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L’inflazione crescente rende i bisogni basilari sempre più fuori dalla portata di una grossa parte dell’umanità. Il segretario dell’ONU Ban Ki-moon afferma che, “il drammatico aumento dei prezzi del cibo nel mondo è diventato una sfida di proporzioni globali”. Con il prezzo del riso aumentato del 74% in un anno (217% in due anni), il grano del 130% (136%), il mais del 31% (125%) e la soia dell’87% (107%), la maggior parte della popolazione mondiale è ridotta a vivere di stenti. Negli 82 paesi più poveri, dove dal 60 al 90% del budget delle famiglie è speso in cibo, questo aumento dei prezzi significa che molte persone soffriranno la fame, e moriranno. Già adesso 100.000 persone muoiono ogni giorno di fame nel mondo.
Oltre alle statistiche esistono altre prove della crescente fame nel mondo. Rivolte, dimostrazioni e scioperi per il cibo si succedono in Africa (Burkina Faso, Camerun, Costa d’Avorio, Egitto, Etiopia, Guinea, Madagascar, Mauritania, Marocco e Senegal), in Asia (Bangladesh, Indonesia, Pakistan, Filippine, Tailandia, Uzbekistan, Vietnam e Yemen) e nelle Americhe (Bolivia, Brasile, Haiti, Messico e Perù.)
Nel novembre scorso il governo degli Stati Uniti ha stimato che, nel 2008, 28 milioni di persone sarebbero rientrate nel programma di food stamp (1). La stima è stata rivista a gennaio perché le richieste erano già arrivate a 27,7 milioni, e si noti che solo il 65% dei possibili candidati ne avevano fatto richiesta. È vero che la situazione negli Usa non è la stessa dei paesi più devastati, ma se si pensa che dietro il food stamp esiste una rete di 200 banche del cibo regionali, circa 30.000 chiese e mense per poveri, allora si capisce cosa è la “prosperità” americana.
Molte spiegazioni, ma nessuna soluzione
Il capo del Programma Alimentare Mondiale dell’ONU, descrivendo la crisi come uno “tsunami silenzioso” che minaccia di lasciare più di 100 milioni di persone affamate, dice “Questa è la nuova faccia della fame – i milioni di persone che sei mesi fa non rientravano nella categoria degli affamati urgenti adesso ci rientrano”. Ammessa la crisi, la borghesia cerca di darne varie spiegazioni e suggerisce qualche miglioramento. La FAO punta il dito sui bassi livelli degli stock mondiali a seguito di raccolti sotto la media, su colture fallimentari, sulla crescente richiesta di sussidi per i cereali che producono biocarburanti, sui bassi livelli di produzione dei paesi dell’OCSE, sulla crescente domanda da paesi come India e Cina; e infine sui cambiamenti climatici.
“Paesi confrontati ad un’eccezionale insufficienza nel rapporto produzione/distribuzione come risultato di colture fallite, disastri naturali, blocco delle importazioni, sospensione della distribuzione, eccessive perdite nei raccolti, o altri tipi di interruzioni nelle forniture.
Paesi con una diffusa carenza di accesso, dove la maggior parte della popolazione è incapace di acquistare alimenti nei mercati locali, a causa di stipendi molto bassi, dei prezzi eccezionalmente alti dei generi alimentari, e dell’impossibilità di questi di circolare all’interno del paese.
Paesi con una seria insicurezza alimentare localizzata, dovuta alla presenza di rifugiati, alla concentrazione di persone senza abitazione, o aree in cui ai cattivi raccolti si combina la povertà pregressa.”
Se si cerca tra i fattori che minano la possibilità di una agricoltura sostenibile, è chiaro che la guerra ne influenza numerosi. Gli embarghi, il blocco della distribuzione e della circolazione interna, l’esodo o il continuo spostamento delle popolazioni da un posto ad un altro sono la conseguenza di conflitti passati o in corso. E questo crea un circolo vizioso. Quando il capo del FMI metteva in guardia sull’inedia totale e sulle terribili conseguenze se i prezzi degli alimenti fossero continuati a salire, disse: “come sappiamo, come abbiamo imparato dal passato, questo tipo di questioni a volte sfociano in una guerra.” Le guerre sono dei fattori che favoriscono la crisi alimentare, che a sua volta aumenta il rischio di guerra.
Non ci sorprende che la FAO parli di “crisi” e di “assistenza esterna”. Essa può pensare solo in termini di risposte alle emergenze immediate, ad azioni a breve termine per un problema che nel capitalismo non ha nessuna soluzione di lungo termine. Può solo concepire “aiuti esterni” perché, nell’anarchia della produzione capitalistica, i paesi poveri non hanno nessuna possibilità di uscire dalla loro attuale situazione, e contano sugli aiuti che i paesi ricchi gli inviano per sopravvivere.
Quando organizzazioni come la FAO, il FMI, la Banca Mondiale, il WTO ecc., si incontrano per parlare della crisi alimentare, riescono solo a proporre varie forme di aiuto, sussidi e prestiti. Ci sono a volte campagne per modificare qualche modello di produzione, ma questi possono solo avere effetti minimi sulla situazione complessiva. Il 2008, per esempio, è stato dichiarato l’anno internazionale della patata. La FAO enfatizza le qualità nutrizionali della patata e come questa sia stata trascurata quale potenziale risorsa di reddito. Ma nessun diversivo di questo tipo può risolvere il problema alla base, tanto meno i cosiddetti modelli di commercio “equo e solidale”, che comunque lasciano in piedi lo sfruttamento.
La realtà è che l’aumento dei prezzi degli alimenti, così come quello dei carburanti, non è altro che un diretto prodotto della crisi economica internazionale. Non è all’interno del capitalismo che si possono trovare gli strumenti per affrontare e risolvere la crisi alimentare , perché è il capitalismo stesso che la genera. Per questo non possiamo credere a nessuna soluzione che lasci intatte le regole del capitalismo. Questo sistema deve essere smantellato a livello mondiale e sostituito con un altro sistema di produzione nel quale il cibo e tutti gli altri beni necessari alla vita siano prodotti e distribuiti sulla base delle esigenze degli uomini, senza denaro né profitto.
Al summit sull’alimentazione di Berna, Ban Ki-moon metteva in guardia sullo “spettro della fame diffusa, sulla malnutrizione e sul malcontento sociale ad un livello senza precedenti.”
È lo spettro di una lotta di classe in crescita che disturba la classe dominante.
Car, 29/4/08
(da World Revolution n.314, pubblicazione della CCI in Gran Bretagna)
1. Il Food Stamp Program, organizzato dal Dipartimento dell’agricoltura degli Stati Uniti, aiuta le persone senza reddito o con un reddito basso ad acquistare alimenti aventi valore nutritivo. I buoni alimentari non sono contanti. Si tratta di una carta elettronica utilizzabile come una carta di credito per acquistare viveri.