Più di trent'anni fa, nelle "Tesi sulla decomposizione" (Tesi: la decomposizione, fase ultima della decadenza capitalista)[1], dicevamo che la borghesia avrebbe avuto sempre più difficoltà a controllare le tendenze centrifughe del suo apparato politico. Il referendum sulla "Brexit" in Gran Bretagna e la candidatura di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti ne costituiscono una prova. In entrambi i casi degli avventurieri politici senza scrupoli della classe dominante si sono serviti della "rivolta" populista di coloro che più hanno sofferto degli sconvolgimenti economici di questi ultimi trent’anni, per auto-celebrarsi.
La CCI ha preso in conto tardivamente dell’ascesa del populismo e delle sue conseguenze. Ed è per tale motivo che abbiamo pubblicato un testo generale sul populismo[2], attualmente ancora in corso di discussione in seno all'organizzazione. L'articolo che segue cerca di applicare le principali idee di questo testo di discussione alle situazioni specifiche della Gran Bretagna e degli Stati Uniti. In una situazione mondiale in piena evoluzione, esso non ha nessuna pretesa di essere esaustivo, ma speriamo che porti materia di riflessione ed ulteriore discussione.
La perdita di controllo da parte della classe dominante non è stata mai finora così evidente come nello spettacolare disordine caotico offertoci dal referendum sull'Unione europea in Gran Bretagna e sulle sue conseguenze. Mai prima d’ora, la classe capitalista britannica aveva perso il controllo del processo democratico fino a tal punto, i suoi interessi vitali non sono mai stati, prima d’ora, così tanto alla mercé di avventurieri come Boris Johnson[3] o Nigel Farage[4].
La generale mancanza di preparazione sulle conseguenze di una eventuale Brexit è un indice significativo della confusione in seno alla classe dominante britannica. Dopo solo alcune ore dall'annuncio del risultato, i principali portavoce del Leave (Uscita) hanno dovuto spiegare ai loro supporter che i 350 milioni di sterline promessi al NHS[5], se avesse vinto la Brexit - una cifra affissa su tutti gli autobus dalla loro campagna -, erano in effetti solo un "errore di battitura". Alcuni giorni più tardi, Farage si è licenziato dal suo posto di dirigente UKIP, lasciando tutto il pasticcio della Brexit tra le mani di altri Leavers ("Uscenti"); Guto Harri, vecchio capo della comunicazione di Boris Johnson, dichiarava che in effetti "( Johnson) non ci ha messo il cuore" nella campagna per la Brexit, e c'è un forte sospetto che il sostegno di Johnson alla Brexit fosse solo una manovra opportunista ed interessata allo scopo di favorire il suo tentativo di impossessarsi della direzione del Partito conservatore contro Davide Cameron; Michael Gove[6], che ha gestito la campagna di Johnson durante il referendum e che avrebbe dovuto poi gestire la sua campagna per il posto di Primo Ministro, e che peraltro aveva parecchie volte manifestato la sua mancanza di interesse per questo lavoro, solo due ore prima della scadenza della deposizione delle candidature ha pugnalato Johnson alla schiena candidando sé stesso con il pretesto che il suo amico di sempre, Johnson, non aveva le capacità per compiere tale funzione; Andrea Leadsom[7], che si è lanciato nella corsa alla direzione del Partito conservatore come convinto Leaver (Uscente), solo tre anni prima dichiarava che un'uscita dalla UE sarebbe stato "un disastro" per la Gran Bretagna. Sicuramente, la menzogna, l'ipocrisia, il raggiro, tutto ciò non è niente di nuovo nell'apparato politico della classe dominante. Ma ciò che colpisce della più esperta classe dominante del mondo è la perdita di ogni senso dello Stato, dell'interesse nazionale storico che primeggia sull'ambizione personale o sulle piccole rivalità di cricche. Per trovare un episodio simile, nella vita delle classi dominanti inglesi, dovremmo risalire alla Guerra delle Due-Rose[8] (come Shakespeare l'ha descritta nella sua vita di Enrico VI), l'ultimo soffio di un ordine feudale decadente.
La mancanza di preparazione da parte del padronato finanziario ed industriale sulle conseguenze di una vittoria del Leave (Uscita) è ancora più incredibile, soprattutto se si considerano il numero di indicazioni secondo cui il risultato sarebbe stata "la cosa più incerta che si sarebbe mai vista della sua vita", se possiamo permetterci di citare il Duca di Wellington dopo la battaglia di Waterloo[9]. Il crollo del 20%, poi del 30%, della sterlina rispetto al dollaro mostra che il risultato "Brexit" non era previsto - e non aveva per niente compromesso il corso della sterlina prima del referendum. Ci hanno servito lo spettacolo poco edificante di una corsa di banche e di imprese che cercano di installarsi, o di traslocare, a Dublino o Parigi. La pronta decisione di George Osborne[10] di ridurre la tassa sulle imprese al 15% è chiaramente una misura di emergenza per trattenere le imprese in Gran Bretagna la cui economia è una delle più dipendenti del mondo dagli investimenti stranieri.
Nonostante ciò, la classe dominante britannica non è KO. La sostituzione immediata di Cameron come Primo Ministro, cosa che prima di settembre non era prevista, con Theresa May - una politica solida e competente che aveva fatto propaganda discreta per il Remain ("Rimanere") - e la demolizione attraverso la stampa ed attraverso i deputati conservatori dei suoi rivali, Gove e Leadsom, dimostra una capacità vera di pronta reazione e coerenza da parte di frazioni statali dominanti della borghesia.
Fondamentalmente, questa situazione è determinata dall'evoluzione del capitalismo mondiale e dal rapporto di forze tra le classi. È il prodotto di una dinamica più generale verso la destabilizzazione delle coerenti politiche borghesi nella fase attuale del capitalismo decadente. Le forze motrici dietro questa tendenza al populismo non sono argomento di questo articolo: sono analizzate nel "Contributo sul populismo" menzionato sopra. Ma questi fenomeni generali prendono una forma concreta sotto l'influenza di una storia e di caratteristiche nazionali specifiche. Di fatto, il Partito conservatore ha sempre avuto un’ala "euroscettica" che non ha mai accettato veramente l’appartenenza della Gran Bretagna all'UE e le cui origini possono definirsi come segue:
1. La posizione geografica della Gran Bretagna, e prima ancora dell'Inghilterra, a largo delle coste europee ha sempre permesso alla Gran Bretagna di tenersi a distanza dalle rivalità europee, cosa che non era possibile agli Stati continentali; la sua estensione territoriale relativamente piccola, la sua inesistenza in quanto potenza militare terrestre, non l’hanno mai fatta sperare di dominare l'Europa, come è avvenuto per la Francia fino al XIX secolo o la Germania dal 1870. Pertanto essa poteva difendere i suoi interessi vitali solo manovrando per mettere le principali potenze le une contro le altre ed evitando ogni contrasto con alcune di esse.
2. La situazione geografica dell'isola ed il suo statuto di prima nazione industriale del mondo hanno determinato l’ascesa della Gran Bretagna come imperialismo mondiale marittimo. Dal XVII secolo almeno, le classi dominanti britanniche hanno sviluppato una visione mondiale che, ancora una volta, ha permesso loro di conservare una certa distanza rispetto alla politica specificamente europea.
Questa situazione è cambiata radicalmente in seguito alla Seconda Guerra mondiale, innanzitutto perché la Gran Bretagna non poteva più mantenere il suo statuto di potenza mondiale dominante, poi perché la tecnologia militare (forze aeree, missili a lunga gittata, armi nucleari) non consentiva più il mantenimento di un isolamento nei confronti della politica europea. Uno dei primi a riconoscere questo cambiamento di situazione fu Winston Churchill che, nel 1946, chiamò alla formazione degli "Stati Uniti d'Europa", ma la sua posizione non è stata mai accettata realmente in seno al Partito conservatore. L'opposizione all'appartenenza alla UE[11] è andata crescendo man mano che la Germania si è rafforzata, soprattutto da quando il crollo dell'URSS e la riunificazione tedesca nel 1990 hanno aumentato in modo considerevole il peso della Germania in Europa. Durante la campagna del referendum, Boris Johnson ha fatto scandalo nel paragonare il dominio tedesco al progetto hitleriano, ma ciò non aveva niente di originale. Gli stessi sentimenti, praticamente con le stesse parole, furono espressi nel 1990 da Nicholas Ridley, allora ministro del governo Thatcher. Qui abbiamo un segno della perdita di autorità e di disciplina nell'apparato politico del dopoguerra: mentre Ridley fu costretto a lasciare immediatamente il governo, Johnson invece è diventato membro del nuovo gabinetto.
3. Il vecchio statuto di prima potenza mondiale della Gran Bretagna - e la sua perdita - ha un impatto psicologico e culturale profondamente ancorato nella popolazione britannica, ivi compreso nella classe operaia. L'ossessione nazionale di fronte alla Seconda Guerra mondiale - l'ultima volta che la Gran Bretagna ha potuto dare l'impressione di agire come potenza mondiale indipendente – lo illustra alla perfezione. Una parte della borghesia britannica e, più ancora, della piccola borghesia, non ha ancora compreso che oggi il paese è solo una potenza di secondo, addirittura di terzo ordine. Molti di quelli che hanno fatto propaganda per il Leave hanno dato l’impressione di credere che, se la Gran Bretagna si fosse liberata delle "catene" dell'UE, il mondo intero sarebbe accorso ad acquistare merci e servizi britannici - una fantasia che rischia di costare molto all'economia del paese.
Questo risentimento e questa collera contro il mondo esterno a causa della perdita di questo statuto di potenza imperiale sono comparabili al sentimento di una parte della popolazione americana di fronte a quello che si percepisce come perdita di statuto anche degli Stati Uniti (un tema costante degli appelli di Donald Trump è "fare in modo che l'America sia di nuovo grande") e la loro incapacità ad imporre il loro dominio come è stato fatto durante la Guerra fredda.
Le buffonate populiste di Boris Johnson sono state le più spettacolari, e le più diffuse dai media, rispetto a quelle del personaggio Davide Cameron, "vecchia scuola", generato dall'alta società e "responsabile". Ma, in realtà, Cameron ci dà una indicazione più forte del grado di disgregazione che sta colpendo la classe dominante. Sicuramente Johnson sarà stato l’attore principale, ma è stato Cameron ad inscenare la promessa di un referendum a profitto del suo partito, per vincere le ultime elezioni parlamentari del 2015. Per sua natura, un referendum è più difficile da controllare rispetto ad un'elezione parlamentare: perciò esso costituisce sempre una scommessa[12]. Come un giocatore patologico di casinò, Cameron si è mostrato scommettitore recidivo, innanzitutto con il referendum sull'indipendenza scozzese, che ha vinto per un pelo, nel 2014, poi con quello sulla Brexit. Il suo partito, il Partito conservatore, che si sempre è presentato come il migliore difensore dell'economia, dell'unione[13] e della difesa nazionale, è arrivato a mettere questi tre elementi in pericolo. Considerando la difficoltà a manipolare i risultati, il plebiscito su delle domande che riguardano importanti interessi nazionali rappresentano in genere un rischio inaccettabile per la classe dominante. Secondo la concezione e l’ideologia classica della democrazia parlamentare, anche sotto la sua forma decadente di falsa apparenza, tali decisioni devono essere prese dai "rappresentanti eletti", consigliati, e messi sotto pressione, dagli esperti e da gruppi di interessi - e non dalla popolazione nel suo insieme. Dal punto di vista della borghesia, è una pura aberrazione chiedere a milioni di persone di decidere su domande così complesse, come il Trattato costituzionale dell'UE del 2004, visto che, la massa degli elettori non voleva, addirittura non poteva, leggere e comprendere il testo del trattato. Quindi non c’è da sorprendersi se la classe dominante ha ottenuto spesso un "brutto" risultato nei referendum a proposito di tali trattati (come in Francia e nei Paesi Bassi nel 2005, in Irlanda al primo referendum sul Trattato di Lisbona nel 2008)[14].
All’interno della borghesia britannica, ci sono quelli che sperano che il governo May metterà a segno lo stesso colpo di quello dei governi francese ed irlandese dopo il loro fallito referendum sui trattati costituzionali, e che potrà ignorare o semplicemente aggirare il risultato del referendum. Ciò ci sembra improbabile, almeno a breve termine, non perché la borghesia britannica sia più ardentemente "democratica" delle sue sorelle minori ma proprio perché ha compreso che ignorare l'espressione "democratica" della "volontà del popolo" non farebbe che dar credito alle tesi populiste rendendole più pericolose.
La strategia di Theresa May fin qui è stata dunque di fare buon viso a cattiva sorte, imboccando la strada della Brexit ed attribuendo a tre dei Leavers (Uscenti) più noti la responsabilità di ministeri incaricati del complesso compito del disimpegno della Gran Bretagna dalla UE. Anche la nomina del clown Johnson come Ministro degli Affari esteri - accolta all'estero con una mescolanza di orrore, di ilarità e di incredulità - fa probabilmente parte di questa più vasta strategia. Mettendo Johnson sul banco dei negoziati per lasciare l'UE, May si assicura che la "grande bocca" dei Leavers sia screditata dalle probabili condizioni sfavorevoli, e che non possa giocare da franco tiratore alle sue spalle.
La percezione, in particolare da parte di quelli che votano per i movimenti populisti in Europa o negli Stati Uniti, secondo cui tutto il processo democratico è una "truffa", perché la “casta” non tiene conto dei risultati inopportuni, costituisce una vera minaccia per l'efficacia della stessa democrazia come sistema di dominio di classe. Nella concezione populista della politica, "la presa di decisione da parte del popolo stesso" è considerata come un mezzo per evitare la corruzione dei rappresentanti eletti dalle élite politiche preesistenti. È per tale motivo che in Germania referendum del genere sono stati esclusi dalla costituzione del dopoguerra, proprio in seguito all'esperienza negativa della Repubblica di Weimar e dalla loro utilizzazione nella Germania nazista[15].
Se la Brexit è stata un referendum fuori controllo, la selezione di Trump come candidato alle presidenziali americane del 2016 è un'elezione "uscita di pista". All’inizio, nessuno aveva preso sul serio la sua candidatura: il favorito era Jeb Bush, membro della dinastia Bush, scelta preferita dei notabili repubblicani e, in quanto tale, capace di attirare sostegni finanziari importanti (cosa che è sempre una considerazione cruciale nelle elezioni americane). Ma, nonostante le aspettative, Trump ha trionfato nelle prime primarie e ha guadagnato Stato dopo Stato. Bush si è spento come un petardo bagnato, gli altri candidati non sono stati che degli outsider ed i capi del Partito repubblicano sono stati costretti a confrontarsi con una sgradevole realtà secondo cui il solo candidato che potesse avere una possibilità di battere Trump era Ted Cruz, un uomo considerato dai suoi colleghi al Senato per niente degno di fiducia, solo un poco meno egoista ed interessato dello stesso Trump.
La possibilità che Trump batta Clinton è in sé un segno di quanto la situazione politica sia diventata assurda. Già la sua candidatura ha provocato uno shock che ha attraversato tutto il sistema delle alleanze imperialistiche. Da 70 anni, gli Stati Uniti sono stati i garanti dell'alleanza della NATO la cui efficacia dipende dall'inviolabilità del principio di difesa reciproca: un attacco contro uno è un attacco contro tutti. Quando un possibile presidente americano mette in discussione l'alleanza nord-atlantica o la volontà degli Stati Uniti di onorare i suoi obblighi di alleato - come ha fatto Trump dichiarando che una risposta americana ad un attacco russo contro gli Stati baltici dipenderebbe, a suo avviso, dal fatto che questi ultimi debbano "pagare il loro biglietto di entrata" – la cosa produce un brivido alla schiena di tutte le borghesie europee dell’est direttamente confrontate allo Stato mafioso di Putin, per non parlare dei paesi asiatici, il Giappone, la Corea del Sud, il Vietnam, le Filippine che confidano negli Stati Uniti per una loro difesa contro il drago cinese. Allo stesso modo risulta fortemente allarmante la possibilità che Trump non sappia affatto ciò che accade, come abbiamo potuto capire dalla sua affermazione secondo la quale non ci sarebbero truppe russe in Ucraina (sembrerebbe che non sa che la Crimea è ancora ufficialmente considerata da tutti, tranne che dai Russi, come parte dell'Ucraina).
Peggio ancora, Trump ha apprezzato l’attacco informatico da parte dei servizi russi ai sistemi informatici del Partito democratico e ha invitato Putin a fare di meglio. È difficile dire se ciò nuocerà a Trump, ma vale la pena ricordare che, dal 1945, il Partito repubblicano, accanitamente, ferocemente anti-russo, è favorevole a dotarsi di potenti forze armate e di una presenza militare massiccia in tutto il pianeta, poco importa il costo (infatti, fu l'aumento colossale delle spese militari sotto Reagan a fare esplodere il deficit di bilancio).
Non è la prima volta che il Partito repubblicano presenta un candidato che la sua direzione considera come pericolosamente estremista. Nel 1964, Barry Goldwater vinse le primarie grazie al sostegno della destra religiosa e della "coalizione conservatrice" – antesignana dell’attuale Tea Party. Almeno il suo programma era coerente: riduzione drastica del campo d’azione del governo federale, in particolare nella sicurezza sociale, potenza militare e preparazione se necessaria all'uso di armi nucleari contro l'URSS. Questo era un programma classico molto di destra ma che non corrispondeva affatto ai bisogni del capitalismo di Stato americano, e Goldwater finì per subire una cocente sconfitta alle elezioni, in parte per il fatto che la gerarchia del Partito repubblicano non l'aveva sostenuto. Trump è un Goldwater bis? Non del tutto, e le differenze sono interessanti. La candidatura di Goldwater rappresentò una presa in mano del Partito repubblicano da parte del "Tea Party" dell'epoca; e questo fu emarginato per anni in seguito alla schiacciante sconfitta elettorale di Goldwater. Non è un segreto per nessuno che durante gli ultimi due decenni, questa tendenza è ritornata e ha fatto un tentativo più o meno riuscito di prendere il controllo del GOP[16]. Tuttavia, quelli che sostenevano Goldwater erano, nel senso più vero del termine, "una coalizione conservatrice"; rappresentavano una vera tendenza conservatrice negli Stati Uniti, in un’America che stava per conoscere profondi cambiamenti sociali (il femminismo, il Movimento per i Diritti civili, l'inizio di un'opposizione alla guerra in Vietnam ed il crollo dei valori tradizionali). Benché molte "cause" del Tea Party siano le stesse di quelle di Goldwater, il contesto non è lo stesso: i cambiamenti sociali ai quali Goldwater si opponeva hanno avuto luogo, ed il Tea Party non è tanto una coalizione di conservatori ma un'alleanza reazionaria isterica.
Ciò crea crescenti difficoltà per la grande borghesia che non si cura di queste questioni sociali e "culturali" e, fondamentalmente, ha degli interessi nella forza militare americana e nel libero commercio da cui trae i suoi profitti. È diventato un’ovvietà dire che chiunque si presenti alle primarie repubblicane deve rivelarsi "ineccepibile" su tutta una serie di questioni: l'aborto (bisogna essere "per la vita"), il controllo delle armi (bisogna essere contro), il conservatorismo fiscale e tasse più basse, contro l'Obamacare - riforma sanitaria di Obama - (è socialismo, deve essere abolita: infatti, Ted Cruz aveva giustificato in parte la sua candidatura facendosi pubblicità attraverso la sua ostruzione all'Obamacare al Senato), il matrimonio (un'istituzione sacra), contro il Partito democratico (se Satana avesse un partito, sarebbe questo). Oggi, nello spazio di alcuni mesi, Trump ha eviscerato il Partito repubblicano. È un candidato su cui non "si può contare" per quanto riguarda l'aborto, il controllo delle armi, il matrimonio, lui stesso sposato tre volte, e che, nel passato, ha dato lui stesso del denaro al diavolo Hillary Clinton. Inoltre, propone di aumentare il salario minimo, vuole mantenere almeno in parte l'Obamacare, vuole ritornare ad una politica estera isolazionista, lasciare volare via il deficit di bilancio ed espellere 11 milioni di immigrati illegali il cui lavoro a buon mercato è vitale per gli affari.
Come i conservatori in Gran Bretagna con la Brexit, il Partito repubblicano - e potenzialmente tutta la classe dominante americana - si sono ritrovati con un programma completamente irrazionale dal punto di vista degli interessi di classe imperialisti ed economici.
La sola cosa che possiamo affermare con certezza, è che la Brexit e la candidatura di Trump aprono un periodo di instabilità crescente a tutti i livelli: economico, politico ed imperialistico. Sul piano economico, i paesi europei - che rappresentano, non dimentichiamolo, una parte importante dell'economia mondiale ed il più grande mercato unico - conoscono già una fragilità: hanno resistito alla crisi finanziaria del 2007-08 ed alla minaccia di un'uscita della Grecia dalla zona Euro, ma non hanno superato queste situazioni. La Gran Bretagna resta una delle principali economie europee ed il lungo processo per disfarsi dei suoi legami con l'Unione europea conterrà molti imprevisti, come sicuramente accadrà a livello finanziario: nessuno sa, per esempio, quale effetto avrà la Brexit sulla City di Londra, maggiore centro europeo per le banche, le assicurazioni e la Borsa. Il successo della Brexit non può che incoraggiare politicamente, e portare più credito ai partiti populisti del continente europeo: l'anno prossimo si terranno le elezioni presidenziali in Francia dove il Fronte Nazionale di Marine Le Pen, partito populista ed anti-europeo, è già ora il più grande partito politico in termini di voti. I governi delle principali potenze europee sono divisi tra il desiderio che la separazione della Gran Bretagna si faccia possibilmente con dolcezza e facilità, e la paura che ogni concessione a quest’ultima (come per esempio l'accesso al mercato unico con nello stesso tempo restrizioni sul movimento delle persone) dia delle idee ad altri, in particolare alla Polonia ed all'Ungheria. È praticamente certo che il tentativo di stabilizzare la frontiera sud-est dell'Europa integrando dei paesi dell'ex-Iugoslavia debba essere fermata. Sarà più difficile per l'Unione europea trovare una risposta univoca al "colpo di stato democratico" di Erdogan in Turchia ed alla sua utilizzazione dei profughi siriani come pedine in un meschino gioco di ricatto.
Sebbene l'Unione Europea, in quanto tale, non sia mai stata un'alleanza imperialistica, la maggior parte dei suoi membri restano comunque membri NATO. Ogni indebolimento della coesione europea tende a compromettere seriamente la capacità della NATO a bloccare la pressione russa sul suo fianco orientale, destabilizzando ancora più l'Ucraina e gli Stati baltici. Non è un segreto per nessuno che la Russia finanzia da un certo tempo il Fronte nazionale in Francia e che utilizza, se non lo finanza, il movimento PEGIDA in Germania. In effetti, il solo vittorioso dalla Brexit è Vladimir Putin.
Come detto sopra, la candidatura di Trump ha già indebolito la credibilità degli Stati Uniti. L'idea di Trump come presidente che ha il dito sul bottone nucleare è, dobbiamo dirlo, una prospettiva spaventosa[17]. Ma come detto più volte, uno dei principali elementi della guerra e dell'instabilità oggi è la determinazione degli Stati Uniti a mantenere la loro posizione imperialistica dominante contro ogni ultimo arrivato, e questa situazione resterà immutata qualunque sia il presidente.
Boris Johnson e Donald Trump hanno in comune molto più di una "grande bocca". Sono entrambi degli avventurieri politici privi di ogni principio e di ogni senso dell'interesse nazionale. Tutti e due sono pronti ad ogni contorsione per adattare il loro messaggio a quello che il loro pubblico vuole sentire. Le loro buffonate sono gonfiate dai media fino a che esse sembrano più vere di quanto non lo siano al naturale, ma, in realtà, essi sono delle non-entità, niente di più di portavoce attraverso cui i perdenti della mondializzazione urlano la loro rabbia, la loro disperazione ed il loro odio alle ricche élite e agli immigrati che ritengono responsabili della loro miseria. Trump se l’è cavata con gli argomenti più oltraggiosi e contraddittori: i suoi supporters semplicemente se ne fregano, lui dice ciò che questi vogliono sentire.
Ciò non vuole dire che Johnson e Trump sono simili, ma ciò che li distingue ha meno a che vedere con il loro carattere personale e più con le differenze tra le classi dominanti alle quali appartengono: la borghesia britannica ha giocato un ruolo maggiore sulla scena mondiale da secoli mentre la fase di "filibustiere" egocentrico e sfrontato dell'America non si è conclusa veramente che con la sconfitta che Roosevelt ha imposto agli isolazionisti e con la conseguente entrata nella Seconda Guerra mondiale. Alcune frazioni importanti della classe dominante americana restano profondamente ignoranti del mondo esterno, si è quasi tentato di dire che sono in uno stato di adolescenza ritardata.
I risultati elettorali non saranno mai un'espressione della coscienza di classe, tuttavia possono darci delle indicazioni in quanto allo stato del proletariato. Che sia il referendum sulla Brexit, il sostegno a Trump negli Stati Uniti, al Fronte nazionale di Marine Le Pen in Francia, o ai populisti tedeschi di PEGIDA e dell'Alternativa für Deutschland (Alternativa per la Germania), tutte le cifre concordano nel suggerire che là dove questi partiti e movimenti guadagnano il sostegno degli operai, è tra quelli che hanno sofferto di più i cambiamenti operati nell'economia capitalista durante questi ultimi quarant’anni, e che alla fine hanno concluso - in modo non del tutto irragionevole dopo anni di sconfitte e di attacchi senza fine contro le loro condizioni di esistenza da parte di governi di sinistra e di destra - che il solo modo per fare paura all'élite dirigente è votare per i partiti che sono evidentemente irresponsabili, e la cui politica è un anatema per questa stessa élite. La tragedia, è che sono proprio questi operai ad essere stati tra i più massicciamente impegnati nelle lotte degli anni 1970.
Un tema comune alle campagne della Brexit e di Trump è che "noi" possiamo "riprendere il controllo". Poco importa che questo "noi" non abbia mai avuto controllo reale sulla sua vita; come diceva un abitante di Boston in Gran Bretagna: "Vogliamo semplicemente che le cose ridivengano ciò che erano". Quando c'erano impieghi ed impieghi con salari decenti, quando la solidarietà sociale nei quartieri operai non era stata rotta dalla disoccupazione e l'abbandono, quando il cambiamento appariva come qualche cosa di positivo ed avveniva ad una velocità ragionevole.
Sicuramente è vero che il voto Brexit ha provocato un'atmosfera nuova e spiacevole in Gran Bretagna, dove le persone apertamente razziste si sentono più libere di uscire allo scoperto. Ma molti - probabilmente la grande maggioranza - di quelli che hanno votato Brexit o Trump per fermare l'immigrazione non sono veramente razzisti, soffrono piuttosto di xenofobia: paura dello straniero, paura dell'ignoto. E questo ignoto, è fondamentalmente l'economia capitalista, è lei stessa ad essere misteriosa ed incomprensibile perché presenta i rapporti sociali nel processo di produzione come pretese forze naturali, così elementari ed incontrollabili quanto il tempo che fa ma i cui effetti sulla vita degli operai sono ancora più devastanti. È un'ironia terribile, in questa epoca di scoperte scientifiche dove più nessuno può pensare che il brutto tempo sia causato dalle streghe, che certe persone siano pronte a credere che le loro disgrazie economiche provengono dai loro compagni di sventura quali sono gli immigrati.
All'inizio di questo articolo, ci siamo riferiti alle nostre "Tesi sulla decomposizione", redatte praticamente trent'anni fa, nel 1990. Concluderemo citandole:
"(…) E’ particolarmente importante essere lucidi sul pericolo che rappresenta la decomposizione per la capacità del proletariato di essere all’altezza del suo compito storico. (…)
I diversi elementi che costituiscono la forza del proletariato si scontrano direttamente con i diversi aspetti di questa decomposizione ideologica:
Oggi siamo concretamente di fronte a questo pericolo.
L’ascesa del populismo è pericolosa per la classe dominante perché minaccia la sua capacità a controllare il suo apparato politico ed a mantenere la mistificazione democratica che è uno dei pilastri del suo dominio sociale. Ma non offre niente al proletariato. È al contrario, proprio la debolezza del proletariato, la sua incapacità ad offrire un'altra prospettiva al caos che minaccia il capitalismo, che ha reso possibile l’ascesa del populismo. Solo il proletariato può offrire una via di uscita al vicolo cieco in cui la società si trova oggi e non sarà capace di farlo se gli operai si lasciano prendere dai canti delle sirene di demagoghi populisti che promettono un impossibile ritorno ad un passato che, ad ogni modo, non è mai esistito.
Jens, agosto 2016.
[1] it.internationalism.org/content/la-decomposizione-fase-ultima-della-decadenza-del-capitalismo [1]
[2] Sul problema del populismo: https://it.internationalism.org/cci/201612/1372/sul-problema-del-populismo [2]
[3] Boris Johnson, membro del Partito conservatore e vecchio sindaco di Londra. Uno dei principali portavoci del "Leave", cioè del "lasciare", denominazione della campagna per uscire dell'UE.
[4] Nigel Farage, dirigente del Partito per l'indipendenza del Regno Unito (United Kingdom Independence Party – UKIP). UKIP è un partito populista fondato nel 1991 e che fa principalmente campagna sui temi dell'uscita dall'UE e l'immigrazione. Paradossalmente, ha 22 membri al Parlamento europeo, risultante come il principale partito britannico rappresentato al Parlamento.
[5] NHS: National Health Service, la sicurezza sociale britannica.
[6] Membro del Partito conservatore e Ministro della Giustizia nel governo Cameron.
[7] Membro del Partito conservatore e Ministro dell'energia nel governo Cameron. Oggi Segretario di Stato all'ambiente naturale.
[8] Guerra civile tra i clan aristocratici di York e Lancaster durante il XV secolo in Inghilterra.
[9] E’ vero che il Tesoro britannico e le istanze dell'UE hanno fatto alcuni sforzi per preparare un "Piano B" in caso di vittoria della Brexit. Tuttavia, è chiaro che questi preparativi sono risultati inadeguati e, soprattutto che nessuno si aspettava che il Leave vincesse al referendum. E questo vale anche per il campo dello stesso Leave. Sembra che Farage abbia ammesso la vittoria del Remain (Restare) all’una di notte del referendum, per scoprire con suo grande stupore la mattina seguente che il Remain aveva perso.
[10] Membro del Partito conservatore e Ministro delle Finanze nel governo Cameron.
[11] La Gran Bretagna è entrata nella Comunità economica europea (CEE) sotto un governo conservatore nel 1973. L'adesione fu confermata da un referendum indetto nel 1975 da un governo laburista.
[12] Vale la pena ricordare che Margaret Thatcher è restata per più di dieci anni al potere senza avere mai guadagnato più del 40% dei voti all'epoca delle elezioni parlamentari.
[13] Cioè l'unione, in seno al Regno Unito, dell'Inghilterra, del Paese di Galles, della Scozia e dell'Irlanda del Nord.
[14] In seguito a risultati contrari alla loro volontà, i governi europei hanno lasciato cadere il Trattato costituzionale, pure conservando l'essenziale, modificando semplicemente gli accordi esistenti attraverso il Trattato di Lisbona del 2007.
[15] Bisogna fare una distinzione sui referendum: in Stati come la Svizzera o la California, essi fanno parte di un processo storicamente consolidato.
[16] Grand Old Part (il "Grande Vecchio Partito"), nome familiare per designare il Partito repubblicano, risalente al XIX secolo.
[17] Una delle ragioni della sconfitta di Goldwater è che aveva dichiarato di essere pronto ad utilizzare l'arma nucleare. La campagna di Johnson in risposta allo slogan di Goldwater: "In your heart, you know he's right" ("Nel tuo cuore, tu sai che lui ha ragione") aveva per slogan: "In your guts, you know he's nuts" ("Per istinto, tu sai che lui è pazzo").
[18] Gruppo rap americano conosciuto per le sue prese di posizione anarchicheggianti ed anti-capitaliste. Il titolo è ironico.
Le discussioni intorno al progetto di legge sul "matrimonio per tutti" nel 2013 in Francia hanno suscitato svariate posizioni, emozioni, magniloquenza e stupidità, e a maggior ragione quando "studi sul genere" sono stati branditi, da un campo o dall'altro, come argomento determinante. Poi, le appassionate e mutevoli controversie hanno preso una piega drammatica quando migliaia di profughi, cacciati dalle loro case dalla miseria e dalla guerra, sono venuti a bussare alle porte dei paesi sviluppati, e quando si sono udite le raffiche di kalashnikov destinate ad annientare, a Parigi, dei giovani per il loro stile di vita, ad Orlando altri giovani per il loro orientamento sessuale. La sinistra, la destra, l'estrema-destra e l'estrema-sinistra, tutte le famiglie dell'apparato politico della borghesia si sono fatte in quattro sulla scena del teatro mediatico - tra loro e all’interno di ciascuna - proclamando "io sono Charlie" o ancora "io non sono Charlie", raddoppiandosi in demagogia per non rimanere indietro di fronte alla concorrenza.
Abbandoniamo il teatrino della politica ufficiale e ritorniamo alle domande di fondo poste dal razzismo e dalla xenofobia, dal sessismo e dall’omofobia, da tutte queste condotte sociali che derivano dall'alienazione umana e che possono portare fino all'omicidio. Come spiegare un tale scatenamento di violenza sociale, come comprendere i pregiudizi che ne formano la base e che sembrano provenire da un'età oscura e passata? Come premunirsi, di fronte a questo tipo di problemi, contro il pensiero ideologico che il sistema borghese diffonde abbondantemente per mascherare la realtà ed accentuare le divisioni che indeboliscono il suo nemico storico, la classe dei proletari?
Intendiamoci, se la causa profonda di questi fenomeni risiede in una società divisa in classi antagoniste, fondata sullo sfruttamento dell'uomo sull'uomo e dove la merce si è imposta come un tiranno su tutti i piani dell'esistenza, ivi compreso i più intimi, una società infine dove lo Stato, questo mostro freddo, domina e sorveglia ogni individuo, non stupisce che la violenza sociale sia estremamente elevata. In questo tipo di società, l'Altro, l'individuo che è di fronte a noi, è visto di colpo con sospetto, come un pericolo potenziale, al meglio come un concorrente, al peggio come un nemico. Viene stigmatizzato per mille ragioni, perché non ha lo stesso colore di pelle, lo stesso sesso, la stessa cultura, la stessa religione, la stessa nazionalità, lo stesso orientamento sessuale. Le molteplici sfaccettature della concorrenza, che sta alla base della società capitalista, provocano regolarmente la povertà, le guerre, i genocidi, ma anche, ad un'altra scala, lo stress, l'aggressività, l'assillo e la sofferenza psicologica, la mentalità pogromista, la superstizione, il nichilismo, lo scioglimento dei più elementari legami sociali[1].
Ma questa spiegazione non basta perché resta su un piano generale; bisogna, infatti, identificare la dinamica che genera questi pregiudizi e quegli atti che essi pretendono di giustificare, spiegare la sua sopravvivenza e le sue cause immediate e lontane.
È una delle più importanti questioni per la classe operaia. Innanzitutto perché, nelle sue lotte, è confrontata senza tregua alla necessità di riunire le sue forze, di battersi per conquistare la sua unità. La lotta per rigettare o neutralizzare i pregiudizi che dividono le sue forze, come il razzismo, il sessismo o lo sciovinismo per esempio, è indispensabile e non è per niente già vinta. Poi perché la prospettiva rivoluzionaria portata dal proletariato si dà come scopo la costruzione di una società senza classi, senza frontiere nazionali, la creazione infine di una comunità umana unificata a scala mondiale. Ciò vuol dire che la rivoluzione proletaria intende chiudere e concludere tutto un periodo della storia umana dove, dai primi raggruppamenti, mescolanze ed alleanze in seno alle società primitive fino alle lotte del XIX secolo per l'unità nazionale, ogni tappa nello sviluppo della produttività del lavoro ha condotto ad una rivoluzione dei rapporti di produzione ed ad un allargamento a scala superiore della società.
Se il proletariato, in quanto classe storica dotata del progetto comunista, in quanto rappresentante per eccellenza del principio attivo della solidarietà, è spinto dalla pratica a superare queste divisioni, il razzismo, il sessismo o la xenofobia restano per lui un problema reale che riguarda il fattore soggettivo della rivoluzione. Le condizioni oggettive non bastano; affinché la rivoluzione sia vittoriosa occorre ancora che la classe sia soggettivamente in grado di condurre fino alla fine il suo compito storico, che sia in grado di acquisire nel corso stesso del suo movimento la capacità di unificarsi ed organizzarsi, una volontà, una combattività ed una coscienza sufficientemente evoluta, una profondità teorica, una morale sufficientemente ancorata, e, dal lato della minoranza comunista, una reale capacità di dare degli orientamenti politici chiari e convincenti, ed a costituirsi in partito mondiale appena le condizioni della lotta di classe lo permettono.
Il libro di Patrick Tort, Sesso, razza e cultura, può aiutarci a comprendere meglio queste questioni e costituire un reale stimolo per la riflessione degli operai più coscienti. Si conosce il rigore scientifico di questo autore[2], che non rende sempre agevole la lettura dei suoi libri, ma qui viene rivendicata con chiarezza la volontà di rendere questo tipo di problematica accessibile a tutti. Concepito sotto forma di un colloquio, il libro è composto di due parti: la prima affronta la questione del razzismo e prende posizione sulla decisione, presa recentemente in Francia da parecchie istituzioni statali o scientifiche, di abbandonare l'utilizzazione della parola "razza"; il secondo affronta la questione del sessismo e tenta di definire i rapporti tra il sesso ed i "generi". Tutte queste domande si intersecano con la biologia e le scienze sociali, e non possono trovare un inizio di chiarimento senza una critica delle concezioni dominanti sulla "natura umana", senza una critica della vecchia e affermata opposizione tra "natura" e "cultura".
Qui l'apporto di Darwin è considerevole. Nel suo campo, che è la scienza dei viventi, Darwin propone tutta una serie di strumenti teorici ed un percorso scientifico che permettono la costruzione di una visione materialista del passaggio della natura alla cultura, dal regno animale al mondo sociale dell'uomo. Patrick Tort è a livello internazionale uno dei migliori conoscitori di Darwin del quale pubblica le opere complete in francese per le edizioni Slatkine (Ginevra) e Champion (Parigi). La pubblicazione del monumentale Dictionnaire du darwinisme et de l’évolution (Dizionario del darwinismo e dell'evoluzione) da lui diretta, ha permesso di mettere a disposizione di tutti uno strumento inestimabile. In particolarmente, attraverso la nozione di effetto reversivo dell'evoluzione, ha molto contribuito a rendere comprensibile ciò che nell’opera antropologica di Darwin era stato occultato a causa del suo contenuto sovversivo[3]. Questa lotta resta ancora attuale perché si trovano ancora resistenze davanti ai fondamentali progressi permessi da Darwin. Ci sono coloro che, per evitare le questioni di fondo, simulano la sorpresa: "Che ci trovate in questo Darwin dunque? Si tratta di un nuovo culto reso ad uno scienziato alla moda?"[4]. Ci sono quelli che Patrick Tort chiama i "giubilatori precoci" (quelli che si rallegrano troppo presto, ndt) i quali, dimenticando che Darwin non era socialista, che era un uomo della sua epoca e che dunque condivideva una parte dei pregiudizi del tempo, agitano una citazione, accuratamente isolata, come un trofeo supposto squalificare l'insieme e la logica dell’opera[5].
Beninteso, noi non siamo necessariamente d’accordo con tutte le posizioni politiche che possono scaturire dal testo di Patrick Tort. Per noi è essenziale basarsi sugli apporti delle differenti discipline scientifiche per dare più corposità, più chiarezza alle nozioni che, per la maggior parte, il marxismo ha integrato da tempo al suo patrimonio teorico. Le grandi qualità di questo autore, oltre ad un metodo materialista rigoroso, sono la sua capacità di incrociare le differenti discipline, la sua critica alle idee ricevute ed al buonsenso comune, tanto ben prodotte, secondo le sue parole, sia dalla "destra liberale" che dalla "ideologia progressista dominante", cosa che lo porta a tenersi lontano dal ciarpame dei mass media, questi "grandi apparati di influenza".
L'apporto fondamentale dell'antropologia di Darwin consiste in una descrizione coerente e materialista dell'apparizione della specie umana attraverso il meccanismo della selezione naturale che permette agli individui che presentano una variazione vantaggiosa di avere una discendenza più adattata e più numerosa. In fondo, il processo è lo stesso per tutte le specie. Nella lotta per l'esistenza i meno adatti sono eliminati, il che porta, quando si realizzano certe condizioni, alla trasformazione delle specie attraverso selezione prolungata delle variazioni vantaggiose, ed all'apparizione di nuove specie. Ciò che viene trasmesso alla discendenza, nel caso degli animali superiori[6], sono non solo le variazioni biologiche vantaggiose, ma anche gli istinti sociali, il sentimento di simpatia e l'altruismo che come tali servono da amplificatori allo sviluppo delle capacità razionali e dei sentimenti morali. Ciò che accade nell’uomo, è precisamente che lo sviluppo della simpatia e dell'altruismo va a contraddire l'eliminazione del più debole contrapponendovisi. La protezione dei deboli, l'assistenza verso i diseredati, la simpatia al riguardo dello straniero, che ci appare come simile malgrado le differenze nella cultura e nell'apparenza esterna, così come tutte le istituzioni sociali incaricate di incoraggiarle, tutte queste cose sono chiamate da Darwin civilizzazione.
