler e l'unico "comunismo" nazionale quello di Stalin.
La lotta all'interno di ciascun paese contro la classe dirigente e la solidarietà con le masse lavoratrici del mondo intero sono, alla nostra epoca, i due principi fondamentali del movimento delle masse popolari per la loro liberazione economica, politica e sociale. Questo vale tanto per la "pace" che per la guerra.
La guerra fra i popoli è fraticida, la sola guerra giusta è quella dei popoli che fraternizzano al di là delle nazioni e delle frontiere contro i loro sfruttatori.
Il compito dei rivoluzionari, in tempo di "pace" come in tempo di guerra, è quello di aiutare le masse a prendere coscienza dei fini e dei mezzi del loro movimento, a sbarazzarsi della tutela delle burocrazie politiche e sindacali, a prendere nelle loro mani i propri interessi, a non avere fiducia in nessun'altra "direzione" che quella degli organi esecutivi che hanno esse stesse eletto e che possono revocare in ogni istante, ad acquistare le coscienze della loro responsabilità politica e, all'inizio, soprattutto ad emanciparsi dal mito nazionale e patriottico.
Questi sono i principi del marxismo rivoluzionario quali Rosa Luxemburg li ha formulati e messi in pratica e che hanno diretto la sua politica e la sua azione durante la prima guerra mondiale. Questi principi hanno guidato la nostra politica e la nostra azione nella seconda guerra mondiale (...)
LA RESISTENZA ANTIFASCISTA: UN’APPENDICE DELL'IMPERIALISMO
Il "movimento della resistenza", cioè la lotta contro i tedeschi in tutte le sue forme, dal sabotaggio alla guerra partigiana, nei paesi occupati non può essere giudicata fuori del contesto della guerra imperialista di cui essa è parte integrante. Il suo carattere progressivo o reazionario non è determinato dalla partecipazione delle masse, nè dagli obiettivi antifascisti, nè dall'oppressione dell'imperialismo tedesco, ma in funzione del carattere della guerra: progressista o reazionaria.
L'ELAS come l'EDES (4) erano eserciti che continuavano la guerra contro i tedeschi e gli italiani all'interno del paese. Solo questo determina la nostra posizione nei loro confronti. Partecipare al movimento di resistenza, quali che siano le parole d'ordine e le motivazioni, significa partecipare alla guerra. Indipendentemente dalle disposizioni delle masse e dalle intenzioni della loro direzione, questo movimento, in ragione della guerra che ha condotto nelle condizioni del secondo massacro imperialista, è l'organo e l'appendice del campo imperialista alleato. (...)
Il patriottismo delle masse e il loro atteggiamento rispetto alla guerra, anche se contrari ai loro interessi storici, sono fenomeni molto conosciuti dalla guerra precedente e Trotsky, in tantissimi testi, aveva instancabilmente messo in guardia sul pericolo che i rivoluzionari potessero essere sorpresi e potessero lasciarsi trascinare dalla corrente. Il dovere dei rivoluzionari internazionalisti è quello di tenersi al di sopra della corrente e di difendere controcorrente gli interessi storici del proletariato. Questo fenomeno non si spiega solo per i mezzi tecnici utilizzati, la propaganda, la radio, la stampa, le sfilate, l'atmosfera di esaltazione creata all'inizio della guerra, ma anche dallo spirito della masse quale risulta dall'evoluzione politica anteriore, dalle disfatte della classe operaia, dal suo scoraggiamento, dalla perdita di fiducia nella sua forza e nei mezzi di azione, dalla dispersione del movimento internazionale e dalla politica opportunista condotta dai suoi partiti. Non esiste nessuna legge storica che fissi il lasso di tempo finito il quale le masse, all'inizio trascinate nella guerra, finiranno col rialzarsi. Sono le condizioni politiche concrete che svegliano la coscienza di classe. Le conseguenze orribili della guerra fanno sparire l'entusiasmo patriottico. Con la crescita dello scontento, l'opposizione agli imperialisti ed ai propri dirigenti che ne sono gli agenti, si approfondisce di più e risveglia in loro la coscienza di classe. Le difficoltà della classe dirigente aumentano, la situazione evolve verso la rottura dell'unità interna, il crollo del fronte interno e verso la rivoluzione. I rivoluzionari internazionalisti contribuiscono all'accelerazione dei ritmi di questo processo obiettivo con la lotta intransigente contro tutte le organizzazioni patriottiche e socialpatriottiche, aperte o mascherate, con l'applicazione conseguente della politica del disfattismo rivoluzionario.
