La crescita della Cina come potenza imperialista

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Approfittando della destabilizzazione dei vecchi blocchi imperialisti del dopo “Guerra fredda”, in particolare della perdita d’influenza degli Stati Uniti, la Cina avanza più apertamente le proprie pedine di grande potenza.

“La crescita come potenza della Cina e il perseguire i suoi interessi sono indissociabili dal sentimento di aver ritrovato un legittimo posto storico e da un bisogno psicologico profondamente radicato che l’attuale classe al potere non può che essere felice di sfruttare. Le ambizioni cinesi sono attizzate da un nazionalismo alimentato da ferite storiche e di grandezza abortita, un nazionalismo estraneo ed incompreso in un occidente fin troppo compiacente. (...) La Cina si è prefissa degli obiettivi contrari agli interessi americani, cioè soppiantare la supremazia americana in Asia, impedire che Stati Uniti e Giappone costituiscano un fronte di contenimento contro la Cina e, infine, dislocare il suo esercito nei mari della Cina meridionale ed avere il controllo delle principali vie marittime della regione. La Cina ha delle mire egemoniche. Il suo obiettivo principale è che nessuno Stato – che si tratti del Giappone che sfrutta i suoi diritti di prospezione petrolifera nei mari della Cina orientale o della Tailandia che autorizza l’accesso ai suoi porti alle navi della flotta americana - possa agire senza prima tener conto degli interessi cinesi. Questo scenario si inserisce in un’ambizione più vasta: la sfida alla supremazia mondiale dell’occidente, Stati Uniti in testa.

(...) Per questo, da alleata strategica degli Stati Uniti essa diventerà il suo avversario perenne. A questo punto si impone un paragone che non prospetta niente di buono. Dal 1941 al 1945 gli Stati Uniti fecero un’alleanza strategica con l’Unione sovietica, una delle peggiori dittature di tutti i tempi, per avere la meglio sulla Germania nazista. Alla fine della guerra, a causa della rivalità naturale tra queste due superpotenze, l’alleanza fu rotta. Le relazioni amichevoli che intrattennero gli Stati Uniti e la Cina negli anni 1970 e 1980 ricordano l’alleanza americano-sovietica della Seconda Guerra mondiale. Vere e proprie alleanze tra opposti, la cui necessità deriva da una minaccia immediata, la Germania nazista in un caso e l’espansionismo sovietico dall’altro. Venuta meno la minaccia, le alleanze non resisteranno a lungo di fronte alle divergenze di valori e di interessi”1.

Sebbene un poco datata, l’opera da cui questa citazione è tratta ci illustra la realtà dell’ascesa inesorabile della potenza cinese che rivendica ed assume chiaramente le sue ambizioni imperialistiche planetarie. In effetti, l’essenziale degli elementi avanzati dagli autori nel descrivere le prospettive delle relazioni tra Cina e Stati Uniti corrispondono largamente a ciò che vediamo oggi, come dimostra, ad esempio, Le Monde diplomatique di settembre 2008 in un articolo dal titolo “Rivalità militari in Asia: La Cina afferma le sue ambizioni navali”: “(…) Tuttavia, Taiwan non è che uno dei pezzi di una vasta sfida marittima. La Cina si contrappone al Giappone a proposito delle isole Diaoyu (Sankaku in giapponese), vicino all’isola di Okinawa, che ospita una base americana. Tokio martella che la sua ZEE si estende a 450 chilometri ad ovest dell’arcipelago, ciò che Pechino contesta rivendicando l’insieme della piattaforma continentale che prolunga il suo territorio nel mare della Cina orientale. Posta annessa al conflitto: un giacimento che potrebbe fornire fino a 200 miliardi di metri cubi di gas. La Cina contende inoltre a Taiwan, al Vietnam, alle Filippine, alla Malaysia, al Brunei ed all’Indonesia le isole Spratleys (Nansha in cinese) e l’arcipelago dei Pratas (Dongsha). Si massacra col Vietnam e Taiwan per l’arcipelago di Paracel (Xisha).

