Crisi del neoliberismo o crisi del capitalismo?

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“Bisogna rifondare il capitalismo su basi etiche” proclama oggi Sarkozy. La signora Merkel insulta gli speculatori. Zapatero punta il dito accusatorio contro i “fondamentalisti del mercato” che pretendono che quest’ultimo sia in grado di auto controllarsi senza intervento dello Stato. Tutti ci dicono che questa crisi dimostra l’insuccesso del capitalismo “neoliberale” e che la speranza dovrebbe essere posta oggi in un “altro capitalismo”. Un capitalismo nuovo basato sulla produzione e non sulla finanza, staccato dallo strato parassitario degli squali finanzieri e speculatori i quali sarebbero spuntati come funghi col pretesto della “deregulation”, “del meno Stato”, della prevalenza dell’interesse privato su “l’interesse pubblico”, ecc. A sentirli, non è il capitalismo che starebbe crollando ma solo una sua particolare forma. I gruppi della sinistra del capitale (stalinisti, trotskisti, alter-mondialisti...) esultando proclamano: “I fatti ci danno ragione. A provocare questi disastri sono state le derive neoliberiste!” Ci ricordano la loro opposizione alla “globalizzazione” ed al “liberalismo selvaggio”, esigendo misure di controllo statale per combattere le multinazionali, gli speculatori ed altre canaglie che avrebbero provocato questo disastro per la loro eccessiva sete di profitti. Proclamano che la soluzione passa attraverso “il socialismo”, un socialismo che consisterebbe nel fatto che lo Stato dovrebbe controllare “i capitalisti” a beneficio del “popolo” e della “povera gente”.

Ma queste spiegazioni sono valide? È possibile un “altro capitalismo”? L’intervento benefattore dello Stato potrebbe essere una soluzione per il capitalismo in crisi? Cercheremo di dare degli elementi di risposta a queste questioni di scottante attualità. Ma prima di tutto è necessario chiarire una questione di fondo: il socialismo è una maggiore presenza dello Stato?

Socialismo = Stato?

Chavez, il notorio paladino del “socialismo del 21° secolo”, sta facendo sorprendenti dichiarazioni: “Il compagno Bush sta prendendo misure che avrebbe preso il compagno Lenin. Gli Stati Uniti diverranno un giorno socialisti, perché i popoli non si suicidano”. Per una volta (senza che ciò costituisca un precedente) siamo d’accordo con Chavez. Innanzitutto sul fatto che Bush sia un suo degno compagno. In effetti, anche se sono rivali nell’accanita competizione sul piano imperialista, essi si ritrovano degni compari nella difesa del capitalismo e nell’uso dello Stato per salvare il sistema. E siamo anche d’accordo nel dire che “gli Stati Uniti diverranno un giorno socialisti”, anche se questo socialismo non avrà niente a che vedere con quello che preconizza Chavez.

Il vero socialismo difeso dal marxismo e dai rivoluzionari lungo tutta la storia del movimento operaio non ha niente a che vedere con lo Stato. Il socialismo è soprattutto la negazione dello Stato. L’edificazione di una società socialista richiede come prima cosa la distruzione dello Stato in tutti i paesi. Dopo si apre un periodo di transizione dal capitalismo al comunismo, essendo impossibile un passaggio dall’oggi al domani. Questo periodo di transizione dovrà ancora essere assoggettato alla legge del valore che è tipicamente capitalista in quanto la borghesia non sarà completamente estinta e, affianco al proletariato, sussisteranno ancora strati non sfruttatori: contadini, artigiani, piccola-borghesia[1]. Come prodotto di questa situazione di transizione, lo Stato continuerà ad essere necessario ma non avrà più niente a che vedere con gli altri Stati della storia; esso, secondo la formulazione di Engels, sarà un semi-Stato, uno Stato in via d’estinzione. Per avanzare verso il comunismo in una situazione storica di transizione, periodo complesso ed instabile, pieno di pericoli e contraddizioni, il proletariato dovrà continuare ad attaccare questo semi-Stato, fino a smantellarlo completamente pezzo per pezzo. Il processo rivoluzionario dovrà passare per queste condizioni sotto pena di bloccarsi e di vedere allontanarsi, se non perdere definitivamente, la prospettiva del comunismo.