Tort ne ricorda brevemente il contenuto:
"Per via degli istinti sociali, e delle loro conseguenze sullo sviluppo delle capacità razionali e morali, la selezione naturale [a sua volta] seleziona la civiltà che si oppone alla selezione naturale. È la formula semplificata e corrente di ciò che ho denominato effetto reversivo" (p.21).
È una concezione perfettamente materialista e dialettica. Nel caso dell'apparizione dell'Uomo si è operato un capovolgimento che adatta sempre più il suo ambiente ai suoi bisogni invece di adattarsi lui all’ambiente, in tal modo si libera dell'influenza eliminatoria della selezione naturale: all'inizio del processo è l'eliminazione dei deboli che predomina; poi, durante un'inversione progressiva, è la protezione dei deboli che finisce per imporsi, segno eminente, distinguibile, della solidarietà del gruppo. L'errore originario della sociobiologia consiste nel concepire la società umana come una collezione di organismi in lotta; postula dunque una semplice continuità tra il biologico (ridotto ad un'ipotetica concorrenza dei geni) ed il sociale. Anche in Darwin c’è una continuità, ma è una continuità reversiva. Difatti, il capovolgimento che abbiamo appena descritto produce non una rottura tra il biologico ed il sociale ma effetti di rottura. Questa nozione permette di comprendere secondo Tort l'autonomia teorica delle scienze dall'uomo e dalla società, pur mantenendo la continuità materiale tra natura e cultura. È un rigetto di ogni dualismo, di ogni opposizione fissa tra l'innato e l'esperienza, tra natura e cultura.
Le scoperte di Darwin alle quali si aggiungerà l'effetto reversivo come chiave indispensabile della comprensione della stessa opera, rappresentano un vero sconvolgimento delle nostre concezioni scientifiche sull'apparizione della società umana. Rimettendo in causa le vecchie certezze, la fissità delle specie, e l'apparente stabilità del mondo vivente, ed adottando la prospettiva della sua reale genealogia, Darwin apriva nuovi orizzonti. È lo stesso tipo di sconvolgimento che provò Anassimandro nell'antichità greca quando rimise in causa la concezione dominante secondo la quale il nostro pianeta doveva poggiare necessariamente su qualche cosa. In realtà, affermava, la Terra fluttua nel cielo ed in questo senso non ci sono né alti né bassi e cambiando semplicemente il punto di vista sulla realtà sensibile, Anassimandro apriva la via alla scoperta della Terra come una sfera - dove le persone che vivono agli antipodi non camminano a testa in basso - ed a tutte gli avanzamenti e scientifici che ne derivano[7].
• La selezione naturale non è più, a questo stadio dell'evoluzione, la forza principale che governa il divenire dei gruppi umani;
• "In altre parole se l'evoluzione ha preceduto la storia, oggi la storia governa l'evoluzione" (p.199).
• "occorre del biologico per fare del sociale, ma da una parte il sociale non potrebbe ridursi al biologico, e d’altra parte è il sociale che, dal punto di vista dell'Uomo attore e giudice della sua evoluzione, produce la verità del biologico nelle capacità che attraverso lui il biologico si rivela atto a svelare" (p.17).
• Poiché esiste una continuità (reversiva) tra natura e cultura, e poiché "l'uomo storico non ha comunque cessato di essere un organismo, l’evoluzione ingloba o include la storia" (p.18).
Non riproduciamo tutta la famosa citazione del capitolo IV de La Filiazione dell'uomo, ma solamente due frasi che sono fondamentali per comprendere l'importanza delle conclusioni di Darwin a proposito dell'uomo giunto allo stadio presente della "civiltà": "Una volta raggiunto questo punto, c'è solo una barriera artificiale ad impedire che le sue simpatie si estendano agli uomini di tutte le nazioni e di tutte le razze. È vero che se questi uomini sono separati tra loro per le grandi differenze di apparenza esterna o di abitudini, l'esperienza ci mostra purtroppo quanto tempo ci vuole prima che li guardiamo come nostri simili" (testo citato da Tort p.23).
Leggendo L'Autobiografia[8] che Darwin riservava unicamente alle persone a lui più vicine, si potrà constatare che aveva piena consapevolezza della natura rivoluzionaria delle sue scoperte, in particolare per il fatto che rimettevano in causa la credenza in Dio, essendo lui stesso diventato ateo. Ma era estremamente prudente per evitare che, nell'Inghilterra vittoriana così puritana e religiosa, la sua opera fosse messa all'indice. Si ritrova in questo passo la stessa visione profonda e rivoluzionaria del divenire umano: le frontiere nazionali sono per lui delle barriere artificiali che la civiltà dovrà superare ed abolire. Senza essere comunista, senza nemmeno considerare esplicitamente la distruzione delle frontiere nazionali, Darwin include, di fatto, nella sua visione l'ipotesi di una scomparsa del quadro nazionale. Nel suo spirito, la civiltà non è uno stato di fatto, è un movimento costante e doloroso ("quanto tempo ci vuole prima…"), un processo continuo di superamento che, una volta raggiunta l'unificazione dell'umanità, deve proseguire attraverso lo sviluppo del sentimento di simpatia verso tutti gli esseri sensibili, in altre parole oltre la sola specie umana.
Accostando la prospettiva forgiata da Darwin e quella forgiata da Marx, noi riteniamo che cade sulle spalle del proletariato e della sua solidarietà ricostituita il pesante compito di rovesciare la civiltà borghese per permettere il libero sviluppo della civiltà umana.
Un'altra conseguenza importante è il modo con cui possiamo concepire la famosa "natura umana". Conosciamo l'errore dei socialisti utopisti. Malgrado tutti i loro meriti, essi erano incapaci, a causa dell'epoca in cui vivevano, di definire quali erano le premesse che nella società borghese avrebbero permesso di sconvolgere i rapporti sociali e costruire una società comunista. Bisognava dunque inventare di sana pianta una società ideale che fosse conforme alla natura umana compresa come criterio assoluto. Facendo ciò, i socialisti utopisti riprendevano la visione dominante del loro tempo, una visione idealistica largamente diffusa ancora oggi secondo la quale la natura umana è immutabile ed eterna. Il problema, risponde Marx, è che la natura umana si modifica costantemente durante la storia. Nello stesso momento in cui l'uomo trasforma la natura esterna, trasforma anche la sua natura.
La concezione difesa da Darwin sui rapporti tra natura e cultura ci permette di andare ancora oltre una semplice visione astratta di una natura umana effimera, fluida. Esiste una continuità tra il biologico ed il culturale, ciò che implica l'esistenza di un nucleo costante nella natura umana che è un prodotto di tutta l'evoluzione. Marx condivideva questa visione. È ciò che emerge da questo passo del Capitale in cui, in particolare, risponde all'utilitarismo di Geremia Bentham: "Per sapere, per esempio, ciò che è utile ad un cane, bisogna studiare la natura canina, ma non si potrebbe dedurre questa stessa natura dal principio di utilità. Se si vuole fare di questo principio il criterio supremo dei movimenti e dei rapporti umani, si tratta innanzitutto di approfondire in generale la natura umana e afferrarne poi le modifiche specifiche ad ogni epoca storica”[9].
Anche se le radici profonde della natura umana sono state riconosciute, l'errore di interpretazione commessa dai socialisti utopici resta ancora dominante oggi. Patrick Tort mette bene in evidenza la sua natura: "L'errore non è affermare l'esistenza di una "natura" nell'essere umano, ma di pensarla sempre sul modo di un'eredità onnipotente che lo governerebbe secondo l'intangibile legge di un determinismo univoco e subìto" (p.83). Questo determinismo univoco e subìto è la specificità del materialismo meccanicistico. Il materialismo moderno, in quanto ad esso, aggiunge una determinazione attiva proprio come l'aveva ben compresa Epicuro con la sua teoria del clinamen. Fin dalla sua tesi di dottorato, Differenza della filosofia naturale di Democrito e di Epicuro, Marx aveva riconosciuto questo apporto considerevole di Epicuro che superava il riduzionismo presente nell'atomismo di Leucippo e Democrito e che introduceva la libertà nella materia. Questa libertà significa che all’interno della natura niente è predestinato, come lo pretenderebbe un determinismo assoluto, e c'è un posto per la spontaneità degli agenti. Essa significa che per gli organismi che hanno acquistato una certa autonomia, "all'instante, io posso decidere di un atto, di un atto contrario o di un non atto senza doverlo ad un ‘programma’” (p.83).
Questo materialismo attivo - e non più passivo e subìto -, sostenuto da Patrick Tort, conduce a questa definizione che dovrebbe inserirsi in tutte le memorie: "la 'natura umana' è l'incalcolabile somma di tutte le possibilità dell'umanità. O ancora, su un modo deliberatamente esistenzialista: la "natura umana", è ciò che è nelle nostre mani" (p.86).
Abbiamo ricordato sopra che la persistenza del razzismo, del sessismo e della xenofobia è il prodotto di una società divisa in classi. È importante ricordarci questo fatto perché attraverso di esso è possibile comprendere perché la lotta del proletariato, in quanto la sola che possa condurre all'abolizione delle classi, include la lotta contro questi differenti fenomeni. Mentre diventa falso il contrario. Appena l'antirazzismo o il femminismo pretendono di condurre una lotta autonoma, essi diventano velocemente un'arma contro la classe operaia e prendono il loro posto in seno all'ideologia dominante. La stessa cosa avviene con il pacifismo che, quando non è esplicitamente legato alla lotta rivoluzionaria del proletariato contro il capitalismo in quanto sistema sociale, si trasforma in una pericolosa mistificazione.
Ma si tratta di problemi reali per il proletariato e noi dobbiamo, con Tort, approfondire l'analisi. La xenofobia non è semplicemente un rigetto dell'altro nel quale vedremmo solamente dei tratti di carattere totalmente differenti. Ciò è palese nel caso del razzismo, ma può e deve spiegarsi diversamente: "Il razzismo è il rigetto, su un essere che si esteriorizza, di ciò che si odia più in sé" (p. 22). Fondamentalmente, ciò che è rigettato sull’altro, non è ciò che è differente, ma quello che si vorrebbe bandire da sé stesso. "Nella sua versione più estrema, il razzismo deve dunque definirsi meno come il semplicistico "rigetto dell'altro" e più come la negazione del simile nel simile attraverso la fabbricazione di un ‘altro’ immaginato come meschino e minaccioso"(p.23).
La persona o la popolazione prese di mira non rappresentano un ignoto che minaccia; esse sono considerate come una minaccia perché sono precisamente una parte di noi stessi, quella parte che consideriamo disprezzabile. Come dice Patrick Tort, ricordando che gli ebrei e i cristiani tedeschi vivevano insieme da più di sedici secoli, è il simile più prossimo a diventare la vittima da annientare. Nell’Antico Testamento, "Il rituale del "capro espiatorio" è un rituale espiatorio che in quanto tale esternalizza la parte colpevole di sé e la vota al demonio ed al nulla simbolico del deserto" (p.28). Sappiamo che la società borghese è stata molto spesso il teatro di pogrom o di genocidi e che la classe dominante ne porta interamente la responsabilità. Ma bisogna allargare la comprensione e non fermarsi alle manifestazioni spettacolari di questi fenomeni. Bisogna percepire a che punto la ricerca di un capro espiatorio e la mentalità pogromista, con la violenza estrema che contengono, hanno le loro radici nel terreno della società capitalista, dove trovano sempre cose di cui nutrirsi.
Se si rilegge il passo de La Filiazione dell’Uomo citato prima, si comprende meglio ciò che vuole sottolineare Darwin con queste parole: "ci vuole tempo prima che li guardiamo come nostri simili". Il principio stesso della civiltà è il processo dello sviluppo della simpatia e cioè del riconoscimento del simile nell'altro. Siccome la civiltà è il prodotto della selezione naturale prima di invertirne la marcia, il processo di eliminazione dell'eliminazione (l'effetto reversivo definito da Tort) è sempre in corso, ed un ritorno indietro è periodicamente sempre possibile. Ma ciò che abbiamo detto sopra ci impedisce di parlare di una "natura umana" ancora primitiva. "L'antropologia influenzata da Darwin non ha cessato di usare metaforicamente un concetto biologico per interpretare, in seno alla civiltà, la riapparizione dei comportamenti ancestrali che rinviano l'umano alle sue origini animali: questo concetto è quello del ritorno atavico, purtroppo inflazionato e strapazzato nella psichiatria ereditarista francese del XIX secolo e nell'antropologia criminale italiana che se ne ispirò, ma che è tuttavia utile per pensare ciò che alberga in noi, attraverso il possibile riaffioramento, la manifestazione di un’ancestralità eminentemente persistente" (p.27).
L'argomento più utilizzato per combattere il razzismo consiste nello spiegare che ciò che appare come grandi differenze nell'apparenza esterna degli esseri umani è obiettivamente trascurabile quando ci si pone a livelli genetici e molecolari. Si sa molto poco sulla "razza", perché designa, in effetti, una pseudo-realtà, e ciò che se ne sa sembra bastare per portarci alla conclusione della sua inesistenza. È dunque ridicolo essere razzista. Questo argomento è totalmente inefficace, risponde Patrick Tort. Se la ricerca scientifica domani affermasse, grazie a nuove scoperte, l’esistenza biologica delle "razze", ciò giustificherebbe di conseguenza il razzismo? La debolezza di questo argomento ci è data dal fatto che il razzismo si rivolge ai fenotipi[10] (biologici e culturali) e non ai genotipi[11]; agli individui interi coi loro caratteri osservabili e non alle molecole. È allora facile per il conservatorismo identitario (Alain di Benoist, Zemmour, Le Pen), e per tutti i razzisti appellarsi al buonsenso: le razze sono un'evidenza che tutti possono vedere, basta paragonare uno scandinavo ed un indiano.
Certamente l'utilizzazione non scientifica che è stata fatta della parola "razza" squalifica totalmente il suo uso e ci obbliga almeno ad incorniciarla di virgolette. Ma in realtà, le "razze" esistono, in quanto corrispondono alle "varietà" che distinguono certe suddivisioni identificabili in seno ad una specie. Certamente, è una nozione molto difficile da delimitare, non è omogenea, resta sfumata proprio come, e più ancora, la nozione di specie, perché il vivente si evolve senza tregua sotto l'effetto delle variazioni incessanti e della modifica dell’ambiente. Così le specie non sono delle entità perenni ma gruppi che la classificazione raccoglie e sistema sotto delle categorie. Tuttavia esistono. Darwin ha mostrato che le specie sono in trasformazione permanente, ma che è possibile, allo stesso tempo, distinguerle perché corrispondono ad una stabilizzazione – certo relativa e temporanea se ci si riferisce alla scala dei tempi geologici - imposta dalla presenza delle altre specie in competizione con esse nella lotta per l'esistenza e per i bisogni stessi della classificazione. C'è, sotto la regolarità delle forme specifiche, una combinazione efficace rispetto ad un ambiente dato ed ad una nicchia ecologica che spiega che gli individui di una stessa specie si somigliano. "Anche se, nella storia della scienza degli organismi, le divisioni classificatorie hanno solamente un valore temporaneo e tecnico, c'è ancora un senso naturalista nel dire che c'è una sola specie umana, e che questa specie, come pressappoco tutte le specie biologiche, comprende delle varietà. Nella tradizione naturalistica, ‘razza’ è un sinonimo di varietà" (p.33).
Il razzismo è un fenomeno sociale, ed è al livello sociale che bisogna rispondere. Da questo punto di vista il passato coloniale continua ad avere delle conseguenze nocive ed il proletariato dovrà combattere fermamente "un'ideologia che converte caratteristiche di umani in segni di inferiorità nativa e permanente, e come minaccia per altri uomini" (p.41).
La problematica è globalmente la stessa per la questione del sessismo. Il sesso è una realtà biologica, ma il "genere", da parte sua, è una realtà culturalmente costruita, e dunque un divenire, un possibile che resta aperto. L'atteggiamento radicale di certe femministe o di certi "studi di genere" che vogliono "privare" il sesso della naturalizzazione è stupido tanto quanto quello che consiste nel negare la realtà delle differenze interraziali visibili. Il combattimento per l'uguaglianza sociale degli uomini e delle donne, che nel capitalismo non finirà mai, il combattimento per la simpatia verso l'altro, cioè per il riconoscimento dell'altro come simile malgrado tutte le differenze culturali, tutti questi combattimenti sono al centro dell'antropologia di Darwin. L'etica proletaria porta in sé tutta questa eredità. È per tale motivo che la lotta per il comunismo non è opera di individui robottizzati ed indifferenziati e non ha niente a che vedere con una negazione delle differenti culture umane, essa si definisce come l'unificazione nella diversità, l'inclusione dell'altro in seno ad un'associazione, ad una comunità che ha bisogno della ricchezza di tutte le culture[12].
La critica del dualismo e l'esigenza di una continuità reversiva tra natura e cultura, tra biologia e società, ci ha condotto ad una definizione forte della natura umana ed a riprendere la nozione darwiniana di civiltà come processo sempre incompiuto. Quali conseguenze per la lotta rivoluzionaria? In seno al capitalismo, questa lotta è innanzitutto una lotta per l'emancipazione del proletariato, anche se porta in sé l'emancipazione di tutta l'umanità. Il proletariato deve prepararsi ad una guerra civile particolarmente difficile di fronte ad una borghesia che non accetterà mai di cedere il suo potere. Tuttavia, non è principalmente attraverso la forza delle armi che il proletariato l’avrà vinta. L'essenziale della sua forza si basa nella sua capacità di organizzazione, nella sua coscienza di classe e soprattutto nella sua attitudine da una parte a conquistare la sua unità, dall’altra a conquistare tutta la massa degli strati non sfruttatori, o, almeno, a neutralizzarli nei periodi di indecisione all’inizio della battaglia. Questo processo di unificazione, di integrazione, va ad operarsi automaticamente visto che l'uomo è un essere sociale e che la natura umana contiene questo vantaggio evolutivo rappresentato dalla generalizzazione del sentimento di simpatia? Certo che no! Ma i risultati ed il percorso scientifico esposti nel libro di Patrick Tort confermano la visione marxista dell'importanza del fattore soggettivo per il proletariato, in particolare della coscienza, delle mentalità e più in generale della cultura. Confermano la validità della lotta della Sinistra Comunista contro il fatalismo della socialdemocrazia in degenerazione che difendeva la posizione opportunista di un passaggio graduale, automatico e pacifico del capitalismo al socialismo. Confermano che il divenire dell'umanità si trova nelle mani del proletariato.
Avrom Elberg
[1] Sulla natura della violenza in seno alla società borghese, vedere il nostro articolo, "Terrore, terrorismo e violenza di classe". Revue internationale, n..4, 3° trimestre 1978, o il nostro sito.
[2] Se ne può avere una dimostrazione lungo le 1000 pagine di Cosa è il materialismo? Parigi, Belin, 2016. Si tratta dell'ultimo libro di Patrick Tort di cui raccomandiamo la lettura a quelli che vorrebbe approfondire tutte le questioni trattate qui.
[3] Abbiamo presentato il lavoro di questo autore e la nozione di effetto reversivo dell'evoluzione nell'articolo: "A proposito del libro di Patrick Tort, L'Effetto Darwin, Una concezione materialista delle origini della morale e della civiltà". Vedere Révolution internationale, n°400, aprile 2009, o il nostro sito.
[4] Su France Culture, Jean Gayon, filosofo specializzato in storia delle scienze ed in epistemologia, non teme la banalità dichiarando a proposito di Darwin che "questi non è né Gesù, né Marx" (La Marche des Sciences - La Marcia delle Scienze -, emissione del 4 febbraio 2016 dedicato a "Darwin, sotto i fuochi dell'attualità").
[5] Il Partito comunista internazionale che in Francia pubblica Le Prolétaire appartiene al club dei "giubilatori precoci". Si potrà verificare leggendo la sua rivista Programme communiste, n°102, febbraio 2014. In una polemica in cui prende di mira la CCI, questo gruppo, accecato dalla leggenda di un Darwin malthusiano, realizza un vero tour de force confondendo non solo Darwin con il darwinismo sociale di Spencer, ma nello stesso slancio Darwin e la sociobiologia.
[6] Per "animali superiori" si intendono tradizionalmente nella storia naturale i vertebrati omeotermici, quelli cioè a temperatura costante, come gli uccelli ed i mammiferi.
[7] Vedere il nostro articolo, "A proposito del libro di Carlo Rovelli, Anassimandro di Mileto. Il posto della scienza nella storia umana". Révolution Internationale, n°422, maggio 2011, o il nostro sito.
[8] Charles Darwin, Autobiografia, Einaudi, 1962.
[9] K. Marx, Il Capitale, Libro primo, settima sezione, capitolo XXIV: "Trasformazione del plusvalore in capitale, V., - I pretesi fondi di lavoro" , nota (b).
[10] Fenotipi: in genetica, l'insieme dei caratteri osservabili di un individuo.
[11] Genotipo: insieme dei geni di un individuo.
[12] La visione proletaria della ricchezza delle culture, considerate come un fattore positivo nella battaglia per l'unità nella lotta – in opposizione totale col multiculturalismo ed il comunitarismo borghese che riproducono l'ideologia identitaria - è sviluppata, con numerosi esempi storici, nel nostro articolo, "L'immigrazione ed il movimento operaio”, Revue internationale, n°140, 1 trimestre 2010, in italiano sul nostro sito.
Prima della nostra esplorazione dei tentativi dell’anarchismo spagnolo di affermare un “comunismo libertario” durante la guerra civile spagnola del 1936-39, avevamo pubblicato il contributo della Sinistra Comunista Francese (GCF) sulle caratteristiche del periodo di transizione[1], un testo basato sui progressi teorici della sinistra italiana e belga degli anni ’30. La GCF faceva parte di una certa rinascita delle organizzazioni politiche proletarie dopo la Seconda Guerra Mondiale, ma nei primi anni ’50 il mondo proletario stava affrontando una profonda crisi visto che divenne sempre più evidente che la dura sconfitta subita dalla classe dei lavoratori non s’era dissolta con la guerra – ma, al contrario, la vittoria della democrazia sul fascismo aveva ulteriormente acuito il disorientamento del proletariato. La fine della contro-rivoluzione cominciata negli anni ’20 aveva ancora molta strada da fare.
Nel nostro libro The Dutch and German Left, in particolare al capitolo 11, “La Lega comunista-spartachista e la ‘corrente dei consigli’ (1942-50)”, abbiamo considerato i progressi significativi che furono compiuti in una parte della sinistra comunista olandese: il tentativo del gruppo Communistenbond Spartakus di aprirsi ad altre correnti (come la GCF) e di riappropriarsi di alcune vecchie posizioni del Partito Comunista Operaio Tedesco ( KAPD) – costituiva una svolta rispetto alle idee anti-partitiche sviluppate negli anni ’30. Tuttavia, questi progressi furono deboli e le idee sostanzialmente anarchiche che erano state adottate dalla maggioranza della sinistra tedesco-olandese in reazione alla degenerazione del bolscevismo riacquistarono presto forza, contribuendo a un lungo processo di frammentazione in gruppi principalmente locali e focalizzati sulla lotta immediata dei lavoratori.
Nel 1952, la GCF si sciolse: in parte a causa di una diagnosi sbagliata del corso storico che portava alla conclusione che fosse imminente una terza guerra mondiale e alla partenza di Marc Chirik, il membro più influente della GCF, verso il Venezuela; in parte per una combinazione di tensioni personali e differenze politiche non chiarite. Marc lottò contro queste difficoltà in una serie di ‘lettere da lontano’, nelle quali provava anche a delineare i compiti delle organizzazioni rivoluzionarie nelle condizioni storiche dell’epoca, ma non poté arrestare la disintegrazione del gruppo. Alcuni dei suoi membri si unirono al gruppo Socialismo o Barbarie intorno a Cornelius Castoriadis, di cui parleremo in un prossimo articolo.
Nello stesso anno, una spaccatura più importante avvenne tra le due maggiori correnti del Partito Comunista Internazionale in Italia – correnti che erano esistite più o meno fin dall’inizio, ma che erano state capaci di stabilire un certo modus vivendi quando il partito stava attraversando un’euforica fase di crescita. Quando l’arretramento nella lotta di classe divenne sempre più evidente, l’organizzazione, di fronte alla demoralizzazione di molti dei lavoratori che fin dall’inizio si erano uniti ad essa sulla base di un attivismo superficiale, fu inevitabilmente costretta a riflettere sui propri compiti e direzione futura.
Gli anni ’50 e i primi anni ’60 furono così un periodo buio per il movimento comunista, che affrontava un vero e proprio prolungamento della dura contro-rivoluzione calata sulla classe operaia negli anni ’30 e ’40, ma in questo periodo dominava l’immagine di un capitalismo vincente che sembrava essersi ripreso – forse definitivamente – dalla catastrofica crisi degli anni ’30. In particolare, era il trionfo del capitale statunitense, della democrazia, di un’economia che passava in maniera relativamente veloce dall’austerità del dopo guerra al boom dei consumi degli ultimi anni ’50 e dei primi anni ’60. Sicuramente questo periodo ‘glorioso’ aveva i suoi lati oscuri, soprattutto il rigido scontro tra i giganti imperialisti, col conseguente proliferare di guerre locali e la minaccia globale di un olocausto nucleare. Inoltre, nel blocco ‘democratico’, c’era una vera e propria ondata di paranoia verso il comunismo e la sovversione, esemplificata dalla caccia alle streghe maccartista negli USA. In quest’atmosfera, le organizzazioni rivoluzionarie, dove ancora esistevano, erano persino più ristrette, persino più isolate di quanto lo erano state negli anni ’30.
Questo periodo segnò quindi una profonda rottura con il movimento che aveva scosso il mondo in seguito alla Prima Guerra Mondiale e anche con le coraggiose minoranze che avevano resistito all’avanzata della contro-rivoluzione. Poichè il boom economico proseguiva, la forte convinzione che il capitalismo fosse un sistema passeggero, condannato a morire per le sue intime contraddizioni, appariva molto meno evidente rispetto agli anni 1914-1945, quando il sistema sembrava essere travolto da una gigantesca catastrofe dopo un’altra. Forse era il marxismo stesso ad aver fallito? Questo era sicuramente il messaggio portato avanti da una dozzina di sociologi e altri intellettuali borghesi, e tale idea sarebbe presto penetrata negli stessi movimenti rivoluzionari, come abbiamo visto nella nostra recente serie di articoli sulla decadenza[2].
Allo stesso tempo, non era del tutto scomparsa la generazione di militanti che era stata forgiata dalla rivoluzione o dalla lotta contro la degenerazione delle organizzazioni politiche che essa stessa aveva creato. Alcune figure chiave della sinistra comunista rimasero attive dopo la guerra e durante il periodo di arretramento degli anni ’50 e ’60, e, al di là di tutto, per essi la prospettiva del comunismo non era affatto morta e sepolta. Pannekoek, anche se non era più legato a un’organizzazione, pubblicò il suo libro sui Consigli operai e sul loro ruolo nella costruzione di una nuova società[3], e fino alla sua vecchiaia rimase in contatto con una serie di gruppi che comparvero dopo la guerra, come Socialismo o Barbarie. I militanti che durante la guerra avevano rotto col trotskismo, come Castoriadis e Munis, mantennero un’attività politica e provarono a tratteggiare la visione di ciò che stava oltre l’orizzonte del capitalismo. E Marc Chirik, sebbene ‘non organizzato’ per più di un decennio, di sicuro non abbandonò il pensiero e la ricerca rivoluzionaria; e quando nella metà degli anni ’60 ritornò alla militanza organizzata, avrebbe chiarito la sua prospettiva su diverse questioni, non ultimo sui problemi del periodo di transizione.
Abbiamo intenzione di ritornare agli scritti di Castoriadis, Munis e Chirik in prossimi articoli. Pensiamo valga la pena parlare dei loro contributi individuali anche se il lavoro che portarono avanti fu quasi sempre fatto nel contesto di un’organizzazione politica. Un militante rivoluzionario non esiste come mero individuo, ma come parte di un organismo collettivo che, in ultima istanza, è generato dalla classe operaia e dalla sua lotta per diventare cosciente del suo ruolo storico. Un militante è per definizione un individuo che s’impegna alla costruzione e alla difesa di un’organizzazione politica, e che è perciò motivato da una profonda lealtà nei confronti dell’organizzazione e dei suoi bisogni. Ma – e qui, come vedremo in seguito, ci allontaniamo dalle concezioni sviluppate da Bordiga – l’organizzazione rivoluzionaria non è un collettivo anonimo, nel quale l’individuo sacrifica la sua personalità e quindi abbandona le sue capacità critiche; un’organizzazione politica sana è un’associazione in cui le individualità dei diversi compagni sono valorizzate piuttosto che soppresse. In un’associazione del genere, c’è spazio per i contributi teorici particolari di compagni diversi e, ovviamente, per un dibattito sulle differenze sorte tra gli individui militanti. Così, come abbiamo riscontrato in tutta questa serie, la storia del programma comunista non è solo la storia delle lotte della classe operaia, delle organizzazioni e delle correnti che si sono ispirate a queste lotte e le hanno elaborate in un programma coerente, ma anche degli individui militanti che hanno aperto la strada in questo processo di elaborazione.
In quest’articolo torniamo al lavoro della sinistra comunista italiana che, prima della guerra e sotto forma della Frazione in esilio, fornì un contributo insostituibile alla nostra comprensione dei problemi della transizione dal capitalismo al comunismo. Questo contributo era stato anche sviluppato a partire dai fondamenti marxisti stabiliti dalla corrente di sinistra in Italia durante la fase precedente, quella della guerra mondiale imperialista e dell’ondata rivoluzionaria post-bellica. Dopo la seconda guerra imperialista, nonostante gli errori e gli scismi che afflissero il Partito Comunista Internazionale, l’eredità teorica della sinistra italiana non scomparve. Anche se esamineremo in particolare la questione del periodo di transizione o altre problematiche, sarà impossibile ignorare l’interazione e spesso l’opposizione che si ebbe durante tutto questo periodo tra due leader di questa corrente: Onorato Damen e Amedeo Bordiga.
Durante i tempestosi giorni del periodo bellico e rivoluzionario 1914-1926, Damen e Bordiga dimostrarono chiaramente la caratteristica principale di un militante comunista: la capacità di opporsi all’ordine dominante. Damen fu imprigionato per agitazioni contro la guerra; Bordiga combatté instancabilmente per sviluppare il lavoro della sua frazione all’interno del Partito Socialista e quindi premere per una scissione con l’ala destra e i centristi e, in seguito, per la formazione su solidi principi di un partito comunista. Quando la stessa nuova Internazionale Comunista si assestò su posizioni opportuniste nei primi anni ’20, Bordiga fu di nuovo in prima linea all’opposizione alle tattiche dei Fronti Uniti e alla ‘bolscevizzazione’ dei partiti comunisti: ebbe il coraggio immenso di alzarsi alla riunione del Comitato Esecutivo dell’Internazionale Comunista a Mosca nel 1926 e denunciare direttamente Stalin come il becchino della rivoluzione. Quello stesso anno Bordiga fu arrestato ed esiliato sull’isola di Ustica[4]. Nel frattempo, anche Damen era attivo nella resistenza ai tentativi dell’Internazionale Comunista di imporre le sue politiche opportuniste al partito italiano, inizialmente dominato dall’ala sinistra. Insieme a Fortichiari, Repossi e altri, formò nel 1925 il Comitato di Intesa[5]. Durante il fascismo, subì più di un episodio di confino ed esilio, ma non rimase in silenzio, guidando ad esempio una rivolta di prigionieri a Pianosa.
In questa congiuntura, comunque, ci fu una differenza nella reazione dei due militanti che doveva avere conseguenze di lungo periodo. Bordiga, messo agli arresti domiciliari e costretto ad abiurare ogni attività politica (come poi sembrarono gentili i fascisti!), evitò ogni contatto coi suoi compagni e si concentrò del tutto sul suo lavoro da ingegnere. Riconobbe che la classe dei lavoratori aveva subito una sconfitta storica, ma da questo non trasse la stessa conclusione dei compagni che formarono la Frazione in esilio. Quest’ultima capì che era necessario come non mai mantenere un’attività politica organizzata, anche se non poteva più avere la forma di un partito. Così, al tempo della formazione della Frazione italiana e nel corso di tutti i decenni estremamente fertili che seguirono, Bordiga fu del tutto tagliato fuori da questi sviluppi teorici[6]. Dall’altro lato, Damen mantenne i contatti e al suo ritorno in Italia raggruppò un numero di compagni dalla Frazione con l’idea di contribuire alla formazione del partito. C’erano militanti come Stefanini, Danielis e Lecci, che erano rimasti fedeli alle posizioni principali della Frazione lungo tutti gli anni ’30 e la guerra. Nel 1943, fu proclamato nel Nord Italia il Partito Comunista Internazionale (PCInt); il partito fu poi rifondato nel 1945 in seguito a un’integrazione un po’ affrettata di elementi vicini a Bordiga nel Sud Italia[7].
Di conseguenza, il partito unito, formato intorno a una piattaforma scritta da Bordiga, fu fin dall’inizio un compromesso tra due correnti. Quella vicina a Damen, era molto più netta su molte posizioni di classe fondamentali che non erano molto lontane dagli sviluppi intrapresi dalla Frazione – per esempio, l’esplicita adozione della teoria della decadenza del capitalismo e il rifiuto della posizione di Lenin sull’autodeterminazione delle nazioni.
In tal senso – e noi non abbiamo mai nascosto le nostre critiche al profondo opportunismo implicito nella formazione del partito fin dai suoi primissimi inizi – la corrente ‘Damen’ mostrò una capacità di assimilare alcuni dei più importanti apporti programmatici della Frazione italiana in esilio, e persino di assumere alcune questioni chiave sorte all’interno della Frazione italiana per poi avanzare verso una posizione più elaborata. Fu questo il caso della questione del sindacato. All’interno della Frazione la discussione era rimasta irrisolta. In quell’occasione Stefanini era stato il primo a difendere l’idea che i sindacati fossero già stati integrati nell’ordine capitalistico. Sebbene non si possa dire che la posizione della corrente ‘Damen’ sia sempre stata totalmente coerente sulla questione del sindacato, certamente fu più netta di quella che sarebbe diventata la visione ‘bordigista’ dominante dopo la scissione del 1952.
Questo processo di chiarificazione si estese anche ai compiti di un partito comunista nella rivoluzione proletaria. Come abbiamo visto nei precedenti articoli della serie[8], la Frazione, a dispetto di alcune persistenti idee sul partito che esercitava la dittatura del proletariato, aveva sostanzialmente superato questa posizione, insistendo sul fatto che una lezione chiave della rivoluzione russa era che il partito non avrebbe dovuto identificarsi con lo Stato di transizione. La corrente Damen andò persino oltre e chiarì che il compito del partito non era l’esercizio del potere. La sua piattaforma del 1952, ad esempio, afferma che “mai e per nessuna ragione il proletariato dovrebbe cedere il suo ruolo nella lotta. Non dovrebbe delegare la sua missione storica ad altri o trasferire il suo potere ad altri – nemmeno al suo stesso partito politico”.
Come mostriamo nel nostro libro La Sinistra Comunista Italiana, queste intuizioni erano connesse quasi logicamente a certi avanzamenti sulla questione dello Stato:
“Molto più ardita è la posizione che prende il Partito Internazionalista sul problema dello Stato nel periodo di transizione, influenzato in maniera evidente da Bilan e Octobre. Damen e i suoi compagni respingono l’assimilazione della dittatura del proletariato con quella del partito, e, di fronte ad uno “Stato proletario”, rivendicano nei consigli la più ampia democrazia. Essi non rifiutano l’ipotesi, verificatasi a Kronstadt, di scontri tra lo “Stato operaio” e il proletariato, e sostengono che in questo caso il partito comunista si dovrebbe schierare a fianco di quest'ultimo: ‘La dittatura del proletariato non può in alcun caso ridursi alla dittatura del partito, anche se si tratta del partito del proletariato, intelligenza e guida dello Stato proletario. Lo Stato e il partito al potere, in quanto organi di una tale dittatura, portano in germe la tendenza al compromesso con il vecchio mondo, tendenza che si sviluppa e si realizza, come ha dimostrato l’esperienza russa, per l'incapacità momentanea della rivoluzione in un dato paese ad estendersi, collegandosi al movimento insurrezionale degli altri paesi. Il nostro partito (...) a) dovrà evitare di diventare lo strumento dello Stato operaio e della sua politica...; dovrà difendere gli interessi della rivoluzione stessa negli scontri con lo Stato operaio. b) dovrà evitare di burocratizzarsi, facendo del suo centro direttivo, come dei suoi centri periferici, un campo di manovra per il carrierismo di funzionari; c) dovrà evitare che la politica di classe sia pensata e realizzata con dei criteri formativi e amministrativi”[9].
Tuttavia, la corrente Damen abbandonò del tutto l’intuizione più importante della Frazione – il concetto stesso di ‘frazione’ come forma e funzione che un’organizzazione rivoluzionaria deve assumere in un periodo di sconfitta nella lotta di classe –, così come il concetto strettamente connesso di ‘corso storico’, la necessità di comprendere i rapporti di forza globali tra le classi che possono subire profondi mutamenti durante l’epoca di decadenza. Incapaci di svolgere una vera e propria critica dei considerevoli errori compiuti nel ’43 – la costituzione di un ‘partito’ in un solo paese in un periodo di profonda contro-rivoluzione, i damenisti sbagliarono ulteriormente nel teorizzare il partito come una necessità permanente e persino come una realtà permanente. Inoltre, nonostante si restringessero rapidamente in un ‘mini-partito’, fu conservato l’entusiasmo iniziale del gruppo del ’43-’45 nell’incrementare la presenza nella classe operaia e fornire una guida risoluta nella sua lotta, al costo di ciò che di cui realmente si aveva bisogno: una chiarificazione teorica sulle necessità e le possibilità del periodo.
La corrente opposta vicina a figure come Bordiga e Maffi, fu, in generale, molto più confusa sulle più importanti posizioni di classe. Bordiga più o meno ignorò le acquisizioni della Frazione e difese il ritorno alle posizioni del primo dei due congressi della Terza Internazionale, che per lui erano basate sulla ‘restaurazione’ del programma comunista da parte Lenin. Un forte sospetto di ‘innovazioni’ opportunistiche al marxismo (che, a dir la verità, erano cominciate a fiorire sul terreno della contro-rivoluzione), lo portarono al concetto di ‘invarianza’ del programma fissato nel 1848 e che bisognava dissotterrare dal momento che veniva periodicamente seppellito dagli opportunisti e dai traditori[10]. Come spesso abbiamo indicato, la nozione di invarianza è basata su una geometria altamente ‘variabile’, così che, per esempio, Bordiga e i suoi sostenitori potevano sia affermare che il capitalismo fosse entrato nella sua epoca di guerre e rivoluzioni (una posizione fondamentale della Terza Internazionale), sia polemizzare allo stesso tempo contro la nozione di decadenza in quanto fondata su un’ideologia “gradualista e pacifista”[11].
La questione della decadenza ebbe importanti ripercussioni quando si passò ad analizzare la natura della rivoluzione russa (definita come una rivoluzione duale, non diversamente dalla visione consiliarista), e in particolare quando si passò a caratterizzare la lotta per l’indipendenza nazionale che stava sorgendo nelle colonie di più vecchia data. Mao, invece di essere visto per ciò che era, ossia un’espressione della contro-rivoluzione stalinista e un vero e proprio prodotto della decadenza del capitalismo, fu salutato come un grande rivoluzionario borghese sulla scia di Cromwell. Successivamente, i bordighisti se ne uscirono con il medesima apprezzamento per i Khmer Rossi in Cambogia, e questa profonda incomprensione della questione nazionale dovette causare il caos nel partito bordighista alla fine degli anni ’70, con un considerevole elemento di abbandono dell’internazionalismo tout court.
Sulla questione del partito, sugli errori dei bolscevichi nella gestione dello Stato sovietico, fu come se la Frazione non fosse mai esistita. Il partito prende il potere, regge la macchina dello stato, impone il Terrore Rosso senza pietà…sembrò che erano stati dimenticati persino gli importanti avvertimenti di Lenin sulla necessità della classe dei lavoratori di fare attenzione alla burocratizzazione e all’autonomizzazione dello Stato di transizione. Come sosteniamo in un precedente articolo di questa serie[12], il più importante contributo di Bordiga sugli insegnamenti della rivoluzione russa nel periodo successivo alla Seconda Guerra Mondiale, ‘Forza, violenza e dittatura nella lotta di classe’ (1946), contiene certamente qualche intuizione sul problema della degenerazione, ma il suo anti-democraticismo piuttosto dogmatico non gli permette di riconoscere il problema del partito e dello Stato che si sostituiscono al proletariato (si veda l’ultima nota).