Gli strascichi della guerra, nelle condizioni dell'Occupazione, hanno avuto un'influenza completamente diversa sulla psicologia delle masse e sui loro rapporti con la borghesia. La loro coscienza di classe è caduta nell'odio nazionalista, costantemente rafforzato dal comportamento barbaro dei tedeschi; la confusione si è aggravata, l'idea di nazione e del suo destino è stata posta al di sopra delle differenze sociali, l'unità nazionale si è rafforzata e le masse sono sempre più sottomesse alla loro borghesia, rappresentata dalle organizzazioni di resistenza nazionale. Il proletariato industriale, spezzato dalle disfatte precedenti e col suo peso specifico eccezionalmente diminuito, si è trovato prigioniero di questa situazione spaventosa durante tutta la durata della guerra.
Se la collera ed il sollevamento delle masse contro l'imperialismo tedesco nei paesi occupati erano "giusti", quelli delle masse tedesche contro l'imperialismo alleato, contro i barbari bombardamenti dei quartieri operai erano altrettanto giusti. Ma questa collera giustificata, che è rafforzata con tutti i mezzi dai partiti della borghesia di ogni sfumatura, poteva essere sfruttata solo dagli imperialisti per i loro interessi. Il compito dei rivoluzionari rimasti al di sopra della corrente è quello di dirigere questa collera contro la "propria" borghesia. Solo questo scontento contro la nostra "propria" borghesia può diventare una forza storica, il mezzo per sbarazzarsi una volta per tutte delle guerra e delle distruzioni.
Nel momento in cui il rivoluzionario, durante la guerra, fa solo allusione all'oppressione dell'imperialismo "nemico" nel suo paese, diventa vittima della ristretta mentalità nazionalista e della logica socialpatriottica e taglia i legami che uniscono il pugno di operai rivoluzionari che sono restati fedeli alla loro bandiera nei diversi paesi, nell'inferno in cui il capitalismo in decomposizione ha gettato l'umanità. (...)
La lotta contro i nazisti nei paesi occupati dai tedeschi era un inganno e uno dei mezzi utilizzati dall'imperialismo alleato per mantenere le masse incatenate al suo carro di guerra. La lotta contro i nazisti era compito del proletariato tedesco, ma essa era possibile solo se gli operai di tutti i paesi combattevano contro la propria borghesia. L'operaio dei paesi occupati che combatteva i nazisti combatteva per conto dei propri sfruttatori, non per i propri interessi e coloro che l'hanno trascinato e spinto in questa guerra erano, quali che fossero le loro intenzioni e le loro giustificazioni, degli agenti degli imperialisti. L'appello ai soldati tedeschi a fraternizzare con gli operai dei paesi occupati nella comune lotta contro i nazisti era, per il soldato tedesco, un inganno dell'imperialismo alleato. Solo l'esempio della lotta del proletariato greco contro la "propria" borghesia che, nella condizione di occupazione significava lottare contro le organizzazioni nazionaliste, avrebbe potuto svegliare la coscienza di classe degli operai tedeschi irreggimentati e rendere possibile la fraternizzazione e, infine, la lotta del proletariato tedesco contro Hitler.
L'ipocrisia e l'inganno sono strumenti indispensabili alla conduzione della guerra, alla stessa stregua dei carri armati, degli aerei o dei cannoni. La guerra non è possibile senza la conquista delle masse. Ma per conquistarle è necessario che esse credano di combattere per la difesa dei loro beni. Tutte le parole d'ordine, tutte le promesse di "libertà, prosperità, schiacciamento del fascismo, riforme socialiste, repubblica popolare, difesa dell'URSS, ecc.", mirano a questo fine. Questo lavoro è riservato soprattutto ai partiti "operai" che utilizzano la loro autorità, la loro influenza, i loro legami con le masse lavoratrici, le tradizioni del movimento operaio perché questo si lasci meglio ingannare e strangolare. Le illusioni delle masse sulla guerra, senza le quali essa è impossibile, non la rendono per questo progressista e solo i più ipocriti socialpatrioti possono servirsene per giustificarla. Tutte le promesse, tutti i proclami, tutte le parole d'ordine dei PC e PS in questa guerra non sono che delle trappole. (...)
