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Il 17 febbraio 2010 il segretario alla difesa americano, Robert Gates, ha approvato, in una nota indirizzata al capo del Comando Centrale David Petraeus, la nuova strategia della missione americana in Iraq. Nella nota egli sottolinea che l’operazione “Iraqi Freedom”, il nome americano per l’invasione del 2003 e l’occupazione di questo paese per sette anni, “è giunto alla fine e le nostre forze operano nel quadro di una nuova missione” Sei mesi dopo, il 19 agosto, le ultime brigate americane di combattimento hanno attraversato la frontiera irakena per entrare in Kuwait, e 12 giorni dopo, cioè più di sette anni dopo che il presidente Bush aveva fatto un annuncio simile, il presidente Obama annunciava “la fine della nostra missione di guerra in Iraq”.
La politica estera americana nell’era del dopo Guerra Fredda
Al momento della guerra del Golfo, nel 1991, la principale preoccupazione della borghesia americana era quella di rafforzare il suo controllo su un blocco imperialista i cui membri di secondo piano avevano perduto le motivazioni per aderire alla signoria americana dopo il crollo del blocco dell’Est e la diminuzione della minaccia costituita dalla Russia. Prima di questo avvenimento, per gli USA era molto facile implicare nell’intervento militare, non solo i paesi della NATO, ma anche l’URSS che stava affondando, tramite le sanzioni dell’ONU. Il decennio seguente ha visto il rafforzamento della tendenza al “ciascuno per sé” a livello delle tensioni imperialiste, con delle potenze di seconda e terza categoria sempre più spinte alla difesa dei propri interessi (nell’ex Jugoslavia, nel Medio Oriente, in Africa). L’obiettivo degli Stati Uniti nel 1991 era quindi quello di stabilire un controllo militare in zone di importanza strategica in Asia e in Medio Oriente che potessero essere utilizzate per esercitare una pressione sui suoi concorrenti, piccoli e grandi.
Gli attentati dell’11 settembre sono stati l’occasione per lanciare la “guerra contro il terrorismo” e giustificare la prima incursione in Afganistan nel 2001, ma lo slancio non è durato a lungo. Nel 2003 gli Stati Uniti sono stati incapaci di mobilitare la loro vecchia coalizione per la seconda mobilitazione in Iraq. La Francia e la Germania, in particolare, pur non potendo creare un loro proprio blocco imperialista, si sono mostrate reticenti a seguire gli Stati Uniti, vedendo la “guerra al terrorismo” per quello che effettivamente era: un tentativo degli Stati Uniti di rafforzare la loro posizione di superpotenza mondiale.
Le vere intenzioni del ritiro americano dall’Iraq
Nel 2007 c’è stato un notevole cambiamento nella strategia americana in Iraq a causa delle molteplici difficoltà incontrate. La prima è stata una sanguinosa contro-insurrezione che alla fine ha visto la morte di 4.400 soldati americani, 36.000 feriti e 100.000 civili irakeni morti (anche se certe stime parlano di più di mezzo milione, comunque ben al di sopra delle “decine di migliaia” riportate dai principali mezzi di informazione). La guerra in Iraq stava diventando un vero inferno e il più grande disastro sul piano delle relazioni pubbliche, vista anche l’inesistenza delle “armi di distruzione di massa” che erano state la giustificazione dell’invasione. Il fantasma del Vietnam percorreva i corridoi di Washington. E pesava anche il costo crescente della guerra: lo stesso Obama ha ammesso che è costata più di un bilione di dollari[1]. e che ha contribuito al deficit del bilancio e danneggiato la capacità dell’economia americana di far fronte alla crisi economica. Una seconda preoccupazione è stata la controffensiva dei talebani in Afganistan, espulsi dalle forze americane nel 2001, ma non vinti, e l’estensione degli attacchi terroristi in Europa e in Asia sostenuti da elementi con base nelle regioni frontaliere dell’Afganistan e del Pakistan.
Quando Kerry, che aspirava alla ricomposizione del vecchio blocco imperialista, si è dimostrato ineleggibile, gli Stati Uniti hanno puntato ad affermare la loro supremazia sulla regione. Adottata questa strategia, il dibattito ha cominciato ad accentrarsi sul numero di soldati necessari per un tale obiettivo. Rumsfeld si fissava sul suo progetto di una militarizzazione più leggera, più automatizzata. I democratici, alleati con certi elementi della destra, erano sostenere il “pic”, un dispiegamento temporaneo di truppe supplementari in Iraq per mantenere l’ordine, difendere la giovane “democrazia” e assicurare il trasferimento delle responsabilità militari alle forze irakene. Questa fu la politica di Bush nei suoi ultimi anni di presidenza, e questa è ora la politica di Obama in Afganistan.