Comunque: sebbene la corrente di Bordiga non mise mai apertamente in discussione la formazione del partito nel 1943, fu capace di comprendere che l’organizzazione era entrata in un periodo molto più difficile e che compiti differenti erano all’ordine del giorno. In primo luogo, Bordiga era stato scettico circa la formazione del partito. Senza mostrare la minima conoscenza del concetto di frazione – infatti, abbandonò la sua stessa esperienza di lavoro nella frazione precedente alla Prima Guerra Mondiale con la sua successiva teoria sul partito storico e formale[13], ci fu una certa comprensione che mantenere semplicemente un intervento routinario nella lotta immediata non era la strada da seguire e che era fondamentale ritornare ai fondamenti teorici del marxismo. Per quanto concerne le posizioni programmatiche principali, avendo rifiutato il contributo della Frazione e di altre espressioni della sinistra comunista, il lavoro non fu completato, o finanche tentato. Ma quando si passò a certe questioni teoriche più generali, e in particolare a quelle riguardanti la natura della futura società comunista, ci sembra che in questo periodo fu Bordiga piuttosto che i ‘damenisti’ a lasciarci l’eredità più importante.
Bordiga et la passion du communisme, una raccolta di scritti a cura di Jacques Camatte del 1972, è la migliore testimonianza della profondità della riflessione di Bordiga sul comunismo, in particolari le due maggiori relazioni presentate all’assemblea di partito nel 1959-60 dedicate ai Manoscritti economico-filosofici: ‘Commentarii dei Manoscritti del 1844’ (1959-60) e ‘Tavole immutabili della teoria comunista di partito’ (le pagine indicate appartengono al primo dei testi indicati, prese dalla edizione italiana: A. Bordiga, Testi sul comunismo, La Vecchia Talpa, Napoli 1972).
Bordiga posiziona così i Manoscritti del ’44 nel corpo degli scritti di Marx:
“Un altro volgarissimo luogo comune è che Marx nei suoi scritti giovanili fosse hegeliano, e solo dopo sia stato materialista storico; e magari più vecchio un volgare opportunista! Compito della scuola marxista rivoluzionaria è di rendere palese a tutti i nemici (che hanno la scelta di tutto prendere o tutto rigettare) il monolitismo di tutto il sistema dal suo nascere alla morte di Marx e anche oltre (concetto base della ‘invarianza’, - rifiuto base dell’evoluzione ‘arricchitrici’ della dottrina del partito)” (p. 116).
In appena un paragrafo, abbiamo sia i punti di forza sia i punti deboli dell’approccio di Bordiga.
Da una parte, la difesa intransigente della continuità del pensiero di Marx e il rigetto dell'idea che i Manoscritti del ’44 siano il prodotto di un Marx che era essenzialmente idealista e hegeliano (o almeno feuerbachiano), una nozione che è stata associata in particolare all’intellettuale stalinista Althusser e che è già stata criticata nei precedenti articoli di questa serie[14].
Per Bordiga, i Manoscritti del ’44, con la loro accurata esposizione dell’alienazione capitalistica e la loro ispirata descrizione della società comunista che verrà, indicano già che Marx aveva compiuto una rottura qualitativa con le più avanzate forme di pensiero borghese. In particolare, i Manoscritti del ’44, che contengono un’ampia sezione dedicata alla critica della filosofia hegeliana, dimostrano che qualunque cosa Marx avesse acquisito da Hegel in materia di dialettica, la sua rottura con Hegel – che significò capovolgerlo, ‘metterlo a testa in giù’ – e l’adozione di una visione del mondo comunista, si affermano esattamente nello stesso momento. Bordiga accentua in particolare il rifiuto di Marx del vero e proprio punto di partenza del sistema hegeliano: l’Io. “Quello che è chiaro è che per Marx l’errore di Hegel consiste nel poggiare tutto il suo colossale edificio speculativo, col suo rigoroso formalismo, su su di una base astratta, quale la ‘coscienza’. Come Marx dirà tante volte, è dall’essere che bisogna partire, e non dalla coscienza che l'io ha di se stesso. Hegel è chiuso alle sue prime mosse nell'eterno vano dialogo tra il soggetto e l'oggetto. Il suo soggetto è l’Io inteso in senso assoluto…” (p. 115).
Allo stesso tempo, è evidente che per Bordiga i Manoscritti del ‘44 forniscono la prova per la sua teoria dell’invarianza del marxismo, un’idea che pensiamo essere contraddetta dagli sviluppi reali del programma comunista che abbiamo descritto lungo tutta questa serie. Ma torneremo in seguito sulla questione. Ciò che condividiamo della lettura di Bordiga dei Manoscritti del ’44 è soprattutto la centralità del concetto marxiano di alienazione, non solo nei Manoscritti, ma nella sua intera opera; una serie di fondamentali elementi nella concezione di Bordiga della dialettica della storia; e la messa in risalto della visione del comunismo che, di nuovo, Marx mai ripudiò nei successivi lavori (sebbene, dal nostro punto di vista, l’arricchì).
I riferimenti di Bordiga al concetto di alienazione nei Manoscritti del ’44, rendono conto della sua generale visione della storia, a partire dalla sua affermazione che “il massimo di alienazione dell'uomo si raggiunge nel presente tempo capitalista” (p. 119). Senza abbandonare l’idea che l’emergere e lo sviluppo del capitalismo e la distruzione del vecchio modo di sfruttamento feudale siano la precondizione per la rivoluzione comunista, egli disdegna il superficiale progressismo della borghesia, la quale vanta la sua superiorità sui precedenti modi di produzione e di vita. Bordiga argomenta che il pensiero borghese è in un certo senso vuoto a paragone con le tanto derise visioni pre-capitalistiche. Per lui, il marxismo ha dimostrato che “quei vostri richiami sono vuote ed inconsistenti menzogne, a titolo più chiaro di quello che lo siano ancora più antiche opinioni dell'umano opinare che voi borghesi credete di aver sommerso per sempre sotto la fatuità della vostra retorica illuministica” (p. 159). Di conseguenza, anche se sia la borghesia, sia il proletariato formulano una loro critica della religione, c’è di nuovo una frattura tra i punti di vista delle due classi: “anche nei casi (non generale) in cui gli ideologi della moderna borghesia hanno osato rompere apertamente con i principi della Chiesa cristiana, noi marxisti non definiamo questa sovrastruttura di ateismo, come una piattaforma comune alla borghesia e al proletariato” (p. 113).
Con affermazioni del genere, Bordiga sembra legare il suo pensiero ad alcune delle critiche ‘filosofiche’ al marxismo della Seconda Internazionale (e, per esteso, della filosofia ufficiale della Terza), come quelle di Pannekoek, di Lukacs e di Korsch, i quali rifiutarono l’idea secondo cui, dato che il socialismo è il passo logicamente successivo nello sviluppo storico e richiede solo il ‘superamento’ dell’economia e dello Stato capitalista, allora il materialismo storico è semplicemente il passo successivo nello sviluppo del materialismo classico borghese. Queste prospettive sono basate su una radicale sottovalutazione dell’antagonismo tra le visioni del mondo della borghesia e del proletariato, dell’inevitabile necessità di una rottura rivoluzionaria con le vecchie forme. C’è una continuità, naturalmente, ma è tutt’altro che graduale e pacifica. Questo modo di approcciare il problema è del tutto coerente con l’idea che la borghesia può vedere il mondo naturale e sociale solo attraverso la lente distorta dell’alienazione, che sotto il suo dominio ha raggiunto la sua fase ‘suprema’.
Lo slogan ‘contro l’immediatezza’ caratterizza più di una volta i sottotitoli di questi contributi. Per Bordiga era fondamentale evitare qualsiasi restrizione dell’indagine all’attuale momento storico e guardare oltre il capitalismo, sia prima che dopo. Nell’epoca contemporanea, il pensiero borghese è forse più immediatista che mai, più che mai concentrato sul particolare, sul qui e ora, sul breve periodo, dal momento che vive nella paura mortale che il guardare l’attuale società con la lente della storia ci permetterebbe di comprenderne la natura transitoria. Ma Bordiga sviluppa anche una polemica contro le ‘grandi narrazioni’ classiche della borghesia nella sua epoca più ottimista: non perché grandi, ma perché le narrazioni della borghesia deformano la storia reale. Proprio come la transizione dal pensiero borghese a quello proletario non è semplicemente un altro passo in avanti, così la storia in generale non è un progresso lineare dall’oscurità alla luce, ma è espressione della dialettica in movimento: “Il progresso dell’umanità e del sapere del travagliato homo sapiens non è continuo, ma avviene per grandi isolati slanci tra i quali si inseriscono sinistre ed oscure cadute in forme sociali degeneranti fino alla putrefazione” (p. 160). Questa non è un’affermazione casuale: altrove, nello stesso testo, afferma: “la concezione banale dell’ideologia dominante vede questo cammino (della storia umana) come una continua e costante ascesa; il marxismo non condivide questa visione, e definisce una serie di oscillazioni tra crescite e declini, interconnesse da violente crisi”. Una chiara risposta, uno potrebbe pensare, a coloro che rifiutano il concetto dell’ascesa e del declino di susseguentesi modi di produzione…
La lettura dialettica della storia vede il movimento come risultante dallo scontro – spesso violento – di contraddizioni. Ma contiene anche la nozione della spirale e del ‘ritorno a un livello più alto’. Così il comunismo del futuro è, in senso forte, un ritorno dell’uomo a se stesso, come Marx lo definisce nei Manoscritti del ’44, dato che non è solo una rottura con il passato, ma una sintesi di qualunque cosa l’umanità sia stata finora: “l’uomo ritorna a se stesso, in se stesso, ma non come era partito alla origine della sua lunga storia, bensì disponendo finalmente di tutte le perfezioni di uno sviluppo immenso, sia pure acquisite nella forma di tutte le successive tecniche, costumi, ideologie, religioni, filosofie, i cui lati utili erano – se ci è lecito così esprimerci – captati nella zona di alienazione” (p. 120)
Un esempio più concreto su questo lo troviamo in un breve articolo sugli abitanti dell’isola di Janitzio in Messico[15], scritto nel 1961 e incluso nella raccolta di Camatte. Qui Bordiga sviluppa l’idea che “nel comunismo naturale e primitivo” l’individuo, legato ancora ai suoi simili in una reale comunità, non prova la stessa paura della morte che emerse con l’atomizzazione sociale generata dalla proprietà privata e dalla società di classe; e questa cosa ci fornisce l’indicazione che nel comunismo del futuro, dove il destino dell’individuo sarà connesso a quello della specie, la paura della morte personale e “ogni culto della vita e della morte” verranno superati. Bordiga conferma in questo modo la sua continuità col filone centrale della tradizione marxista che afferma che in un certo senso “i membri delle società primitive erano più vicini all’essenza umana” – che il comunismo del lontano passato può anche essere compreso come una pre-figurazione del comunismo del futuro[16].
La difesa di Bordiga dei Manoscritti del ’44 è, su un piano generale, una lunga diatriba contro l’inganno del ‘socialismo reale’ nei paesi del blocco dell’Est, che avevano acquisito una nuova linfa vitale sulla scia della ‘guerra antifascista’ del 1939-45. Il suo attacco era strutturato su due livelli: negazione e affermazione. Negazione delle pretese che ciò che esisteva in URSS e in regimi simili avesse qualcosa a che fare con la concezione di Marx del comunismo, prima di tutto a livello economico; affermazione delle caratteristiche fondamentali dei rapporti di produzione comunisti.
Una barzelletta comune nella vecchia URSS racconta di un istruttore che sta facendo lezione nella scuola del partito ai giovani membri dei Comsomol sulla questione chiave ‘ci sarà il denaro nel comunismo?':
“storicamente, compagni, ci sono tre posizioni su questo problema. C’è l’ala destra, la deviazione proudhonista-bukhariniana : nel comunismo, ognuno avrà denaro. Poi c’è la deviazione infantile dell’ultra-sinistra: nel comunismo, nessuno avrà denaro. Qual è la posizione dialettica del marxismo-leninismo? È ovviamente questa: nel comunismo, alcune persone avranno denaro, e altre no”.
A prescindere se Bordiga conoscesse o meno questa barzelletta, la sua risposta allo stalinismo nei suoi Commentarii procede in una direzione simile. Una prefazione a una delle edizioni staliniste dei Manoscritti del ’44 indica che il testo di Marx contiene una polemica contro la teoria dell’eguaglianza dei salari di Proudhon, implicando che, in linea con l’autentico marxismo praticato nell’URSS, sotto il socialismo doveva esserci la diseguaglianza dei salari. Ma, nella successiva sezione intitolata ‘Aut salariato, aut socialismo’, Bordiga indica che nei Manoscritti del ’44, così come in altre opere come Miseria della filosofia e Il capitale, Marx radicalmente “[rifiuta] la vacuità proudhoniana che concepisce un socialismo che conserva i salari, come li conserva la Russia. Marx non batte la teoria dell’eguaglianza, ma la teoria del salario. Salario è non-socialismo, anche se si potesse livellarlo. Ma non livellato, non egualitario, è un non-socialismo a (cento volte) più forte ragione” (p. 124).
Il paragrafo successivo è intitolato ‘Aut denaro, aut socialismo’. Come il lavoro salariato persiste in URSS, così deve persistere il suo corollario: il dominio dei rapporti umani da parte del valore di scambio e quindi del denaro. Recuperando la dura critica del denaro come espressione dell’alienazione degli esseri umani che Marx, citando Shakespeare e Goethe, sviluppò nei Manoscritti del ’44 e ripeté nel Capitale, Bordiga insisteva che “le società dunque in cui il denaro circola sono società in cui domina l'alienazione del lavoro e dell'uomo; società di proprietà privata, restano nella preistoria barbara dell’umana specie” (p. 131).
Bordiga dimostra, infatti, che gli stalinisti hanno in comune col padre dell’anarchismo più di quanto a loro piaccia ammettere. Proudhon, in linea con la tradizione del ‘comunismo rozzo’ che già Marx riconosce come reazionaria al punto che lui stesso sposò il comunismo, prevede una società nella quale “il prodotto annuale è diviso socialmente in parti eguali tra tutti i membri della società, che sono diventati tutti dei lavoratori salariati”. In altre parole, questa nozione di comunismo o socialismo era quella in cui la miseria delle condizioni del proletariato veniva generalizzata piuttosto che abolita, e in cui la ‘società’ stessa diventa il capitalista. A coloro che – non solo gli stalinisti, ma anche i loro apologeti di sinistra, i trotskysti – negavano che l’URSS potesse essere una forma di capitalismo perché si era (più o meno) sbarazzata degli individui possessori di capitale, Bordiga replica: “La questione dove siano i capitalisti non ha senso. La risposta c’è stata fin dal 1844: la società è un capitalista astratto”.
Il destinatario polemico di questi saggi non sono solo gli espliciti difensori dell’URSS. Se il comunismo abolisce il valore di scambio, è perché ha abolito tutte le forme di proprietà[17] – non solo la proprietà statale come nel programma dello stalinismo, ma anche la versione classica dell’anarco-sindacalismo (che Bordiga attribuisce anche al contemporaneo gruppo Socialisme ou Barbarie con la sua definizione del socialismo come gestione della produzione da parte dei lavoratori): “la terra ai contadini e le fabbriche agli operai e simili vili parodie della grandiosità del programma del partito comunista rivoluzionario” (p. 170). Nel comunismo l’impresa individuale deve essere abolita come tale. Se continua ad esistere la proprietà di coloro che vi lavorano, o persino della comunità locale, essa non è stata realmente socializzata, e le relazioni tra le diverse imprese auto-gestite devono necessariamente essere fondate sullo scambio di merci. Ritorneremo su questo problema quando ci concentreremo sulla visione del socialismo sviluppata da Castoriadis e dal gruppo Socialismo o Barbarie.
Come Trotsky – che nel 1924 era improbabile potesse essere a conoscenza dei Manoscritti del ’44 – nel visionario passaggio conclusivo di Letteratura e Rivoluzione[18],così Bordiga in seguito passa dall’ambito della negazione del capitalismo e della sua alienazione, dall’insistere su ciò che il socialismo non è, all’affermazione positiva di ciò che l’umanità sarà nei superiori stadi della società comunista. I Manoscritti del ’44, come abbiamo indicato in un precedente articolo di questa serie[19], sono pieni di passaggi che descrivono in che modo saranno trasformate sotto il comunismo le relazioni tra gli uomini e tra l’umanità e la natura, e Bordiga nei suoi due testi ne cita in maniera estesa i passaggi più significativi, soprattutto lì dove trattano della trasformazione delle relazioni tra gli uomini e le donne e dove insistono sul fatto che la società comunista permetterà l’emergere di un grado più elevato di coscienza.
Per tutti i Manoscritti del ’44 Marx ripudia il ‘comunismo rozzo’ che, mentre attacca la famiglia borghese, considera ancora la donna come un oggetto e specula sulla prossima ‘comunione delle donne’. Al contrario, Bordiga cita Marx: il livello in cui le relazioni tra maschio e femmina sono state umanizzate è una misura del reale progresso della specie. Ma, allo stesso tempo, sotto il capitalismo, la donna e le relazioni tra i sessi rimarranno prigioniere del rapporto di scambio.
Dopo aver ripreso il pensiero di Marx su queste tematiche, Bordiga fa una digressione sul problema della terminologia, del linguaggio.
“Nel citare questi passi, è necessario adoperare a volte la parola uomo a volta la parola maschio, in quanto la prima espressione indica tutti i membri della specie… Quando mezzo secolo fa si fece una inchiesta sul femminismo, misera deviazione piccolo borghese dell'atroce sottomissione della donna nelle società proprietarie, il valido marxista Filippo Turati rispose con queste solo parole: donna…è uomo. Voleva dire: lo sarà nel comunismo, ma per la vostra società borghese è un animale, o un oggetto” (pag.143).
Femminismo una deviazione borghese? Questa è una posizione radicalmente rifiutata da coloro che affermano che possono esistere un ‘femminismo socialista’ o un ‘anarco-femminismo’. Ma, dal punto di vista di Bordiga, il femminismo ha un punto di partenza borghese dal momento che mira all’‘eguaglianza’ dei sessi entro i rapporti sociali esistenti; e questo porta logicamente alla pretesa che le donne dovrebbero potere ‘egualmente’ combattere negli eserciti imperialisti o diventare direttori di aziende e primi ministri.
Il comunismo non aveva bisogno dell’aggiunta del femminismo o anche di un ‘femminismo socialista’, dato che è sempre stato, fin dall’inizio, difensore della solidarietà tra uomini e donne nel qui ed ora, ma tutto questo può essere realizzato solo nella lotta di classe, nella lotta contro l’oppressione e lo sfruttamento capitalista e per la creazione di una società in cui la ‘forma originaria dello sfruttamento’ – cioè della donna da parte dell’uomo – non sarà più possibile. Inoltre, il marxismo ha anche riconosciuto che la donna – a causa della sua doppia oppressione e del suo senso morale più avanzato (legato in particolare al suo ruolo storico nella crescita dei bambini) – è spesso l’avanguardia della lotta, per esempio nella rivoluzione del 1917 in Russia che cominciò con le manifestazione delle donne contro la carenza di pane, o più recentemente nelle lotte di massa in Egitto nel 2007. Infatti, secondo la scuola di antropologia di Cris Knight, Camilla Power e altri, che si identifica nella tradizione antropologica marxista, la moralità e la solidarietà femminile giocarono un ruolo cruciale nell’affermazione di una cultura umana nella prima “rivoluzione umana”[20]. Bordiga concorda con quest’opinione nella sezione dei Commentarii intitolata ‘Amore, bisogno di tutti’, dove argomenta che la funzione passiva assegnata alla donna è meramente un prodotto dei rapporti di proprietà e che, infatti, “in effetti, secondo natura, la donna, essendo l’amore il fondamento della riproduzione della specie, è il sesso attivo, e le forme monetarie tratte con questo vaglio si rivelano contro-natura” (p. 148). E continua con un riassunto di come l’abolizione del rapporto di scambio trasformerà questa relazione: “Nel comunismo non monetario come bisogno l’amore avrà lo stesso peso e senso nei due sessi, e l’atto che lo consacra realizzerà la formula sociale che il bisogno dell’altro uomo è il mio bisogno di uomo, in quanto il bisogno di un sesso si attua come bisogno dell’altro sesso”.
Bordiga poi spiega che questa trasformazione sarà basata sul cambiamento materiale e sociale introdotto dalla rivoluzione comunista: “Questo non è ponibile come solo rapporto morale fondato su un certo modo del rapporto fisico, perché il valico sta nel fatto economico: i figli e il loro onere non riguardano i due genitori che si congiungono, ma la stessa comunità”. È a partire da questo punto che l’umanità futura potrà rompere le limitazioni imposte dalla famiglia borghese.
In un precedente articolo di questa serie[21], affermavamo che certi passaggi dei Manoscritti del ’44 avevano senso solo se li prendiamo come anticipazioni di una trasformazione della coscienza, di un nuovo modo di essere, che i rapporti sociali comunisti renderanno possibile. L’articolo considera abbastanza a lungo il passo tratto da ‘Proprietà privata e comunismo’ dove Marx parla del modo in cui la proprietà privata (compresa nel suo senso più generale) è servita a restringere la sensibilità umana, a ostruire – o, per usare un termine più preciso della psicoanalisi, reprimere – l’esperienza sensibile dell’uomo; di conseguenza, il comunismo porterà l’‘emancipazione dei sensi’, un nuovo rapporto mentale e corporeo col mondo che può essere paragonato allo stato di ‘ispirazione’ provato dagli artisti nei loro momenti maggiormente creativi.
Verso la fine del testo di Bordiga ‘Tavole immutabili della teoria comunista di partito’, c’è una sezione intitolata ‘Giù la personalità: ecco la chiave’. Riprenderemo la questione della ‘personalità’ più avanti, ma vogliamo innanzitutto soffermarci sul modo in cui Bordiga, nella sua interpretazione dei Manoscritti del ’44, immagina la trasformazione della coscienza umana nel futuro comunista.
Egli comincia affermando che nel comunismo sarà possibile “la uscita dal millenario inganno dell’individuo solo di faccia al mondo naturale, stupidamente detto dai filosofi esterno. Esterno a che? Esterno all’‘Io’, questo supremo deficiente; ma esterno alla specie umana non è più lecito dire, perché l'Uomo specie è interno alla natura stessa, è parte del mondo fisico”. E prosegue dicendo “in questo testo possente l’oggetto e il soggetto divengono, come l'uomo e la natura, una cosa stessa. Anzi tutto è natura, tutto è oggetto; l’uomo soggetto, l‘uomo ' contro natura’ sparisce, con l’illusione dell’io singolo” (p. 181).
Questo può essere solo un riferimento a un passo del capitolo ‘Proprietà privata e comunismo’ in cui Marx afferma:
“solo quando ovunque, nella società, la realtà oggettiva diventa per l’uomo realtà delle forze essenziali dell’uomo, essa diventa umana realtà, e perciò realtà delle sue proprie forze essenziali, tutti gli oggetti diventano per lui l’oggettivazione di lui stesso, oggetti che affermano e realizzano la sua individualità, oggetti suoi, cioè lui stesso diventa oggetto” (Manoscritti, Editori Riuniti, Roma, 1974, p. 240)
Continua Bordiga:
“Abbiamo visto che quando da singolo diventa di specie, lo spirito, povero assoluto, si va a dissolvere nella natura oggettiva. Ai cervelli singoli, misere macchinette passive, abbiamo sostituito il cervello sociale. Di più, Marx ha superato i sensi corporali singoli, nel senso umano, collettivo”. E prosegue citando i Manoscritti del ’44 sull’emancipazione dei sensi, insistendo che anche questo indica l’emergere di un tipo di coscienza collettiva – ciò che potremmo definire il passaggio dal “senso comune” dell’ego isolato al comunismo dei sensi.
Cosa ce ne facciamo di queste concezioni? Prima di abbandonarle come fantascienza, dovremmo ricordare che, soprattutto nella società borghese, mentre prendiamo l’ego come se fosse il centro assoluto del nostro essere (‘Io penso, dunque io sono’), c’è anche una lunga tradizione di pensiero che insiste che l’ego sia solo una realtà relativa, al massimo una particolare frazione del nostro essere. Quest’idea è sicuramente centrale nella teoria psicoanalitica, per la quale l’ego adulto emerge solo attraverso un lungo processo di repressione e divisione tra coscio e inconscio – ed è, inoltre, l’‘unica sede dell’angoscia’[22] perché, preso com’è tra le pretese della realtà esterna e gli impulsi insoddisfatti rimossi nell’inconscio, è costantemente preoccupato del suo stesso superamento o estinzione.
È anche un’idea che è stata portata avanti in molte delle tradizioni mistiche occidentali e orientali, sebbene probabilmente fu sviluppata più coerentemente dalla filosofia indiana, soprattutto dal Buddhismo con la sua dottrina dell’‘anātman’ – l’inesistenza di un io separato e permanente. Ma tutte queste tradizioni tendono a concordare sul fatto che è possibile, attraverso una penetrazione diretta negli stati inconsci, superare la coscienza dell’io quotidiano – e perciò il tormento di un’angoscia permanente. Spogliate di ogni distorsione ideologica che inevitabilmente le accompagna, le lucidissime intuizioni di queste tradizioni accrescono fortemente la possibilità che gli esseri umani siano capaci di attingere ad un altro tipo di coscienza, nel quale la parola noi non è più vista come un’alterità nemica e il centro della consapevolezza passa, non solo intellettualmente ma attraverso un’esperienza corporea diretta, dall’atomo isolato al punto di vista della specie – addirittura al punto di vista di qualcosa in più della specie: della natura, di un universo in evoluzione che diventa conscio di se stesso.
È difficile leggere i precedenti passi di Bordiga e concludere che stia parlando di qualcosa totalmente diverso. Ed è importante notare che Freud, nel capitolo di apertura de Il disagio nella civiltà, ammetteva l’esistenza di un “sentimento oceanico”, l’esperienza di un’unità erotica col mondo, sebbene poteva solo considerarla una regressione a uno stadio infantile precedente l’emergere dell’io. Tuttavia, nello stesso capitolo, accetta anche la possibilità che le tecniche mentali dello yoga possano aprire la porta a “stati primordiali della mente che sono stati a lungo nascosti”. Per noi, la questione da sviluppare teoricamente – e forse per le generazioni future da investigare più praticamente – è se le antiche tecniche di meditazione possano portare solo ad una regressione, ad una caduta all’unità indifferenziata dell’animale o del neonato, o se possono essere momenti di un dialettico ‘diventare coscienti’, un’esplorazione auto-cosciente delle nostre stesse menti. In questo caso, le istanze di un ‘sentimento oceanico’ puntano non solo al passato infantile, ma verso l’orizzonte di una coscienza umana più avanzata e più universale. Questa fu certamente la via adottata da Erich Fromm nel suo studio Psicoanalisi e Buddhismo Zen, ad esempio quando scrive su ciò che chiama lo “stato di non-repressività”, definito come “uno stato in cui una persona acquisisce di nuovo l’immediato, non distorto senso di realtà, la semplicità e la spontaneità del bambino; inoltre, dopo aver attraversato il processo di alienazione, di sviluppo della propria intelligenza, la non-repressività è il ritorno all’innocenza a un livello superiore; questo ritorno all’innocenza è possibile solo dopo che uno ha perduto la propria innocenza”[23].
Ma gli scritti teorici di Bordiga di questo periodo non posero la questione della relazione tra uomo e natura solo a un livello filosofico. Egli la sollevò anche nelle sue lungimiranti riflessioni sulla questione delle catastrofi capitalistiche e sul problema dell’ambiente. Scrivendo sui disastri a lui contemporanei come l’alluvione nella valle del Po nel 1957 e l’affondamento del transatlantico Andrea Doria nell’anno precedente, Bordiga mette di nuovo in campo la sua conoscenza specialistica come ingegnere e soprattutto il suo profondo rifiuto del ‘progresso’ borghese per mostrare come la tendenza di questo all’accumulazione contiene i germi di tali catastrofi e, in ultima istanza, della distruzione della natura stessa[24]. Bordiga è particolarmente veemente nei suoi articoli circa la frenesia dell’urbanizzazione che poteva già individuare nel periodo di ricostruzione post-bellica, denunciando l’ammassarsi degli uomini in spazi urbani sempre più limitati e la conseguente filosofia del ‘verticalismo’ nella costruzione. Egli argomenta che questa riduzione degli esseri umani al livello di formiche è un prodotto diretto dei bisogni di accumulazione che saranno rovesciati nel futuro comunista, riaffermando la pretesa di Marx ed Engels di superare la divisione tra città e campagna:
“Quando sarà possibile, dopo aver schiacciata con la forza tale dittatura ogni giorno più oscena, subordinare ogni soluzione e ogni piano al miglioramento delle condizioni del vivente lavoro, foggiando a tale scopo quello che il lavoro morto, il capitale costante, l’ arredamento che la specie uomo ha dato nei secoli e seguita a dare alla crosta della terra, allora il verticalismo bruto dei mostri di cemento sarà deriso e soppresso, e per le orizzontali distese immense di spazio, sfollate le città gigantesche, la forza e l’intelligenza dell’animale uomo progressivamente tenderanno a rendere uniforme sulle terre abitabili la densità della vita e la densità del lavoro, rese ormai forze concordi e non, come nella deforme civiltà odierna, fieramente nemiche, e tenute solo insieme dallo spettro della servitù e della fame” (‘Spazio contro il cemento’ in Drammi gialli e sinistri della moderna decadenza sociale, Ed. Iskra, p.123). È importante anche notare che quando Bordiga, nel 1952, formulò una specie di “programma rivoluzionario immediato”, incluse l’istanza di arrestare ciò che aveva già considerato come la congestione e il ritmo di vita disumani portati dall’urbanizzazione capitalistica (un processo che da allora ha raggiunto livelli molto più elevati di irrazionalità). Così il settimo dei nove punti richiede “l’arresto della costruzione di case e luoghi di lavoro nelle grandi città e anche nelle più piccole, come punto di partenza per la distribuzione uniforme della popolazione nella campagna. La riduzione della velocità e del volume del traffico e il suo divieto quando è inutile” (in un prossimo articolo intendiamo tornare di nuovo agli altri punti di questo “programma”, perché contengono diverse formulazioni che, dal nostro punto di vista, possono essere fortemente criticate).
È interessante notare che, quando si passa alla dimostrazione del perché tutto questo cosiddetto progresso delle città capitalistiche non è niente del genere, Bordiga fa ricorso a quel concetto di decadenza che tende ad escludere in altre polemiche – per esempio nel titolo ‘Le strane e meravigliose storie della decadenza della società moderna’[25]. D'altra parte, tale termine è del tutto in linea con la visione generale della storia che abbiamo considerato sopra, dove le società possono “degenerare fino alla putrefazione” e attraversano fasi di crescita e declino. È come se Bordiga, una volta uscito fuori dal mondo ‘ristretto’ delle polemiche politiche e obbligato a ritornare ai fondamenti della teoria marxista, non potesse che riconoscere che il capitalismo, come tutti i precedenti modi di produzione, deve entrare anch’esso in un epoca di declino – e che quest’epoca è da tempo su di noi, a dispetto dei prodigi della ‘crescita nel declino’ del capitalismo che stanno soffocando l’umanità e minacciando il suo futuro.
Dobbiamo ora tornare all’idea di Bordiga che i Manoscritti del ’44 provano la sua teoria dell’“invarianza del marxismo”. In diverse occasioni abbiamo affermato che questa è una concezione religiosa. In una sferzante polemica col gruppo bordighista che pubblica Programma Comunista, Mark Chirik notò la stretta somiglianza tra il concetto bordighista di invarianza e l’atteggiamento musulmano di sottomissione a una dottrina immutabile[26].
Il destinatario di quest’articolo erano, è vero, soprattutto gli epigoni di Bordiga, ma cosa disse lo stesso Bordiga sulla relazione tra il marxismo e le fonti delle dottrina invarianti del passato? In un testo seminariale intitolato precisamente ‘L’invarianza storica del marxismo’[27], egli scrive:
“Per quanto dunque la dotazione ideologica della classe operaia rivoluzionaria non sia più rivelazione, mito, idealismo, come per le classi precedenti, ma positiva "scienza", essa tuttavia ha bisogno di una formulazione stabile dei suoi principii e anche delle sue regole di azione, che assolva il compito e abbia la decisiva efficacia che nel passato hanno avuto dogmi, catechismi, tavole, costituzioni, libri-guida come i Veda, il Talmud, la Bibbia, il Corano, o le Dichiarazioni dei diritti. I profondi errori sostanziali e formali contenuti in quelle raccolte non hanno tolto, anzi in molti casi hanno contribuito proprio per tali "scarti", alla enorme loro forza organizzativa e sociale, prima rivoluzionaria, poi controrivoluzionaria, in dialettica successione.
Nei suoi Commentarii, Bordiga era già conscio dell’accusa che tali idee lo riconducevano ad una visione religiosa del mondo:
“Quando, a un certo punto, il nostro banale contraddittore (…) ci dirà che noi costruiremo così una nostra mistica ,atteggiandosi lui, poverello, a mente che ha superato tutti i fideismi e le mistiche e ci deriderà coi termini di prostrati a tavole Mosaiche o talmudiche, di biblici o coranici, di evangelici e catechisti, gli risponderemo (…) che non abbiamo motivo di trattare come un’offesa l’affermazione che ancora al nostro movimento, fin quando non ha trionfato nella realtà (che nel nostro metodo precede ogni ulteriore conquista della coscienza umana) , può essere adeguata una mistica o, se si vuole, un mito.
Il mito, nelle sue innumerevoli forme, non fu un vaneggiare di menti che avevano occhi fisici chiusi alla realtà (…) ma è una tappa insostituibile della sola via di conquista reale della consapevolezza” (p. 160).
Bordiga ha ragione a considerare che il pensiero mitico fu davvero un “passaggio insostituibile” nell’evoluzione della coscienza umana, e che la Bibbia, il Corano o la Dichiarazione dei diritti dell’uomo furono, a un certo punto della storia, prodotti veramente rivoluzionari. Ha ragione anche a riconoscere che l’adesione a queste “tavole della legge” divenne, a un certo punto della storia, contro-rivoluzionaria. Ma il meccanismo attraverso il quale esse divennero contro-rivoluzionarie in circostanze storiche nuove, fu precisamente l’idea che fossero insostituibili e invariabili. L’Islam, ad esempio, considera la sua rivelazione più pura della Torah ebraica perché si afferma che mentre la seconda fu soggetta a revisioni ed edizioni successive, nemmeno una parola del Corano è stata alterata dal momento in cui l’arcangelo Gabriele lo dettò a Maometto. La differenza tra l’idea marxista del programma comunista e il mito o il dogma religioso è che il marxismo considera i suoi concetti non come una rivelazione ultima di origine sovraumana, bensì come il prodotto storico degli esseri umani e quindi li conferma o li rifiuta attraverso il successivo sviluppo storico o l’esperienza. Infatti, insiste che le rivelazioni mitiche o religiose sono esse stesse i prodotti della storia umana, e perciò limitate nei loro scopi e nella loro chiarezza persino nei loro massimi gradi di realizzazione. Accettando l’idea che il marxismo stesso è una sorta di mito, Bordiga perde di vista quel metodo storico che altrove è capace di usare così bene.
Ovviamente è vero che il programma comunista non è malleabile all’infinito e ha un nocciolo invariabile di principi generali, come la lotta di classe, la natura passeggera della società divisa in classi, la necessità della dittatura del proletariato e del comunismo. Inoltre, c’è un senso in cui queste linee guida generali possono sembrare un improvviso lampo di ispirazione. Da qui Bordiga può scrivere:
“Una nuova dottrina non può apparire in qualunque momento storico, ma vi sono date e ben caratteristiche - e anche rarissime - epoche della storia in cui essa può apparire come un fascio di abbagliante luce, e se non si è ravvisato il momento cruciale ed affisata la terribile luce, vano è ricorrere ai moccoletti, con cui si apre la via il pedante accademico o il lottatore di scarsa fede.” (‘L’invarianza storica del marxismo’)
È molto probabile che Bordiga abbia in mente la fase incredibilmente ricca di lavoro di Marx che diede la luce ai Manoscritti del ’44 e ad altri testi fondamentali. Ma Marx per primo non considerava questi testi come le ultime parole sul capitalismo, la lotta di classe o il comunismo. Anche se, dal nostro punto di vista, non abbandonò mai i contenuti essenziali di questi scritti, lui li considerava come un ‘primo abbozzo’ che doveva essere sviluppato e a cui bisognava dare fondamenta più solide con un’ulteriore ricerca, essa stessa strettamente connessa alle sperimentazioni pratico-teoriche compiute dal movimento reale del proletariato.
Nei Commentari, Bordiga riporta anche un preciso passo nei Manoscritti del ’44 come prova dell’invarianza, in cui Marx scrive che “L’intero movimento della storia, è, quindi, l’atto REALE di generazione del comunismo – l’atto di nascita di esso nella sua esistenza empirica – ma è anche, per la sua coscienza pensante, il movimento del DIVENIRE della storia stessa, COMPRESO E RESO COSCIENTE” (pag.153)
E Bordiga aggiunge che il soggetto di questa coscienza non può essere il singolo filosofo: può solo essere il partito di classe del proletariato mondiale. Ma se, come dice Marx, il comunismo è il prodotto dell’intero movimento della storia, allora esso deve essere iniziato ad emergere molto prima della comparsa della classe operaia e delle sue organizzazioni politiche, così che la fonte di questa coscienza deve essere più vecchia di entrambe – proprio come, entro la società capitalistica, è anche più estesa delle organizzazioni politiche di classe, anche se generalmente queste ne sono l’espressione più avanzata. Inoltre, dal momento che il comunismo può diventare chiaro a se stesso, “concepito e saputo”, unicamente quando diventa comunismo proletario, questa è sicuramente un’ulteriore prova che il comunismo e la coscienza comunista è qualcosa che evolve, che non è statica, ma è un processo in divenire – e quindi non può essere invariante.
Nel marxismo, la critica all’individualismo ha una lunga storia che risale alla critica di Marx a Hegel e, in particolare, al suo attacco a Max Stirner. Nell’argomentare contro il punto di vista filosofico del pensatore isolato, Bordiga si pone su un terreno solido, citando il tagliente commento dell’Ideologia tedesca su San Max: “la filosofia sta allo studio del mondo attuale come la masturbazione all’amore sessuale”. Come abbiamo visto, anche l’idea che l’ego sia in qualche modo un costrutto illusorio ha un lungo pedigree. Ma Bordiga va oltre. Come abbiamo già notato, la sezione delle ‘Tavole immutabili...’ citata in precedenza, in cui Bordiga prevede che l’umanità comunista sarà capace di accedere a un tipo di coscienza di specie o cosmica, è intitolata ‘Giù la personalità: ecco la chiave!’. È come se Bordiga volesse che l’individuo sia sussunto alla specie piuttosto che realizzato attraverso la specie.
L’esperienza di uno stato di coscienza che supera l’ego tende a essere un’esperienza limite piuttosto che uno stato permanente, ma, ad ogni modo, non abolisce necessariamente la personalità. Forse la personalità come una maschera; la personalità come un tipo di proprietà privata; la personalità come aspetto esteriore dell’illusione di un ego assoluto – si potrebbe argomentare che sono queste le forme di personalità che in futuro saranno superate. Ma la natura stessa ha bisogno della diversità per svilupparsi, e questo non è meno vero per la società umana. Persino i buddisti non affermano che l’illuminazione fa svanire l’individuo. C’è una storia Zen che racconta come uno studente approccia il suo insegnante dopo aver sentito che quest’ultimo aveva raggiunto il satori, il lampo fulmineo dell’illuminazione. Lo studente chiede al maestro “come ci si sente ad essere illuminati?”. Al che il maestro risponde: “Misero come sempre”.
Nella stessa sezione di ‘Tavole….’ Bordiga cita la “splendida espressione” dei Manoscritti del ’44 che l’umanità è un essere che soffre, e che se non soffre, non può conoscere la gioia. Quest’essere umano fatto di carne, mortale e individuale esiste ancora nel comunismo, che per Marx è “l’unica società in cui lo sviluppo libero e originale degli individui cessa di essere una mera frase” (Ideologia tedesca, ‘Il libero sviluppo degli individui’).