La trasformazione di un movimento in lotta politica contro il regime capitalista non dipende da noi e dalla forza di convinzione delle nostre idee, ma dalla natura stessa di questo movimento. "Accelerare e facilitare la trasformazione del movimento di resistenza in movimento di lotta contro il capitalismo" sarebbe stato possibile se questo movimento, nel suo sviluppo, avesse potuto creare da sè, nei rapporti di classe, la coscienza e, nella psicologia di massa, delle condizioni più favorevoli alla trasformazione in lotta politica generale contro la borghesia e dunque in rivoluzione proletaria.
La lotta della classe operaia per le sue rivendicazioni economiche e politiche immediate può trasformarsi nel corso del suo sviluppo, in lotta politica d'insieme per rovesciare la borghesia. Ma essa è resa possibile dalla forma stessa di questa lotta: le masse, con l'opposizione alla loro borghesia, al suo stato e con la natura di classe delle sue rivendicazioni, si sbarazzano delle illusioni nazionaliste riformiste e democratiche, si liberano dell'influenza delle classi nemiche, sviluppano la loro coscienza, la loro iniziativa, il loro spirito critico e la fiducia in esse stesse. Con l'estensione del campo di lotta le masse partecipano sempre più numerose e più profondamente è scavato il suolo sociale, più si distinguono chiaramente i fronti delle classi e più il proletariato rivoluzionario diventa l'asse principale delle masse in lotta. L'importanza del partito rivoluzionario è enorme per accelerare i ritmi, per la presa di coscienza, per l'assimilazione dell'esperienza, per la comprensione da parte delle masse, per organizzare il sollevamento e assicurarne la vittoria. Ma è il movimento stesso, con la sua natura e la sua logica interna, che dà forza al partito. E' un processo obiettivo di cui la politica del movimento rivoluzionario è l'espressione cosciente. La crescita del "movimento di resistenza" ha avuto, proprio per la sua natura, il risultato esattamente inverso: ha portato alla rovina la coscienza di classe, ha rafforzato le illusioni e l'odio nazionalisti, ha disperso ed atomizzato ancora di più gli operai nella massa anonima della nazione, li ha sottomessi maggiormente alla borghesia nazionale, ha portato in superficie ed alla direzione gli elementi più ferocemente nazionalisti.
Oggi, ciò che resta del movimento di resistenza (l'odio e i pregiudizi nazionalisti, i ricordi e le tradizioni di questo movimento che fu così abilmente utilizzato dagli stalinisti e dai socialisti) è l'ostacolo più grosso ad un orientamento di classe delle masse. Se ci fossero state delle possibilità oggettive affinchè si trasformasse in lotta politica contro il capitalismo, queste avrebbero dovuto manifestarsi senza la nostra partecipazione. Ma da nessuna parte abbiamo vista una tendenza proletaria sorgere da questi ranghi, per quanto confusa potesse essere. (...)
Il cedimento dei fronti e l'occupazione militare del paese, come di quasi tutta l'Europa da parte degli eserciti dell'Asse, non cambiano il carattere della guerra, non creano una questione nazionale e non modificano i nostri obiettivi strategici nè i nostri compiti fondamentali. Il compito del partito proletario in queste condizioni è quello di rendere più acuta la lotta contro gli organismi nazionalisti e di proteggere la classe operaia dall'odio antitedesco e dal veleno nazionalista.
I rivoluzionari internazionalisti partecipano alle lotte delle masse per le loro rivendicazioni economiche e politiche immediate, tentano di dare un chiaro orientamento di classe e si oppongono con tutte le loro forze allo sfruttamento nazionalista di queste lotte. Invece di prendersela con i tedeschi o gli italiani essi spiegano perché la guerra è scoppiata, guerra la cui barbarie nella quale viviamo è la conseguenza inevitabile, denunciano con coraggio i crimini del loro "proprio" campo imperialista e della borghesia rappresentata delle differenti organizzazioni nazionaliste, chiamano le masse alla fraternizzazione coi soldati italiani e tedeschi per la lotta comune per il socialismo. Il partito proletario condanna tutte le lotte patriottiche per quanto massicce possano essere e quale che sia la loro forma, e chiamano apertamente gli operai ad astenersene.