(...) Una volta aperti questi catenacci, la Marina cinese potrà dedicarsi più liberamente alla seconda sfida: la sicurezza dei corridoi di approvvigionamento di idrocarburi in Asia del Sud. Il primo di questi permette la navigazione alle petroliere di meno di 100.000 tonnellate, dall’Africa e dal Vicino Oriente fino al mare della Cina meridionale attraverso lo stretto di Malacca. Dalle stesse zone di produzione, il secondo corridoio permette la navigazione alle petroliere giganti attraverso gli stretti della Sonda e di Gaspar. Il terzo, dall’America latina passa per le acque filippine. Il quarto, tragitto di ricambio dal Vicino Oriente e l’Africa, serpeggia tra gli stretti indonesiani di Lombok e di Macassar, le Filippine ed il Pacifico ovest prima di raggiungere i porti cinesi”.

Non male come ambizioni imperialiste! Manifestamente la Cina non vuole avere un ruolo di “comparsa” del mondo capitalista, ma intende più che mai sostenere la sua crescita economica ed il suo sviluppo per proteggere dappertutto i propri interessi imperialistici, preparandosi ad affrontare ogni potenza che vorrebbe resisterle, anche sul piano militare. Nello stesso senso Pechino costruisce e sviluppa vaste manovre diplomatiche e geo-strategiche nei confronti di diversi paesi che potrebbero servirle da ponte. Infatti, se l’India ed il Giappone sono storicamente nelle sue mire, la Cina si serve del Pakistan come testa di ponte sia per bloccare l’alleanza tra Washington e New Delhi, sia per aumentare la sua influenza nel Golfo persico ed in Asia centrale. Ma ancora più sorprendente è la volontà di Pechino di lottare per preservare le sue provviste energetiche fino al centro del Golfo persico e del Medio Oriente, la zona più esplosiva e ambita nel mondo da tutti i briganti, primo tra tutti gli Stati Uniti. Ciò significa che Pechino non esita più ad andare a caccia sul quel terreno che Washington considera da decenni come “proprio interesse nazionale”. Il che la dice lunga sulla probabilità di scontri ancora più forti tra la Cina e gli Stati Uniti, in questa zona ed altrove. Del resto già ora lo scontro tra Pechino e Washington è molto virulento sul piano diplomatico, in particolare all’ONU.

Dalle manovre navali alle manovre diplomatiche

La Cina sa utilizzare meglio di chiunque altro la diplomazia per difendere i propri interessi, in particolare in seno all’ONU, bastione supremo dei manovrieri imperialisti. Per esempio, quando nel 2005 il Giappone manifestò la sua intenzione di diventare membro permanente del Consiglio di sicurezza, con accesso al sacro “diritto di veto”, la Cina mobilitò subito l’insieme del suo corpo diplomatico per bloccare a qualsiasi prezzo l’iniziativa di Tokio sostenuta da Washington. In questo braccio di ferro abbiamo visto una Cina che, ricordatasi improvvisamente della sua pretesa appartenenza all’ex Gruppo dei 77 cosiddetti “non allineati”, si è messa a “sedurre” ed “innaffiare” alcuni di questi con ogni tipo di promesse e crediti e, alla fine, la gang cinese ha potuto effettivamente sbarrare la strada al suo rivale giapponese (dando così anche uno schiaffo al padrino americano). Nei fatti, la Cina agisce regolarmente da guastafeste appoggiandosi sul suo diritto di veto per bloccare sistematicamente le iniziative americane che mirano, per esempio, a sanzionare Teheran sulla questione nucleare o di altri clienti di Pechino (come per lo Zimbabwe, la Corea del Nord, il Myanmar, ecc.). Insomma, è passato il tempo in cui gli Stati Uniti potevano pretendere di fare da soli il bello ed il cattivo tempo all’ONU ed al suo Consiglio di sicurezza. Ormai Pechino contende apertamente questo ruolo a Washington. Questa rivalità si è concretizzata in particolare in Sudan dove Pechino, che arma il potere sudanese ed acquista il suo petrolio, ha chiuso con ostinazione gli occhi per diversi anni sulle atrocità commesse dal governo di Khartoum nel Darfour. Optando per la stessa ipocrisia e lo stesso cinismo delle potenze occidentali che agiscono in nome dei “diritti dell’uomo”, la Cina spiega il suo atteggiamento in nome del rispetto “della sovranità degli Stati (amici)”.