Sappiamo che Bordiga avanzò una tagliente critica al feticcio borghese della democrazia, basata com’è sulla falsa idea del cittadino isolato e sul fondamento reale di una società atomizzata dallo scambio di merci. L’intuizione che sviluppava in Il principio democratico e altrove ci permette di esporre l’essenziale vacuità delle strutture più democratiche dell’ordine capitalistico. Ma arriva un punto nel pensiero di Bordiga in cui egli perde di vista ciò che era autenticamente ‘progressivo’ nella vittoria dello scambio di merci su tutte le precedenti forme di comunità: la possibilità di un pensiero critico individuale senza cui la “scienza positiva” – che Bordiga stesso reclama come il punto di vista del proletariato – non sarebbe emersa. Applicata alla concezione di Bordiga del partito, questa linea di pensiero porta al concetto di un’organizzazione “monolitica”, “anonima” e persino “totalitaria” – tutti termini che sono stati usati con approvazione nel canone bordighista. Esso porta a teorizzare la negazione del pensiero individuale e quindi delle differenze e dei dibattiti interni. E come in tutti i regimi totalitari, c’è sempre almeno un individuo che diventa tutt’altro che anonimo – che diventa oggetto di culto della personalità. E questo è proprio ciò che veniva giustificato dentro il Partito Comunista Internazionale nel dopo-guerra da coloro che vedevano in Bordiga il “leader brillante”, il genio che poteva (anche quando non era ancora un membro del partito!) trovare risposte a tutti i problemi teorici che si presentavano all’organizzazione. Questo fu l’aberrante modo di pensare attaccato nell’articolo del GCF ‘Contro la concezione del capo geniale’[28].
A volte abbiamo criticato l’idea di Bordiga che un rivoluzionario è qualcuno per il quale la rivoluzione è già avvenuta. Finché questo implica l’ineluttabilità del comunismo, quelle critiche sono valide. Ma c’è anche una verità nel detto di Bordiga. I comunisti sono coloro che rappresentano il futuro nel presente, come afferma Il Manifesto del Partito Comunista, e in questo senso essi misurano il presente – e il passato – alla luce della possibilità del comunismo. La ‘passione per il comunismo’ di Bordiga – il suo insistere a dimostrare la superiorità del comunismo su qualunque cosa la società di classe e il capitalismo avessero prodotto – gli permetteva di resistere alle false visioni di progressi capitalisti e ‘socialisti’ che venivano diffuse all’interno della classe operaia negli anni ’50 e ’60 e, forse la cosa più importante, per dimostrare in pratica che, nei fatti, il marxismo non è un dogma invariante ma una teoria vivente, dal momento che non c’è dubbio che i contributi di Bordiga sul comunismo arricchiscono la nostra comprensione di esso.
All’inizio di quest’articolo abbiamo fatto riferimento al necrologio di Damen del 1970, che provò a fare una valutazione dell’intero contributo politico di Bordiga. Damen comincia con l’elencare tutto ciò che “dobbiamo a Bordiga”, innanzitutto l’immenso contributo che fornì nel suo periodo ‘classico’ sulla teoria dell’astensionismo e della relazione tra partito e classe. Ma egli, come abbiamo visto, abbastanza a ragione non risparmia Bordiga dalla critica del suo ritiro dall’attività politica dalla fine degli anni ’20 all’inizio degli anni ’40, il suo rifiuto a commentare tutti i drammi politici ed economici che affollano questo periodo. Esaminando il suo ritorno alla vita politica alla fine della guerra, Damen è anche caustico sulle ambiguità di Bordiga sulla natura capitalistica dell’URSS. Sarebbe potuto andare oltre e avrebbe potuto mostrare come il rifiuto di Bordiga di riconoscere le acquisizioni della Frazione portò a una chiara regressione politica su problematiche chiave come la questione nazionale, i sindacati e il ruolo del partito nella dittatura del proletariato. Ma ciò che manca nel testo di Damen è una valutazione del reale contributo alla nostra comprensione del comunismo che Bordiga garantì nei suoi ultimi anni – un contributo che la sinistra comunista ha ancora bisogno di assimilare, non in ultimo perché è stato assunto in seguito da altri dal dubbio programma, come la corrente ‘comunizzazione’ (di cui Camatte fu uno dei padri fondatori), che l’hanno usato per produrre risultati che Bordiga stesso avrebbe certamente disconosciuto come propri. Ma questo richiederà un altro articolo, e prima di farlo vogliamo considerare le altre ‘teorie della rivoluzione proletaria’ che furono sviluppate negli anni ’50, ’60, ’70.
C.D. Ward
[1] In the aftermath of World War Two: debates on how the workers will hold power after the revolution: https://en.internationalism.org/content/9523/aftermath-world-war-two-debates-how-workers-will-hold-power-after-revolution [5]
[2] The post-war boom did not reverse the decline of capitalism https://en.internationalism.org/internationalreview/201111/4596/post-war-boom-did-not-reverse-decline-capitalism [6].
[3] https://libcom.org/article/workers-councils-anton-pannekoek [7]. In Italiano edito da Feltrinelli: A. Pannekoek, Organizzazione rivoluzionaria e consigli operai, 1970. Si veda anche l’articolo alla nota 1.
[4] Ad Ustica, Bordiga incontrò Gramsci, il quale aveva avuto un ruolo centrale nell’imporre la linea dell’Internazionale Comunista all’interno del partito italiano e allontanare Bordiga dalla leadership. Ormai Gramsci era già ammalato e, nonostante le loro considerevoli differenze, Bordiga non esitò a prendersi cura di lui e a lavorarci insieme per la formazione di un circolo di formazione marxista.
[5] Questo testo è disponibile sul sito della Tendenza Comunista Internazionalista. https://www.leftcom.org/it/articles/1988-01-01/comitato-d-intesa-primo-campanello-d-allarme [8].
[6] I problemi pratici che Bordiga affrontò durante questo periodo furono certamente considerevoli, ad esempio veniva seguito da due agenti di polizia ovunque andasse. Tuttavia, c’era un elemento volontario nell’isolamento di Bordiga dai suoi compagni, e Damen, in una sorta di necrologio scritto poco dopo la morte di Bordiga nel 1970, fu nettamente critico rispetto al comportamento politico di Bordiga: “In questo particolare clima va considerata la sua condotta politica, il rifiuto costante ad assumere politicamente un atteggiamento che potesse qualificarlo responsabilmente. Si sono così susseguiti avvenimenti politici, a volte di importanza storica, che sono passati accanto a questa sdegnosa estraneità, senza eco alcuna: il conflitto Trotsky-Stalin; lo stalinismo; la nostra Frazione che all’estero, in Francia e Belgio, continuava storicamente la ideologia e la politica del partito di Livorno; la Seconda Guerra Mondiale e, infine, lo schieramento della Russia sul fronte della guerra dell'imperialismo. Né una parola, né un rigo proprio nello stesso spazio storico, su un piano più allargato e complesso di quello della prima guerra mondiale”. O. Damen, Bordiga, Editoriale periodici italiani 1977. Uno studio degli ‘anni oscuri’ di Bordiga è stato pubblicato in italiano: Arturo Peregalli e Sandro Saggioro, Amadeo Bordiga. – La sconfitta e gli anni oscuri (1926-1945). Edizioni Colibrì, Milano, Novembre 1998.
[7] Si veda il seguente articolo: The Second Congress of the Internationalist Communist Party, The Italian Fraction and the French Communist Left https://en.internationalism.org/internationalreview/201211/5366/italian-fraction-and-french-communist-left [9].
[8] Si veda in particolare Communism Vol. 3, Part 4 - The 1930s: debate on the period of transition (https://en.internationalism.org/ir/127/vercesi-period-of-transition [10]).
[9] Si veda p. 202. Queste intuizioni dei potenziali pericoli provenienti dallo Stato ‘proletario’ sembrano essere state dimenticate, a giudicare dalla sorpresa espressa dal delegato del Partito Comunista Internazionale/Battaglia Comunista al Secondo Congresso della Corrente Comunista Internazionale, dopo aver letto una proposta di risoluzione sullo Stato nel periodo di transizione che era basata sulle intuizioni della Frazione e della GCF. La risoluzione fu approvata definitivamente al Terzo Congresso: Resolution on the State in the Transition Period https://en.internationalism.org/node/2733 [11]. Si veda anche: The period of transition: Polemic with the P.C.Int.-Battaglia Comunista https://en.internationalism.org/node/3168 [12].
[10] Nella sua prefazione a Russie et Révolution dans la Théorie Marxiste, Spartacus 1975, Jacques Camatte mostra che il Bordiga degli anni rivoluzionari successivi alla Prima Guerra Mondiale non difendeva il concetto di ‘invarianza’, riferendosi in particolare al primo articolo della collezione, ‘Le lezioni della storia recente’, che argomenta che il movimento reale del proletariato può arricchire la teoria, e che critica apertamente certe idee di Marx sulla democrazia e alcune prescrizioni tattiche del Manifesto del Partito Comunista “il sistema di un comunismo critico può naturalmente essere compreso in relazione all’integrazione dell’esperienza storica successiva al manifesto di Marx, e, se necessario, in una direzione opposta a certi comportamenti tattici di Marx ed Engels che si sono dimostrati sbagliati”.
[11] The post-war boom did not reverse the decline of capitalism https://en.internationalism.org/internationalreview/201111/4596/post-war-boom-did-not-reverse-decline-capitalism [6].
[12] In the aftermath of World War Two: debates on how the workers will hold power after the revolution https://en.internationalism.org/content/9523/aftermath-world-war-two-debates-how-workers-will-hold-power-after-revolution [5].
[13] https://www.quinterna.org/archivio/1952_1970/considerazioni.htm [13].
[14] Si vedano in particolare: The alienation of labour is the premise for its emancipation https://en.internationalism.org/internationalreview/199207/1797/alienation-labour-premise-its-emancipation [14], The study of Capital and the foundations of Communism https://en.internationalism.org/internationalreview/199311/1570/study-capital-and-foundations-communism [15].
[15] A Janitzio la morte non fa paura.
[16] Si veda anche il precedente articolo di questa serie: The Mature Marx - Past and Future Communism (https://en.internationalism.org/internationalreview/199506/1685/mature-marx-past-and-future-communism [16]).
[17] Una esposizione piuttosto chiara della concezione di Bordiga del socialismo può essere trovata in un articolo di Adam Buik (https://libcom.org/article/bordigism [17]) del Partito Socialista della Gran Bretagna, che, con tutti i suoi difetti, ha sempre compreso chiaramente che il socialismo comporta l’abolizione del lavoro salariato e del denaro.
[18] Trotsky and the culture of communism (https://en.internationalism.org/internationalreview/200210/9651/trotsky-and-culture-communism [18] )
[19] Communism: the real beginning of human society (https://en.internationalism.org/internationalreview/199210/3571/communism-real-beginning-human-society [19]). Quest’articolo, come altri della serie, si riferisce anche agli scritti di Bordiga sul comunismo.
[20] Woman's role in the emergence of human culture (https://en.internationalism.org/internationalreview/201212/5422/womans-role-emergence-human-culture [20]), and Women's role in the emergence of human solidarity (https://en.internationalism.org/content/6964/womens-role-emergence-human-solidarity [21]).
[21] Communism: the real beginning of human society (https://en.internationalism.org/internationalreview/199210/3571/communism-real-beginning-human-society [19])
[22] Freud, New Introductory Lectures, London 1973, p. 117.
[23] Erich Fromm, Psychoanalysis and Zen Buddhism, 1960, p. 91, 1986 Allen and Unwin edition. Fromm, allievo della Scuola di Francoforte che ha anche lavorato molto sugli scritti giovanili di Marx, considera che, portata alla sua logica conclusione, il vero fine della psicoanalisi (che potrebbe essere ottenuto su larga scala solo in una “società sana”) non è semplicemente rilevare sintomi nevrotici o sottomettere le pulsioni al controllo dell’intelletto, ma rendere l’inconscio conscio e quindi raggiungere una vita non repressa. Così definisce il metodo della psicoanalisi in relazione a questo obiettivo: “esso esamina lo sviluppo fisico di una persona dall’infanzia in poi e prova a disvelare le esperienze più passate al fine di assistere la persona nel fare esperienza di ciò che ora è represso. Esso procede dal disvelare le illusioni sul mondo, passo dopo passo, così che diminuiscano le distorsioni paratattiche e le intellettualizzazioni alienate. Col diventare meno estranea a se stessa, la persona che attraversa questo processo diventa meno estraniata dal mondo; poiché si è aperta alla comunicazione con l’universo interiore, la persona si è aperta alla comunicazione col mondo esteriore. Scompare la falsa coscienza, e con essa la polarità conscio-inconscio” (ivi, p. 107 – nostra traduzione dall’inglese). Altrove (p. 105) compara questo metodo con quello Zen, che usa sì concetti differenti, ma anch’esso procede attraverso una serie di più piccole realizzazioni o ‘satori’ verso livelli qualitativamente superiori di essere nel mondo.
[24] Si veda la raccolta Amadeo Bordiga Drammi gialli e sinistri della moderna decadenza sociale, Iskra 1978. Si veda anche il nostro articolo Flooding: the shape of things to come [22] (https://en.internationalism.org/worldrevolution/201403/9567/flooding-shape-things-come [22]), che esamina l’idea di Bordiga sul ruolo distruttivo nell’accumulazione capitalistica.
[25] https://www.marxists.org/archive/bordiga/works/1956/weird.htm [23].
[26] International Review n. 14, A caricature of the Party: the Bordigist Party (https://en.internationalism.org/node/2647 [24] ).
[27] https://www.quinterna.org/archivio/1952_1970/invarianza_falsarisorsa.htm [25].
[28] Against the concept of the "brilliant leader" https://en.internationalism.org/ir/033/concept-of-brilliant-leader [26].
Per tutti quelli che pensano ancora che l’ultima speranza del genere umano sia il rovesciamento rivoluzionario del capitalismo mondiale, è impossibile salutare l’inizio del 2017 senza ricordare che quest’anno ricorre il 100° anniversario della rivoluzione russa. E sappiamo pure che tutti coloro che insistono sul fatto che non vi è alcuna alternativa all’attuale sistema sociale ricorderanno a modo loro questo evento.
Molti di loro la ignoreranno, naturalmente, o ne sminuiranno il significato dicendoci che è storia vecchia, che è cambiato tutto da allora o chiedendoci che senso abbia parlare di una rivoluzione della classe operaia quando questa classe non esiste più, o si è così degradata che il termine “rivoluzione della classe operaia” può anche essere assimilato ai voti di protesta a favore della Brexit o di Trump nei vecchi centri industriali decimati dalla globalizzazione.
Se lo sconvolgimento che scosse il mondo nel 1917 torna alla mente, nella maggior parte dei casi è dipinto come una sorta di storia dell’orrore, ma con una ben precisa “morale”: ecco, questo è quello che avviene quando si sfida il sistema attuale, quando si cede all’illusione che una forma superiore di vita sociale sia possibile. Si ottiene qualcosa di molto peggio. Si ottiene il terrore, il gulag, lo stato totalitario onnipresente. Tutto è iniziato con Lenin e la sua banda di fanatici bolscevichi, il cui colpo di Stato, nell'ottobre del 1917, ha ucciso la giovane democrazia russa, e si è conclusa con Stalin, con tutta la società trasformata in un campo di lavoro forzato. Poi tutto è crollato, il che dimostra ancora una volta che è impossibile organizzare una società moderna diversa da quella capitalista.
Siamo ben consapevoli che spiegare cosa ha significato realmente la rivoluzione russa del 1917 non è cosa facile. Questo è un periodo di estrema difficoltà per la classe operaia e le sue piccole minoranze rivoluzionarie, un periodo che è dominato da sentimenti di disperazione e di perdita di ogni prospettiva per il futuro, dalla crescita sinistra del nazionalismo e del razzismo che servono a dividere la classe operaia al suo interno, dalla demagogia piena di odio dei populisti di destra, e a sinistra da appelli clamorosi a difendere la “democrazia” contro questo nuovo autoritarismo.
Tuttavia questo è anche il momento, per noi, di ricordare il lavoro dei nostri antenati politici - le frazioni comuniste di sinistra che sono sopravvissute alle terribili sconfitte dei movimenti rivoluzionari seguite agli eventi della Russia 1917 - che hanno cercato di comprendere le cause della degenerazione risultante e della scomparsa dei partiti comunisti che erano stati formati per aprire la strada verso la rivoluzione. Resistendo sia al terrore aperto della controrivoluzione, nelle sue forme stalinista e fascista, che agli inganni più velati della democrazia, le più lucide correnti comuniste di sinistra, come quelle raggruppate intorno alle riviste Bilan negli anni ‘30 e Internationalisme negli anni '40, cominciarono l’enorme compito di tracciare il “bilancio” della rivoluzione. Prima di tutto, contro tutti i suoi denigratori, essi riaffermarono gli aspetti essenziali e positivi della rivoluzione russa. In particolare che:
Allo stesso tempo, i rivoluzionari degli anni ’30 e ’40 dettero inizio anche alla dolorosa analisi dei gravi errori commessi dai bolscevichi a fronte di una situazione senza precedenti per qualunque partito operaio, in particolare:
La CCI, dal suo inizio, ha continuato questo lavoro di bilancio cercando di tirare tutte le lezioni della rivoluzione russa e dell'ondata rivoluzionaria internazionale del 1917-23. Nel corso degli anni abbiamo prodotto un gran numero di articoli e di opuscoli che trattano di questo periodo assolutamente vitale nella storia della nostra classe. Durante quest’anno, e non solo, faremo in modo che questi testi siano più accessibili ai nostri lettori, compilando un dossier aggiornato dei nostri articoli più importanti sulla rivoluzione russa e sull’ondata rivoluzionaria internazionale. Ci saranno articoli che corrispondono o direttamente allo sviluppo cronologico del processo rivoluzionario o che contengono risposte ai più importanti quesiti posti dagli attacchi della propaganda borghese o anche alle discussioni dentro e intorno all’ambiente politico proletario. Abbiamo già cominciato con un articolo sulla rivoluzione di febbraio scritto nel 1997. Questo sarà seguito da articoli sulle Tesi di Aprile di Lenin, sui giorni di Luglio, sull’insurrezione di Ottobre, e così via. Noi abbiamo intenzione di continuare queste pubblicazioni anche nel prossimo anno nella misura in cui il dramma della rivoluzione e della controrivoluzione è durato per anni e non era assolutamente limitato alla Russia, ma ha avuto un’eco nel mondo intero, da Berlino a Shangai, da Torino alla Patagonia, da Clydeside a Seattle.
Allo stesso tempo cercheremo di aggiungere a questa collezione degli articoli nuovi che trattino di questioni che non abbiamo ancora esaminato in profondità (come l’attacco contro la rivoluzione da parte della classe dominante del momento, il problema del “terrore rosso”, e così via); articoli che rispondano alle attuali campagne del capitalismo finalizzate a cancellare la memoria rivoluzionaria della classe operaia; articoli che riflettano sulle condizioni per una rivoluzione proletaria oggi, a ciò che queste hanno in comune con il tempo della rivoluzione russa, ma anche e soprattutto ai cambiamenti significativi che sono intervenuti nel corso degli ultimi 100 anni.
Lo scopo di questa iniziativa editoriale non è semplicemente quello di “celebrare” o “ricordare” eventi storici del lontano passato. E’ invece difendere l’idea che la rivoluzione proletaria è oggi ancora più necessaria di quanto non lo fosse nel 1917. Di fronte agli orrori della prima guerra imperialista mondiale, i rivoluzionari dell’epoca conclusero che il capitalismo era entrato nella sua epoca di decadenza, ponendo all’umanità l’alternativa tra socialismo o barbarie; e gli orrori ancora più grandi - simboleggiati da nomi come Auschwitz e Hiroshima - che seguirono la sconfitta dei primi tentativi di fare la rivoluzione socialista, confermarono crudamente la loro diagnosi. Un secolo più tardi, la prolungata esistenza del capitalismo costituisce una minaccia mortale per la sopravvivenza dell'umanità.
Scrivendo dalla cella della prigione in cui era rinchiusa nel 1918, e alla vigilia della rivoluzione in Germania, Rosa Luxemburg espresse la sua fondamentale solidarietà alla rivoluzione russa e al partito bolscevico, nonostante tutte le sue pesantissime critiche agli errori dei Bolscevichi, e in particolare alla politica del terrore rosso. Le sue parole conservano oggi per il nostro futuro tutta l’importanza che ebbero all’epoca per il futuro cui lei stessa era confrontata:
“Ciò che conta nella politica dei bolscevichi è distinguere l’essenziale dall’accessorio, il sostanziale dal casuale. In questo ultimo periodo alla vigilia delle decisive battaglie finali in tutto il mondo, il problema fondamentale del socialismo è stato ed è appunto la questione all’ordine del giorno: non questo o quel dettaglio nella tattica, ma la capacità d’azione del proletariato, la forza d’azione delle masse, la volontà di raggiungere il potere con il socialismo in generale. A questo riguardo i Lenin e i Trotsky con i loro compagni sono stati i “primi” all’avanguardia nei confronti del proletariato mondiale con il loro esempio; sono finora ancora i “soli” che possano esclamare con Ablich de Hutten: “Io ho osato questo!”.
E’ l’essenziale e ciò che rimane della politica bolscevica. In tal senso resta loro il merito imperituro nella storia d’essersi messi alla testa del proletariato internazionale conquistando il potere politico e mettendo in pratica il problema della realizzazione del socialismo, come d’aver potentemente spinto innanzi la liquidazione fra Capitale e Lavoro nel mondo.
In Russia il problema poteva solo essere posto ma non risolto. E’ in tal senso che l’avvenire appartiene ovunque al ‘bolscevismo’”[1].
CCI
[1] Rosa Luxemburg, La Rivoluzione Russa. Cap. V: Democrazia e dittatura, pag. 31. Edizioni Prometeo.
I sopravvissuti dell’incendio della torre di Grenfell, quelli che vivono vivono nella sua ombra, tutti quelli che vivono altrove in torri simili, quelli che sono venuti a manifestare la loro solidarietà, la cui collera li ha portati ad occupare il Municipio di Kensington e a marciare su Downing Street, tutti avevano perfettamente chiaro il fatto che questo orrore non era una “tragedia” astratta, e tanto meno un atto di Dio, ma come riportato su uno striscione improvvisato, “un crimine contro i poveri”, una questione di classe resa ancora più evidente dal fatto che la Royal Borough di Kensington e Chelsea rappresentano tipicamente l’osceno contrasto di ricchezza che è la caratteristica di questo sistema sociale, riassumendolo nella forma molto visibile e tangibile della “questione delle abitazioni”.
Molto tempo prima dello scoppio dell’incendio, un gruppo di azione dei residenti aveva messo in guardia rispetto allo stato di pericolo in cui versava la torre Grenfell, ma questi avvertimenti sono stati sistematicamente ignorati dal consiglio comunale e dal suo agente, la Kensington and Chelsea Tenant Management Organisation. C'è anche il forte sospetto che il rivestimento che è stato identificato come la causa principale della rapida diffusione dell’incendio sia stato installato non per il benessere dei residenti della torre ma per migliorare l'aspetto esteriore dell’edificio per i residenti più ricchi del quartiere. Ancora una volta, è ben noto che tutta quella zona è infestata da questa nuova generazione di proprietari terrieri non residenti che, spinti dalla smania della borghesia inglese di incoraggiare gli investimenti stranieri, comprano degli edifici estremamente costosi e in molti casi non si preoccupano nemmeno di affittarli, lasciandoli vuoti semplicemente per specularvi sopra. Ed è stata proprio la speculazione sulle case – completamente incoraggiata dallo Stato – ad essere un elemento centrale del crash del 2008, un disastro economico il cui risultato netto è stato quello di allargare ulteriormente l’enorme fossato tra i ricchi e i poveri. Comprare oggi una casa costa caro, specialmente a Londra che resta il fulcro di un’economia da casinò basata sul debito.
La profondità e l’estensione dell’indignazione provocata da una tale politica è stata tale che i media controllati da quelli che sono in cima alla scala della ricchezza non hanno avuto altra scelta che seguire l’ondata di rabbia. Alcuni dei quotidiani pro-Brexit hanno cercato di addossare la responsabilità dell’incendio ai regolamenti dell’UE, ma hanno dovuto fare abbastanza rapidamente marcia indietro di fronte alla rabbia popolare (ma solo quando è emerso che il tipo di rivestimento utilizzato per “rigenerare” Grenfell è vietato in paesi come la Germania). Un giornale noto non proprio per il suo radicalismo, il Metro di Londra, ha titolato a grandi lettere “Fermate gli assassini!”, frase riportata non come citazione, ma come richiesta, anche se basata sulla retorica del deputato di Tottenham David Lammy che è stato uno dei primi a descrivere l’incendio come un “omicidio colposo d’impresa”. E tutti, con l’eccezione di una piccola minoranza di troll razzisti, hanno evitato qualunque riferimento negativo al fatto che le vittime fossero per la gran parte non solo povere, ma anche migranti e finanche rifugiati. Le tante manifestazioni di solidarietà che abbiamo visto all’indomani dell’incendio, le donazioni di cibo, vestiti, coperte, alloggio, di lavoro nei centri di emergenza, è venuto dalla gente del posto, di tutte le etnie e religioni, senza chiedere la storia personale delle vittime come condizione per fornire il loro aiuto e supporto.
I dimostranti hanno ragione ad esigere delle risposte sulle cause di questo incendio, a fare pressione sullo Stato per dare con urgenza assistenza e provvedere al reinsediamento nella stesso quartiere degli sfollati, alcuni dei quali hanno fatto riferimento alla dolorosa esperienza degli sfollati dell'uragano Katrina, che è stato usato per fare una sorta di pulizia etnica e di classe nei quartieri “ambiti” di New Orleans. Comprensibilmente, quelli che vivono in altri grattacieli vogliono dei controlli sulla sicurezza degli edifici e dei miglioramenti delle strutture il più presto possibile. Ma dobbiamo assolutamente esaminare le cause più profonde di questa catastrofe per capire che la disuguaglianza, che è stata così spesso identificata come un elemento chiave, è radicata nella struttura stessa della società attuale. Ciò è particolarmente importante perché gran parte della rabbia che tutti si sentono è diretta contro delle persone o delle istituzioni private (Theresa May perché aveva paura del contatto diretto con i residenti di Grenfell, il Consiglio comunale o la KCTMO) piuttosto che contro il modo di produzione che genera tali catastrofi dalle sue proprie viscere. Se manca questa comprensione, si lascia la porta aperta a qualsiasi illusione su soluzioni alternative del capitalismo, in particolare quelle proposte dalla sinistra del capitale. Abbiamo già visto Corbyn prendere di nuovo l’iniziativa nella corsa alla popolarità davanti alla May con la sua risposta più “sensibile” e “concreta” per i residenti di Grenfell, tra cui la richiesta di soluzioni apparentemente radicali come la “requisizione” di case vuote per dare alloggio agli sfollati[1].
Il capitalismo è all’origine della crisi degli alloggi
Ecco come Marx definiva il problema, concentrandosi in particolare sulla ricerca spietata del profitto nel processo di produzione:
“Poichè l’operaio dedica la maggior parte della sua vita al processo di produzione, le condizioni di questo processo costituiscono in gran parte le condizioni del processo attivo della sua esistenza, le sue condizioni di vita; e il far economia nel campo di queste con dizioni di vita è un metodo per rialzare il saggio del profitto, proprio come, e l’abbiamo già precedentemente messo in rilievo , l’eccesso di lavoro, la trasformazione dell’operaio in bestia da lavoro è un metodo per accelerare l’autovalorizzazione del capitale, la produzione del plusvalore. Siffatta economia giunge fino al sovraffollamento di operai in locali ristretti, malsani, ciò che si chiama in termini capitalistici risparmio di costruzioni; all’ammassamento di macchine pericolose negli stessi ambienti, senza adeguati mezzi di protezione contro questo pericolo; all’assenza di misure di precauzione nei processi produttivi che per il loro carattere siano dannosi alla salute o importino rischi (come nelle miniere) ecc. Per non dire della mancanza di ogni provvidenza volta ad umanizzare il processo produttivo, a renderlo gradevole o quanto meno sopportabile. Ciò sarebbe, dal punto di vista capitalistico, uno spreco senza scopo e insensato.” [2]
Ma questa tendenza a ridurre lo spazio, a ignorare le misure di sicurezza e a tagliare i costi di produzione per aumentare il tasso di profitto si applica beninteso anche all’industria edilizia per case destinate ai proletari. Engels, ne La situazione della classe operaia in Inghilterra (1845) descriveva con grande minuzia la sovrappopolazione, la sporcizia, l’inquinamento e il decadimento di case e strade costruite in fretta per ospitare i lavoratori di fabbrica a Manchester e in altre città. Ne “La questione delle abitazioni” (1872), egli sottolineava che queste condizioni inevitabilmente avrebbero prodotto delle epidemie:
“Il colera, il tifo, la febbre tifoidea, il vaiolo ed altre malattie devastatrici diffondono i loro germi nell’aria appestata e nell’acqua inquinata di quei quartieri; non vi si estinguono quasi mai, per svilupparsi, non appena lo consentano le circostanze, in morbi epidemici, e allora sconfinano dai loro luoghi d’incubazione per invadere anche le parti della città più ariose e salubri, quelle abitate dai signori capitalisti. Lor signori i capitalisti non possono permettersi impunemente il piacere di provocare malattie per la classe lavoratrice; le conseguenze ricadono anche su di loro, e l’angelo sterminatore imperversa fra i capitalisti con la stessa spietata imparzialità che tra i lavoratori”[3].
È ben noto che la costruzione della rete fognaria a Londra nel diciannovesimo secolo, un titanico lavoro di ingegneria che ha notevolmente ridotto l’impatto del colera e che è in funzione ancora oggi, ha ricevuto un grande impulso solo dopo il “Grande fetore” del 1858 che proveniva dal Tamigi inquinato arrivò alle narici dei politici di Westminster. Le lotte e le rivendicazioni dei lavoratori per delle case migliori sono state naturalmente un fattore determinante per convincere la borghesia a demolire le baraccopoli e ad offrire delle costruzioni più sicure e sane ai suoi schiavi salariati. Per proteggere se stessi dalle malattie ed evitare la decimazione della forza-lavoro, il capitale fu obbligato a introdurre questi miglioramenti, tanto più tenendo in conto i sostanziali profitti che si potevano realizzare investendo nel campo delle costruzioni e degli immobili. Ma, come sottolineato dallo stesso Engels, anche in questa epoca di riforme sostanziali, rese possibili da un modo di produzione in piena ascesa, la tendenza del capitalismo era di spostare semplicemente le bidonville da una zona all'altra. Ne La questione delle abitazioni, Engels mostra come ciò ebbe luogo nell’area di Manchester. Nell’epoca attuale, segnata dalla spirale della decadenza del sistema capitalista a livello globale, lo spostamento ha evidentemente avuto luogo dai paesi capitalisti più “avanzati” verso le immense bidonville che circondano tante grandi città del cosiddetto “terzo mondo”.
Il comunismo e la questione delle abitazioni
E’ perciò che, rigettando l’utopia proudhoniana (ulteriormente attualizzata dal progetto della Thatcher che ciascuno si costruisca il suo proprio alloggio sociale, cosa che ha enormemente esasperato il problema della casa) secondo cui ogni operaio possiede la sua propria piccola abitazione, Engels insisteva :
“E finché sussiste il modo di produzione capitalista, è una follia pretendere di risolvere isolatamente la questione delle abitazioni o qualsiasi altra questione sociale che concerna il destino degli operai. La soluzione sta nell’abolire il modo di produzione capitalista, e nel far sì che la classe lavoratrice si appropri di tutti i mezzi di sussistenza e di lavoro”[4].
La rivoluzione proletaria in Russia del 1917 ci ha fornito una prima idea di quello che, nelle sue prime fasi, questa “appropriazione” potrebbe significare: i palazzi e le dimore dei ricchi furono espropriati per ospitare le famiglie più povere. Nella Londra di oggi, accanto a palazzi e dimore di lusso, il vertiginoso incremento dell’edilizia speculativa degli ultimi decenni ci ha lasciato un enorme numero di palazzi di prestigio, alcuni dei quali abitati solo da pochi residenti ricchi, altri utilizzati per ogni sorta di attività commerciale parassitaria, mentre la gran parte di essi resta semplicemente invenduta e inutilizzata. Ma certamente i sistemi di sicurezza antincendio di questi edifici sono migliori di quelli di Grenfell. Questo tipo di edifici è l’argomento fondamentale per fare dell'espropriazione una soluzione immediata allo scandalo degli alloggi non a misura d’uomo e dei senzatetto.
Ma Engels, come Marx, era per un programma molto più radicale rispetto alla semplice requisizione delle case esistenti. Di nuovo, rigettando le fantasie proudhoniane di un ritorno all’industria artigianale, Engels puntava sul ruolo progressivo giocato dalle grandi città che raccoglievano masse di proletari capaci di agire assieme e così di sfidare l’ordine capitalista. E insisteva anche sull’idea che il futuro comunista avrebbe messo fine alla brutale separazione tra città e campagna et che ciò avrebbe significato lo smantellamento delle grandi città – un progetto ancora più grandioso nell’epoca attuale di metropoli stracolme che rendono le grandi città dei tempi di Engels come delle piccole borgate.
“La soluzione borghese della questione della casa è, per propria ammissione, fallita; fallita nel contrasto fra città e campagna. E qui siamo giunti al cuore della questione. Il problema delle abitazioni potrà essere risolto solo se la società sarà rivoluzionata abbastanza perché si possa procedere all’abolizione di quel contrasto fra città e campagna che nell’odierna società capitalista è spinto all’estremo. Ben lungi dal poter abolire tale contrasto, la società capitalista deve al contrario acuirlo ogni giorno di più. E l’hanno giustamente già riconosciute i primi socialisti utopisti moderni, Owen e Fourier. Nei loro caseggiati modello non esiste più contrasto fra città e campagna. Avviene, quindi, il contrario di quel che pretende il signor Sax: non è la stessa soluzione del problema delle abitazioni che risolve al tempo stesso la questione sociale, ma solo la soluzione di questa rende possibile al tempo stesso quella del problema della casa. Pretendere di risolvere quest’ultimo mantenendo in vita moderne metropoli è un controsenso. Ma le moderne metropoli saranno eliminate solo con l’abolizione dei modi di produzione capitalistici, e quando si sarà cominciato a far questo, si tratterà di ben altre cose che di procurare ad ogni lavoratore una casetta di sua proprietà”[5].
In continuità con questa tradizione radicale, il comunista della Sinistra italiana Amadeo Bordiga ha scritto un testo in risposta all’infatuazione sviluppatasi nel secondo dopoguerra per i grossi agglomerati di torri e grattacieli, una moda tornata con forza questi ultimi anni nonostante una serie di disastri e l’evidenza che vivere in un grosso agglomerato esaspera l’atomizzazione della vita urbana e genera tutta una serie di difficoltà sociali e psicologiche. Per Bordiga, i grandi grattacieli sono un segno evidente della tendenza del capitalismo a stipare il più alto numero di esseri umani nel più piccolo spazio possibile, ed egli ebbe delle parole particolarmente dure, lui che era un ingegnere, per quei progettisti brutali che ne cantavano le lodi. “Verticalismo, si chiama questa deforme dottrina; il capitalismo è verticalista.”[6].
Il comunismo, al contrario, sarà “orizzontale”. Più avanti, nello stesso articolo, Bordiga spiega cosa vuole dire:
“Quando sarà possibile, dopo aver schiacciata con la forza tale dittatura ogni giorno più oscena, subordinare ogni soluzione e ogni piano al miglioramento delle condizioni del vivente lavoro, foggiando a tale scopo quello che è il lavoro morto, il capitale costante, l'arredamento che la specie uomo ha dato nei secoli e seguita a dare alla crosta della terra, allora il verticalismo bruto dei mostri di cemento sarà deriso e soppresso, e per le orizzontali distese immense di spazio, sfollate le città gigantesche, la forza e l'intelligenza dell'animale uomo progressivamente tenderanno a rendere uniforme sulle terre abitabili la densità della vita e la densità del lavoro, resi ormai forze concordi e non, come nella deforme civiltà odierna, fieramente nemiche, e tenute solo insieme dallo spettro della servitù e della fame.”
Amos, 18 giugno 2017
[1] Nella visione da capitalista di Stato di Corbyn, la requisizione degli appartamenti non è il risultato di un’auto-iniziativa della classe operaia, ma un'azione legale presa dallo Stato, la stessa cosa che requisire delle navi in tempo di guerra.
[2] K. Marx, Il Capitale, vol. III, capitolo 5.
[3] F. Engels, La questione delle abitazioni, Newton Compton Editori, pag. 38.
[4] Engels, La questione delle abitazioni, Newton Compton Editori, pag. 72.
[5] Engels, La questione delle abitazioni, Newton Compton Editori, pag. 49.
[6] Amadeo Bordiga, “Spazio contro cemento” in Specie umana e crosta terrestre.
Pubblicando qui di seguito una dichiarazione inviata dal gruppo International Communist Perspective (Corea del Sud) sulle tensioni imperialiste nella penisola coreana.
Abbiamo alcune critiche da fare a questa dichiarazione, in particolare alla focalizzazione sull'installazione del sistema missilistico THAAD, che potrebbe dare origine all'idea che delle singole campagne siano equivalenti alla lotta dei lavoratori per difendere i propri interessi rispetto alle esigenze della macchina di guerra. Non è attraverso la campagna contro questo o quel sistema di armi che la classe operaia può sviluppare la propria coscienza. Il compito dei rivoluzionari è di esporre l'impasse di tutto il sistema, mentre partecipa alle lotte per le richieste di classe che possono strappare le illusioni di una "unità nazionale" e sviluppare una reale solidarietà con i lavoratori di altri paesi.
Tuttavia, in questa dichiarazione riconosciamo la voce della classe operaia internazionale, una voce che denuncia gli imperialisti dell’intera classe capitalista (inclusi quelli presunti “comunisti”). Siamo quindi senza riserve solidali con i compagni dell’ICP e con tutti quelli che lottano per un reale internazionalismo in questa regione.
Per l’analisi della CCI della situazione, cliccare qui.
Critichiamo il governo di Moon Jae‐In e gli Stati Uniti per l’installazione dei missili THAAD.
Rimozione dei missili THAAD! Lotta contro lo stato capitalista! Lotta contro i governi capitalisti e la minaccia della guerra imperialista!
Il 7 settembre, il governo di Moon Jae‐In e gli Stati Uniti hanno coercitivamente schierato dei missili Terminal High Altitude Area Defence (THAAD) sul Sungju-gun Sogong-ri contro l’opposizione della maggior parte della popolazione coreana, inclusi i residenti. Il dispiegamento dei THAAD nella Corea del Sud non contribuisce alla soluzione dei problemi relativi agli armamenti nucleari della Corea del Nord e alla pace nell'Asia orientale. È solo un ipocrita gioco sulla sicurezza. Questo programma non solo aumenta la minaccia di guerra a favore della forza imperialista americana, ma finisce anche per assegnare alla Corea del Sud il ruolo di frontiera della guerra imperialista.
Affermiamo ancora una volta che lo scopo dello sviluppo di armi nucleari da parte della Corea del Nord è un massacro genocida contro la popolazione, in particolare contro la classe operaia, anche se la Corea del Nord insiste che l'arma nucleare è a garanzia del suo regime. Inoltre, non dimentichiamo mai che l'unica forza che ha usato armi nucleari e che ha massacrato civili indiscriminatamente in guerra è stato l'imperialismo americano. La storia ha dimostrato che i due sistemi, che sono diversi nella penisola coreana, sono gli stessi in termini di sfruttamento della classe operaia e sono il nemico assoluto della classe operaia. I lavoratori non dovrebbero stare da nessuno dei due lati.
L’acutizzazione delle tensioni nell’Asia Orientale mostra le tendenze distruttive del capitalismo. Tuttavia, i recenti conflitti hanno aumentato i rischi per l'umanità molto più di prima. Questa volta, c'è uno scontro crescente tra molte forze. Gli Stati Uniti, la Cina, il Giappone e la Corea del Nord stanno accelerando la corsa agli armamenti.
Due guerre mondiali, la guerra di Corea e numerose guerre hanno sempre recato un dolore insostenibile alla classe operaia. Oggi, la classe operaia in Asia Orientale non dovrebbe più sacrificarsi nel mortale ciclo vizioso del capitalismo. Solo la classe operaia può salvare l'umanità dalla barbarie. A tal fine, la classe operaia deve sfuggire al circolo vizioso del nazionalismo e del militarismo. L'unica soluzione è che i lavoratori della Corea del Sud e della Corea del Nord, inclusi i lavoratori della Cina, degli Stati Uniti e del Giappone, combattono contro la propria classe dirigente.
Il dispiegamento dei missili THAAD da parte del governo Moon, che finge di perseguire la denuclearizzazione della penisola coreana, non contribuirebbe a limitare lo sviluppo nucleare della Corea del Nord, ma piuttosto a versare olio sul fuoco del confronto militare connesso con la concorrenza delle armi nucleari. La decisione di aggiungere e dispiegare i missili THAAD mostra anche l’ipocrisia e l’incompetenza della dichiarazione del governo di Moon che persegue una politica di pace, un processo democratico e una diplomazia indipendente. È un’espressione della natura politica e di classe dell’attuale governo che serve gli interessi delle classi imperialiste e dominanti.
Contro il governo di Moon Jae-In, che ha commesso crimini non minori di quello del governo della Corea del sud di Park Geun-hae in meno di quattro mesi dalla vittoria alle elezioni presidenziali,
La classe operaia deve rompere con la "fantasia Moon Jae-In", secondo cui il governo di Moon perseguirebbe una pulizia dei mali accumulati e un cambiamento di regime.
La classe operaia dovrebbe rifiutare di formare un fronte unito e di collaborare con il governo di Moon.