Friedrich Engels, uno tra quelli che più ha affrontato questa questione all’interno del movimento operaio, è stato molto chiaro su questo aspetto: Sarebbe ora di farla finita con tutte queste chiacchiere sullo Stato, specialmente dopo la Comune, che non era più uno Stato nel senso proprio della parola. Gli anarchici ci hanno abbastanza rinfacciato lo “Stato popolare”, benchè già il libro di Marx contro Proudhon e in seguito il Manifesto comunista dicano esplicitamente che con l’instaurazione del regime sociale socialista lo Stato si dissolve da sé e scompare. Non essendo lo Stato altro che un’istituzione temporanea di cui ci si deve servire nella lotta, nella rivoluzione, per schiacciare con la forza i propri nemici, parlare di uno “Stato popolare libero” è pura assurdità: finchè il proletariato ha ancora bisogno dello Stato, ne ha bisogno non nell’interesse della libertà, ma nell’interesse dello schiacciamento dei suoi avversari, e quando diventa possibile parlare di libertà, allora lo Stato come tale cessa di esistere[2].

L’intervento dello Stato per regolare l’economia, metterla al “servizio dei cittadini”, ecc., non ha niente a che vedere col socialismo. Lo Stato non sarà mai “al servizio di tutti i cittadini”. Lo Stato è un organo della classe dominante ed è strutturato, organizzato e configurato per difendere la classe dominante e mantenere il sistema di produzione che la sostiene. Lo Stato “più democratico del mondo” non sarà meno Stato al servizio della borghesia che difenderà, con le unghie ed i denti, il sistema di produzione capitalista. Inoltre l’intervento specifico dello Stato sul terreno economico ha lo scopo specifico di preservare gli interessi generali della riproduzione del capitalismo e della classe capitalistica. Engels nel suo libro L’Anti-Dühring, afferma con chiarezza: “lo Stato moderno a sua volta non è che l’organizzazione di cui la società borghese si è dotata per mantenere le condizioni esterne generali del modo di produzione capitalista contro gli abusi che vengono sia dai lavoratori che dagli stessi capitalisti isolati. Lo Stato moderno, qualunque ne sia la forma, è una macchina essenzialmente capitalistica: lo Stato dei capitalisti non è altro che il capitalista collettivo idealizzato. Più fa passare le forze produttive nella sua proprietà, più nei fatti diviene il capitalista collettivo, e più sfrutta i cittadini. I lavoratori restano dei salariati, dei proletari. Il rapporto capitalistico non è soppresso, è spinto al contrario al suo culmine”.

Durante tutto il 20° secolo, con l’entrata del capitalismo nella sua fase di decadenza[3], lo Stato è stato il suo bastione principale per affrontare l’esacerbarsi delle sue contraddizioni sociali, belliche ed economiche. I secoli 20° e 21° sono caratterizzati dalla tendenza universale al capitalismo di Stato. Questa tendenza non risparmia alcun paese, qualunque sia il suo regime politico. In linea di massima troviamo due modi con cui viene realizzato il capitalismo statale:

- La nazionalizzazione più o meno totale dell’economia (quella esistita in Russia e che esiste ancora in Cina, a Cuba, nella Corea del nord ...);

- La combinazione tra la burocrazia statale e la grande borghesia privata (come negli Stati Uniti o in Spagna, per esempio).

In entrambi i casi è sempre lo Stato che controlla l’economia. Nel primo lo Stato ostenta la sua proprietà di gran parte dei mezzi di produzione e dei servizi. Nel secondo esso interviene nell’economia attraverso una serie di meccanismi indiretti: imposte, fisco, acquisti di imprese[4], fissando i tassi d’interesse bancari, regolamentando i prezzi, attraverso norme di contabilità, agenzie statali di concertazione, di ispezione, di investimenti, ecc.[5]

Ci martellano con due menzogne gemelle: la prima è che il socialismo si identificherebbe con il socialismo di Stato, mentre la seconda è l’identificazione del capitalismo con il liberismo, con la deregolamentazione ed il libero mercato. Nel suo periodo storico di decadenza (secoli XX e XXI), il capitalismo non avrebbe potuto sussistere senza gli artigli onnipresenti dello Stato. Il “libero” mercato è guidato, controllato e sostenuto dalla ferrea mano dello Stato. Adam Smith[6] diceva che il mercato è controllato da una “mano invisibile”. Questa mano invisibile è lo Stato[7]! Quando Bush si precipita a salvare le banche e le compagnie assicurative non fa niente di eccezionale, né sta prendendo delle misure “che prenderebbe il compagno Lenin”. Semplicemente fa il lavoro di controllo e regolamentazione dell’economia del quale quotidianamente si incarica lo Stato.