La Cina fa il “grande balzo” in Africa

Se tutti sono convinti che la Cina cerca di estendere la sua influenza su tutti i continenti, è però in Africa che la sua offensiva è più massiccia, particolarmente sul piano economico. Ma per Pechino, non c’è solo il piano economico, per rafforzarsi e salvaguardare i suoi interessi imperialisti globali ci sono anche quello militare e quello geo-strategico. La Cina arma regimi e vende armi a numerosi clienti del continente. Fin dall’inizio degli anni ’90 e del 2000, fortemente contrassegnati dai massacri di massa e dal sanguinoso caos nelle principali regioni del continente, si sapeva che Pechino era il fornitore militare, spesso mascherato, di numerosi paesi ed in particolare quelli dei Grandi Laghi. Le armi cinesi, ad esempio, sono servite a commettere le orribili atrocità che hanno provocato milioni di vittime nella Repubblica Democratica de Congo.

Essendo diventata praticamente una grande potenza come le altre, la Cina brama il ruolo di gangster n°1 in Africa e, di fatto, l’imperialismo cinese sta buttando fuori dalle loro posizioni tradizionali alcuni dei suoi concorrenti. In quest’ottica, va da sé che la Francia è al centro del mirino della Cina.

La Cina tende a soppiantare la Francia in Africa

La Cina ha investito in quasi tutti i paesi del continente africano impiegando ogni mezzo per guadagnare importanti posizioni al punto da escludere di fatto la Francia da un buon numero di paesi appartenenti al vecchio orticello di Parigi. Come si muove la Cina, con quali metodi? Prendiamo un solo esempio che riassume ed illustra la forza che ha la Cina: nel mercato dei BTP, i cinesi sfidano tutti i loro concorrenti mettendo dei prezzi dal 30 al 50% inferiori a quelli proposti dai francesi. Il che comporta che alcuni grandi gruppi francesi, come Bouygues, sono direttamente minacciati dal “rapace cinese” ovunque sono o cercano di impiantarsi. Di conseguenza certe imprese francesi tentano disperatamente di ripiegare in altri paesi africani che si trovano al di fuori del vecchio bastione coloniale della Francia, come l’Africa del Sud o l’Angola, dove comunque la concorrenza non è meno aspra. la Cina utilizza grossomodo la stessa arma dei “prezzi bassi” in tutti gli altri campi commerciali, compresi gli armamenti, pertanto la minaccia cinese contro la Francia è globale.

L’imperialismo francese perde terreno quasi ovunque nel suo vecchio bastione coloniale, sia economicamente che politicamente. Del resto, simbolicamente, è altamente significativo vedere la Cina “dragare” apertamente la Costa d’Avorio, vecchia “vetrina” o “gioiello economico” della Francia in Africa. In effetti, non solo i grandi gruppi francesi sono minacciati dall’offensiva cinese, ma a livello politico il presidente della Costa d’Avorio Gbagbo viene pesantemente corteggiato da Pechino che lo “protegge” all’ONU contro le sanzioni e che, per ora, gli ha potuto assicurare i soldi per poter pagare gli stipendi ai funzionari a fine mese, cosa che Parigi non fa più. L’altro forte atto simbolico verso la vecchia potenza gaullista sta nel fatto che la stessa Pechino si mette ad organizzare i propri “vertici Cina-Africa”.

Peraltro, se la Francia dovesse evacuare le sue basi militari in Africa (la sua principale carta vincente) come ha annunciato il presidente Sarkozy, la Cina sarebbe sicuramente molto felice di escluderla definitivamente dal continente.

Le manifestazioni concrete della volontà della Cina di giocare un ruolo da protagonista nell’arena imperialista sono appena agli inizi ed i suoi principali rivali non perderanno occasione per reagire all’altezza della posta in gioco che derivano dalle ambizioni cinesi. In altre parole, nessuna chiacchiera di pace e di intesa tra le nazioni potrà bastare a mascherare questa realtà, sinonimo di desolazione e di distruzioni materiali ed umane.

Amigos, 20 dicembre

1. Bernstein/Munro, Chine- Etats-Unis : danger, Editions Bleu de Chine, 1998

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