La classe operaia dovrebbe combattere contro il dispiegamento dei missili THAAD, così come contro il governo capitalista e la minaccia di guerra in Corea.
I lavoratori non hanno patria da difendere!
Lavoratori di tutto il mondo, unitevi!
7 Settembre 2017
International Communist Perspective
Col ritorno della crisi economica a metà degli anni 1970, le politiche immigratorie dovevano cambiare. Esse diventarono molto più restrittive sulle ammissioni alle frontiere. Il capitale continuava ancora ad assumere una mano d'opera immigrata a buon mercato, malgrado la disoccupazione fosse diventata massiccia, ma esso non poteva più assorbire tutta la massa degli stranieri diretti verso i grandi centri industriali.
Crisi, Stati “bunker” ed esplosione del numero dei migranti e profughi
Fin dalla fine degli anni 1980 ed all'inizio degli anni 1990, interi charter riconducevano gli immigrati verso il loro paese di origine. Ciò, mentre il contesto di esacerbazione dei conflitti e l'approfondimento della crisi economica moltiplicavano contemporaneamente il numero dei candidati alle migrazioni. Un nuovo fenomeno andava così ad esplodere ovunque nel mondo: quello dei "clandestini". Con la chiusura delle frontiere, l'immigrazione illegale, difficile da quantificare, aumentava in modo spettacolare. Tutta un'economia mafiosa, fatta di reti sovranazionali, ha potuto allora estendersi coperta da ogni impunità, favorendo dei traghettatori senza scrupoli, permettendo di alimentare tutte le forme di schiavitù moderna, come la prostituzione ed il mercato del lavoro nero e sotto pagato, in particolare nell'edilizia e l'agricoltura. Gli stessi Stati Uniti approfitteranno di questa situazione per sfruttare all'eccesso il sudore dei migranti illegali giunti soprattutto dall'America latina. Così, per esempio, “il numero di Messicani registrati all'esterno dell'America latina (la maggior parte negli Stati Uniti) è triplicato tra il 1970 e 1980, raggiungendo più di due milioni. Se si considera l'enorme numero dei migranti clandestini, la cifra esatta è dunque molto più elevata: tra il 1965-1975, il numero di clandestini è oscillato intorno ai 400.000 ad anno, per raggiungere tra il 1975 e 1990 circa 900.000 migranti”[1].
La caduta del muro di Berlino, la fine della guerra fredda e quella dei regimi stalinisti quasi autarchici hanno accelerato questo processo ed aperto una nuova spirale di guerre, di caos, di crisi e di sconvolgimenti inediti. Mentre dopo il 1945 gli spostamenti erano essenzialmente quelli delle vittime di guerra, principalmente dei tedeschi espulsi, poi delle persone che fuggivano dal regime della Repubblica democratica tedesca prima della costruzione del muro nel 1961, le migrazioni dopo il 1989 hanno costituito un nuovo flusso internazionale. Fino al 1989, i migranti dell'Europa dell'est erano stati bloccati dalla cortina di ferro. I flussi migratori si orientavano dunque piuttosto dal sud verso il nord, in particolare dall'Africa del nord e dai paesi del Mediterraneo verso i grandi centri urbani dei paesi europei. Dopo la caduta del muro di Berlino e con l'integrazione dei paesi dell’Europa centrale nell'unione europea (UE), una mano d'opera dei paesi dell'est è potuta orientarsi di nuovo verso i paesi dell'ovest. Allo stesso periodo, la crescita veloce e massiccia in Cina produceva l'inizio della più grande migrazione interna, attraendo verso le città centinaia di milioni di persone dalle campagne. A causa della crescita dell'economia cinese, queste masse potevano essere assorbite. Al contrario, con la crisi avanzata nei paesi dell’Europa e degli Stati Uniti, i flussi provenienti da altri paesi si restringevano a causa dei “respingimenti”.
Gli orrori generati dal militarismo
La dinamica del militarismo e del caos mondiale che hanno fatto seguito alla disgregazione del blocco dell'est ed alla disintegrazione delle alleanze intorno agli Stati Uniti andava ad aggravare il ciascuno per sé e le tensioni tra le differenti nazioni, spingendo le popolazioni a fuggire dai combattimenti e/o dalla miseria crescente. I fossati, che dividevano l'est e l’ovest, che avevano avuto per obiettivo non solo di segnare le frontiere sul piano imperialistico, ma anche di contenere i migranti, sparivano lasciando posto alle angosce dei governi europei dell'ovest di fronte alla presunta minaccia di una "immigrazione massiccia" dai paesi dell'est. Dopo il 1989, un fiume di migranti si diresse verso l'occidente, in particolare dalla Romania, dalla Polonia e dall'Europa centrale, alla ricerca di un lavoro, anche se pagato una miseria. Nonostante il tragico episodio della guerra dei Balcani tra il 1990 e 1993 e del recente conflitto in Ucraina, i flussi migratori in seno all’Europa “sono stati relativamente controllati”. Mentre la pressione migratoria alla periferia diventava sempre più forte sull'UE[2].
All'inizio degli anni 1990, le nuove guerre causate dal caos seminato in Medio Oriente, nei Balcani, nel Caucaso ed in Africa, hanno provocato pulizie etniche e pogrom di ogni tipo (Ruanda, Congo, Sudan, Costa d'Avorio, Nigeria, Somalia, Iraq, Siria, Myanmar, Tailandia, ecc.). Milioni di persone sono state costrette a cercare un rifugio, ma la maggior parte dei profughi rimaneva ancora nella loro regione. Solo un numero limitato di costoro si è diretto verso l'Europa occidentale. Durante la prima guerra del Golfo, la “coalizione” diretta dagli Stati Uniti strumentalizzò così sul posto le popolazioni curde e sciite per il suo intervento provocando almeno 500.000 morti e nuovi rifugiati [3]. L'alibi "umanitario" e/o "pacificatore" permise di coprire i peggiori soprusi imperialisti in nome della "protezione dei profughi" e delle popolazioni, in particolare delle minoranze curde. La borghesia all’epoca promise un'era di “pace”, di “prosperità” ed il trionfo della democrazia. In realtà, come oggi possiamo vedere, le grandi potenze e tutti gli Stati stavano per essere trascinati nella logica del militarismo, quella di un sistema la cui spirale diventa sempre più omicida e distruttrice. Del resto, la guerra ritornò velocemente in Europa, nell'ex-Iugoslavia, facendo più di 200.000 morti. Nel 1990, 35.000 albanesi del Kosovo cominciavano a fuggire verso l'Europa occidentale. Un anno dopo, in seguito alla dichiarazione di indipendenza della Croazia, 200.000 persone lasciarono l’orrore del conflitto e altre 350.000 vennero dislocate all’interno del vecchio territorio spezzettato. Nel 1995, la guerra si estese in Bosnia e cacciò altre 700.000 persone, soprattutto in seguito ai bombardamenti quotidiani su Sarajevo [4]. Un anno prima, il genocidio del Ruanda, anche con la complicità dell'imperialismo francese, aveva provocato un milione di vittime (principalmente tra la popolazione di origine tutsi, ma anche degli Hutu), inducendo l'afflusso massiccio e tragico di profughi ruandesi scampati verso la provincia del Kivu in Congo (1,2 milioni di rifugiati e migliaia di morti a causa del colera, di regolamenti di conti, ecc.). Ed ogni volta, i profughi diventavano vittime ed ostaggi dei peggiori soprusi, considerati come "danni collaterali", semplici oggetti imbarazzanti agli occhi della logica militare.
Per molti ormai lo spettro della guerra si era allontanato, ma in realtà la logica del capitalismo, la spirale guerriera non potevano che proseguire la loro follia distruttrice. Intere zone del pianeta si ritrovarono razziate dai signori della guerra e dall'appetito delle grandi potenze. Perseguitando e terrorizzando le popolazioni queste erano obbligate a fuggire sempre più dalle zone di combattimento, dalla barbarie, e dalle atrocità delle gang e delle mafie. La stessa cosa capitava in America latina con i narcotrafficanti, o in quei resti lasciati da Stati in brandelli come in Iraq intorno alle nebulose Al-Qaïda, poi Daesh ed il suo "Stato islamico"; intanto in Africa, tensioni interetniche e bande armate di terroristi tagliagole moltiplicano gli attentati e seminano ovunque il caos. Gli interventi delle grandi potenze, in particolare degli Stati Uniti in Iraq e in Afghanistan, risvegliando le ambizioni delle potenze regionali, destabilizzeranno ulteriormente questi paesi già estremamente fragili. Così vennero devastate zone sempre più estese consegnandole alla guerra ed aggravando il fenomeno dei profughi, moltiplicando i campi e le tragedie. I profughi divennero preda delle mafie, subivano sevizie, furti, stupri; le donne erano spesso arruolate o immesse nelle reti della prostituzione[5].
Un po' ovunque sul globo, questi stessi fenomeni, fortemente alimentati dalla guerra nei punti più caldi, come in Medio Oriente, condanneranno intere famiglie ad errare nell'esilio o ad imputridire nei campi.
Per diverso tempo, la maggior parte delle vittime delle guerre rimaneva nella loro regione. Invece, da alcuni anni, a causa di zone di guerra sempre più estese, particolarmente in Medio Oriente ed in Africa, un numero più elevato di profughi si dirige verso l'Europa dell'ovest; aggiungendosi ai migranti "economici" dell'Europa dell'est, dei Balcani, dei paesi mediterranei o altri colpiti dalla crisi economica e dal caos. La stessa cosa succede sul continente americano: aumentano gli emigranti provenienti dal Messico, un numero crescente di profughi, in fuga dalla violenza in America centrale, cerca di raggiungere il Messico per passare negli Stati Uniti.
La guerra in Siria e l'afflusso massiccio dei profughi
L'Iraq, la Libia e la Siria sono oramai in preda ad un caos incontrollabile che spinge ancora più le popolazioni a fuggire in massa. Allo stesso tempo, migliaia di persone sono prese in ostaggio in loco da rivali imperialisti, come ad Aleppo per esempio, dove sono condannati a morire o sotto i massicci bombardamenti, o colpiti da proiettili o semplicemente a crepare di fame e di sete. Oggi sono circa 15 milioni di persone a doversi spostare in Medio Oriente. Nel 2015, più di un milione di persone sono esiliate, contando solo gli afflussi verso la Germania! Per la prima volta dal 1945, ondate di profughi vittime della guerra e dei bombardamenti si dirigono massicciamente verso una Europa-fortezza percepita come un "eldorado", ma che li respinge brutalmente. In Ucraina è ricomparsa la guerra e migliaia di ucraini sono fuggiti dalle zone di combattimento, chiedendo asilo nei paesi vicini, in particolare la Polonia che mostra sempre più ostilità ai profughi.
Tra gli anni 2000 e 2014, 22.400 persone sono morte o scomparse nel Mediterraneo nel tentativo di raggiungere questa Unione europea idealizzata, malgrado i dispositivi polizieschi che rendono l'accesso alle frontiere molto difficili, cosa che facilita il lavoro di traghettatori mafiosi senza scrupoli, le cui organizzazioni prosperano oramai a scala industriale. Gli Stati più ricchi diventano perciò dei veri bunker che moltiplicano i muri, le recinzioni con i fili spinati, le pattuglie, e il numero di poliziotti, tutti ostacoli che per evitarli spesso si paga un caro prezzo: la morte. Ironia della sorte, gli Stati Uniti, campioni delle "libertà democratiche" che non avevano abbastanza parole dure per stigmatizzare il "muro della vergogna" a Berlino, ora anche loro hanno costruito un muro gigantesco alla frontiera sud per sbarrare la strada ai "chicanos!"[6].
In molti paesi, i profughi sono diventati non solo degli indesiderabili, ma anche additati come criminali o potenziali terroristi, giustificando una paranoia sulla sicurezza, sostenuta di proposito per dividere, controllare le popolazioni e preparare la repressione delle future grandi lotte sociali. Alla repressione poliziesca si aggiunge, oltre la fame ed il freddo, l'assillo amministrativo e burocratico. Le grandi potenze hanno schierato così un arsenale giuridico destinato a filtrare i "buoni migranti" (quelli che possono essere utili per valorizzare il capitale, in particolare i cervelli, il "Brain Drain"), i "richiedenti asilo" ed i "cattivi migranti", per lo più poveracci, senza qualifica che devono... "crepare a casa loro". In ogni caso, altrove! Secondo i bisogni demografici ed economici, i differenti Stati e capitali nazionali "regolano" così il numero di profughi suscettibili di integrare il mercato del lavoro.
Un buon numero è respinto brutalmente. Uomini, donne e bambini, particolarmente nei campi in Turchia [7], sono vittime di poliziotti che, se le scariche elettriche e i colpi di bastone non bastano non esitano a sparare loro a sangue freddo. L'UE, perfettamente informata di queste pratiche terribili e dei cadaveri che continuano ad arenarsi sulle spiagge del Mediterraneo, non solo lascia fare le cose freddamente, ma organizza tutto un apparato militare e di caccia all'uomo per respingere i profughi. Per lei, è questo, al di là della vigliaccheria e dell'ipocrisia, il semplice prezzo da pagare per dissuadere i candidati all'esilio!
Una posta immensa ed una battaglia morale per il proletariato
Con questo quadro generale della storia dei profughi e dei flussi migratori, abbiamo tentato di mostrare che il capitalismo ha sempre utilizzato la forza e la violenza in maniera diretta o indiretta per costringere i contadini ad abbandonare la loro terra e vendere la loro forza lavoro, là dove possono. Abbiamo visto che queste migrazioni, il loro numero, il loro statuto (clandestini o legali), il loro orientamento, dipendono dalle fluttuazioni del mercato mondiale e cambiano a seconda della situazione economica. La guerra che diventa sempre più intensa, frequente e diffusa durante il XXI secolo, fa sì che il numero di profughi e vittime di guerra sia in costante aumento. Con i recenti conflitti, questo flusso si dirige con nuove proporzioni verso l'Europa e gli altri grandi centri industriali.
A questo si aggiungono, da un certo tempo, sempre più profughi legati alle distruzioni dell'ambiente naturale. Oggi, i cambiamenti climatici e i disastri ecologici si aggiungono a tutti questi mali. Nel 2013, si contavano già 22 milioni di profughi climatici. Secondo certe fonti, sarebbero tre volte più numerosi dei profughi di guerra. Per il 2050, l'ONU prevede un afflusso di 250.000 profughi climatici, una cifra di fantasia e necessariamente sottovalutata dal momento che certe zone o città, come Pechino o Nuova Delhi, sono diventate già oggi irrespirabili. La convergenza di questi fattori combinati aumenta le tragedie. Un numero crescente di profughi che il capitale non può più integrare sufficientemente nella produzione a causa della sua crisi storica.
Così, la tragica sorte dei profughi pone oramai un vero problema morale per la classe operaia. Di fatti, il sistema capitalista pratica la caccia agli illegali, la repressione, la deportazione, l'imprigionamento nei campi, moltiplica le campagne xenofobe, sostiene alla fine ogni tipo di violenza contro qualsiasi migrante. In più, cercando di dividere i “veri richiedenti asilo”, diventati velocemente troppo numerosi, dai “profughi economici” indesiderabili, la borghesia accentua le divisioni. Di fronte alla realtà della crisi economica, l’Europa, sfruttando di nuovo le paure ed il terrorismo, suggerisce un po' ovunque la necessità di una "soluzione ragionevole", lasciando planare con sapiente dosaggio, la paura ed il soffio della xenofobia su una parte della popolazione. In tal modo può presentare lo Stato come il solo bastione che possa garantire la stabilità di fronte alle minacce “di invasioni” e che abbia la falsa pretesa di poter "lottare contro la xenofobia". La propaganda che accentua il timore della concorrenza per il lavoro, l'alloggio e la salute per i profughi, favorisce oggi una mentalità reazionaria e persecutoria sempre più presente. Tutto ciò costituisce il suolo fertile per la nascita del populismo[8].
La borghesia, come abbiamo visto, non smette mai di dividere gli operai e le popolazioni tra loro, di alimentare e sfruttare i sentimenti xenofobi che attecchiscono attraverso il populismo, particolarmente contro i migranti. Ed è questo che da alcuni anni ha confermato l’ascesa di partiti politici reazionari e conservatori contro gli immigrati in Europa e negli Stati Uniti, infestando particolarmente le parti del proletariato più emarginate nelle regioni anticamente industrializzate. Il risultato del referendum in Gran Bretagna, con la Brexit, come il fenomeno Trump in America, confermano ciò in modo evidente. Particolarmente con la questione spinosa dei migranti, la classe operaia deve assumere oramai delle responsabilità crescenti, le occorrerà bandire necessariamente i discorsi astiosi sul "tener fuori gli immigranti" e quelli che, nel loro slancio patriottico e democratico, pensano che non "si può accogliere tutta la miseria del mondo". Bisogna disinnescare le trappole della propaganda ufficiale, le costrizioni che ostacolano l'affermazione della necessaria solidarietà come espressione cosciente di questo combattimento morale. Se la cifra dei migranti esplode, apportando sempre più sofferenze, tuttavia essa non rappresenta che il 3% della popolazione mondiale. La borghesia che teme di perdere il controllo di una situazione sempre più caotica, sostiene dunque volontariamente le paure, esercita un clima di terrore che spinge gli individui isolati a rimettersi sotto la "protezione dello Stato". Contro i discorsi ufficiali ansiogeni e sulle misure di sicurezza degli apparati statali, i proletari devono agire assolutamente in modo cosciente e devono rigettare i riflessi di paura condizionata dai media, prendere coscienza che i profughi sono innanzitutto vittime del capitalismo e delle barbare politiche di questi stessi Stati. È questo che ha tentato di mostrare la nostra serie di articoli. La classe operaia dovrà, infine, essere capace di percepire che dietro la questione dei migranti si pone l'unità internazionale del combattimento rivoluzionario contro il sistema capitalista.
“Se la nostra classe riesce a ritrovare la sua identità di classe, la solidarietà può essere un importante mezzo unificatore nella sua lotta. Se invece non vede nei profughi che concorrenti e minacce, se non riesce a formulare un’alternativa alla miseria capitalista, permettendo ad ogni individuo di non essere più costretto a fuggire sotto la minaccia della guerra o della fame, allora saremmo sotto la minaccia di un'estensione massiccia della mentalità pogromista dalla quale il cuore del proletariato non riuscirebbe ad essere risparmiato”.[9]
WH, novembre 2016
[1] Véronique Petit, Les migrations internationales [36], pubblicato in: CHARBIT Yves dir., La population des pays en développement. Paris, La Documentation Française, 2000. Chapitre 5, pp.99-128. www.ladocumentationfrançaise.fr [37].
[2] Per questa ragione, l'UE creò uno spazio unico, lo spazio Schengen, per avere un controllo drastico e poliziesco più stretto alle frontiere, pur permettendo la “libera circolazione” della forza lavoro all’interno di questo spazio.
[3] Vedere il nostro opuscolo: La Guerre du Golfe [38] (in francese).
[4] All’epoca dell’offensiva serba nell'enclave di Srebrenica, i militari francesi del FORPRONU, con l'ordine del loro Stato Maggiore, mantennero la loro "neutralità", permettendo il massacro di oltre 8.000 bosniaci...
[5] Il fenomeno della prostituzione, che coinvolge anche minorenni, è in piena espansione nel mondo. Si contano circa 40 milioni di prostitute che provengono dal mondo intero, spesso spostate con la forza.
[6] Vedere gli articoli sul nostro sito in francese: Migrants et réfugiés: la cruauté et l'hypocrisie de la classe dominante [39] e Prolifération des murs anti-migrants: le capitalisme, c’est la guerre et les barbelés [40].
[7] La Turchia e il Messico occupano un posto cruciale per Europa e Stati Uniti per il loro ruolo strategico nel trattenere un gran numero di rifugiati/migranti.
[8] Vedi gli articoli: Degli scivoloni per la borghesia che non presagiscono niente di buono per il proletariato [41], e Sul problema del populismo [2].
[9] Vedi l’articolo sul nostro sito: La politica tedesca e il problema dei rifugiati: un pericoloso gioco col fuoco [42].
Gli avvenimenti del luglio 1917 a Pietrogrado, noti come “Giornate di luglio”, rappresentano uno degli episodi più significativi della rivoluzione russa. In effetti, nel cuore dell’effervescenza operaia dell’inizio del luglio 1917, è toccato al Partito bolscevico aver saputo impedire che il processo rivoluzionario in corso non portasse ad una tragica sconfitta in seguito ad un confronto prematuro provocato dalle forze borghesi. Le lezioni che si possono tirare ancora oggi da questi avvenimenti sono fondamentali per la lotta del proletariato sulla via che conduce alla sua emancipazione.
L’insurrezione di febbraio aveva portato a una situazione di doppio potere: quello della classe operaia, organizzato attraverso i suoi soviet di deputati dei lavoratori e dei soldati, e quello della borghesia, rappresentato dal governo provvisorio e sostenuto dai “conciliatori” menscevichi e socialrivoluzionari, specialmente all’interno del Comitato Esecutivo eletto dai Soviet[1]. Questa situazione di doppio potere, con lo sviluppo della rivoluzione, diveniva sempre più insostenibile.
Il montare della rivoluzione
Illusi e addormentati all’inizio dalle promesse mai mantenute dei demagoghi menscevichi e socialdemocratici sulla pace, la “soluzione del problema agrario”, l’applicazione della giornata di lavoro di otto ore, ecc., i lavoratori, particolarmente a Pietrogrado, cominciarono a rendersi conto che l’esecutivo dei Soviet non rispondeva affatto alle loro richieste ed esigenze. Essi percepivano al contrario che questo serviva da paravento al governo provvisorio per realizzare i suoi obiettivi, vale a dire, prima di tutto, a ripristinare l’ordine nelle retrovie e al fronte per poter continuare la guerra imperialista. La classe operaia, nel suo bastione più radicale di Pietrogrado, si sentiva sempre più ingannata, raggirata, tradita da quelle stesse persone cui aveva affidato la direzione dei suoi consigli. Anche se ancora confusamente, gli operai d’avanguardia tendevano a porsi la vera questione: chi esercita realmente il potere, la borghesia o il proletariato? La radicalizzazione operaia e la presa di coscienza più decisa dei problemi avverrà dalla metà di aprile, a seguito di una nota provocatoria del ministro liberale Miliukov che riaffermava l’impegno della Russia con gli alleati nella continuazione della guerra imperialista. Già provati da privazioni di ogni genere, i lavoratori e i soldati risposero immediatamente con dimostrazioni spontanee, con grandi assemblee nei quartieri e nelle fabbriche. Il 20 aprile, una gigantesca dimostrazione portò alle dimissioni di Milyukov. La borghesia doveva fare, temporaneamente, marcia indietro rispetto ai suoi piani di guerra. I bolscevichi sono intanto molto attivi in questo fermento proletario e la loro influenza si accresce tra le masse operaie. La radicalizzazione del proletariato si svolge intorno alla parola d’ordine proposta da Lenin nelle sue Tesi di aprile, “Tutto il potere ai soviet” che, nel corso dei mesi di maggio e giugno, diventa l’aspirazione di larghe masse di lavoratori. Durante tutto il mese di maggio, il partito bolscevico apparve sempre più come il solo partito realmente impegnato a fianco dei lavoratori. Una frenetica attività di organizzazione si svolge in tutti gli angoli della Russia, segno del fermento rivoluzionario. Tutto il lavoro di spiegazione e di impegno dei bolscevichi per il potere dei soviet si concretizza alla Conferenza degli operai industriali di Pietrogrado, a fine maggio, poiché questa frazione del proletariato, la più combattiva, dà loro la maggioranza nei comitati di fabbrica. Il mese di giugno conosce un’intensa agitazione politica culminante in modo spettacolare il 18 in una gigantesca manifestazione. Questa, inizialmente convocata dai menscevichi per sostenere il governo provvisorio - che aveva appena deciso una nuova offensiva militare - e l’esecutivo del Soviet di Pietrogrado, che essi dominavano ancora, si rivolge contro i “conciliatori”. In effetti, la manifestazione riprende nella sua stragrande maggioranza le parole d’ordine dei bolscevichi: “Abbasso l’offensiva!”, “Abbasso i dieci ministri capitalisti!”, “Tutto il potere ai Soviet!”
I Bolscevichi evitano la trappola dello scontro prematuro
Mentre le notizie del fallimento dell’offensiva militare raggiungono la capitale, alimentando il fuoco rivoluzionario, queste non raggiungono ancora il resto di questo paese gigantesco. Per far fronte a una situazione molto tesa, la borghesia cerca allora di provocare una rivolta prematura a Pietrogrado, di schiacciare i lavoratori e i bolscevichi per poi addossare la responsabilità del fallimento dell’offensiva militare al proletariato della capitale, che avrebbe dato “una pugnalata alle spalle” a quelli che erano al fronte.
Una tale manovra è possibile per il fatto che le condizioni della rivoluzione non sono ancora mature. Per quanto in crescita in tutto il paese tra i lavoratori e i soldati, il malcontento non raggiunge infatti, neanche lontanamente, la profondità e l’omogeneità che esiste a Pietrogrado. I contadini hanno ancora fiducia nel governo provvisorio. Tra gli operai stessi, inclusi quelli di Pietrogrado, l’idea dominante non è quella di prendere il potere, ma di obbligare, attraverso un’azione di forza, i dirigenti “socialisti” a prenderlo realmente. Era certo che con la rivoluzione schiacciata a Pietrogrado e il Partito bolscevico decimato, il proletariato in Russia così decapitato sarebbe stato sconfitto nel suo insieme.
Pietrogrado è in effervescenza. I mitraglieri che, con i marinai di Kronstadt, costituiscono un’ala avanzata della rivoluzione all’interno dell’esercito, vogliono agire immediatamente. Gli operai in sciopero fanno il giro dei reggimenti invitando i soldati a uscire in strada e a tenere delle riunioni. In questo contesto, una serie di misure adottate “al momento giusto” dalla borghesia sono sufficienti a scatenare la rivolta nella capitale. Così, il partito cadetto prende la decisione di ritirare i suoi quattro ministri dal governo “provvisorio” allo scopo di rilanciare, tra gli operai e i soldati, la rivendicazione del potere immediato ai soviet. In effetti, il rifiuto dei menscevichi e dei socialisti rivoluzionari della parola d’ordine “Tutto il potere ai Soviet!”, basato fino a quel momento sulla presunta necessità di collaborare con i rappresentanti della “borghesia democratica”, non ha più alcun senso. Allora, tra le altre provocazioni, il governo minaccia di trasferire immediatamente i reggimenti rivoluzionari combattivi dalla capitale al fronte. In poche ore, il proletariato di tutta la città si solleva, si arma e si raccoglie intorno alla parola d’ordine “Tutto il potere ai Soviet!”.
Di fatto è dalla manifestazione del 18 giugno che i bolscevichi avevano messo pubblicamente in guardia i lavoratori contro un’azione prematura. Valutando che non sarebbe stato possibile fermare il movimento, essi decidono di appoggiarlo e di mettersene alla testa, ma dando alla manifestazione armata di 500.000 lavoratori e soldati un “carattere pacifico e organizzato”. La sera stessa, gli operai si rendono conto dell’impasse momentanea della situazione, legata all’impossibilità immediata della presa del potere. Il giorno dopo, seguendo i suggerimenti dei bolscevichi, essi rimasero a casa. Fu allora che arrivarono a Pietrogrado le truppe “fresche” venute per sostenere la borghesia e i suoi accoliti menscevichi e socialisti-rivoluzionari. Per “vaccinarle” subito contro il bolscevismo, queste sono accolte dai colpi di fucile di provocatori armati della borghesia, che però vengono presentati come bolscevichi. Comincia allora la repressione. La caccia ai bolscevichi è aperta. Essa viene posta dalla borghesia sotto il segno di una campagna che li accusa di essere agenti tedeschi incaricati di aizzare le truppe contro i lavoratori. Di conseguenza, Lenin e altri leader bolscevichi sono costretti a nascondersi, mentre Trotsky e altri vengono arrestati. “Quello inferto in luglio alle masse e al partito fu un colpo molto grave, ma non un colpo decisivo. Le vittime si contarono a decine, non a decine di migliaia. La classe operaia non uscì dalla prova decapitata o esangue. Mantenne integralmente i suoi quadri combattenti e questi quadri avevano imparato molte cose.”[2]
Le lezioni del luglio 1917
Contro le attuali campagne della borghesia che presentano la rivoluzione d’ottobre come un complotto bolscevico contro la “giovane democrazia” instaurata dalla rivoluzione di febbraio, e contro i partiti altrettanto democratici che essa ha portato al potere, cadetti, socialrivoluzionari e menscevichi, gli avvenimenti di luglio di per sé tendono a smentire questa tesi. Infatti essi mostrano chiaramente come i cospiratori fossero gli stessi partiti democratici, in collaborazione con gli altri settori reazionari della classe politica russa e con la borghesia dei paesi imperialisti alleati con la Russia, nel tentativo di infliggere un’emorragia decisiva all’interno del proletariato.
Il luglio 1917 ha anche mostrato che il proletariato deve diffidare soprattutto di tutti i partiti ex operai che hanno tradito, e dunque superare le sue illusioni nei loro confronti. Una tale illusione pesava ancora fortemente sulla classe operaia nei giorni di luglio. Ma questa esperienza ha chiarito definitivamente che i menscevichi e i socialisti rivoluzionari erano passati irrevocabilmente alla controrivoluzione. Già dalla metà di luglio, Lenin tira chiaramente questa lezione: “Dopo il 4 luglio la borghesia controrivoluzionaria, a braccetto con i monarchici e dei centoneri, ha legato a sé i piccoli borghesi socialisti-rivoluzionari e menscevichi, anche intimidendoli, e ha dato il potere effettivo ai Cavaignac, alla cricca militare che fucila gl’indocili al fronte e massacra i bolscevichi a Pietrogrado”[3].
La storia mostra che una tattica temibile della borghesia contro il movimento della classe operaia consiste nel provocare scontri prematuri. Nel 1919 e nel 1921 in Germania, il risultato fu una sanguinosa repressione del proletariato. Se la rivoluzione russa è l’unico grande esempio in cui la classe operaia è stata capace di evitare una tale trappola e una sconfitta sanguinosa, questo è soprattutto perché il partito bolscevico è riuscito a svolgere il suo ruolo decisivo come avanguardia, di direzione politica della classe.
Il partito bolscevico è infatti convinto che sia sua responsabilità analizzare in permanenza i rapporti di forza tra le due classi nemiche, per essere in grado di rispondere correttamente ad ogni momento dello sviluppo della lotta. E’ convinto della necessità assoluta di studiare la natura, la strategia e la tattica della classe nemica per identificare, capire e far fronte alle sue manovre. Esso ha una profonda comprensione marxista che la conquista rivoluzionaria del potere è una sorta di arte o di scienza ed è ben consapevole che un’insurrezione prematura è altrettanto fatale quanto il fallimento di una presa del potere tentata al momento giusto. La fiducia profonda del partito nel proletariato e nel marxismo, la sua capacità di basarsi sulla forza che questi rappresentano storicamente, gli permettono di opporsi fermamente alle illusioni della classe operaia. E gli permettono ancora di respingere la pressione degli anarchici e degli “interpreti occasionali dell’indignazione delle masse”, come li chiamava Trotsky[4] che, guidati dalla loro impazienza piccolo-borghese, eccitano le masse per un’azione immediata.
Ma ciò che fu ugualmente decisivo nelle giornate di luglio fu la profonda fiducia degli operai russi nel loro partito di classe, consentendo a quest’ultimo di intervenire tra di loro ed anche di assumere il suo ruolo di direzione, benché fosse chiaro a tutti che non condivideva né i loro obiettivi immediati né le loro illusioni.
I bolscevichi affrontarono la repressione iniziata il 5 luglio, senza alcuna illusione sulla democrazia e battendosi ogni volta contro le calunnie di cui erano il bersaglio. Oggi, cento anni più tardi, la borghesia, che non ha cambiato natura e che è ancora più sperimentata e cinica, conduce con la stessa “logica” contro la Sinistra comunista una campagna simile a quella sviluppata nel luglio 1917 contro i bolscevichi. Nel luglio del 1917 essa cercò di far credere che i bolscevichi, rifiutando di sostenere l’Intesa, fossero necessariamente schierati con la Germania! Oggi essa cerca di far credere che, se la Sinistra comunista ha rifiutato di sostenere il campo imperialista “antifascista” nella Seconda Guerra mondiale, è perché essa e i suoi successori sono per il nazismo. Oggi, i rivoluzionari che tendono a sottostimare il significato di tali campagne contro di loro - che sono poi il preludio dei pogrom futuri - hanno ancora molto da imparare dall’esperienza dei bolscevichi che, dopo le giornate di luglio, hanno fatto l’impossibile per difendere la loro reputazione all’interno della classe operaia.
Durante queste giornate decisive, l’azione del partito bolscevico ha permesso alla rivoluzione montante di schivare le trappole tese dalla borghesia. Ciò non ha nulla a che vedere con l’esecuzione di un piano prestabilito da parte di uno stato maggiore esterno alla classe operaia, come la borghesia di solito parla della Rivoluzione d'Ottobre. Essa è, al contrario, l’opera di un’emanazione vivente della classe operaia. In effetti, tre mesi prima, il partito bolscevico non capiva che la Rivoluzione di febbraio metteva all’ordine del giorno la presa del potere in Russia da parte della classe operaia, trovandosi in uno stato di disorientamento di fronte alla situazione. Dopo essersi dotato di un orientamento chiaro, è stato però capace, appoggiandosi sulla propria esperienza e su quella di tutto il movimento operaio, di drizzarsi all’altezza delle sue responsabilità assumendo la direzione politica della lotta.
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[1] Cf. Febbraio 1917 in Russia. La rivoluzione proletaria in marcia [43] e Avril 1917 en Russie: Le rôle fondamental de Lénine dans la préparation de la Révolution d'Octobre [44].
[2] Trotsky, Storia della Rivoluzione russa, cap. 27, pag. 619-620. Edizioni Oscar Mondadori
[3] Lénine, “Sulle parole d’ordine”, in Opere Scelte in Sei Volumi, vol. IV, pag. 215. Editori Riuniti.
[4] Trotski, Storia della Rivoluzione russa.
Nel settembre del 1867, un gruppo di Feniani (nazionalisti irlandesi), membri dell’Irish Republican Brotherhood (Fratellanza repubblicana irlandese), fece saltare il muro della prigione di Clerkenwell a Londra per cercare di liberare un membro dell’organizzazione. L’esplosione, che non consentì del resto di liberare il prigioniero, causò il crollo di un vicino caseggiato operaio, uccidendo 12 persone e ferendo più di un centinaio di residenti. A quell’epoca, Karl Marx e altri rivoluzionari sostenevano la causa dell’indipendenza irlandese, in particolare perché la consideravano come una condizione essenziale per spezzare i legami tra la classe operaia in Gran Bretagna e la propria classe dirigente, che usava allora la sua dominazione sull’Irlanda per creare tra i lavoratori inglesi l’illusione di essere dei privilegiati, e anche per separarli dai loro fratelli e sorelle di classe irlandesi.
Tuttavia, Marx ha reagito con collera all’azione dei Feniani. In una lettera a Engels scriveva:
“L’ultima impresa dei Feniani a Clerkenwell è una cosa del tutto stupida. Le masse londinesi, che hanno dimostrato una grande simpatia per la causa irlandese, ne saranno furiose, e ciò le condurrà direttamente nelle braccia del partito al governo. Non ci si può aspettare che i proletari di Londra accettino di farsi massacrare a beneficio degli emissari feniani. Le segrete cospirazioni melodrammatiche di tale genere sono, in generale, più o meno destinate al fallimento [1].
La collera di Marx era tanto maggiore in quanto, poco tempo prima dell’esplosione di Clerkenwell, parecchi operai inglesi avevano partecipato a manifestazioni di solidarietà con cinque Feniani giustiziati dal governo britannico in Irlanda.
In questa breve citazione di Marx c’è un riassunto pertinente di due dei principali motivi per i quali i comunisti hanno sempre rigettato il terrorismo: il fatto che sostituisce l’azione di massa e autorganizzata della classe operaia con delle cospirazioni di piccole pretese élite; e il fatto che, per di più, quali che siano le intenzioni di coloro che compiono tali atti, il loro unico risultato è di consegnare l’indipendenza della classe operaia nelle mani del governo e della classe dirigente.
Molte cose sono cambiate da quando Marx ha scritto queste parole. Il sostegno ai movimenti di indipendenza nazionale, che aveva un senso in un’epoca in cui il capitalismo non aveva ancora esaurito il suo ruolo progressista, si è, a partire dalla Prima guerra mondiale, inestricabilmente trasformato nel sostegno di un campo imperialista contro un altro. Per Marx il terrorismo era un metodo sbagliato usato da un movimento nazionale che meritava di essere sostenuto. Nella nostra epoca, quando solo la rivoluzione proletaria può offrire una via da seguire per l’umanità, i movimenti nazionali sono diventati essi stessi reazionari. Legate agli interminabili conflitti imperialisti che affliggono l’umanità, le tattiche terroristiche riflettono sempre più il deterioramento brutale che caratterizza la guerra oggi. Mentre una volta i gruppi terroristici prendevano di mira principalmente simboli e figure della classe dirigente (come il gruppo russo Volontà del Popolo che assassinò lo zar Alessandro II nel 1881), la maggior parte dei terroristi di oggi riflettono la logica degli Stati che conducono la guerra imperialista utilizzando gli attentati e gli omicidi indiscriminati (come i bombardamenti aerei di intere popolazioni), colpendo una popolazione che è accusata dei crimini dei governi che li dirigono.
Secondo gli pseudo-rivoluzionari di sinistra di oggi[2], dietro gli slogan religiosi dei terroristi di Al Qaida o dello Stato Islamico, assisteremmo alla stessa vecchia lotta contro l’oppressione nazionale di quella che i Feniani avevano ingaggiato nel passato, e i marxisti dovrebbero sostenere oggi tali movimenti, anche se è necessario prendere le distanze dalla loro ideologia religiosa e dai loro metodi terroristici. Ma come Lenin aveva dichiarato rispondendo ai socialdemocratici che hanno usato gli scritti di Marx per giustificare la loro partecipazione alla Prima guerra mondiale imperialista: “Chi si richiama adesso all'atteggiamento di Marx verso le guerre del periodo progressivo della borghesia e dimentica le parole di Marx: "gli operai non hanno patria" - parole che si riferiscono precisamente all'epoca della borghesia reazionaria, superata, all'epoca della rivoluzione socialista - deforma spudoratamente Marx e sostituisce al punto di vista socialista il punto di vista borghese”[3]. I mezzi cruenti che utilizzano dei gruppi come l’ISIS e i loro simpatizzanti sono appieno compatibili con i loro obiettivi; questi non consistono nel far cadere l’oppressione, ma nel sostituire una forma di oppressione con un’altra, e cercare di “vincere” a qualunque costo la battaglia orribile che oppone un insieme di potenze imperialiste a un altro che li sostiene (come l’Arabia Saudita o il Qatar, ad esempio). E il loro “ultimo” ideale (il califfato mondiale) anche se è irrealizzabile quanto il “Reich di 1000 anni” di Hitler, è comunque un’impresa imperialista, che richiede misure ben sperimentate di rapina e di conquista.
Marx aveva sottolineato che l’azione dei Feniani a Londra avrebbe portato a una rottura tra il movimento operaio in Gran Bretagna e la lotta per l’indipendenza irlandese. Questa avrebbe creato tra i lavoratori inglesi e irlandesi delle divisioni da cui avrebbe tratto vantaggi la sola classe dirigente. Oggi i terroristi islamici non nascondono il fatto che il loro obiettivo è precisamente creare divisioni attraverso le atrocità che praticano: la maggior parte delle azioni iniziali dell’ISIS in Iraq hanno avuto come bersaglio la popolazione musulmana sciita, che considerano eretica, con lo scopo di provocare settarismo e guerra civile. La stessa logica è dietro gli attentati terroristici di Londra o di Manchester: rafforzare il divario tra i musulmani e i non-credenti, i kefir (coloro che rigettano l’Islam) e dunque accelerare lo scoppio della jihad nei paesi centrali. È una testimonianza ulteriore che persino il terrorismo può degenerare in una società che si sta decomponendo.
Oltre all’estrema destra apertamente razzista che, come i jiahdisti, sostiene una sorta di “guerra razziale” nelle strade, la principale reazione dei governi e dei politici agli attentati terroristici in Europa consiste nel brandire la bandiera nazionale e proclamare che “i terroristi non ci divideranno”. Parlano anche di solidarietà e di unità contro l’odio e la divisione. Ma dal punto di vista della classe operaia si tratta di una falsa solidarietà, lo stesso tipo di solidarietà con i nostri sfruttatori che stabiliscono un legame tra i lavoratori e gli sforzi patriottici di guerra dello Stato imperialista. E, in effetti, tali appelli all’ “unità nazionale” sono spesso un preludio alla mobilitazione per la guerra, come avvenne dopo la distruzione delle Twin Towers a New York nel 2001, con l’invasione americana dell’Afghanistan e dell’Iraq. È di questo che Marx aveva parlato evocando i lavoratori spinti nelle braccia del partito di governo. In un’atmosfera di paura e di insicurezza, quando si è di fronte alla prospettiva di stragi imprevedibili nelle strade, nei bar, nelle discoteche, la risposta comprensibile di quelli che sono minacciati da tali attacchi è di esigere la protezione dello Stato e delle sue forze di polizia. In seguito alle recenti atrocità a Manchester e a Londra, la questione della sicurezza è stata di primaria importanza durante la recente campagna elettorale del Regno Unito, i conservatori sospettando il laburista Corbyn di essere troppo lassista di fronte al terrorismo, e Corbyn accusando May di ridurre il numero di poliziotti.