E’ il “neoliberismo” ad essere fallito?

In altri testi abbiamo già esposto la nostra posizione sulle ragioni della crisi[8]

Dopo un periodo di relativa prosperità dal 1945 al 1967, il capitalismo mondiale è ricaduto in crisi ricorrenti, episodi di convulsione si sono susseguiti un dopo l’altro come terremoti spingendo l’economia mondiale sull’orlo dell’abisso. Ricordiamo la crisi del 1971 che obbligò a rendere indipendente il dollaro dal valore dell’oro; quella del 1974-75 che sfociò in un’inflazione incontrollabile del più del 10%; la crisi del debito del 1982, quando il Messico e l’Argentina si dichiararono in sospensione di pagamento; l’autunno di Wall Street nel 1987; la crisi del 1992-93 che ha comportato la caduta di numerose valute europee; quella del 1997-98 che riduce a mal partito il mito delle tigri e dei dragoni asiatici; quella dell’esplosione della bolla Internet nel 2001...

“… quello che caratterizza globalmente il 20° e il 21° secolo è la tendenza alla sovrapproduzione – temporanea e facilmente superabile nel 19° – che diventa cronica, sottomettendo l’economia mondiale a un rischio quasi permanente di instabilità e distruzione. Inoltre la concorrenza – tratto congenito del capitalismo – diventa estrema e, scontrandosi con un mercato mondiale che tende costantemente alla saturazione, perde il suo carattere di stimolo all’espansione mentre sviluppa il suo carattere negativo e distruttore di caos e scontro”[9]. Le differenti tappe delle diverse crisi che si sono susseguite durante gli ultimi quarant’anni sono il prodotto di questa sovrapproduzione cronica e della competizione esacerbata. Gli Stati hanno tentato di combattere i suoi effetti usando dei palliativi, primo fra tutti l’indebitamento. Gli Stati più forti hanno in tal modo respinto le conseguenze più nefaste “esportando” i suoi peggiori effetti sui paesi più deboli[10].

La politica adottata negli anni ‘70 è stata quella, classica, dell’indebitamento statale rafforzato da un intervento aperto dello Stato nell’economia: nazionalizzazioni, controllo delle imprese, supervisione rigida del commercio estero, ecc. Cioè una politica “keynesiana”[11]. È necessario ricordare agli smemorati che vogliono imporci il falso dilemma neoliberismo/intervento statale che all’epoca tutti i partiti, di destra come di sinistra, erano “keynesiani” e peroravano i benefici di un “liberal-socialismo” (come ad esempio il modello svedese socialdemocratico). Questa politica ha avuto come disastrose conseguenze lo sviluppo dell’inflazione e dunque la destabilizzazione dell’economia e la tendenza alla paralisi del commercio internazionale. Per porvi rimedio è stato allora adottato durante gli anni ‘80 quella che fu retoricamente battezzata “la rivoluzione neoliberale” le cui figure prominenti sono state la Signora di ferro Thatcher in Gran Bretagna ed il cowboy Reagan negli Stati Uniti. Queste politiche statali avevano due obiettivi:

- eliminare come zavorra un’importante parte dell’apparato produttivo non redditizio, cosa che comportò un’ondata di licenziamenti senza precedenti organizzati e pianificati dallo Stato, innescando in tal modo un processo di deterioramento irreversibile delle condizioni di vita dei lavoratori: inizio della precarietà, smantellamento delle prestazioni sociali, ecc.[12];

- attutire il debito che aveva strangolato lo Stato attraverso politiche di privatizzazione, di subappalto dei servizi e di incarichi (“esternalizzazione”) e di rinviare sistematico del debito pubblico verso gli individui, le banche, gli speculatori, (“titolizzazione”). Questo seconda tappa delle politiche “neoliberali” tendeva in particolare ad estendere il debito dello Stato al settore finanziario. Il mercato venne inondato da ogni genere di titoli, obbligazioni, buoni e altro, che presero proporzioni mostruose, scatenando la speculazione. Da allora l’economia mondiale sembra un immenso casinò dove governanti, banchieri ed esperti “broker” (gli intermediari) si lanciano in operazioni complicate per trovare profitti spettacolari ed immediati... al prezzo di terribili sequele di fallimenti ed instabilità.