La strategia complessiva adottata dalla borghesia americana è rimasta essenzialmente la stessa. Se l’amministrazione Obama sembra mettere l’accento innanzitutto sulla diplomazia, in realtà c’è continuità con l’amministrazione precedente. Come lo stesso Obama ha detto nel discorso del 31 agosto: “… uno degli insegnamenti dei nostri sforzi in Iraq è che l’influenza americana nel mondo non è funzione della sola forza militare. Noi dobbiamo utilizzare tutti gli elementi della nostra potenza, compreso la nostra diplomazia, la nostra forza economica, e il potere dell’esempio dell’America, per garantire i nostri interessi e sostenere i nostri alleati… Gli Stati Uniti d’America hanno l’intenzione di mantenere e rafforzare la nostra leadership in questo nuovo secolo…”.
Bilancio della guerra in Iraq
Dobbiamo pensare che il ritiro delle forze americane dall’Iraq significhi che il mondo è ora un posto più sicuro? Per niente! Il Segretario alla Difesa, Bob Gates, è stato ancora più esplicito di Obama: “Anche con la fine ufficiale delle operazioni di combattimento, l’esercito americano continuerà a sostenere l’esercito e la polizia irakene, ad aiutare lo sviluppo della marina e della forza aerea dell’Iraq, e ad aiutarlo nelle sue operazioni di lotta contro il terrorismo”.
L’amministrazione americana afferma pubblicamente di essere ampiamente soddisfatta dello stato del governo e della società civile in Iraq. Tuttavia l’Iraq detiene oggi il record per il numero di volte in cui uno Stato-nazione moderno non riesce ad avere un governo efficace. Anche se l’Iraq sembra sufficientemente forte da permettere agli Stati Uniti di occuparlo di meno, questi devono ancora rinforzare lo Stato iracheno formando altri militari e poliziotti. Gli Stati Uniti lasciano in Iraq un esercito di 50.000 soldati “non combattenti” per almeno un anno. Queste forze permetteranno loro un dominio senza rivali sul governo irakeno: nessun’altra potenza ha una forza simile così vicina ai centri del potere irakeno e così necessaria perché quest’ultimo continui ad esistere. Questo approccio è simile a quello avuto dagli Usa in Corea del Sud dopo la seconda Guerra Mondiale, dove furono stanziati 40.000 soldati per mantenere una presenza nella regione. Il fatto di avere delle basi militari nell’Iraq, anche se in numero più ridotto, assicurerà agli Stati Uniti una certa pressione sull’Iran e su altre potenze regionali.
Bisogna fare attenzione ad avere una visione troppo superficiale dell’influenza dell’amministrazione americana. In realtà è molto probabile che l’Iraq si disintegri quando gli Stati Uniti se ne andranno, con tutte le differenti parti che contribuiranno allo scoppio del paese, in particolare i nazionalisti curdi, con lo scatenamento di una guerra civile. Anche la situazione dell’Afganistan è assolutamente catastrofica e mostra tutti i segni di un peggioramento, con il rischio della disintegrazione del Pakistan e dell’esportazione della guerra in questo paese.
Nonostante le disillusioni, la borghesia americana ha quanto meno registrato il fatto che esiste un mondo di tutti contro tutti, ed ha tirato delle preziose lezioni sulla maniera di fare la guerra e di condurre un’occupazione oggi. Il ritiro delle truppe dall’Iraq non significa la fine della guerra. Da una parte, le truppe americane avranno una presenza permanente nel paese, e Stati Uniti, Turchia, Israele, Russia, Iran e Germania continueranno i loro giochi di influenza imperialista nella regione come facevano prima. Dall’altra parte, gli Stati Uniti potranno concentrare i loro sforzi sull’Afganistan, e avranno anche liberato una certa capacità per intervenire in altre parti del mondo. La fine della guerra in Iraq, sotto l’influenza dell’imperialismo, è, in effetti, la continuazione di una guerra già devastante e l’inizio di guerre altrove. La conseguenza logica dell’imperialismo è la distruzione dell’umanità. Di fronte a ciò, il difensore dell’umanità è il proletariato, portatore di comunismo.
RW, 10 novembre2010
(da Internationalism, organo della CCI negli USA)