Di fronte ai terroristi da un lato e allo Stato capitalista dall’altro, la posizione proletaria è di rifiutare entrambi, di battersi per gli interessi della classe operaia e per le sue esigenze. La classe operaia ha un profondo bisogno di organizzarsi in maniera indipendente, di organizzare la sua difesa contro la repressione dello Stato e le provocazioni terroriste. Ma, tenuto conto dell’attuale debolezza della classe operaia oggi, questa necessità resta in prospettiva. Esiste una tendenza di molti lavoratori a non vedere altra alternativa che ricercare la protezione dello Stato, mentre un piccolo numero di proletari tra i più svantaggiati possono essere attratti dall’ideologia putrefatta dello jihadismo. E queste due tendenze compromettono attivamente il potenziale della classe operaia a prendere coscienza di se stessa e ad aut organizzarsi. In tal modo, ogni attacco terroristico e ogni campagna di “solidarietà” sponsorizzata dallo Stato in risposta a questo devono essere considerati come colpi contro la coscienza di classe e, infine, come colpi contro la prospettiva di una società fondata su una vera solidarietà umana.
Amos, 12 giugno 2017
[1] Estratto da K. Marx e F. Engels. Ireland and the Irish question (in inglese). Mosca, 1971, p. 150
[2] Vedere ad esempio :www.marxists.org/history/etol/writers/jenkins/2006/xx/terrorism.html [46], estratto dal giornale International Socialism, del gruppo trotzkista inglese SWP, primavera 2006.
[3] Lenin, Il socialismo e la guerra [47], 1915.
A complemento del nostro articolo sulle giornate di luglio 1917, ripubblichiamo qui di seguito degli estratti del capitolo che Trotsky consacra a questo episodio nella sua Storia della Rivoluzione russa. Dal nostro punto di vista, questi passaggi presentano un interesse maggiore: la necessità della trasmissione delle acquisizioni per le generazioni presenti e future di tirare le lezioni dell’esperienza del movimento operaio espresse nei più alti momenti della sua lotta. Ma soprattutto, mettono l’accento sulla necessità primordiale per i rivoluzionari d’analizzare con la più grande lucidità il rapporto di forza reale esistente tra le classi in un dato momento, e di valutare secondo dei criteri precisi il livello globale di maturità e di coscienza raggiunto dal proletariato nella sua lotta.
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“In un proclama dei due Comitati esecutivi sulle giornate di luglio, i conciliatori si appellarono con indignazione agli operai e ai soldati contro i manifestanti che, secondo loro, “cercavano di imporre ai vostri rappresentanti elettivi la loro volontà con la forza delle armi” (...) Concentrandosi attorno al Palazzo di Tauride, le masse gridavano al Comitato esecutivo la stessa espressione che un anonimo operaio aveva lanciato a Cernov mostrandogli il suo pugno ruvido: “Prendi il potere quando te lo danno!”. In risposta, i conciliatori fecero appello ai Cosacchi. I signori democratici preferivano iniziare una guerra civile contro il popolo piuttosto che prendere il potere senza spargimento di sangue. Le guardie bianche furono le prime a sparare. Ma l’atmosfera da guerra civile fu creata dai menscevichi e dai socialrivoluzionari.
Scontrandosi alla resistenza armata della stessaistituzione cui volevano rimettere il potere, gli operai e i soldati non ebbero più chiaro l’obiettivo. Il potente movimento di massa aveva perduto il suo asse politico. La campagna di luglio si riduceva così a una manifestazione in parte effettuata con i mezzi propri di una insurrezione armata. Ma si potrebbe dire con altrettanto fondamento che si trattò di una semi-insurrezione con un obiettivo che richiedeva metodi propri di una manifestazione. (...).
Quando all’alba del 5 luglio le truppe “fedeli” penetrarono nei locali del palazzo di Tauride, il loro comandante fece sapere che il suo distaccamento si sottometteva completamente e senza riserve al Comitato esecutivo centrale. Non una sola parola del governo! Quando la fortezza di Pietro e Paolo si arrese, la guarnigione dovette solo dichiarare di obbedire al Comitato esecutivo. Nessuno esigeva che si sottomettesse alle autorità ufficiali. Le stesse truppe provenienti dal fronte si mettevano completamente a disposizione del Comitato esecutivo. A che cosa era servito allora il sangue versato? (...)
Per quanto fosse paradossale il regime di febbraio che peraltro i conciliatori adornavano di geroglifici marxisti e populisti, i veri rapporti di classe erano abbastanza trasparenti. I piccolo-borghesi colti si appoggiavano sugli operai e sui contadini, ma fraternizzavano con i proprietari e con i grossi industriali dello zucchero. Inserendosi nel sistema sovietico, attraverso il quale le rivendicazioni della base giungevano sino al potere statale ufficiale, il Comitato esecutivo serviva anche da paravento politico per la borghesia. Le classi possidenti si “sottomettevano” al Comitato esecutivo nella misura in cui spostava il potere dalla loro parte. Le masse si sottomettevano al Comitato esecutivo nella misura in cui speravano che sarebbe divenuto l’organo del potere degli operai e dei contadini. Al palazzo di Tauride si incrociavano tendenze di classe contrastanti, che si servivano entrambe del nome del Comitato esecutivo: l’una per scarsa comprensione e per credulità, l’altra per freddo calcolo. E la posta della lotta era né più né meno questa: chi avrebbe governato il paese, la borghesia o il proletariato?
Ma se i conciliatori non volevano prendere il potere e se la borghesia non avesse avuto la forza sufficiente per mantenerlo, in luglio non avrebbero forse potuto i bolscevichi impadronirsi del timone? (...) Si sarebbero potuti anche impadronire d’autorità di alcune località di provincia. E allora, aveva ragione il partito bolscevico a rinunciare alla presa del potere? Non poteva, dopo essersi rafforzato nella capitale e in alcune regioni industriali, estendere poi il suo dominio su tutto il paese? La questione è importante.
Alla fine della guerra, niente contribuì di più alla vittoria dell’imperialismo e della reazione in Europa quanto i pochi brevi mesi di kerenskismo che esaurirono la Russia rivoluzionaria e recarono un pregiudizio incalcolabile alla sua autorità morale agli occhi degli eserciti belligeranti e delle masse lavoratrici europee, che si attendevano dalla rivoluzione una parola nuova. Se i bolscevichi avessero ridotto di quattro mesi – formidabile lasso di tempo! – le doglie del parto della rivoluzione proletaria, si sarebbero trovati con un paese meno esaurito e l’autorità della rivoluzione in Europa sarebbe stata meno compromessa. Ciò non solo avrebbe comportato enormi vantaggi per i soviet nelle trattative con la Germania, ma avrebbe anche avuto una grandissima influenza sull’andamento della guerra e della pace in Europa. La prospettiva era anche troppo allettante! Tuttavia, la direzione del partito ebbe assolutamente ragione di non impegnarsi sulla via dell’insurrezione armata.
Prendere il potere non basta. Bisogna conservarlo. Quando, in ottobre, i bolscevichi ritennero che la loro ora fosse suonata, il periodo più difficile venne dopo la presa del potere. Ci volle la massima tensione di forze da parte della classe operaia per resistere agli innumerevoli attacchi dei nemici. Nel luglio, una simile disposizione a una lotta intrepida non esisteva ancora, neppure tra gli operai di Pietrogrado. Pur avendo la possibilità di prendere il potere, lo offrivano tuttavia al Comitato esecutivo. Il proletariato della capitale che, nella sua schiacciante maggioranza era già incline ai bolscevichi, non aveva ancora reciso il cordone ombelicale che lo legava ai conciliatori. C’erano ancora non poche illusioni sulla possibilità di far tutto con le parole e con le manifestazioni, di indurre con l’intimidazione i menscevichi e i socialrivoluzionari a seguire la stessa politica dei bolscevichi.
Neppure l’avanguardia della classe operaia aveva una idea chiara delle strade da battere per giungere al potere. Lenin scriveva poco dopo: “Il vero errore commesso dal nostro partito nelle giornate del 3 e 4 luglio, ora messo in luce dagli avvenimenti, consistette solo nel fatto … che il partito credeva ancora possibile uno sviluppo pacifico delle trasformazioni politiche tramite un mutamento della politica dei soviet, mentre in realtà i menscevichi e i socialrivoluzionari si erano talmente smarriti e si erano talmente legati alla borghesia - e la borghesia era divenuta tanto controrivoluzionaria - che non si poteva più prospettare un qualsiasi sviluppo pacifico”.
Se il proletariato non era politicamente omogeneo né abbastanza risoluto, ciò valeva ancora di più per l’esercito contadino. Con il suo atteggiamento nelle giornate del 3 e 4 luglio, la guarnigione aveva senz’altro offerto ai bolscevichi la possibilità di prendere il potere. Ma nella guarnigione c’erano contingenti neutri che già verso la sera del 4 luglio si orientarono decisamente verso i partiti patriottici. Il 5 luglio, i reggimenti neutrali si schierano dalla parte del Comitato esecutivo, mentre i reggimenti favorevoli al bolscevismo cercano di assumere una tinta neutrale. Per questo, molto più che per il ritardato arrivo delle truppe dal fronte, le autorità avevano le mani legate. Se i bolscevichi, in un eccesso di ardore, si fossero impadroniti del potere il 4 luglio, la guarnigione di Pietrogrado non solo non l’avrebbe difeso, ma avrebbe impedito agli operai di difenderlo nell’eventualità certa di un colpo sferrato dal di fuori.
Ancor meno favorevole la situazione nell’esercito al fronte. La lotta per la pace e per la terra lo rendeva straordinariamente accessibile alle parole d’ordine bolsceviche, soprattutto dopo l’offensiva di giugno. Ma il cosiddetto bolscevismo spontaneo dei soldati non si identificava affatto con la fiducia in un determinato partito, nel suo Comitato centrale e nei suoi dirigenti. Le lettere dei soldati di quel periodo mettono bene in luce questo stato d’animo dell’esercito. (...) Una irritazione estrema contro le sfere dirigenti che li ingannano si unisce in queste righe a una confessione di impotenza: “Noi, non comprendiamo bene i partiti”.
Contro la guerra e il corpo degli ufficiali, l’esercito era in continua rivolta e si serviva allo scopo delle parole d’ordine del vocabolario bolscevico. Ma a insorgere per trasmettere il potere al partito bolscevico l’esercito non era ancora affatto disposto. I contingenti sicuri, destinati a schiacciare Pietrogrado, furono prelevati dal governo dalle truppe più vicine alla capitale, senza un’attiva resistenza da parte degli altri contingenti, e furono trasportati per reparti senza alcuna resistenza da parte dei ferrovieri. Scontento, ribelle, facilmente infiammabile, l’esercito restava politicamente amorfo: nelle sue file c’erano ancora troppo pochi nuclei bolscevichi consistenti, capaci di indirizzare in modo uniforme le idee e le azioni della massa gelatinosa dei soldati.
D’altra parte, i conciliatori, per contrapporre il fronte a Pietrogrado e ai contadini delle retrovie, si servivano non senza successo dell’arma avvelenata di cui la reazione aveva invano cercato di servirsi in marzo contro i soviet. I socialrivoluzionari e i menscevichi dicevano ai soldati del fronte: la guarnigione di Pietrogrado, sotto l’influenza dei bolscevichi, non viene a darvi il cambio; gli operai non vogliono lavorare per le necessità del fronte; se i contadini danno ascolto ai bolscevichi e si impadroniscono subito della terra, non ne resterà più per i combattenti. I soldati avevano ancora bisogno di un’esperienza supplementare per comprendere se il governo volesse conservare la terra per i combattenti o per i proprietari.
Tra Pietrogrado e l’esercito al fronte c’erano le province. La reazione delle province dinanzi agli avvenimenti di luglio può servire di per sé come un importantissimo criterio a posteriori per giudicare se i bolscevichi avessero avuto ragione di evitare in luglio una lotta immediata per la conquista del potere. Già a Mosca il polso della rivoluzione era assai più debole che a Pietrogrado (...)”.
Lev Trotski[1]
[1] Lev Trotsky, Storia della Rivoluzione russa. Estratti dal capitolo: I bolscevichi avrebbero potuto prendere il potere in luglio?, pagg. 600-606. Oscar Mondadori.
L’escalation dell’indipendentismo catalano lungo l’iter e le difficoltà riscontrate dal governo del Partito Popolare, e più in generale dall’intero apparato statale nell’affrontare il problema in una cornice di accordi e negoziazioni, configurano una crisi politica rilevante per la borghesia in Spagna, oltre a fungere da catalizzatore nell’opera di rottura dell'“Accordo del 1978” (le regole del gioco che lo Stato si era dato a partire dalla transizione democratica del 1975) che già risultava fortemente indebolito dalla crisi del bipartitismo (PP-PSOE), e dallo sforzo di garantire un’alternativa con la costituzione di nuovi partiti (Podemos y Ciudadanos)[1].
Le ragioni contingenti di questo stato di cose coincidono con l’intensificarsi dei contrasti interni alle frazioni della borghesia e con la tendenza ad un approccio irresponsabile che pone in primo piano gli interessi particolari agli interessi globali dello Stato e il capitale nazionale; oltre al mutamento repentino della formazione politica che ha svolto il ruolo di partito di Stato, dalla transizione fino ad oggi: il PSOE (Partido Socialista Obrero Español). Le motivazioni storiche corrispondono all’acuirsi della crisi e della decomposizione del capitalismo[2].
In assenza, per il momento, di una alternativa proletaria a questa situazione, i lavoratori non hanno nulla da guadagnare e molto da perdere. Le mobilitazioni in Catalogna, l’assedio al Ministero dell’Economia e gli scontri con la guardia nazionale in seguito agli arresti di diversi funzionari delle istituzioni della Generalitat (il governo autonomo della Catalogna) o il boicottaggio dei lavoratori portuali nei confronti delle navi della polizia, non esprimono la forza dei lavoratori che al contrario si vedono pressati:
- Dai partiti apertamente indipendentisti in difesa dei membri distaccati del governo autonomo (lo stesso che taglia i salari e che indebolisce il tenore di vita dei lavoratori) e dai dirigenti di partiti come il PdCat o l’ERC (Esquerra Republicana de Catalunya) che sono palesemente di estrazione borghese e che per il fatto di essere catalani non sono da preferire per i nostri interessi ai loro rivali del PP o dei Ciudadanos;
- Dai Podemos o i “Comunes” della Colau in “difesa dello Stato Democratico”, contro la repressione del PP.
Pertanto esiste il pericolo per noi lavoratori di venire trascinati al di fuori del nostro terreno di classe, che è quello della lotta contro la borghesia, per essere dirottati verso il terreno corrotto dei tafferugli interni alle frazioni della stessa, e venire così incatenati per difendere uno Stato democratico che altro non è che l’espressione della dittatura della boeghesia. Forse lo sfruttamento, la barbarie morale, la distruzione dell’ambiente, le guerre, dovrebbero mutare in qualcos’altro a seconda che la democrazia si travesta con la bandiera spagnola o catalana?
Ma prendiamo le distanze. Cerchiamo di comprendere il conflitto catalano all’interno di un quadro internazionale e storico.
Iniziamo dal contesto internazionale. L’impasse della rivendicazione catalana ha luogo mentre il referendum kurdo spruzza benzina al fuoco della tensione in Medio Oriente e lo scontro nell’ambito della minaccia nucleare, tra due bulli – la Corea del Nord e gli Stati Uniti – mostra un deterioramento crescente del fronte imperialista. Tutto ciò in un contesto in cui la situazione economica mondiale presenta grosse nubi all’orizzonte.
Passiamo ora all’analisi storica. Abbiamo già rivendicato in precedenza nei nostri articoli l’analisi Marxista che chiarisce come in Spagna non esista un problema di «prigione delle nazioni»[3], quanto di cattiva saldatura del capitale nazionale[4]. Il capitalismo avanza in Spagna portandosi dietro un forte squilibrio tra le regioni più aperte al commercio e all’industria – quelle della linea costiera – e il resto del paese, più limitato dall’isolamento e dal ritardo nella crescita. Il paese giunse al declino del capitalismo (1914 Prima Guerra Mondiale) senza che la borghesia avesse trovato delle soluzioni a tale questione che al contrario - rispetto ai contraccolpi della crisi - acuiva le tensioni in particolare tra gli strati della borghesia in Catalogna, le regioni basche e la borghesia centrale.
Ogni volta che il capitale spagnolo si è imposto la necessità di risanare la propria organizzazione economica o politica, le frange separatiste hanno fatto valere le loro aspirazioni con tutti i mezzi a disposizione, ricorrendo anche alla violenza (ETA o Terra Lliure) e cercando di servirsi del proletariato come carne da macello.
In questo modo analizzava il separatismo catalano e gli avvenimenti del ’36 la pubblicazione della Sinistra Comunista Italiana, BILAN:
“I movimenti indipendentisti lungi dall’essere una componente della rivoluzione borghese sono espressione delle contraddizioni insanabili e insiti nella struttura della società capitalista spagnola che realizzò l’industrializzazione nelle zone della periferia mentre gli altopiani centrali venivano colpiti dal regresso economico. Il separatismo catalano invece di aspirare all’indipendenza totale viene bloccato dalla struttura della società spagnola, facendo sì che le forme estreme in cui si manifesta varino in funzione dalle necessità di canalizzare il movimento proletario”[5]
Di fatto la relazione tra il separatismo catalano e il proletariato, a sentire i discorsi attuali “di sinistra” della CUP (Candidatura d'Unitat Popular), non è di compagni di strada, bensì di antagonismo di classe.
Maciá, fondatore dell’ERC, viene dal carlismo reazionario e in una traiettoria che molti anni più tardi lo avrebbe portato al nazionalismo basco, introdusse nel nazionalismo catalano elementi del discorso ideologico stalinista. Il suo partito iniziò ad organizzare durante la 2° Repubblica un esercito specializzato nel cercare e torturare i militanti operai: gli Escamots.
Cambó, dirigente della Lega Regionalista, si accordò con la borghesia centralista per far fronte agli scioperi che in Spagna incarnavano l’onda rivoluzionaria a livello mondiale nel 1917-19 e appoggiò la dittatura di Primo De Riveira.
Companys nel 1936 fece della Generalitat de Cataluña Indipendiente una roccaforte a sostegno dello Stato nazionale, e che mobilitò gli operai verso il fronte della guerra imperialista contro Franco, distogliendoli dalla lotta di classe contro lo stato e la Generalitat[6].
E Tarradellas, allora leader dell’ERC, scese a patti con la destra tardo-franchista nel 1977 in favore della restaurazione della Generalitat.
L’assetto che favorì la transizione democratica di fronte al problema dei separatismi fu quello inaugurato dalle autonomie che senza giungere a delineare uno Stato federale conferivano competenze nella riscossione delle imposte, nella sanità, l’educazione, la sicurezza etc., alle varie regioni e in particolare alla Catalogna e alle regioni basche.
Il pilastro di questa politica fu il PSOE che ha saputo attribuirsi una struttura “federale” mantenendo disciplinate le organizzazioni regionali. Ad esso si sommarono - opportunamente spinti[7] – il Partido Nacionalista Vasco (PNV) e Convergència i Unió (CiU) catalano.
Tanto il PNV che il CiU finirono per fungere da tamponi canalizzando le rivendicazioni delle frange nazionaliste - dai più moderati ai più anarchici – nel quadro della contrattazione fungendo da supporto principalmente ai governi di destra; e anche al PSOE quando è stato necessario per governare[8].
Questo non significa tuttavia che il mare di conflitti nazionalisti fosse calmo. Dietro la facciata del fairplay parlamentare del PNV si è sviluppato l’indipendentismo intransigente dell’HB (HERRI BATASUNA) e dell’ETA. Lo stesso vale per CiU e l’ERC. D’altro canto nel PSOE si erano andate sviluppando forme di baronie regionali che hanno sempre di più messo in discussione la dimensione statale. Gli ambienti del nazionalismo basco si sono serviti degli attentati dell’ETA nel corso dei loro negoziati nella stessa misura in cui si sono visti pressati dall’HB e dall’ETA nel porre di nuovo sul piatto la disciplina delle autonomie e nel proseguire verso l’indipendenza.
E non si tratta solo di questo, ma entro le coordinate del problema del separatismo in Spagna, che non ha via d’uscita se non quella di acuirsi sempre di più, l’incidenza dell’inasprimento della crisi e la disgregazione ha generato il fenomeno di “una crescente spirale di difficoltà sempre più evidenti che conducono a vicoli ciechi ancor più insuperabili per il capitale spagnolo” dove inoltre “i settori più radicali, dall’Abertzalismo (movimento socio-politico volto alla difesa più o meno radicale del nazionalismo basco, ammettendo l’uso della violenza per servire la propria causa, ndr) fino al nazionalismo spagnolo più ultramontano, invece di perdere importanza guadagnano al contrario un più accentuato protagonismo”[9].
Nel paese basco, il Piano Ibarretxe, autentica dichiarazione di indipendenza, fu una conferma di questa tendenza. Il governo centrale tuttavia fu in grado di disinnescare l’ordigno separatista, facendo credere che avrebbe potuto rientrare nella legalità costituzionale. Ibarretxe portò il suo piano in Parlamento dove fu ignorato e bocciato immediatamente.
In Catalogna è stata la formazione sia della tripartizione di Maragall e Montilla sia del logoramento del CiU e della sua implicazione nei casi di corruzione, a mettere fuori gioco gli indipendentisti radicali. Di fronte alle sue rilevanti perdite di appoggio elettorale e, di fatto, dinanzi alla minaccia di dissolversi nel medio termine nell’ascesa dell’ERC oltre che nell’impatto del Pujolismo (il movimento politico sorto intorno alla figura di Jordi Pujol presidente della Generalidad de Cataluña tra il 1980 ed il 2003), il CiU una volta riconvertito nel PdCat per coprire le proprie pecche di corruzione, ha avviato una campagna ostile all’indipendentismo dell’ERC; eppure a conti fatti, invece di guadagnare spazio elettorale dell’ERC, ha reso il PdCat ostaggio di quest’ultimo, e di rimbalzo della CUP.
D’altra parte il PSOE intraprese una manovra di “riforma delle autonomie” che si concluse con un clamoroso fallimento e che ha finito per compromettere la propria coesione come partito. Nella Risoluzione sulla situazione nazionale che abbiamo pubblicato in Accion Proletaria n.179 rendevamo conto di questo fiasco: “La verità è che il famoso spirito ZP (Zapatero) non è riuscito a ridimensionare le ambizioni sovraniste del nazionalismo basco, tutt’altro, poiché che il piano Ibarretxe è stato ratificato nella sua mossa finale dal nazionalismo spagnolo. Altrettanto si può dire della situazione in Catalogna, dove il tentativo di controllare gli ambienti più radicali dell’ERC - attraverso il governo tripartito presieduto da Maragall - sta degenerando nel fatto che Maragall appaia (volente o nolente non è dato saperlo) come un ostaggio dell’ultra nazionalista Carod Rovira. Le difficoltà di coesione del capitale spagnolo tendono ad aggravarsi, in quanto la politica dei “gesti” del ZP, senza contentare i nazionalisti baschi e catalani (che definiscono la sua proposta di riforma della costituzione come una truffa), sta riuscendo più che altro a stimolare negli altri nazionalismi periferici quel medesimo sentimento di “irredentismo”, di “svantaggio comparativo”, etc., che a propria volta sta aprendo il vaso di Pandora del nazionalismo spagnolo che non si limita al PP, bensì può contare su ramificazioni rilevanti interne allo stesso PSOE”.
Le due tripartiti catalani non sono serviti né a placare le pulsioni indipendentiste in Catalogna né a tenere a bada l’ERC che al contrario si è radicalizzato nelle sue pretese “sovraniste” ottenendo di slogare il braccio catalano del PSOE che ha perso gran parte della sua frazione pro-catalana. Essi hanno contribuito in realtà a creare le premesse dell’enorme radicalizzazione odierna.
Quanto detto conferma quello che abbiamo formulato nelle nostri Tesi sulla decomposizione: “Tra le caratteristiche principali della decomposizione della società capitalista bisogna sottolineare la difficoltà crescente della borghesia a controllare l’evoluzione della situazione sul piano politico. (…) L’assenza di una prospettiva (che non sia quella di “salvare il salvabile” procedendo alla giornata) verso la quale essa possa mobilitarsi come classe - e nella misura in cui il proletariato non costituisce ancora una minaccia per la sua sopravvivenza - determina all'interno della classe dominante, ed in particolare del suo apparato politico, una tendenza crescente all’indisciplina e al “si salvi chi può”[10].
E si arriva così alla situazione attuale in cui il governo del PP e più in generale la borghesia spagnola, hanno sottovalutato ampiamente l’invito del 1-10.
L’impressione è che dopo il fallimento del piano Ibarretxe, essi abbiano pensato di poter convivere ugualmente con la sfida indipendentista catalana, convinti che dopo l’insuccesso del referendum del 2014, le frange indipendentiste avrebbero fatto marcia indietro. Al contrario, non solo hanno rafforzato la loro determinazione, ma la borghesia “spagnolista” non ha tenuto conto dell’impatto della decomposizione sull’apparato politico dello Stato, in particolare:
- Della crisi del PSOE, un partito diviso in regni feudali regionali e che ha perso una parte della sua capacità di iniziativa politica e di articolazione dell’insieme dei partiti del capitale nazionale[11];
- Della deriva indipendentista del CiU; il partito si è visto sempre più indebolito da una banda di talebani ultranazionalisti affermatisi nei distretti meno sviluppati della Catalogna, cosa che lo ha spinto a liberarsi in seguito di tutti i sospettati di “inclinazione spagnolista”: il primo fu Duran i Lleida ed in seguito tutti quelli che proponevano la vecchia politica del “grido nazionalista e azione di collaborazione” con l’insieme del capitale spagnolo;
- Dell’ERC, un vecchio partito indipendentista che pur avendo prestato grandi servigi al capitale spagnolo (vedi sopra) ha adottato come bandiera l’attuazione immediata dell’indipendenza (prima era un obiettivo “storico”) sviluppando un discorso nazionalista e xenofobo[12], tutte cose che possono contribuire a farlo diventare il partito centrale dello scenario politico catalano, spodestando la vecchia CIU, oggi PDCat;
- Dell’irruzione della CUP, una miscela indigesta di stalinisti, vecchi terroristi catalani e anarchici, che porta avanti un discorso di catalanismo estremo, trasfigurato, esclusivo, di una quasi purezza etnica intrisa di xenofobia, che parla di “Paesi Catalani” indipendenti e repubblicani e la cui iniziativa è volta a pregiudicare l’unione ERC-PDCat per obbligarli ad allontanarsi sempre di più dalle sfide della borghesia centrale spagnola.
Il Piano Ibarretxe fu “risolto” e in apparenza fu ristabilita la “quiete”. Il PNV si convertì in un “alunno esemplare” del maestro Urkullu (Íñigo Urkullu Rentería). Il che lo ha spinto ad affidarsi alla borghesia centrale spagnola credendo che la storia sarebbe tornata a ripetersi con la prova catalana. Fin dall’inizio i “catalanisti” non hanno commesso il grave errore di Ibarretxe di rivolgersi al Parlamento spagnolo. Hanno perseguito l’unica via possibile, quella del referendum unilaterale così da privare la borghesia centrale di qualsiasi margine di manovra, poiché la sua costituzione non consente di “mettere a repentaglio la sovranità nazionale” in 17 stati autonomi.
Quello a cui stiamo assistendo è la crisi dell'“Accordo del 1978”, gli accordi che tra il 1977-78 furono firmati da tutte le forze politiche, al fine di assicurare una “democrazia” il cui perno è stato molto di recente il bipartitismo, l’alternanza PSOE-PP, seppur il primo con un peso politico e una capacità di orientamento di gran lunga maggiori.
Tutto questo è andato in mille pezzi e la borghesia spagnola è andata a scontrarsi con il rischio che la prima regione economica della Spagna – che rappresenta il 19% del suo PIL – potesse sottrarsi al suo controllo. Ha investito tutto in una risposta repressiva: misure giudiziarie, detenzioni, sospensione di fatto dell’autonomia catalana…
Si è in pratica dimostrata incapace di far scendere in campo alternative politiche che consentissero un controllo della situazione. I sostenitori di questa strada (Podemos, Colau…) non dispongono della forza necessaria per metterla in pratica ed essi stessi risultano divisi per posizioni conflittuali. L’interlocutore di Podemos, l’IU (Izquierda Unida), ha dichiarato fermamente la propria opposizione al referendum catalano e la sua difesa incondizionata dell’“unità spagnola”. Ma d’altra parte Iglesias (Pablo Iglesias Turrión) deve affrontare la ribellione della sua variante catalana, incline ad appoggiare “criticamente” l’indipendentismo. Da parte sua, Ada Colau, gioca da mediatrice, vedendosi vincolata ad equilibri improbabili tra gli uni e gli altri, il che le ha valso l’appellativo scherzoso di Cantinflas (attore comico Messicano, ndr) catalana.
Lo stesso PSOE non è in grado di intraprendere una politica coerente. Un giorno appoggia il governo fino a difendere persino l’articolo 155 della Costituzione che permette di sospendere l’autonomia catalana. Un altro giorno proclama che la Spagna è una “nazione di nazioni”. La sua proposta di una “commissione parlamentare finalizzata al dialogo intorno alla questione catalana” è stata rifiutata con sdegno dai vari avversari.
Tuttavia, il fallimento della soluzione politica non ha come motivazione principale l’ottusità degli uni o degli altri bensì dall’imputridimento della situazione, dall’impossibilità stessa di trovare una soluzione. E ciò si spiega solo attraverso l’analisi globale che abbiamo sviluppato sulla decomposizione del capitalismo.
Questa comporta, come abbiamo già visto qualcosa che oggi è evidente: la crisi generale dell’apparato politico spagnolo che, con la questione catalana, ne uscirà ancor più danneggiato.
Ma occorre segnalare un altro elemento di analisi molto importante e che risulta allo stesso tempo connesso alla decomposizione: lo stallo politico. Anche se la situazione lì è molto diversa, questo è un aspetto che riscontriamo in Venezuela: nessuna delle due fazioni in lizza è capace di assicurarsi la vittoria. Si osserva la stessa cosa nei conflitti imperialisti dove l’autorità degli Stati Uniti come gendarme del mondo tende a indebolirsi – ancor di più con il trionfo di Trump – e ciò provoca un imputridimento insanabile dei numerosi conflitti internazionali.
Il fronte indipendentista ha un “limite”: la sua forza sta nei distretti catalani delle zone interne, ma è più debole nelle grandi città e in particolare nella fascia industriale di Barcellona.
L’alta borghesia catalana lo guarda con riserva dal momento che sa che i propri affari sono vincolati all’odiata Spagna. La piccola borghesia procede divisa, sebbene ovviamente nelle circoscrizioni della “Catalogna profonda” appoggi massivamente la separazione dalla Spagna. Ma l’enorme concentrazione economica di Barcellona – più di 6 milioni di abitanti – risulta più incline all’indifferenza. Questa concentrazione ha ben poco di quella “purezza di razza catalana”, è un enorme melting pot dove convivono persone appartenenti a più di 60 nazionalità diverse.
Dobbiamo completare l’analisi mettendo in evidenza l’importanza delle tendenze centrifughe, interne, identitarie, di rifugio esclusivo “nelle piccole comunità chiuse”, che alimenta senza sosta la decomposizione capitalista. Il capitalismo decadente tende fatalmente alla “dislocazione e disintegrazione dei suoi componenti. La tendenza del capitalismo decadente è lo scisma, il caos, da qui l’esigenza essenziale del socialismo che vuole costruire il mondo come una unità”[13]. La crescente impotenza, acuita dalla crisi, porta ad “aggrapparsi sugli specchi di ogni tipo di false comunità - come quella nazionale - che offrono una sensazione illusoria di sicurezza, di «sostegno collettivo»”[14].
Nei tre partiti favorevoli all’indipendenza catalana lo si vede chiaramente. La propaganda completamente assurda che prefigura una Catalogna “libera” come un’oasi di progresso e di crescita economica perché così “ci potremmo liberare del fardello di Madrid”, l’azione persecutoria dei turisti da parte della CUP giacché “aumenterebbero il costo della vita in Catalogna”, le allusioni sfacciate ai migranti e agli andalusi, tutto questo mostra delle tendenze xenofobe, identitarie, che poco si discostano dalle prediche populiste di Trump o di Alternativa per la Germania.
Queste tendenze esclusioniste sono parte integrante della società e sono cinicamente favorite dai tre alleati del JuntsXSi, anche se la palma se la conquista la CUP (Candidatura d'Unitat Popular).
Eppure il monopolio di questa barbarie non lo detengono in esclusiva gli indipendentisti catalani. I loro rivali “spagnolisti” praticano un discorso duplice: i grandi dirigenti si riempiono la bocca con parole come “costituzione”, “democrazia”, “solidarietà tra gli spagnoli”, “convivenza” etc., mentre di nascosto istighino all’odio contro “i catalani” e “il catalano”, propugnano il boicottaggio dei prodotti “catalani”, invitano a “rafforzare l’identità del popolo spagnolo” e la sua politica anti-emigrazione tende a connotarsi di tinte razziste.
In realtà il conflitto pacchiano tra spagnolisti e indipendentisti catalani mostra in entrambi gli schieramenti ciò che ha detto in modo chiaro Rosa Luxemburg: “Imbarazzata, disonorata, mentre nuota nel sangue e cola fango: così vediamo la società capitalista. Non come la vediamo sempre, mentre riveste il ruolo di pace e di giustizia, di ordine, di filosofia, di etica, ma come una bestia ululante, un'orgia anarchica, pestilente nebbia, distruttrice della cultura e dell’umanità, così ci appare in tutta la sua orribile crudezza” (La crisi della socialdemocrazia, cap I).
La situazione attuale sta svelando il vero volto dello Stato democratico. Tutte le forze politiche in campo rivendicano la democrazia, la libertà, i diritti che costituirebbero il patrimonio dello Stato. Gli uni in nome della “difesa della costituzione” e la “sovranità nazionale” (PP, Ciudadanos, PSOE). Gli altri in nome della “libertà democratica” di organizzare referendum e della costituzione (Podemos, Comunes, independentistas).
Ma dietro il discorso democratico ufficiale, ciò che viene elargito nella realtà dei fatti si risolve in colpi bassi, scandali di corruzione che si mettono in piazza e si nascondono all’occorrenza, inganni, etc.
Gli uni distribuiscono “colpi” nel senso stretto del termine, mandando la Guardia civile e la polizia (per quanto sia sulle navi dipinte della Warner[15]), gli altri “colpi ad effetto”; però la questione è che ciò che conta non sono le urne (a prescindere dal tipo di urna) né il voto; bensì le relazioni di forza, i ricatti in puro stile mafioso.
Gli “antisistema” della CUP non sono da meno in questo, con i loro striscioni e manifesti di delazione, mettendo all’indice i sindaci che si oppongono al referendum.
Questo è il reale funzionamento dello Stato democratico. I suoi ingranaggi non si muovono per effetto del voto, dei diritti, delle libertà e altre farse, ma grazie alle manovre, ai colpi bassi, alle cospirazioni segrete, alle calunnie, alle campagne di intimidazione e colpi bassi…
Il proletariato è disorientato. La sua perdita di identità, il riflusso del movimento, molto debole ma con potenzialità per il futuro, del 15 M[16], lo inducono in uno stato confusionale, ad una difficoltà a farsi guidare dai suoi interessi di classe. Il pericolo più grande è che tutto il suo pensiero rimanga rinchiuso in quel pozzo infestato che è il conflitto tra la Catalogna e la Spagna, costretto a ragionare, sentire, in base al dilemma “con la Spagna o con l’indipendenza”.
I sentimenti, le riflessioni, le aspirazioni già non gravitano più intorno alla lotta per le condizioni di vita, il futuro dei figli, su come sarà il mondo etc., idee che riguardano la classe operaia, sebbene siano in uno stadio embrionale. Ma sono radicalizzati sul fatto che “Madrid ci deruba” o “la Spagna ci ama”, sulla bandiera stellata o rosso-oro, su una ragnatela di concetti borghesi: democrazia, diritto di decidere, autodeterminazione, sovranità, costituzione…
Il pensiero del proletariato nella più elevata concentrazione operaia di Spagna è stato dirottato da questa discarica concettuale che mira unicamente al passato, al contraccolpo, alla barbarie. In queste condizioni le misure repressive adottate dal governo centrale il 20 settembre, possono provocare una serie di martiri, possono alimentare il vittimismo irrazionale, e in tal modo spingere in una condizione emotiva di alta tensione a scegliere con chi schierarsi e probabilmente propendere per il fronte nazionalista.
Tuttavia il maggior rischio è quello di vedersi deviati verso la difesa della democrazia.
La borghesia spagnola ha una larga esperienza nell’affrontare il proletariato sviandolo verso un terreno di difesa della democrazia al fine di massacrarlo in continuazione o inasprire violentemente lo sfruttamento.
Non dimentichiamo che la lotta iniziata in un terreno di classe, il 18 luglio del 1936 davanti all’insurrezione di Franco, fu deviata sul terreno della difesa della democrazia contro il fascismo, e sulla possibilità di scegliere tra due nemici: la repubblica o Franco, che diede come risultato UN MILIONE DI MORTI.
Così come non dimentichiamoci che nel 1981 per scongiurare i rischi rappresentati dagli ultimi residui del franchismo, il “colpo di stato” del 23 febbraio permise un’ampia mobilitazione democratica del “popolo spagnolo”. Nel 1997, un passo fondamentale per isolare l’ETA furono le ingenti mobilitazioni “per la democrazia contro il terrorismo”.
Il groviglio catalano si trova in una strada senza uscita, e con o senza referendum del 1° ottobre, potrà avere solamente una conclusione: lo scontro tra gli indipendentisti e i nazionalisti continuerà a radicalizzarsi, come nel quadro di Goya Duelo a Bastonazos, seguiteranno a sferrarsi colpi senza pietà, in ogni caso questo dilanierà il corpo sociale, accentuerà le divisioni e i conflitti più irrazionali. Il pericolo più grande è che il proletariato venga intrappolato in questa battaglia campale, specie perché tutti i contendenti si servono senza sosta dell’arma della Democrazia per legittimare i loro propositi, avanzando pretese verso nuove elezioni e nuovi “diritti di decidere”.
Siamo coscienti della situazione di fragilità in cui oggi versa il proletariato, tuttavia, questo non può impedirci di riconoscere che solamente dalla sua lotta autonoma come classe potrà emergere una soluzione. Il contributo a questo orientamento richiede di opporsi alla mobilitazione democratica, alla scelta tra la Spagna e la Catalogna, al terreno nazionale. La lotta del proletariato e il futuro dell’umanità potranno avere una prospettiva solo al di fuori da questi putridi terreni.
Acción Proletaria, 27 settembre 2017
[1] Vedi: “Che succede al PSOE?” https://es.internationalism.org/revista-internacional/201611/4182/que-le-pasa-al-psoe [49] e le analisi che sviluppiamo in “Referendum catalano: l’alternativa è Nazione o lotta di classe del proletariato”, https://es.internationalism.org/accion-proletaria/201708/4224/referendum-catalan-la-alternativa-es-nacion-o-lucha-de-clase-del-prole [50].
[2] Vedi “Tesi sulla decomposizione [51]”.
[3] L’espressione si riferisce alle nazioni che per interessi imperialisti sono state create artificialmente, assoggettando nazionalità differenti: uno degli esempi più significativi è la Yugoslavia.