Il fatto che “l’iniziativa privata” incoraggerebbe il “neoliberismo” è una perfetta frottola: i suoi meccanismi non sono nati spontaneamente dal mercato ma sono stati il frutto e la conseguenza di una politica economica statale che mirava a sopprimere l’inflazione. Tale politica non ha fatto che rinviarla nel futuro pagandone fortemente il prezzo: attraverso oscuri meccanismi finanziari, i debiti si sono trasformati in crediti speculativi ad alto tasso di interesse, determinando in un primo tempo succosi profitti ma di cui era necessario sbarazzarsi il più presto possibile perché, prima o poi, nessuno avrebbe più potuto pagarli... Questi crediti sono stati in un primo tempo le più attraenti “star” del mercato disputate da le banche, speculatori e governi... ma rapidamente si sono trasformati in crediti a rischio, totalmente deprezzati e da cui bisognava allontanarsi come ci si allontana dalla peste.

Il fallimento di questa politica è stato rivelato dal crac brutale di Wall Street del 1987 e la caduta delle casse di risparmio americane nel 1989. Questa politica “neoliberale” è continuata per tutti gli anni 90 ma, in considerazione delle montagne di debiti che pesavano sull’economia, era necessario alleggerire i costi di produzione attraverso politiche di sviluppo della produttività e... attraverso le delocalizzazioni, consistenti nell’esportare interi pezzi della produzione verso paesi come la Cina, con i suoi salari di miseria e le sue condizioni di lavoro spietato, cosa che ha avuto come conseguenza un aggravamento generale e considerevole delle condizioni di vita di tutto il proletariato mondiale. Il concetto di “globalizzazione” si è sviluppato in questo momento: i grandi Stati hanno imposto ai piccoli la soppressione delle barriere protezionistiche, inondandoli poi di merci per alleviare la propria sovrapproduzione cronica.

Ancora una volta, queste “medicine” non hanno fatto che aggravare il male e la crisi dei dragoni e delle tigri asiatiche del 1997-98 ha dimostrato l’inefficienza di queste politiche così come i numerosi pericoli in esse contenute. Ma il capitalismo a questo punto ha tirato fuori dal suo cilindro il classico coniglio, il nuovo secolo aveva apportato quella che è stata chiamata la “net-economy”, cioè una speculazione ad oltranza sulle imprese informatiche ed Internet. Rapidamente, fin dal 2001, questa si è risolta in un fragoroso fallimento. Il capitalismo tenta allora un’altra magia e dal 2003 si butta in una speculazione immobiliare senza freni, riempiendo il pianeta di costruzioni ed immobili (accelerando en passant i problemi ambientali) provocando una terribile fiammata del prezzo degli immobili. Il tutto è sfociato nel... terribile fiasco attuale!

… o il capitalismo?

La crisi presente può essere paragonata ad un gigantesco campo minato. La prima mina ad esplodere è stata la crisi dei subprime durante l’estate del 2007; all’inizio si era convinti che il problema sarebbe rientrato attraverso il versamento di alcuni miliardi. Non era stato sempre così? Ma il crollo degli istituti bancari iniziato a fine dicembre ha costituito la nuova mina che ha mandato in frantumi tutte queste illusioni. L’estate 2008 è stata vertiginosa, con una successione di fallimenti di banche negli Stati Uniti ed in Gran Bretagna. Non siamo arrivati ad ottobre ed un’altra delle illusioni con le quali la borghesia voleva mitigare le nostre preoccupazioni è andata in fumo: si diceva che i problemi erano immensi negli Stati Uniti ma che l’economia europea non aveva niente da temere. Attualmente però le mine cominciano ad esplodere anche nell’economia europea a partire dal suo più potente Stato, la Germania, che senza reagire contempla la caduta della sua principale banca ipotecaria.