Il disfattismo rivoluzionario, nelle condizioni di Occupazione, incontra degli ostacoli spaventosi e mai visti prima. Ma le difficoltà non possono cambiare i nostri compiti. Al contrario, più la corrente è forte, più l'attaccamento del movimento rivoluzionario ai suoi principi deve esser rigoroso, più deve opporsi alla corrente con intransigenza. Solo questa politica lo renderà capace domani di esprimere i sentimenti delle masse rivoluzionarie e di trovarsi così alla loro testa. La politica della sottomissione alla corrente, cioè la politica del rafforzamento del movimento di resistenza, aggiungerebbe un ostacolo supplementare ai tentativi di orientamento di classe degli operai e distruggerebbe il partito.
Il disfattismo rivoluzionario, la politica internazionalista contro la guerra e contro il movimento di resistenza mostra oggi, e mostrerà sempre di più negli eventi rivoluzionari a venire, tutta la sua forza ed il suo valore.
A. Stinas
1. Tratto dalle sue "Memorie di un rivoluzionario". Questa opera, scritta nell'ultimo periodo della sua vita, copre essenzialmente gli avvenimenti degli anni che vanno dal 1912 al 1950 in Grecia: dalle guerre balcaniche che annunciavano la I guerra mondiale alla guerra civile, prolungamento del secondo olocausto del 1939-45. L'ironia della storia ha fatto sì che siano le edizioni "La Brèche" legate alla 4a Internazionale di Mandel che hanno pubblicato in francese queste memorie. La loro pubblicazione è certamente dovuta a quello che fu "il papa della 4a Internazionale" dal 1943 al 1961, Pablo ed al suo nazionalismo essendo egli stesso greco, dato che il libro denuncia senza ambiguità le azioni dei trotskisti durante la seconda guerra mondiale e dopo.
2. La Grecia, paese di Stinas, è scosso -al momento in cui scriviamo- da un'ondata di nazionalismo orchestrata dal governo e da tutti i grandi partiti "democratici". Questi, nel dicembre 1992, hanno fatto sfilare un milione di persone nelle strade di Atene per difendere il nome di Macedonia per la provincia greca contro il "riconoscimento" della Macedonia nella ex-Yugoslavia in decomposizione!
3. Stinas ignorava che ci fossero altri gruppi a difendere in altri paesi le sue stesse posizioni: le correnti della Sinistra comunista italiana (in Francia ed in Belgio in particolare), tedesco-olandese (il Communistenbond Spartacus, in Olanda), dei gruppi in rotta col trotskismo come quello di Munis, in esilio in Messico, o il RKD composto di militanti austriaci e francesi.
4. Nome di eserciti della resistenza controllati essenzialmente dagli stalinisti e dai socialisti.
Links
[1] https://it.internationalism.org/en/tag/2/29/lotta-proletaria
[2] https://it.internationalism.org/en/tag/vita-della-cci/risoluzioni-del-congresso
[3] https://it.internationalism.org/en/tag/sviluppo-della-coscienza-e-dell-organizzazione-proletaria/corrente-comunista-internazionale
[4] https://it.internationalism.org/en/tag/4/66/europa
[5] https://it.internationalism.org/en/tag/2/25/decadenza-del-capitalismo
[6] https://it.internationalism.org/en/tag/2/33/la-questione-nazionale
[7] https://it.internationalism.org/en/tag/3/46/decomposizione
[8] https://it.internationalism.org/en/tag/vita-della-cci/corrispondenza-con-altri-gruppi
[9] https://it.internationalism.org/en/tag/4/75/italia
[10] https://it.internationalism.org/en/tag/situazione-italiana/lotte-italia
[11] https://it.internationalism.org/en/tag/5/103/seconda-guerra-mondiale
[12] https://it.internationalism.org/en/tag/3/48/guerra
[13] https://it.internationalism.org/en/tag/4/73/grecia
[14] https://it.internationalism.org/en/tag/7/109/sinistra-comunista