[4] Vedi in Acción Proletaria n. 145, “Né il nazionalismo basco, né quello spagnolo; autonomia politica del proletariato”: “Come si può spiegare il singolare fenomeno durato quasi tre secoli e cioè che sotto una dinastia asburgica seguita da un’altra borbonica - ciascuna delle quali basta e avanza per soffocare un popolo - siano più o meno sopravvissute le libertà locali in Spagna, che proprio nel paese in cui a partire da un insieme di stati feudali è riuscita a insediarsi la monarchia assoluta nelle modalità meno mitigate, e che la centralizzazione non sia in ogni caso riuscita a mettere radici? La risposta non è complicata. Le grandi monarchie si sono formate nel secolo XVI e si stabilirono ovunque grazie alla decadenza delle classi antagoniste. Eppure negli stati principali d’Europa la monarchia si è presentata come un fuoco civilizzatore, come promotrice dell’unità sociale… In Spagna al contrario, mentre la nobiltà affondava nella degradazione senza perdere i suoi peggiori privilegi, le città furono private del loro potere feudale senza avere un’importanza in età moderna. Dai tempi dell’instaurazione della monarchia assoluta è subentrato il crollo del commercio, dell’industria, dei trasporti marittimi e dell’agricoltura. Il declino della vita industriale e commerciale rese sempre più rado il traffico interno e meno frequente l’interscambio tra gli abitanti delle diverse regioni… La monarchia assoluta trovò una base naturale che, per sua propria natura, rifiutava la centralizzazione ed essa stessa ha fatto tutto quel che poteva per impedire che si facessero strada interessi comuni basati su di una divisione nazionale del lavoro e una proliferazione del traffico interno… Perciò la monarchia spagnola a prescindere dalla sua somiglianza superficiale con le monarchie assolute europee, deve essere ben identificata al fianco delle forme di governo asiatiche. Come la Turchia, la Spagna continua ad essere un conglomerato di repubbliche mal rette con alla testa un sovrano nominale. Il dispotismo presentava caratteri diversi nelle distinte regioni a causa dell’arbitraria interpretazione della legge generale dei viceré e dei governatori; nonostante il suo dispotismo, il governo centrale non ha contrastato la sussistenza nelle varie regioni dei diversi diritti e costumi, delle monete e dei regimi fiscali. Il dispotismo orientale non aggredisce l’autonomia municipale fino a quando esso non si oppone direttamente ai suoi interessi, permettendo di buon grado a tali istituzioni di continuare la loro vita, il che non fa che risparmiare alle sue delicate spalle la fatica di qualsiasi onere, sottraendole al peso dell’amministrazione regolare» («Revolución en España», Marx/Engels, Ariel 1970, pag 74-76)
[5] BILAN, “La lezione degli avvenimenti in Spagna”, pubblicato nel nostro opuscolo in lingua spagnola “Franco y la República masacran al proletariado”.
[9] https://es.internationalism.org/accion-proletaria/200602/572/el-plan-ibarretxe-aviva-la-sobrepuja-entre-fracciones-del-aparato-polit [53]
[10] "La decomposizione, fase ultima della decadenza del capitalismo [1]"
[11] Vedi: https://es.internationalism.org/content/4214/primarias-y-congreso-del-psoe-el-engano-democratico-de-las-bases-deciden [54] e https://es.internationalism.org/revista-internacional/201611/4182/que-le-pasa-al-psoe [49]
[13] Internationalisme, (pubblicazione della Sinistra Comunista di Francia) “Rapporto sulla situazione internazionale”, 1945
[15] L’ubicazione della polizia nazionale nel porto di Barcellona su di una nave dipinta con disegni enormi di Road Runner e Titti ricorda il film di Blake Edwards: “Operazione sottoveste”, in cui il sottomarino americano dipinto di rosa e che lancia indumenti intimi femminili come siluri, lascia perplesse le corazzate giapponesi; questo aneddoto dimostra il grado di improvvisazione insito nella risposta del PP nella misura in cui ha compreso che la sfida catalana gli sarebbe scivolata di mano.
Il secondo numero di Forward, la rivista dell'RWG, contiene una discussione internazionale tra la nostra corrente (Internacionalismo; "Difesa del carattere proletario della Rivoluzione d'Ottobre") e l'RWG. ("Gli errori d'Internacionalismo sulla Rivoluzione russa"). Nella critica al nostro articolo l'RWG solleva questioni importanti senza però dare un quadro generale che permetta la comprensione globale dell'esperienza russa.
Forward non vuole, nei fatti, discutere il problema della natura proletaria d’Ottobre, è d'accordo su questo punto; ciò che lo preoccupa è la natura controrivoluzionaria degli avvenimenti successivi, benché Internacionalismo tratti solo in modo secondario questo problema. Del resto nessun articolo della nostra stampa può trattare da solo tutti i problemi della storia. Malgrado questo malinteso di base è tuttavia con stupore che leggiamo:
“Per i compagni di Internacionalismo come per i trotskjsti ed i bordighisti c'e una frontiera insormontabile tra ‘l'epoca di Lenin’ e ‘l'epoca di Stalin’. Per essi il proletariato non poteva essere sconfitto prima che Lenin non fosse al sicuro nella sua tomba e Stalin chiaramente installato a capo del PCR”. (Forward, n.2, pag.42)
Noi siamo d'accordo che questa toccante professione di fede sia caratteristica dei vari gruppi trotskjsti da cui provengono i compagni di Forward, ma mai essa ha fatto parte della nostra Corrente:
“La non comprensione da parte dei leader del partito bolscevico del ruolo dei soviet (Consigli Operai) e la loro errata concezione del processo di sviluppo della coscienza di classe, hanno contribuito al processo di degenerazione della Rivoluzione russa. Questo processo ha infine trasformato il partito bolscevico, autentica avanguardia del proletariato nel 17, in strumento attivo della controrivoluzione… Già dall'inizio della rivoluzione, la tendenza del partito bolscevico era di trasformare i soviet in organo del Partito-Stato”. (Dichiarazione di principi, Internacionalismo, in Bulletin d'Etude et Discussion di Révolution Internationale, n.7, giugno 74)
Ed ancora:
“La Rivoluzione d'Ottobre ha portato a termine il primo compito della rivoluzione proletaria: la presa del potere politico. La sconfitta della rivoluzione a livello internazionale e l’impossibilità di costruire il socialismo in un solo paese, hanno reso impossibile il passaggio ad un livello superiore, cioè l'inizio di un processo di trasformazione economica… Il Partito bolscevico ha avuto un ruolo attivo nel processo rivoluzionario che ha portato all'Ottobre, ma ha anche avuto un ruolo attivo nella degenerazione della rivoluzione e nella sconfitta internazionale… Identificandosi organizzativamente ed ideologicamente con lo Stato e considerando suo primo compito la difesa di questo Stato, il Partito bolscevico era destinato a diventare - soprattutto dopo la fine della guerra civile - l'agente della controrivoluzione e del capitalismo di stato”. (Piattaforma di Révolution Internationale).
Queste righe sembrano chiaramente indicare che la vittoria della controrivoluzione fu un processo che aveva le sue basi nel soffocamento del potere dei soviet e nella soppressione dell'attività autonoma del proletariato, un processo che portò al massacro da parte dello Stato di una parte della classe operaia a Kronstadt. Il tutto mentre Lenin era ancora vivo.
Perché la Rivoluzione russa è degenerata? La risposta non la si può trovare nel quadro di una sola nazione, nella sola Russia. Come la Rivoluzione russa fu il primo bastione della rivoluzione internazionale nel ‘17, la prima di una serie di insurrezioni proletarie internazionali, così la sua degenerazione in controrivoluzione fu espressione di un fenomeno internazionale, il risultato della sconfitta della lotta di una classe internazionale: il proletariato. In passato le rivoluzioni borghesi hanno costruito uno Stato nazionale, quadro logico per lo sviluppo del capitale, e queste rivoluzioni borghesi potevano aver luogo con un secolo o più di scarto tra i diversi paesi. La rivoluzione proletaria, invece, è per sua essenza una rivoluzione internazionale, che, o si estende al mondo intero, oppure è condannata ad una morte rapida.
La Prima Guerra Mondiale, fine del periodo ascendente del capitalismo, ha segnato il punto di non ritorno assoluto per il movimento operaio del 19° secolo ed i suoi obbiettivi immediati. Il malcontento popolare contro la guerra ha preso rapidamente un carattere politico di lotta contro lo Stato nei principali paesi di Europa. Ma la maggioranza del proletariato non è stata capace di rompere con i resti del passato (adesione alla politica della 2a Internazionale che era ormai passata nel campo borghese) e di rendersi completamente conto di tutte le implicazioni del nuovo periodo. Né il proletariato nel suo insieme, né le sue organizzazioni politiche compresero pienamente gli imperativi della lotta di classe in questo nuovo periodo di "guerra o rivoluzione", di "socialismo o barbarie". Malgrado le lotte eroiche del proletariato di quell'epoca, l'ondata rivoluzionaria fu schiacciata e la classe operaia europea massacrata. La rivoluzione russa era il faro che guidava tutta la classe operaia del tempo, ma ciò non toglie nulla al grave pericolo costituito dal suo isolamento. Anche solo una breccia temporanea fra due insurrezioni rivoluzionarie è piena di pericoli. Quella che si aprì nel 20 divenne un precipizio.
Il contesto del riflusso internazionale e dell'isolamento della rivoluzione russa è della più grande importanza. Ma all’interno di questo contesto hanno giocato un loro ruolo gli errori più gravi dei Bolscevichi. Questi errori devono essere messi in relazione con l'esperienza e le lotte della classe operaia stessa. Gli errori e i contributi positivi di un'organizzazione della classe non cadono dal cielo né si producono arbitrariamente e per caso. Essi sono, nel senso più ampio del termine, il riflesso della coscienza di classe del proletariato nel suo insieme.
Il partito bolscevico fu costretto ad evolvere teoricamente e politicamente in relazione all'offensiva del proletariato russo nel 1917 e alla prospettiva di movimenti internazionali, in Germania ed altrove. Esso è stato anche il riflesso dell'isolamento e della sconfitta del proletariato nel periodo in cui ingrandiva la vittoria della controrivoluzione. Sia nel caso dei bolscevichi che degli spartachisti o di ogni altra organizzazione politica dell'epoca, confrontata ai compiti nuovi del periodo di decadenza che si è aperto con la I guerra mondiale, la loro comprensione incompleta è servita da base a errori politici molto gravi.
Ma il partito del proletariato non è un semplice riflesso passivo della coscienza; ne è un fattore attivo di sviluppo ed estensione. I bolscevichi, esprimendo chiaramente gli obiettivi di classe del periodo della 1a guerra mondiale (“trasformare la guerra imperialista in guerra civile"), e durante il periodo rivoluzionario (opposizione al governo democratico-borghese, "tutto il potere ai soviet", formazione dell'Internazionale sulla base di un programma rivoluzionario) hanno contribuito a tracciare il cammino della vittoria. Malgrado ciò, le posizioni prese dai bolscevichi nel contesto del declino dell'ondata rivoluzionaria, (alleanza con le frazioni centriste a livello internazionale, sindacalismo, tattica del fronte unico, Kronstadt) hanno contribuito ad accelerare il processo controrivoluzionario a livello internazionale come in Russia. Una volta scomparso il focolaio di prassi rivoluzionaria sotto i colpi della controrivoluzione trionfante in Europa, gli errori della rivoluzione russa furono privati di ogni possibilità di correzione. Il partito bolscevico era diventato lo strumento della controrivoluzione.
A causa dell'impossibilità della costruzione del socialismo in un solo paese, la questione della degenerazione della rivoluzione russa è prima di tutto una questione di sconfitta internazionale del proletariato. La controrivoluzione ha trionfato in Europa prima di penetrare totalmente il contesto russo “dall'interno". Questo non deve, lo ripetiamo, servire a "giustificare" gli errori della rivoluzione russa o del partito bolscevico. Né questi errori devono "assolvere" il proletariato dal fatto di non aver saputo fare la rivoluzione in Germania o in Italia per esempio. I marxisti non hanno il compito di assolvere o condannare la storia. Il loro compito è spiegare perché questi avvenimenti hanno avuto luogo e trarne lezioni per la lotta proletaria futura.
Questo quadro generale manca nell'analisi del RWG. che discute sulla "rivoluzione e controrivoluzione in Russia" (documento del RWG.) in termini quasi esclusivamente russi. Questo modo di procedere può sembrare utile per isolare teoricamente un problema particolare. Ma non offre nessun quadro che consenta di comprendere perché questi avvenimenti si sono verificati in Russia e conduce a girare a vuoto sul fenomeno puramente russo che ne esce fuori. Come scriveva Rosa Luxemburg : "Il problema non poteva che essere posto in Russia. Esso non poteva essere risolto in Russia."
Gli aspetti specifici della degenerazione della rivoluzione
Nei limiti di quest'articolo, dovremo necessariamente accontentarci di uno sguardo d’insieme del processo di degenerazione, lasciando da parte i dettagli dei diversi episodi.
La rivoluzione russa fu anzitutto considerata come la prima vittoria della lotta internazionale della classe operaia. Nel marzo 1919, bolscevichi proclamarono il 1° Congresso di una nuova Internazionale per segnare la rottura con la socialdemocrazia traditrice, e per riunire le forze della rivoluzione per la lotta futura. Purtroppo la rivoluzione tedesca era già stata schiacciata nel gennaio 1919, e l'ondata rivoluzionaria rifluiva. Tuttavia, malgrado il blocco quasi totale della Russia e le notizie deformate che vi giungevano sul proletariato occidentale, la rivoluzione ripose tutte le sue speranze sulla sola uscita possibile, l'unione delle forze rivoluzionarie sotto un programma che definiva chiaramente gli obiettivi di classe:
“Il sistema sovietico concede la possibilità di una democrazia proletaria reale, di una democrazia per il proletariato e all’interno del proletariato, diretta contro la borghesia. In questo sistema, il posto principale è dato al proletariato industriale ed a questa classe spetta il ruolo di classe dominante, per la sua organizzazione e coscienza politica, e perché la sua egemonia politica permetterà agli strati vicini alla classe operaia ed ai contadini poveri di accedere gradualmente a questa coscienza.” (Piattaforma dell’Internazionale, 1919).
“Le condizioni indispensabili per la vittoria sono: la rottura con i servi del capitale e i massacratori della rivoluzione comunista (l'ala destra socialdemocratica), ma anche con il “centro” (il gruppo di Kautsky) che ha abbandonato il proletariato nel momento critico per raggiungere il nemico di classe.” (Piattaforma)
Questa era la posizione nell’alleanza nel 1919, e non l'alleanza con i centristi, a cui furono in seguito aperti i partiti comunisti e l'Internazionale, arrivando infine al “fronte unico”.
“Schiavi delle colonie d'Africa e d'Asia: il giorno della dittatura proletaria in Europa suonerà per voi come il giorno della vostra liberazione” (Manifesto dell'Internazionale Comunista, 1919).
E non il contrario, come predicano gli extraparlamentari oggi, seguendo le formule controrivoluzionarie sulla liberazione nazionale, frutto della degenerazione dell'Internazionale.
“Chiediamo a tutti gli operai del mondo di unirsi sotto la bandiera del comunismo che è già la bandiera delle prime vittorie per tutti i paesi !” (Manifesto)
E non il socialismo in un solo paese.
“Sotto la bandiera dei Consigli Operai, della lotta rivoluzionaria per il potere della dittatura del proletariato, sotto la bandiera della III Internazionale, operai del mondo intero, unitevi." (Manifesto).
Queste posizioni sono il riflesso dell'enorme passo in avanti compiuto dal proletariato negli anni precedenti. Le posizioni che i bolscevichi mettevano allora avanti e difendevano erano spesso in rottura netta con i loro programmi precedenti e costituivano un appello alla classe operaia tutta intera, perché riconoscesse le nuove necessità politiche della situazione rivoluzionaria.
Ma nel 1920, durante il II Congresso della stessa Internazionale, la direzione bolscevica avrebbe fatto un voltafaccia, ritornando alle “tattiche” del passato. La speranza della rivoluzione s'indeboliva rapidamente, ed il partito bolscevico difendeva allora le 21 condizioni di ammissione all'Internazionale, comprendenti: il riconoscimento delle lotte di liberazione nazionale, della partecipazione alle elezioni, dell’infiltrazione nei sindacati, insomma un ritorno al programma socialdemocratico che era completamente inadatto alla nuova situazione. Il partito bolscevico divenne in effetti la direzione preponderante dell'I.C., e l'Ufficio di Amsterdam fu chiuso. E soprattutto, la direzione bolscevica riuscì ad isolare i comunisti di sinistra: la Sinistra italiana con Bordiga e i compagni inglesi attorno alla Pankhurst, e Pannekoek con Gorter e il KAPD (che fu escluso al III Congresso). I bolscevichi e le forze dominanti dell'Internazionale operavano in favore di un riavvicinamento ai centristi, ambigui traditori come erano stati definiti solo due anni prima, e riuscirono effettivamente a sabotare ogni tentativo di creare una base di principi per la formazione di partiti comunisti in Inghilterra, in Francia o altrove, grazie alle loro manovre ed alle loro calunnie sulla sinistra. Il cammino del “Fronte Unico” del 1922 al IV Congresso e infine della difesa della patria russa e del “socialismo in un solo paese” era già aperto da queste azioni.
L'indebolimento dell'ondata rivoluzionaria ed il cammino verso la controrivoluzione è così chiaramente segnato dalla firma del trattato segreto di Rapallo[1] con il militarismo tedesco. Qualunque sia l'analisi dei punti positivi e negativi del trattato di Brest-Litovsk, esso fu stipulato alla luce del sole, dopo un lungo dibattito in seno al partito bolscevico, e fu presentato al proletariato mondiale come una cosa imposta da una situazione critica. Ma il trattato di Rapallo, solamente due anni dopo, era un tradimento di tutto quello che avevano difeso i bolscevichi, un trattato militare segreto concluso con lo Stato tedesco.
I germi della controrivoluzione si sviluppavano con la rapidità di un periodo di grandi rivolgimenti storici, quando enormi cambiamenti si producono in qualche anno o anche in qualche mese. Infine, ogni segno di vita scomparve dal corpo dell'Internazionale quando fu proclamata la dottrina del "socialismo in un solo paese".
La storia tormentata dell’I.C. non può essere ridotta ad un piano machiavellico dei bolscevichi, che avrebbero progettato di tradire la classe operaia sia in Russia sia a livello internazionale. Questa definizione infantile non può spiegare nulla nella storia. Ma la classe operaia non ha potuto reagire per mettere in piedi le sue organizzazioni a causa della disfatta e del riflusso dell'ondata rivoluzionaria; questa stessa sconfitta ha provocato la degenerazione definitiva di queste organizzazioni e dei loro principi rivoluzionari.
Marx ed Engels avevano constatato che un partito o l’Internazionale non potevano restare uno strumento della classe quando c'era un corso generale di reazione. Questo strumento della classe non può restare un'unità organizzativa quando non c'è più un'attività della classe (anche perché non può non penetrarvi il riflusso e la disfatta, trasformandolo in strumento della confusione o della controrivoluzione). Per questo Marx ha sciolto la Lega dei Comunisti dopo il riflusso dall'ondata rivoluzionaria del 1848 ed ha sabotato la I Internazionale (trasferendola a New York), quando la sconfitta della Comune di Parigi aveva segnato la fine di un periodo. La II Internazionale, malgrado il suo autentico contributo al movimento operaio, ha conosciuto un lungo processo di corruzione durante il periodo ascendente del capitalismo, in cui si era sempre più legata al riformismo e dava una visione nazionale ad ogni partito. Il suo passaggio definitivo nel campo borghese si produsse nel 1914, quando collaborò allo sforzo della guerra imperialista. Durante questo periodo di crisi per la classe operaia, il compito di progressiva elaborazione teorica e sviluppo della coscienza di classe ricadde sulle spalle delle "frazioni" rivoluzionarie della classe uscite dalle vecchie organizzazioni, che preparavano il terreno per la costruzione di una nuova organizzazione.
La III Internazionale fu costruita come espressione dell'ondata rivoluzionaria degli anni che seguirono la I guerra mondiale, ma la sconfitta dei tentativi rivoluzionari e la vittoria della controrivoluzione decretarono la sua fine come strumento della classe. Il processo di controrivoluzione fu compiuto (benché già iniziato da tempo) con la dichiarazione del “socialismo in un solo paese”, scomparsa definitiva di ogni possibilità oggettiva per le frazioni rivoluzionarie di permanere nell'Internazionale e fine di tutto un periodo.
L'ideologia borghese può penetrare, in periodi di riflusso, nella lotta proletaria, a causa della forza delle idee della classe dominante nella società. Ma, quando un'organizzazione è definitivamente passata nel campo borghese, non c'è alcun recupero possibile. Come nessuna frazione vivente che esprima la coscienza di classe proletaria può sorgere da un'organizzazione borghese (incluse quelle staliniste, maoiste e trotskiste), il che non impedisce che individui siano capaci di una tale rottura, anche l’I.C. e tutti i partiti rimasti al suo interno sono da giudicare da quel momento irrimediabilmente perduti alla causa proletaria.
Purtroppo questo processo è più facile da comprendere con il riflusso che verifichiamo oggi che in quell'epoca, da parte di tutta la classe o di molti dei suoi elementi più politicizzati. Il processo di controrivoluzione che ha condannato l'I.C. ha provocato una terribile confusione nel movimento operaio nel corso di questi ultimi 50 anni. Anche quelli che hanno perseguito lo sforzo di elaborazione teorica nei cupi anni 30 e 40, quelli che rimanevano del movimento della sinistra comunista, impiegarono molto tempo a vedere tutte le implicazioni del periodo di sconfitta. Lasciamo pure ai modernisti arroganti[2], che hanno "scoperto tutto" negli anni 74-75, il compito di insegnare alle ombre quello che la storia avrebbe dovuto essere.
IL CONTESTO RUSSO
La politica internazionale dei bolscevichi, il loro ruolo nel processo di controrivoluzione nazionale non è praticamente messo in discussione nel documento di RWG. “Rivoluzione e controrivoluzione in Russia” ed è solo incidentalmente ricordato nel testo di Forward. Per questi compagni, la controrivoluzione comincia essenzialmente con la NEP (Nuova Politica Economica). La NEP fu, per loro, “la svolta della storia dell'Unione Sovietica. Nello stesso anno, il capitalismo fu restaurato, la dittatura politica sconfitta e l'Unione Sovietica divenne uno Stato operaio.” (Rivoluzione e controrivoluzione in Russia, pag.7)
Anzitutto, è necessario dire che, indipendentemente dagli avvenimenti prodottisi nel contesto russo, una rivoluzione internazionale o una internazionale non muoiono per una cattiva politica economica in un paese. Il lettore cercherà invano un quadro coerente che consenta di analizzare la NEP o gli avvenimenti successivi in Russia in generale.
La degenerazione della rivoluzione in terra russa si esprimeva essenzialmente con il declino graduale ma mortale dei Soviet e con la loro riduzione a semplice appendice del Partito-Stato bolscevico. L'attività autonoma del proletariato, la democrazia operaia all'interno del sistema dei soviet erano la base principale della vittoria di Ottobre. Ma, già dal 1918, appariva in modo chiaro che il potere politico dei Consigli Operai stava per essere intaccato e soffocato dall'apparato statale. Il punto culminante del periodo di declino dei Soviet in Russia fu il massacro di una parte della classe operaia a Kronstadt. Il RWG, maniaco della NEP, non ha neanche ricordato il massacro di Kronstadt in relazione all'analisi dello Stato russo. Questo fatto non è sorprendente. Kronstadt non è ricordata in nessuno dei due testi principali sulla Russia, e nemmeno Rapallo. È forse comprensibile che i compagni del RWG, usciti di recente del dogmatismo trotskista, non avessero ancora compreso quando hanno scritto questi articoli, che Kronstadt non era “l'ammutinamento controrivoluzionario” di cui parlavano Lenin e Trotski. Quello che è meno comprensibile è il fatto che accusano i nostri compagni di Internacionalismo di non essere capaci di vedere "la degenerazione della rivoluzione quando Lenin era ancora vivo ".
L'errore fondamentale del partito Bolscevico in Russia era la concezione secondo cui il potere doveva essere esercitato da una minoranza della classe, il Partito. I bolscevichi credevano che il Partito potesse portare il socialismo alla classe e non hanno visto che proprio la classe nel suo insieme, organizzata in Soviet, era il soggetto della trasformazione socialista. Questa concezione che vede il Partito prendere il potere statale esisteva in tutta la sinistra, a diversi gradi, anche in Rosa Luxemburg, fino agli scritti del KAPD nel 1921. L'esperienza russa del partito al potere, che il proletariato pagava con il suo sangue, segna una frontiera definitiva sulla questione della presa del potere da parte di un partito o di una minoranza della classe, “in nome della classe operaia”. A partire da questa esperienza, la lezione della non identità di Stato e partito è diventata un segno distintivo delle frazioni rivoluzionarie della classe; in seguito anche l'acquisizione che il ruolo delle organizzazioni politiche della classe é quello di contribuire allo sviluppo della sua coscienza e non di sostituirsi all'insieme di essa.
Gli interessi storici della classe operaia, in quanto destinata a distruggere il capitalismo, non sono sempre stati compresi dall'inizio, e non potevano esserlo, perché lo sviluppo della coscienza politica della classe è costantemente ostacolato dall'ideologia borghese dominante. Marx scrisse il Manifesto Comunista senza vedere che il proletariato non poteva impadronirsi dell'apparato statale per servirsene per i propri fini. L'esperienza vivente della Comune di Parigi era necessaria per provare in modo irrefutabile che il proletariato doveva distruggere lo Stato borghese per poter esercitare la sua dittatura sulla società. Inoltre, la questione del ruolo del Partito era dibattuta nel movimento operaio fino al 17, ma l'esperienza russa segna una frontiera di classe su questo punto. Tutti quelli che ripetono o teorizzano la ripetizione degli errori dei bolscevichi sono dall'altra parte delle frontiere di classe.
Quello che lo Stato russo ha distrutto indebolendo i Soviet era la forza del socialismo. In assenza dell'attività autonoma, organizzata, dell'insieme della classe, ogni speranza di rigenerazione fu progressivamente eliminata. La politica economica dei bolscevichi era dibattuta, cambiata, modificata, ma la loro azione politica in Russia fu fondamentalmente un processo continuo che ha scavato la tomba della rivoluzione. Tutto questo processo diventa ancora più chiaro quando lo si esamina nel contesto della sconfitta internazionale del movimento cui il partito bolscevico apparteneva.
LA DITTATURA DEL PROLETARIATO
Una delle prime, delle più importanti lezioni che si devono trarre dall'esperienza rivoluzionaria del periodo del primo dopoguerra è che la lotta proletaria è prima di tutto una lotta internazionale e che la dittatura del proletariato (che sia in un settore o a livello mondiale) è prima e innanzitutto una questione politica.
Il proletariato, al contrario della borghesia, è una classe sfruttata e non sfruttatrice. Non ha dunque alcun privilegio economico sul quale poggiare il suo avvenire di classe. Le rivoluzioni borghesi erano essenzialmente un riconoscimento politico di una realtà economica acquisita. La classe capitalista era diventata la classe economica dominante della società molto prima di fare la sua rivoluzione. La rivoluzione proletaria, invece, comincia una trasformazione economica a partire da un fondamento politico: la dittatura del proletariato. La classe operaia non ha alcun privilegio economico da difendere nella vecchia società come nella nuova, e non possiede che la capacità di organizzarsi e la sua coscienza di classe, il suo potere politico organizzato in Consigli Operai per guidarla nella trasformazione della società. La distruzione del potere borghese e l'espropriazione della borghesia deve essere vittoriosa a livello mondiale prima che possa essere intrapresa - sotto la direzione della dittatura del proletariato - una qualsiasi reale trasformazione sociale.
La legge economica fondamentale dell'economia capitalista, la legge del valore, si basa sull'insieme del mercato capitalista mondiale e non può in alcun modo e con qualunque mezzo essere eliminata in un solo paese, (anche in uno dei paesi più sviluppati) o in più paesi, ma solo su scala mondiale. Non esiste scappatoia a questo fatto - nemmeno riconoscendolo devotamente per poi ignorarlo parlando di possibilità di abolire di botto in un paese il denaro e il lavoro salariato - corollari della legge del valore e del sistema capitalista complessivo. Le uniche armi a disposizione del proletariato per condurre a buon termine la trasformazione della società - la qual cosa segue e non precede la presa del potere da parte dei Consigli Operai internazionalmente – sono:
1) la forza organizzata e armata per giungere alla vittoria della rivoluzione in tutto il mondo;
2) la coscienza del suo programma comunista, orientamento politico per la trasformazione economica della società.
La vittoria del proletariato non dipende dalla sua abilità nel “gestire” una fabbrica o anche tutte le fabbriche di un paese. Gestire la produzione mentre il sistema capitalista continua ad esistere condanna questa “gestione” ad essere la gestione della produzione di plusvalore e dello scambio. Il primo compito del proletariato vincitore in un paese o settore non è quello di preoccuparsi di come creare un “mitico isolotto di socialismo” che è impossibile, ma quello di dare tutto l'aiuto possibile per la realizzazione della sua sola speranza: la vittoria della rivoluzione mondiale.
È della massima importanza stabilire delle priorità su questo punto. Le misure economiche che il proletariato prenderà in un paese o in un settore sono una questione secondaria. Nel migliore dei casi, queste non sono che misure destinate a parare il peggio e tendenti ad andare in un senso positivo: ogni errore può essere corretto se la rivoluzione avanza. Ma se il proletariato perde la sua coerenza politica, la sua forza armata, o se i Consigli Operai perdono il controllo politico e la chiara coscienza della via da percorrere, allora non vi è più speranza di correggere gli errori o di instaurare il socialismo. Oggi molte voci si alzano contro questo modo di vedere; alcune proclamano che bloccare la lotta proletaria sul terreno politico è un non senso, una vecchia fissazione reazionaria. Infatti per loro anche la concezione secondo cui la classe rivoluzionaria è una classe definita oggettivamente, il proletariato è superata e dovrebbe cedere il posto a una “classe universale” che raggruppi tutti quelli che sono “oppressi”, tormentati psicologicamente o che hanno una tendenza filosofica per la rivoluzione.
I “rapporti comunisti” o, secondo un gruppo inglese dello stesso nome, la “pratica comunista” possono essere realizzati immediatamente, basta che le persone lo desiderino. Per loro, la cosa più importante non è la presa del potere da parte del proletariato a livello internazionale e l'eliminazione della classe capitalista, ma l'immediato instaurarsi dei cosiddetti “rapporti comunisti” sotto la spinta spontanea delle “persone in generale” .
Gli elementi astratti e mitici che stanno alla base di questa teoria non rendono meno pericoloso il fatto che essa può servire perfettamente da copertura all'ideologia autogestionaria. Di fronte all'accrescerei del malcontento della classe operaia che si esprime con movimenti da massa con l'approfondirsi della crisi capitalista, una delle reazioni della borghesia potrà essere di dire agli operai: i vostri interessi non sono di lanciarvi in problemi “politici” come la distruzione dello Stato borghese, ma di prendere le fabbriche e farle funzionare “per voi stessi” nell'ordine. La borghesia tenterà di fiaccare la forza degli operai con un programma economico di autogestione dello sfruttamento e durante questo periodo la classe capitalista e il suo Stato staranno in attesa per cogliere i frutti. È ciò che è successo in Italia nel 1920, dove “Ordine Nuovo” e Gramsci esaltavano le possibilità economiche che aprivano le occupazioni di fabbrica, mentre la frazione di sinistra con Bordiga affermava che i Consigli Operai, anche se avevano le loro radici nella fabbrica, dovevano portare un attacco frontale contro lo Stato e il sistema NEL SUO INSIEME o morire.
I compagni del RWG non rifiutano la lotta politica. Si limitano a dire che il contesto politico e le misure economiche sono ugualmente importanti e cruciali. In un certo senso essi non fanno che ripetere banalmente un'evidenza marxista: il proletariato, classe sfruttata, non si batte per prendere il potere politico sulla borghesia con il fine di soddisfare una qualsiasi mania di potere, ma per gettare le basi di una trasformazione sociale attraverso la lotta di classe e l'attività autonoma e organizzata della sola classe rivoluzionaria che, liberandosi dallo sfruttamento, libererà per sempre l'Umanità tutta intera dallo sfruttamento. Ma i compagni del RWG non hanno alcuna idea concreta del modo in cui può svolgersi questo processo di trasformazione sociale. La rivoluzione è un assalto rapido contro lo Stato, ma la trasformazione economica della società è un processo che ai sviluppa a livello mondiale ed è di una complessità estrema. Per portare a buon termine questo processo economico, il quadro politico della dittatura della classe operaia deve essere chiaro. Prima di tutto, bisogna riconoscere che la presa del potere da parte del proletariato non vuol dire che il socialismo può essere instaurato per decreto. Dunque:
1) La trasformazione economica non può che seguire e non precedere la rivoluzione proletaria (non vi possono essere “costruzioni di socialismo” durante il potere della classe capitalista). La trasformazione economica, inoltre, non si compie simultaneamente alla presa di potere della classe sulla società.
2) Il potere politico del proletariato apre la via alla trasformazione socialista, ma il principale bastione che protegge la marcia della rivoluzione è l'unità e la coesione della classe. La classe può fare degli errori economici che devono essere corretti; ma se lascia il potere ad un'altra classe o ad un partito o minoranza, ogni trasformazione economica diventa per definizione impossibile.
A partire dalla nostra affermazione che la dittatura politica del proletariato è il quadro e la condizione preliminare per la trasformazione sociale, il RWG con spirito semplicista conclude "sembra che Internacionalismo neghi la necessità per il proletariato di condurre una guerra economica contro il capitalismo". (Forward, pag. 44).
Contrariamente a quanto sostiene Forward, non è tutto immediatamente della stessa importanza, o di uguale gravità, per la lotta rivoluzionaria. In un paese in cui la rivoluzione ha appena trionfato, i consigli operai possono ritenere necessario lavorare 10 o 12 ore al giorno per produrre armi o materiale da inviare ai loro fratelli di classe assediati in un'altra regione. È socialismo? No, se si considera che i principi di base del socialismo sono la produzione per i bisogni umani (e non per la distruzione) e la riduzione della giornata di lavoro. Deve allora questa misura essere denunciata come una proposta controrivoluzionaria? Evidentemente no, poiché il primo compito e la prima speranza dì salvezza della classe operaia è di aiutare l'estensione della rivoluzione e livello internazionale. Non dobbiamo allora ammettere che il programma economico è sottoposto alle condizioni della lotta di classe e che non c'è possibilità di creare un paradiso economico operaio in un solo paese? In tutto ciò, dobbiamo insistere sul fatto che ogni indebolimento politico del potere dei Consigli nelle prese di decisione e l'orientamento della lotta sarà fatale.
I rivoluzionari mentirebbero alla loro classe se la cullassero in sogni dorati pieni di latte, di miele e di miracoli economici, invece di insistere sulla necessità della lotta mortale e delle terribili distruzioni che la guerra civile impone. Non farebbero che demoralizzare quella stessa classe dichiarando che gli inevitabili rinculi economici, (in uno o più paesi) significano la fine della rivoluzione. Mettendo queste questioni sullo stesso piano immediato della solidarietà politica, della democrazia proletaria o del potere di decisione del proletariato, esse devierebbero la forza decisiva della lotta di classe e comprometterebbero così la sola speranza di instaurare un periodo di transizione al socialismo a livello mondiale.
Il RWG risponde che “dopo la rivoluzione, tutto non può essere come prima” e pone l’accento sulle tragiche condizioni degli operai russi nel 1921. Ma non ci dicono a quali condizioni si riferiscono. Forse al fatto che le organizzazioni di massa della classe operaia erano escluse da ogni reale partecipazione allo “Stato Operaio”? Che si reprimevano gli operai in sciopero a Pietrogrado? Se è di questo che parlano, toccano il fulcro della degenerazione della rivoluzione. O si riferiscono semplicemente alla fame? Ancora una volta, è inutile, secondo noi, pretendere che le difficoltà e i pericoli di fame non possano esistere dopo la rivoluzione. O invece parlano del fatto che gli operai dovevano ancora lavorare nelle fabbriche, che esistevano ancora i salari (lì si può abolire in un solo paese?) e lo scambio? Benché queste cose non siano evidentemente il socialismo, esse tuttavia sono inevitabili a meno che non si pretenda che si possa eliminare la legge del valore in un batter d'occhi. Come dice il RWG, “bisogna tirare una linea da qualche parte”. Ma dove? Mescolando l'importanza cruciale di una coerenza politica e il potere della classe con i rinculi economici, i problemi della lotta futura vengono ridotti ad una speranza di realizzazione miracolosa dei nostri desideri più sinceri.
Il socialismo (o i rapporti sociali comunisti - questi termini sono qui utilizzati in maniera interscambiabile) si definisce essenzialmente attraverso l’eliminazione completa di tutte le “cieche leggi economiche” e soprattutto della legge del valore, fondamento della produzione capitalista, eliminazione che permetterà di soddisfare i bisogni dell'umanità. Il socialismo è la fine di tutte le classi (l'integrazione dei settori non capitalisti nella produzione socializzata e l'inizio del lavoro associato che decide di suoi propri bisogni), la fine dello sfruttamento, della necessità di uno Stato (espressione di una società divisa), dell'accumulazione del capitale con il suo corollario che è il lavoro salariato e dell'economia di mercato. È la fine del dominio del lavoro morto (capitale) sul lavoro vivo. Dunque il socialismo non è una questione dì creazione di nuove leggi economiche, ma l'eliminazione delle basi delle vecchie leggi sotto l'egida del programma comunista proletario.
Il capitalismo non è un mercante borghese con un grosso sigaro, ma tutta l'organizzazione attuale del mercato mondiale, la divisione del lavoro su scala mondiale, la proprietà privata dei mezzi di produzione, compresa quella contadina, il sottosviluppo e la miseria, la produzione per la distruzione, etc... Tutto ciò deve essere estirpato ed eliminato dalla storia umana per sempre. Per ciò è necessario un processo di trasformazione economica e sociale a livello mondiale di proporzioni gigantesche, che prenderà almeno una generazione. Ciò su cui bisogna insistere è che nessun marxista può prevedere i dettagli della nuova situazione che il proletariato si troverà di fronte dopo la rivoluzione mondiale. Marx ha sempre evitato di “costruire castelli in aria” per il futuro, e tutto quanto può apportare l'esperienza russa sono delle linee di orientamento molto generali per la trasformazione economica. I rivoluzionari verrebbero meno al loro compito, se il loro unico contributo fosse il rigetto della rivoluzione russa perché essa non ha realizzato il socialismo in un solo paese, o l'elaborazione di sogni sulla simultaneità di costruzione del quadro politico e della trasformazione economica.
Il vero pericolo del programma economico della rivoluzione è che lo grande linee direttive non siano chiare, che non si sappia quali sono le misure che vanno nel senso della distruzione dei rapporti di produzione capitalista (e dunque verso il comunismo) che dovranno essere applicate appena possibile. Una cosa è dire che in certe condizioni potremo essere costretti a lavorare molte ore, o non essere capaci di abolire immediatamente il denaro in un settore. Un’altra è affermare che il socialismo significa lavorare più duramente o ancor peggio che le nazionalizzazioni, e il capitalismo di Stato sono un passo in avanti verso il socialismo. I bolscevichi non devono essere condannati per essere andati dal caos del Comunismo di guerra alla NEP (da un piano inadeguato a un altro) ma per il fatto di aver presentato le nazionalizzazioni o anche il capitalismo di Stato come un aiuto alla rivoluzione o aver preteso che la “competizione economica con l'ovest” sarebbe stata una prova della grandiosità delle capacità produttive socialiste. Un programma di trasformazione economica chiaro è una necessità assoluta, e oggi, dopo cinquant'anni di riflusso, noi possiamo esaminare la questione con maggior chiarezza dei bolscevichi o di ogni altra espressione politica del proletariato dell'epoca.
La classe operaia ha bisogno di un orientamento chiaro del suo programma politico, chiave della trasformazione economica, ma non di false promesse, di rimedi immediati alle difficoltà o di mistificazioni sulla possibilità di eliminare con un decreto la legge del valore.
LA NEP
Il RWG non è il solo ad insistere sulla NEP. Molti di coloro che hanno appena rotto con il “gauchisme”, ed in particolare con le diverse varietà del trotskismo, fanno Io stesso. Dopo aver difeso la teoria folle secondo la quale oggi esistono degli “Stati operai” - il carattere socialista della Russia attuale sarebbe “provato dalla collettivizzazione nelle mani dello Stato - essi cercano ora “il punto in cui si è prodotto il cambiamento tra il 17 e oggi” (Forward, pag. 44 ) in Russia. È la solita domanda che pongono con soddisfazione i trotskisti: “in quale momento è dunque tornato il capitalismo?”
La NEP non era un'invenzione prodotta dal cervello dei capi bolscevichi. D'altronde essa riprende per larga parte, il programma della rivolta di Kronstadt... La rivolta di Kronstadt avanza una rivendicazione politica chiara per salvare la rivoluzione: la restituzione del potere ai Consigli Operai, la democrazia proletaria e la fine della dittatura bolscevica tramite lo Stato. Ma economicamente, gli operai di Kronstadt, spinti dalla fame allo scambio individuale con i contadini per ottenere delle vettovaglie, hanno proposto un “programma” che chiedeva semplicemente una regolarizzazione dello scambio, sotto la direzione degli operai - una regolarizzazione del commercio per finirla con la fame e la stagnazione economica. I carichi di vettovaglie inviati alle città russe erano presi d'assalto dalla popolazione affamata e dovevano es-sere scortati da guardie armate. Gli operai erano spesso ridotti a scambiare arnesi con vettovaglie con i contadini. La situazione era catastrofica e Kronstadt, così come i bolscevichi, non poteva proporre niente altro che un ritorno ad una specie di normalizzazione economica, cioè niente altro che il capitalismo.
Il RWG attacca la NEP senza tenere conto del contesto storico nel quale questa è stata adottata. Inoltre, fa delle confusioni su alcuni dei punti essenziali della guerra economica contro il capitalismo che pretende di difendere.