Da dove vengono queste brutali esplosioni mentre tutto sembra “calmo e sereno”? Esse sono il risultato di 40 anni di accompagnamento della crisi, attraverso palliativi che se da un lato sono riusciti a celare i problemi e a mantenere più o meno in piedi un sistema alle prese con problemi insolubili, dall’altro non solo non hanno risolto niente, ma al contrario, hanno aggravato le contraddizioni del capitalismo fino ai suoi limiti estremi ed ora, con questa crisi, le conseguenze vengono fuori una dopo l’altra.

Il capitalismo troverà una via d’uscita “come ha sempre fatto”?

Questa è una falsa consolazione:

- I precedenti episodi della crisi sono stati “risolti” dalle banche centrali con l’immissione di alcuni miliardi di dollari (un centinaio durante la crisi delle Tigri asiatiche nel 1998). In epoca più recente, da circa un anno e mezzo, gli Stati hanno investito 3.000 miliardi di dollari senza che si sia vista una via d’uscita[13].

- Fino a qualche tempo fa i peggiori effetti della crisi sono stati circoscritti ad alcuni paesi limitrofi (Sud-est asiatico, Messico, Argentina, Russia), mentre oggi l’epicentro dei peggiori effetti è situato proprio nei paesi centrali: Stati Uniti, Gran Bretagna, Germania... e obbligatoriamente si irradiano nel resto del mondo.

- In generale, gli episodi precedenti, ad eccezione di quelli della fine degli anni ‘70, erano poco duraturi, era sufficiente un periodo di 6 mesi - un anno per vedere la “fine del tunnel”. Oramai è da un anno e mezzo che viviamo questa crisi e non vediamo il minimo barlume. Al contrario, ogni giorno la crisi è più grave e il tracollo più profondo!

- Oltretutto, questa crisi sta lasciando il sistema bancario mondiale molto indebolito. Il meccanismo del credito si ritrova paralizzato a causa della sfiducia generalizzata, nessuno sa veramente se gli attivi presentati dalle banche (e le imprese) nei loro bilanci siano veritieri. Gli immobili, le proprietà sono deprezzate. Quanto agli attivi finanziari, questi sono in realtà, secondo l’espressione dello stesso Bush, degli “attivi tossici”, carta che rappresenta incredibili debiti irrecuperabili. Il capitalismo di Stato “liberale” non può funzionare se non ha banche forti e solide. Attualmente l’economia capitalista si è talmente arroccata alla terapia del debito che, se il sistema del credito si dimostra incapace di portare un abbondante flusso di soldi, la produzione rimarrà paralizzata. Il rubinetto del credito resta chiuso nonostante le enormi somme stanziate dai governi alle banche centrali. Nessuno vede chiaramente come si possa recuperare un sistema che fa acqua da tutte le parti e che perde organi vitali come le banche una dopo l’altra. La folle corsa tra gli Stati europei per vedere chi tra loro possa dare più garanzie ai depositi bancari è un sinistro augurio che rivela solo una ricerca disperata di fondi. Questa eccessiva offerta di “garanzie” significa che proprio nulla è garantito!

Le cose sono dunque chiare: oggi il capitalismo conosce la sua più grave crisi economica. La storia si sta accelerando brutalmente. Dopo 40 anni di sviluppo lento e non lineare della crisi, questo sistema sta per cadere in una recessione terribile ed estremamente profonda dalla quale non si alzerà indenne. Ma soprattutto, da ora in poi, le condizioni di vita di miliardi di persone sono colpite duramente e in maniera durevole. La disoccupazione colpisce molte famiglie, in meno di un anno 600.000 in Spagna, 180.000 ad agosto 2008 negli Stati Uniti. L’inflazione colpisce i prodotti alimentari di base e la fame devasta il mondo ad una velocità vertiginosa da circa un anno. I tagli ai salari, i blocchi parziali di produzione con gli attacchi che conseguono, i rischi che pesano sulle pensioni... Non c'è il minimo dubbio che questa crisi avrà ripercussioni di una brutalità straordinaria. Noi non sappiamo se il capitalismo ne uscirà, ma ciò di cui siamo fortemente convinti è che milioni di esseri umani non ne usciranno. Il “nuovo” capitalismo che “verrà fuori” da questa crisi sarà una società molto più povera, con molti proletari che verranno spinti nella precarietà, in un contesto di confusione e caos. Ognuna delle convulsioni precedenti, durante gli ultimi 40 anni, si è conclusa con un deterioramento delle condizioni di vita della classe operaia e con amputazioni più o meno ampie dell’apparato produttivo; il nuovo periodo che si apre porterà questa tendenza ad un livello ben più elevato.