1) “Se gli eventi spingevano verso la restaurazione della proprietà capitalista in Russia, come era in parte questo il caso,....” (Rivoluzione e controrivoluzione in Russia, pag. 7 ); “la restaurazione del capitalismo significava la restaurazione del proletariato come classe in sé, ... “ (?) (idem, pag. 17); “ci si domanda cosa si sarebbe dovuto concedere di più al capitalismo per giungere alla sua restaurazione" (Forward, pag. 46) (sottolineature nostre).
Tutto ciò è la prova lampante della confusione che si fa. La NEP non era la “restaurazione del capitalismo, dato che questo non era mai stato eliminato in Russia. Il RWG fa più avanti la stessa confusione aggiungendo: “se la NEP non era il riconoscimento dei rapporti economici capitalistici normali, cioè legali” (Rivoluzione e contro-rivoluzione in Russia, pag. 7). Ecco una cosa ancora più assurda: che i rapporti capitalistici siano o no legali, cioè che la loro esistenza, sia o no riconosciuta, non è che una questione giuridica. Quale “purezza” si guadagna a pretendere che la realtà non esista? Ad ogni modo la realtà economica, sia riconosciuta legalmente o no, rimane la stessa. Se la NEP rappresentava un momento decisivo, non è certo perché essa reintroducesse ( o riconoscesse) l'esistenza delle forze economiche capitaliste- le leggi fondamentali dell'economia capitalista dominavano il contesto russo perché esse dominavano il mercato mondiale[3].
Sulla base di ciò qualcuno dirà di sapere bene che la Russia è sempre stata capitalista e che è proprio questa la prova che non c’è mai stata una rivoluzione proletaria. Non potremo mai riconoscere una rivoluzione proletaria, se ci ostiniamo a concepirla come una trasformazione economica completa dall'oggi al domani. Una volta ancora ritorniamo al tema del “socialismo in un solo paese” che è sospeso come una nube minacciosa al di sopra dell'esperienza russa. La NEP, con le sue nazionalizzazioni delle industrie più importanti, fu un passo avanti verso il capitalismo di Stato, ma non fu il punto di viraggio del “socialismo” (o di un altro sistema diverso dal capitalismo) verso il capitalismo.
2) “Essa (la NEP) rappresenta un vero e proprio tradimento dei principi, un tradimento programmatico delle frontiere di classe (Rivoluzione e controrivoluzione.., pag. 7). È questo l'argomento centrale, che, però, è la conseguenza naturale di quello precedente. Nessuno può essere così pazzo da pretendere che la classe operaia non abbia mai cedimenti. Per quanto, in generale, la rivoluzione o avanza o è sconfitta, non si può, tuttavia, interpretare questo fatto in modo unilaterale e credere che si possa avanzare linearmente e senza problemi.
Si pone allora questo problema: che cos’è una ritirata inevitabile, che cos’è il vacillamento dei principi? Il programma bolscevico, nella misura in cui faceva un'apologia mistificatrice del capitalismo di Stato, era un programma anti-proletario, ma l'incapacità di abolire la legge del valore o dello scambio in un solo paese non è affatto un “tradimento delle frontiere di classe”. O si capisce a fondo questo fatto o si arriva alla posizione secondo cui il proletariato avrebbe dovuto realizzare il socialismo integrale in Russia. Essendo ciò impossibile per definizione, i rivoluzionari avrebbero dovuto mascherare l'incapacità di applicare il programma, mentendo su ciò che veniva realmente fatto.
Ritirate sul terreno economico saranno certamente inevitabili in molti casi (malgrado la necessità di un orientamento economico chiaro) ma una ritirata sul terreno politico significa la morte per il proletariato. È questa la differenza fondamentale che c'è tra la NEP e il massacro di Kronstadt, tra la NEP e il trattato di Rapallo o le tattiche di “Fronte unico”.
“Che avrebbero fatto i compagni di Internacionalismo in questa situazione? Avrebbero restaurato l'economia mercantile.
Avrebbero decentralizzato l'industria per affidarne la direzione ai manager? In breve si sarebbero presi la responsabilità di una “ritirata” che nei fatti era una sconfitta?... Avrebbero subordinato gli interessi della rivoluzione proletaria mondiale agli interessi del capitale nazionale russo?” (Forward, pag. 45).
Quest'approccio storico consistente nel “che avreste fatto?” è sterile per definizione; la storia non può essere cambiata o giudicata con la coscienza (o mancanza di coscienza) attuale. Comunque, le ingenue domande poste dal RWG dimostrano che essi non hanno capito la differenza tra una ritirata e una sconfitta.
L'economia mercantile? Non è mai stata distrutta a livello internazionale, che è l'unico modo per eliminarla, così nessuno ha potuto restaurarla in Russia - vi è sempre esistita. Il rublo? Ancora una domanda assurda dal punto di vista dell'analisi marxista del capitalismo mondiale e del ruolo della moneta, La decentralizzazione dell'industria? Questo è un problema politico che indebolì fortemente il potere dei Consigli Operai e appartiene a tutt'altro campo. Difendere gli interessi del capitale russo? Questa era chiaramente la campana che suonava la morte della rivoluzione.
“le trasformazione economica non poteva essere compiuta per decreto, ma il decreto era il primo passo da compiere” .
Se il RWG intende per decreto il programma della classe operaia, non ci resta più che da “decretare” il comunismo integrale immediato. E dopo? Come lo realizzeremo? Dovremo: o abbandonare la lotta, o mentire e pretendere che sia possibile realizzare il socialismo in delle piccole repubbliche socialiste.
Una rivoluzione in un paese come l'Inghilterra, per esempio, (che è ben lungi dall'essere un paese con economia arretrata e sottosviluppata come la Russia del 1917) non potrebbe resistere che poche settimane, prima di essere schiacciata dalla fame (nel caso di un blocco). Che senso avrebbe il parlare di una guerra economica sempre vittoriosa contro il capitalismo, quando la prospettiva è il morire di fame a breve termine? La sola politica che protegge e difende un bastione rivoluzionario è l'offensiva della rivoluzione a livello internazionale e la sola speranza è la solidarietà politica della classe, la sua organizzazione autonoma e la lotta di classe internazionale.
ALCUNE MISURE PER UN PROGRAMMA DI TRANSIZIONE
Il RWG, con tutte le sue chiacchiere sulla NEP, non suggerisce nulla che possa servire ad orientare in modo socialista l'economia nella futura lotta rivoluzionaria. In che direzione dovremo andare fintantoché la lotta di classe ce lo permetterà?
1) Socializzazione immediata delle grosse concentrazioni capitaliste e dei principali centri di attività proletaria.
2) Pianificazione della produzione e della distribuzione da parte dei Consigli Operai, secondo il criterio della massima soddisfazione possibile dei bisogni (dei lavoratori e della lotta di classe) e non dell'accumulazione.
3) Tendenza a ridurre l'orario di lavoro.
4) Aumento sostanzioso del livello di vita degli operai, che comprende l'organizzazione immediata di trasporti, di abitazioni, di servizi medici gratuiti, il tutto sotto la direzione dei Consigli Operai.
5) Tentativi da parte dei Consigli Operai di eliminare, per quanto è possibile, la forma salariale e il denaro in tutta la società anche se è necessario per questo ricorrere al razionamento dei beni, nel caso questi siano in quantità insufficiente. Questo sarà piú facile nelle zone in cui il proletariato é fortemente concentrato ed ha molte risorse a sua disposizione.
6) Organizzazione delle relazioni tra i settori socializzati e i settori in cui la produzione resta individuale (soprattutto nelle campagne), orientata verso uno scambio organizzato e collettivo, in un primo tempo attraverso le cooperative (che porterebbero eventualmente all'eliminazione della produzione privata e dello scambio, se la lotta di classe vince nelle zone rurali); misura questa che rappresenta un passo avanti verso la scomparsa dell’economia di mercato e degli scambi individuali.
Questi punti devono essere considerati suggerimenti per l'orientamento futuro, come un contributo al dibattito che va avanti all'interno della classe su questi problemi.
L'OPPOSIZIONE OPERAIA
I compagni del RWG non capiscono la situazione russa, par cui vi si perdono. Essi cercano di dare un orientamento per il futuro richiamandosi a qualcuna delle frazioni russe dissidenti. Come tutti quelli che rigettano completamente il passato e pretendono che la coscienza rivoluzionaria sia nata ieri (assieme a loro, naturalmente), il RWG ragiona all'incontrario e risponde alla storia a modo suo. Non si tratta di un arricchimento delle lezioni del passato, ma di un desiderio di riviverlo e di “fare meglio”, anziché cercare che cosa se ne può trarre fuori oggi.
Il RWG scrive dunque: “il nostro programma è quello dell'Opposizione Operaia, cioè quello di stimolare l'attività autonoma della classe operaia contro la burocratizzazione ed i tentativi di restaurazione del capitalismo”. Ciò rivela una fondamentale mancanza di comprensione di ciò che significa realmente l'Opposizione Operaia nel contesto dei dibattiti che si svolgevano in Russia. L'Opposizione Operaia è stato uno dei numerosi gruppi che hanno lottato contro l'evolvere degli avvenimenti in Russia verso la degenerazione. Pur non rigettando assolutamente i loro sforzi spesso coraggiosi, è tuttavia necessario considerare qual era il loro programma.
L'Opposizione Operaia non era contro il “burocratismo”, ma contro la burocrazia di Stato e per l'utilizzazione della burocrazia sindacale. A gestire il capitale in Russia dovevano essere i sindacati e non l'apparato del partito-Stato. L'Opposizione Operaia voleva forse difendere la iniziativa operaia, ma per lei questa doveva esprimersi all'interno del contesto sindacale. La vera vita della classe all'interno dei soviet era stata quasi del tutto soffocata nel 1920-21 ma questo non voleva dire che fossero i sindacati e non i consigli operai lo strumento della dittatura del proletariato. È lo stesso tipo di ragionamento che ha portato i bolscevichi a concludere che fosse necessario ritornare a certi aspetti del vecchio programma socialdemocratico (infiltrazione nei sindacati, partecipazione al parlamento, alleanza coi centristi, etc.) dato che il programma del primo congresso dell'Internazionale Comunista non poteva essere facilmente attuato a causa della sconfitta delle insurrezioni proletarie in Europa. Anche se i soviet erano tati schiacciati, l'attività autonoma della classe (per non parlare della sua attività rivoluzionaria) non poteva più esercitarsi all'interno dai sindacati in periodo di decadenza del capitalismo. Tutto il dibattito sui sindacati si basava su un falso assunto: che i sindacati potessero sostituirsi ai soviet come organizzazioni unitarie della classe. Su questo punto gli insorti di Kronstadt che lanciavano come parola d'ordine la rigenerazione dei Soviet erano molto più chiari. All'epoca l’Opposizione Operaia appoggiò l'annientamento militare di Kronstadt.
È fondamentale la comprensione storica che nel contesto della situazione russa il dibattito portato avanti dall'Opposizione Operaia si limitava al modo dì “gestire” la degenerazione e che quindi sarebbe il colmo dell’assurdità richiamarsi oggi ad un tale programma. Ancora, il RWG afferma:
“ma noi siano sicuri di una cosa: se il programma dell'Opposizione Operaia, il programma dell'attività autonoma del proletariato, fosse stato adottato, la dittatura proletaria in Russia sarebbe morta (ammesso che lo sarebbe stata) combattendo il capitalismo e non adattandovisi. E ci sarebbe stata qualche possibilità di salvezza con una vittoria in Occidente. Se questo programma di lotta fosse stato adottato, non ci sarebbe stata forse una ritirata a livello internazionale. Ci sarebbe stata forse qualche possibilità che la Sinistra Internazionale predominasse nell'Internazionale Comunista” (Forward, pagg. 48, 49)
Questo prova soltanto che c'è una convinzione radicata nello RWG che se in Russia le cose fossero andate meglio, tutto sarebbe stato diverso. Per loro la Russia era l'elemento decisivo del tutto. Essi affermano anche, come abbiamo visto, che se fossero state prese misure economiche diverse, il tradimento politico sarebbe stato evitato e non viceversa. Ma l'assurdità storica di quest'ipotesi è dimostrata dal: “ci sarebbe stata forse qualche possibilità che la sinistra internazionale predominasse nell'Internazionale Comunista”. La Sinistra Internazionale, di cui presumiamo che parlino, non aveva le idee molto chiare a quell'epoca sul programma economico. Ma il KAPD, per esempio, si basava sul rigetto del sindacalismo e della sua burocrazia. L'Opposizione Operaia ha trovato ben poco da ridire sulla strategia bolscevica in Occidente ed ha sempre fatto da tampone alla politica bolscevica ufficiale su questa questione, ivi comprese le 21 condizioni del secondo congresso dell'Internazionale Comunista (come fece Ossinsky). La visione di un'Opposizione Operaia che diventa il punto di riferimento della Sinistra Internazionale è una pura invenzione del RWG, che non conosce la storia di cui parla con tanta leggerezza.
Il RWG, mentre scrive che “interrogare la sfera di cristallo non è un'attività rivoluzionaria” (Forward, pag. 48), si perde qualche riga più in basso nella descrizione degli infiniti orizzonti che l'Opposizione Operaia avrebbe aperto alla classe operaia. Si potrebbe dire che più che stare attenti ad evitare le sfere dì cristallo sarebbe meglio sapere di cosa si sta parlando.
LE LEZIONI D'OTTOBRE
Il nostro scopo principale in quest'articolo non è di polemizzare, benché sia sicuramente utile per fare chiarezza su certi punti. Il compito principale dei rivoluzionari è trarre dalla storia dei punti di orientamento per il futuro. La discussione su quale è il momento in cui la rivoluzione ha cominciato a degenerare è meno importante del:
1) Vedere se questa degenerazione c'è stata.
2) Capire perché c'è stata.
3) Cercare di contribuire alla presa di coscienza della classe mettendo in evidenza gli apporti positivi e quelli negativi di quella epoca.
È in questo senso che vorremmo contribuire e dare una visione generale delle principali eredità lasciateci dall'esperienza dell'ondata rivoluzionaria del dopoguerra, per oggi e per domani.
1) La rivoluzione proletaria è una rivoluzione internazionale, ed il primo compito della classe operaia in un paese è di contribuire alla rivoluzione mondiale.
2) Il proletariato è la sola classe rivoluzionaria, il solo soggetto della rivoluzione e della trasformazione sociale. È chiaro oggi che ogni alleanza “operai – contadini” è da rigettare.
3) Il proletariato organizzato nel suo insieme in Consigli, costituisce la dittatura del proletariato. Il ruolo del partito politico della classe non è di impadronirsi del potere Statale, di “dirigere in nome della classe”, ma di contribuire a sviluppare e a generalizzare la coscienza di classe all'interno di questa. Nessuna minoranza politica può costituirsi alla classe nell'esercizio del potere politico.
4) Il proletariato deve esercitare il suo potere armato contro la borghesia. Benché il principale modo di unificare la società debba essere quello d'integrare gli elementi non proletari e non sfruttatori nella produzione socializzata, in alcune occasioni può essere necessario utilizzare la violenza contro questi settori; ma questa non può essere utilizzata come mezzo per risolvere le discussioni all'interno del proletariato e delle sue organizzazioni di classe. Bisognerà fare ogni sforzo per rafforzare l'unità e la solidarietà del proletariato.
5) Il capitalismo di Stato è la tendenza dominante dell'organizzazione capitalista in periodo di decadenza. Le misure di capitalismo di. Stato, ivi comprese le nazionalizzazioni, non sono in alcun modo un programma per il socialismo né una “tappa progressiva”, né una politica che possa “aiutare” la marcia verso il socialismo.
6) Le linee generali delle misure economiche che tendono a eliminare la legge del valore, la socializzazione della produzione industriale e agricola per i bisogni dell'umanità, menzionate sopra, rappresentano un contributo all'elaborazione di un nuovo orientamento economico per la dittatura del proletariato.
Questi punti, qui rapidamente illustrati, non hanno la pretesa di fare una panoramica della complessità dell'esperienza rivoluzionaria, ma possono servire da punti di riferimento per una elaborazione futura.
Oggi, con la ripresa della lotta di classe, ci sono molti piccoli gruppi come il RWG che si sviluppano ed è importante capire le implicazioni del loro lavoro ed incoraggiare gli scambi di idee tra i rivoluzionari. Ma c'è il pericolo che dopo tanti anni di controrivoluzione, questi gruppi non siano capaci di riappropriarsi della eredità del passato rivoluzionario. Come il RWG, molti di questi gruppi pensano di essere i primi a “scoprire” la storia, come se prima di loro ci fosse stato il nulla. Questo puó portare ad aberrazioni di questo genere: fissarsi sul programma dell'Opposizione Operaia o dei gruppi dì sinistra russi, nel vuoto, come se si “scoprisse” ogni giorno un “nuovo pezzo del puzzle”, senza inserire i nuovi elementi in un contesto più ampio. Senza conoscere il lavoro della Sinistra Comunista (ed esaminarlo in modo critico) (KAPD, Gorter, Sinistra Olandese, Pannekoek, “Workers Dradnought ", la Sinistra Italiana, la rivista Bilan negli anni 30 e Internationalisme negli anni 40, il Comunismo dei Consigli e Living Marxisme, come i Comunisti di Sinistra russi), e senza vederlo come pezzi separati di un puzzle, ma comprendendolo in termini generali di sviluppo della coscienza rivoluzionaria della classe, il nostro lavoro sarà condannato alla sterilità e all'arroganza del dilettante.
Quelli che fanno lo sforzo indispensabile di rompere col gauchisme dovrebbero capire che non sono i soli a marciare sul cammino della rivoluzione e in tutta la storia e al giorno d'oggi.
Judith Allen
[1] Il trattato di Rapallo tra Russia e Germania (aprile 1922) viene preparato dagli incontri di Radek in prigione con Rathman ed altri esponenti militari ed economici tedeschi. La collaborazione militare segreta tra le due nazioni, nascosta dietro un'innocente facciata commerciale, viene alla luce nel 1926 (“scandalo delle granate”), quando si rivela che fabbriche russe forniscono armi all'esercito tedesco, al quale viene concessa la possibilità di addestrarsi in territorio russo.
[2] Vedi “Dal modernismo al niente” su World Revolution n. 3 e Révolution Internationale n. 18.
[3] La politica di comunismo di guerra in Russia durante la guerra civile, tanto vantata dal RWG, non era “meno capitalista” della NEP. L'espropriazione violenta dei beni ai contadini, pur essendo una misura necessaria per l'offensiva proletaria all'epoca, non costituiva affatto un “programma” economico (il saccheggio?). È facile vedere che queste misure temporanee, intervenendo con la forza sulla produzione agricola, non potevano durare indefinitamente. Prima, durante e dopo il comunismo di guerra, la base essenziale della produzione restava la proprietà privata. Il RWG ha ragione di sottolineare l'importanza della lotta di classe degli operai agricoli in Russia, ma questa lotta non annientò automaticamente e immediatamente il ceto contadino ed il suo sistema di produzione, anche nel migliore dei casi.
Pubblichiamo qui di seguito la traduzione di un volantino realizzato dai compagni della nostra sezione in Spagna che è stato diffuso in tutto il paese dopo gli scontri e la repressione in Catalogna seguiti al referendum del 1° ottobre organizzato dagli indipendentisti. Si tratta della riaffermazione dell'internazionalismo proletario di fronte a una situazione che costituisce una ulteriore dimostrazione dell'attuale sprofondamento del sistema capitalista in un processo di decomposizione sociale che ha effetti pericolosi per la classe operaia e l'umanità tutta.
Il primo ottobre scorso, le masse popolari portate dagli indipendentisti catalani alla farsa del referendum sono state brutalmente colpite dalla repressione del governo spagnolo. Le due frazioni rivali si sono entrambe vestite con il mantello della democrazia per meglio giustificare, l'una la repressione, e l'altra il voto. I Catalanisti si sono presentati come le vittime della repressione per sostenere la loro rivendicazione di indipendenza. Il governo Rajoy ha giustificato la sua barbarie repressiva in nome della Costituzione e dei diritti democratici di tutti gli spagnoli. I partiti “neutrali” (Podemos, il partito della Colau, ecc.[1] ) hanno invocato la democrazia per criticare Rajoy e spingerlo a “trovare una soluzione” al conflitto catalano.
Noi denunciamo questa trappola creata dalla lotta tra frazioni del capitale che spinge a scegliere, da un lato, l'imbroglio di un referendum truccato, e, dall'altro, la repressione brutale del governo spagnolo. Da entrambi i lati, è la classe operaia e tutti gli sfruttati che ne sono le vittime.
Tutti ci presentano la democrazia come il Bene supremo. Ci vogliono far dimenticare che dietro la maschera della democrazia, si nasconde lo Stato totalitario. Esattamente come i regimi militari o totalitari, lo Stato democratico rappresenta la dittatura esclusiva del capitale che impone in nome del voto popolare i suoi interessi e i suoi obiettivi contro l'interesse di tutti gli sfruttati e di tutti gli oppressi.
Durante la Prima Guerra mondiale, con i suoi 20 milioni di morti, tutte le potenze hanno giustificato la loro barbarie in nome della difesa della democrazia. Durante la Seconda Guerra mondiale, se il campo nazista dei vinti aveva istallato un regime di terrore che si appoggiava su delle ideologie apertamente reazionarie come la “supremazia della razza ariana”, il campo dei vincitori, che riuniva non solo le potenze “democratiche”, ma anche il brutale regime stalinista dell'URSS, si è nascosto dietro la scusa della democrazia per giustificare la sua partecipazione a una barbarie che si è conclusa con 60 milioni di morti, con anche l'utilizzazione diretta della bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki. E' in nome della difesa della democrazia che la Repubblica spagnola riuscì a trascinare operai e contadini nel terribile massacro della guerra civile del 1936 tra le due frazioni della borghesia (repubblicani e franchisti) che ha fatto un milione di morti.
E' in nome della democrazia, utilizzando il regime costituzionale del 1978 che tutti, i franchisti che si erano rifatti la faccia come i campioni della democrazia, ci hanno imposto una degradazione inesorabile delle nostre condizioni di vita e di lavoro che ci ha portato all'attuale situazione in cui il lavoro stabile è stato rimpiazzato dalla precarietà generalizzata. A questa degradazione hanno contribuito tanto i dirigenti nazionalisti catalani che i dirigenti nazionalisti spagnoli. Ricordiamoci che il governo autonomo di Artur Mas nel 2011-2012 fu il pioniere dei tagli nel settore della sanità, dell'insegnamento, delle indennità di disoccupazione, ecc., e che queste misure sono state in seguito generalizzate a tutta la Spagna dal governo Rajoy!
Sia i dirigenti spagnoli che quelli catalani hanno le mani sporche del sangue della loro repressione delle lotte operaie. La democrazia ha debuttato nella Spagna postfranchista con la morte di cinque operai nel corso del grande sciopero di Vitoria nel 1976. Sotto il governo “socialista” di Felipe Gonzales, tre operai furono assassinati durante lotte a Gijon, Bilbao e Reinosa. Il governo autonomo catalano di Artur Mas ha scatenato una brutale repressione contro le assemblee generali degli Indignados, facendo cento feriti. In precedenza, nel 1934, i suoi attuali alleati dell'ERC[2] avevano organizzato una milizia (gli Escamots) specializzata nella tortura dei militanti operai
E tutti si permettono di inneggiare alle loro regole democratiche che proclamano come il loro ideale. Abbiamo visto la frazione catalanista imporre con la forza, grazie a una forzatura parlamentare la sua procedura per l'indipendenza con le sue urne truccate, riempite fino all'orlo di schede in favore del “SI”.
In nome della sacrosanta democrazia si scatena una guerra a morte intorno ad un altro pilastro della dominazione capitalista: la Nazione. La nazione non è il raggruppamento “fraterno” di tutti quelli che sono nati in uno stesso territorio, ma è la proprietà privata dell'insieme dei capitalisti di un paese che organizzano attraverso lo Stato lo sfruttamento e l'oppressione di tutti i loro assoggettati. Gli aspiranti a una nuova “madre-patria”, gli indipendentisti catalani, si presentano come le vittime della barbarie dei loro rivali e sostengono che “Madrid ci deruba” per mobilitare della carne da cannone in nome della “difesa di una vera democrazia”. La loro “vera democrazia” consiste nell'esclusione di quelli che non condividono i loro obiettivi. La vessazione di quelli che non vanno a votare, la messa all'indice e le offese per i non seguaci della loro causa, il ricatto morale verso quelli che, semplicemente, vogliono mantenere uno spirito critico. In tutte le zone sotto la loro influenza, hanno imposto la dittatura delle loro associazioni “civiche” e, con l'arma dell'insulto, della calunnia, dell'ostracismo, della persecuzione, del controllo, cercano di “omogeneizzare” la popolazione intorno alla Catalogna. Con un atteggiamento ogni volta più insolente, i gruppi indipendentisti, mettono in atto i loro metodi nazisti e teorizzano la “purezza” della “razza catalana”.
Dal canto loro, i democratici nazionalisti spagnoli non sono da meno. L'odio contro i catalani, la manovra del trasferimento delle sedi delle grandi aziende fuori dalla Catalogna, le mobilitazioni sedicenti “spontanee” in appoggio alle forze di repressione incoraggiate con l'incitamento barbaro “Forza, prendiamoli!” che ricorda il sinistro “Forza ETA, ammazzateli!”[3] dei nazionalisti baschi, l'appello ad esporre alle finestre le bandiere rosse e oro della Spagna, tutto questo mostra lo scatenamento della bestia rossiccia di sinistra memoria che, con il franchismo, servì da leva per istallare un regime di terrore.
Quello che le due bande rivali condividono è l'esclusione e la xenofobia, entrambe si ricongiungono in uno stesso odio del migrante, nello stesso disprezzo verso i lavoratori arabi, latino-americani o asiatici, con i loro slogan ripugnanti: “ci levano il pane di bocca”, “rubano i nostri posti di lavoro”, “allungano le code alle porte dei servizi sanitari”, ecc., mentre è la crisi del capitalismo e l'incapacità dei suoi Stati, che sia quello di Spagna o della Autonomia catalana, che sono responsabili della degradazione delle condizioni di vita di tutti e che spingono migliaia di giovani verso una nuova ondata di emigrazione che ricorda quella degli anni 50-60, durante il franchismo.
In mezzo a questo selvaggio confronto, i “neutrali” del partito Podemos o del partito di Ana Colau cercano di farci credere che la Democrazia, con il suo famoso “diritto di decidere noi stessi” sarebbe il rimedio che permetterebbe un negoziato e una “soluzione civile”. In questo concerto di illusioni finalizzata a confonderci, è apparsa una iniziativa: “Parliamo insieme”, che vuole mettere da parte le due bandiere nazionali (quella della Spagna e quella della Catalogna) ed alzare la “bandiera bianca” del dialogo e della democrazia.
Il proletariato e tutti gli sfruttati non possono farsi illusioni. Il conflitto nato in Catalogna è dello stesso tipo dei conflitti populisti e avventuristi che hanno portato alla Brexit in Gran Bretagna o alla elezione di un irresponsabile, Trump, alla testa della prima potenza mondiale. E' l'espressione della degenerazione e della decomposizione che provoca l'aggravarsi di una crisi che non è solo economica, ma allo stesso tempo politica, in seno ai differenti Stati capitalisti.
Il capitalismo attuale presenta l'apparenza che “tutto va bene nel migliore dei mondi”, che “usciremo dalla crisi”, che c'è un “progresso tecnologico” e un dinamismo mondiale. Ma sotto questo strato superficiale di vernice brillante, quello che matura sotterraneamente con sempre maggior forza, è la violenza delle contraddizioni del capitalismo, la guerra imperialista, la distruzione dell'ambiente, la barbarie morale, le tendenze centrifughe verso il ciascuno per sé su cui si appoggiano (e allo stesso tempo nutrono) la proliferazione di concezioni e di azioni xenofobe, di esclusione endogamica.
Questo vulcano su cui sediamo è entrato in eruzione parecchie volte, come recentemente in Estremo Oriente con il pericolo di guerra fra Corea del Nord e Stati Uniti, ma si manifesta anche attraverso il conflitto catalano. Sotto una forma apparentemente civile e democratica, inframmezzata da presunte “negoziazioni” e “tregue”, la situazione si sta degradando progressivamente e corre il rischio di incistarsi e diventare insolubile, il che non può che generare tensioni ogni volta più brutali. Anche se finora non ci sono stati morti, il rischio diventa sempre più grande. Un clima sociale di frattura, di scontri violenti e di intimidazione si sta radicando in tutta la società, non solo in Catalogna, ma in tutta la Spagna. Già adesso cresce il numero di persone che, non potendo più sopportare la loro situazione, abbandonano i loro amici, i propri figli, il proprio lavoro...
Quello che vediamo svilupparsi sotto i nostri occhi è quella che, di fronte alla barbarie della Prima Guerra mondiale, nel 1915, scriveva la rivoluzionaria Rosa Luxemburg in maniera profonda e profetica:
"Svergognata, disonorata, sguazzante nel sangue, coperta di sudiciume; ecco come si presenta la società borghese, ecco cos’è. Essa non è come quando, ben vestita e tutta onesta ci parla di cultura e filosofia, di morale e di ordine, della pace e del diritto, ma è quando somiglia a una bestia feroce, quando danza il sabba dell’anarchia, quando diffonde la peste sulla civilizzazione e sull’umanità che essa si mostra nuda, come è veramente." (La Crisi della Socialdemocrazia – Juniusbroshure, capitolo 1 : Socialismo o barbarie ?)
Il pericolo per il proletariato e per il futuro dell'umanità è di restare paralizzato in questa atmosfera soffocante generata dall'imbroglio catalano che spinge al fatto che i sentimenti, le aspirazioni, le riflessioni non gravitino più intorno a “quale futuro è possibile per l'umanità”? Quale risposta dare alla precarietà e ai salari di miseria? Quale uscita esiste di fronte alla degradazione generale delle condizioni di vita? Al contrario, l'attenzione si polarizza sulla scelta fra Spagna e Catalogna, sulla Costituzione, sul diritto all'autodeterminazione, sulla nazione... cioè su fattori che hanno precisamente contribuito a portarci nell'attuale situazione e che minacciano di portarla al parossismo.
Noi siamo coscienti dello stato di debolezza che il proletariato presenta oggi, tuttavia questo non ci impedisce di riconoscere che è solo dalla sua lotta autonoma come classe che può emergere una soluzione. Per contribuire a questa soluzione bisogna opporsi oggi alla mobilitazione in favore della democrazia, alla falsa scelta tra Spagna e Catalogna, al terreno nazionale. La lotta del proletariato e l'avvenire dell'umanità non possono avanzare che al di fuori e contro questi terreni putridi che sono la democrazia e la Nazione.
Corrrente Comunista Internazionale (9 ottobre 2017
[1] Sindaca di Barcellona dal maggio 2015, Ada Colau è stata eletta alla testa di una coalizione, Barcelona en Comú [61] (BC), che riunisce diversi “movimenti di cittadini” catalani (tra cui Esquerra Unida i Alternativa, comprendente il Partito Comunista Catalano, Verdi, Democracia Real Ya !) presunti difensori dei diritti sociali, della democrazia e degli interessi della Catalogna.
[2] Ezquerra Republicana de Catalunya (Sinistra repubblicana di Catalogna).
[3] Euskadi Ta Askatasuna : braccio armato del nazionalismo basco, responsabile di attentati terroristi, di assassini, di rapimenti, di sequestri che hanno fatto più di 800 morti, civili e militari, a partire dal 1960. Come contropartita lo Stato centrale organizzò i Gruppi aniterroristi di liberazione (GAL), autori di numerosi attentati ed omicidi tra il 1983 e il 1987, di cui alcuni avevano l'obiettivo di provocare il terrore tra i civili allo scopo di scoprire i militanti (o supposti tali) dell'ETA.
1917-2017 A CENTO ANNI DALLA RIVOLUZIONE D’OTTOBRE
UNA GIORNATA DI RIFLESSIONE E CONFRONTO SULLA RIVOLUZIONE RUSSA E SULLE PROSPETTIVE ATTUALI DI UNA LIBERA SOCIETÀ UMANA
Già a partire dagli ultimi anni del XIX secolo, il modo di produzione capitalistico versava in una crisi sempre più profonda. Nel fuoco della prima guerra imperialista mondiale, il proletariato rispose con un’ondata rivoluzionaria che attraversò l’Europa. Era la fine del 1917 quando, nel rigido inverno russo, il proletariato dimostrò che quel potere borghese non era né invincibile né l’ultima parola della storia.
Organizzandosi nei suoi Consigli e con la guida del Partito bolscevico, un partito comunista forgiatosi in anni di battaglie teoriche e di lotte di classe, il proletariato russo riuscì nell’assalto al cielo. Lo slogan “Tutto il potere ai Soviet!”, cioè la distruzione dello Stato borghese e l’instaurazione del potere proletario rivoluzionario finalizzato a una società senza classi e senza Stato, divenne con l’Ottobre una realtà. Una realtà che avrebbe dovuto estendersi ai paesi capitalisti più sviluppati, primo tra tutti la Germania, per non lasciare isolato il bastione proletario russo e stabilire il potere della classe operaia a livello mondiale.
Quell’esperienza finì invece soffocata da lì a pochi anni, soprattutto dal suo isolamento internazionale: la controrivoluzione, che prese la forma dello stalinismo, continuò ad ammantarsi di “socialismo”, gettandone nel fango il drappo rosso internazionalista, mentre ne trucidava i militanti e ne sovvertiva le posizioni rivoluzionarie.
A distanza di cento anni, la crisi in cui si dimena oggi il capitalismo contemporaneo ha una portata probabilmente inimmaginabile a inizio Novecento. Per i proletari l’unica prospettiva garantita da questo sistema è quella di un peggioramento su tutti i fronti: sfruttamento e dominio sociale sempre più brutali e violenti, guerra permanente, diffusa disoccupazione cronica, distruzione ambientale del pianeta.
La Rivoluzione russa ha però dimostrato che un’alternativa a questo sistema sociale è possibile.
È indispensabile comprendere questa straordinaria esperienza della nostra classe, del proletariato internazionale, e riflettere criticamente sui suoi insegnamenti, sulla sua attualità, come sugli errori che si sono potuti presentare e sulle differenze che la situazione di oggi comporta.
Non è una commemorazione dunque quello che ci suggerisce il centenario dell’Ottobre 1917, ma un orientamento: la prospettiva di lottare contro la barbarie capitalista, consapevoli della possibilità di una vittoria in nome di una società mondiale finalmente umana, di liberi produttori associati, che progetti razionalmente e solidalmente la vita sociale umana e il suo rapporto con la natura.
Sabato 25 Novembre 2017
Ore 14.30 – 20.00
c/o La Città del Sole, Vico Giuseppe Maffei 4, 80132 Napoli
(traversa di Via San Gregorio Armeno, affianco all’ex Asilo Filangieri)
Corrente Comunista Internazionale Istituto Onorato Damen
[email protected] [63] [email protected] [64]
Links
[1] https://it.internationalism.org/content/la-decomposizione-fase-ultima-della-decadenza-del-capitalismo
[2] https://it.internationalism.org/cci/201612/1372/sul-problema-del-populismo
[3] https://it.internationalism.org/en/tag/3/46/decomposizione
[4] https://it.internationalism.org/en/tag/3/45/cultura
[5] https://en.internationalism.org/content/9523/aftermath-world-war-two-debates-how-workers-will-hold-power-after-revolution
[6] https://en.internationalism.org/internationalreview/201111/4596/post-war-boom-did-not-reverse-decline-capitalism
[7] https://libcom.org/article/workers-councils-anton-pannekoek
[8] https://www.leftcom.org/it/articles/1988-01-01/comitato-d-intesa-primo-campanello-d-allarme
[9] https://en.internationalism.org/internationalreview/201211/5366/italian-fraction-and-french-communist-left
[10] https://en.internationalism.org/ir/127/vercesi-period-of-transition
[11] https://en.internationalism.org/node/2733
[12] https://en.internationalism.org/node/3168
[13] https://www.quinterna.org/archivio/1952_1970/considerazioni.htm
[14] https://en.internationalism.org/internationalreview/199207/1797/alienation-labour-premise-its-emancipation
[15] https://en.internationalism.org/internationalreview/199311/1570/study-capital-and-foundations-communism
[16] https://en.internationalism.org/internationalreview/199506/1685/mature-marx-past-and-future-communism
[17] https://libcom.org/article/bordigism
[18] https://en.internationalism.org/internationalreview/200210/9651/trotsky-and-culture-communism
[19] https://en.internationalism.org/internationalreview/199210/3571/communism-real-beginning-human-society
[20] https://en.internationalism.org/internationalreview/201212/5422/womans-role-emergence-human-culture
[21] https://en.internationalism.org/content/6964/womens-role-emergence-human-solidarity
[22] https://en.internationalism.org/worldrevolution/201403/9567/flooding-shape-things-come
[23] https://www.marxists.org/archive/bordiga/works/1956/weird.htm
[24] https://en.internationalism.org/node/2647
[25] https://www.quinterna.org/archivio/1952_1970/invarianza_falsarisorsa.htm
[26] https://en.internationalism.org/ir/033/concept-of-brilliant-leader
[27] https://it.internationalism.org/en/tag/7/109/sinistra-comunista
[28] https://it.internationalism.org/en/tag/3/43/comunismo
[29] https://it.internationalism.org/en/tag/storia-del-movimento-operaio/1917-rivoluzione-russa
[30] https://it.internationalism.org/en/tag/2/26/rivoluzione-proletaria
[31] https://it.internationalism.org/en/tag/4/72/gran-bretagna
[32] https://it.internationalism.org/en/tag/vita-della-cci/corrispondenza-con-altri-gruppi
[33] https://it.internationalism.org/en/tag/4/60/asia
[34] https://it.internationalism.org/en/tag/5/101/guerra-di-corea
[35] https://it.internationalism.org/en/tag/3/48/guerra
[36] https://sociologie.univ-paris8.fr//fichiers/petit2000a.pdf
[37] https://www.ladocumentationfrançaise.fr
[38] https://www.google.com/url?q=https://fr.internationalism.org/node/2873&sa=U&ved=0ahUKEwj37t6-7ejVAhXH6xQKHSPOCuoQFggEMAA&client=internal-uds-cse&usg=AFQjCNEGZMUSDaMHONI0pVFwgxQxsOkQXQ
[39] https://fr.internationalism.org/revolution-internationale/201509/9250/migrants-et-refugies-cruaute-et-lhypocrisie-classe-dominante
[40] https://fr.internationalism.org/revolution-internationale/201511/9265/proliferation-des-murs-anti-migrants-capitalisme-c-guerre-et-b
[41] https://it.internationalism.org/cci/201703/1377/degli-scivoloni-per-la-borghesia-che-non-presagiscono-niente-di-buono-per-il-proleta
[42] https://it.internationalism.org/cci/201609/1367/la-politica-tedesca-e-il-problema-dei-rifugiati-un-pericoloso-gioco-col-fuoco
[43] https://it.internationalism.org/rziz149/febbraio17
[44] https://fr.internationalism.org/node/2883
[45] https://it.internationalism.org/en/tag/2/24/marxismo-la-teoria-della-rivoluzione
[46] https://www.marxists.org/history/etol/writers/jenkins/2006/xx/terrorism.html
[47] https://www.marxists.org/italiano/lenin/1915/soc-guer/cap1.htm#p11
[48] https://it.internationalism.org/en/tag/3/54/terrorismo
[49] https://es.internationalism.org/revista-internacional/201611/4182/que-le-pasa-al-psoe
[50] https://es.internationalism.org/accion-proletaria/201708/4224/referendum-catalan-la-alternativa-es-nacion-o-lucha-de-clase-del-prole
[51] https://it.internationalism.org/en/content/la-decomposizione-fase-ultima-della-decadenza-del-capitalismo
[52] https://es.internationalism.org/cci/200602/539/espana-1936-franco-y-la-republica-masacran-al-proletariado
[53] https://es.internationalism.org/accion-proletaria/200602/572/el-plan-ibarretxe-aviva-la-sobrepuja-entre-fracciones-del-aparato-polit
[54] https://es.internationalism.org/content/4214/primarias-y-congreso-del-psoe-el-engano-democratico-de-las-bases-deciden
[55] https://www.elmundo.es/cataluna/2017/09/17/59bd6033e5fdea562a8b4643.html
[56] https://es.internationalism.org/revista-internacional/200712/2116/la-barbarie-nacionalista
[57] https://es.internationalism.org/content/4169/el-15-m-cinco-anos-despues
[58] https://it.internationalism.org/en/tag/4/79/spagna
[59] https://it.internationalism.org/en/tag/2/31/linganno-parlamentare
[60] https://it.internationalism.org/en/tag/3/53/societa-precapitaliste
[61] https://es.wikipedia.org/wiki/Barcelona_en_Comú
[62] https://it.internationalism.org/en/tag/vita-della-cci/interventi
[63] mailto:[email protected]
[64] mailto:[email protected]
[65] https://it.internationalism.org/en/tag/vita-della-cci/riunioni-pubbliche