Solo la lotta del proletariato può permettere all’umanità di uscire dall’impasse

Il capitalismo non getterà la spugna. Mai una classe sfruttatrice ha riconosciuto la realtà del suo fallimento ed ha ceduto il potere di sua volontà. Ma possiamo constatare che dopo più di cento anni di disastri e convulsioni, tutte le politiche economiche con le quali lo Stato capitalista ha tentato di risolvere i suoi problemi non solo sono fallite, ma hanno maggiormente aggravato i problemi. Non possiamo aspettarci nulla dalle pretese “nuove soluzioni” che il capitalismo sta cercando per “venire fuori dalla crisi”. Possiamo essere sicuri che esse ci costeranno sempre più sofferenze e miseria e dobbiamo prepararci a conoscere nuove convulsioni ancora più violente.

È perciò utopistico avere fiducia in tutto ciò che ci viene presentato come una “via d’uscita” dalla crisi del capitalismo. Non c’è alcuna via d’uscita. Ed è il sistema intero ad essere incapace di celare il suo fallimento. Essere realista significa partecipare ad aiutare il proletariato a riprendere fiducia in se stesso, a riprendere fiducia nella forza che gli può dare la sua lotta come classe ed a costruire pazientemente attraverso le sue lotte, i suoi dibattiti, il suo sforzo di auto-organizzazione, la forza sociale che gli permetterà di erigersi, di fronte all’attuale società, in alternativa rivoluzionaria capace di rovesciare questo sistema putrescente.

CCI (8 ottobre 2008)

(tradotto da Acciòn Proletaria, organo della CCI in Spagna)



[1] Non possiamo qui affrontare nel dettaglio questa questione. Per approfondimenti ulteriori leggi sul nostro sito: “La prospettiva del comunismo”, “Il comunismo non è un bell’ideale, ma è all’ordine del giorno della storia”, “Il comunismo non è un bell’ideale ma una necessità materiale”, in inglese, francese e spagnolo.

[2] Engels, Lettera ad August Bebel, 1875.

[3] La Prima Guerra mondiale (1914) mette fine al carattere progressista del capitalismo e determina la sua trasformazione in un sistema che non porta che guerre, crisi e barbarie senza fine. Vedi la Revue internationale n. 134.

[4] Per farsene un’idea, negli Stati Uniti, presentati come La Mecca del neoliberismo, lo Stato è il principale cliente delle imprese, e quelle informatiche sono obbligate ad inviare al Pentagono una copia dei programmi che creano e dei componenti di hardware che costruiscono.

[5] È una frottola dire che l’economia americana non è regolamenta, che il suo Stato ne è fuori, ecc.: la borsa è controllata da un’agenzia federale specifica, la banca è controllata dalla SEC, la FED determina la politica economica attraverso meccanismi come i tassi d’interesse.

[6] Adam Smith (5 giugno 1723 - 17 luglio 1790) era un filosofo ed economista scozzese illuminista. Esso rimane nella storia come il padre della scienza moderna e la sua opera principale, Sulla ricchezza delle nazioni, è uno dei testi di base del liberismo economico. Professore di filosofia all’università di Glasgoow, dedicò dieci anni della sua vita a questo testo che ha inspirato i grandi economisti che vennero dopo, coloro che Karl Marx chiamerà i “classici” e che porranno i grandi principi del liberismo economico” (wikipedia.org).

[7] Il flagello della corruzione non è altro che la prova evidente dell’onnipresenza dello Stato. Negli Stati Uniti come in Spagna o in Cina, l’Abc della cultura di impresa è che gli affari possono prosperare solo passando dagli uffici della burocrazia statale ed ingrassando gli uomini politici del momento.

[8] Vedi “Stati Uniti, locomotiva dell’economia mondiale … verso il baratro” Revue internationale n. 133 e gli altri articoli sulla crisi finanziaria su questa stessa pagina web

[9] “Esiste una via d'uscita alla crisi?” Rivoluzione Internazionale n.156

[10] Nella serie di articoli “30 anni di crisi capitalista”, pubblicati nei nostri 96, 97 e 98 nella Rivista Internazionale 96,97 e 98 (in francese, inglese e spagnolo) analizziamo le tecniche ed i metodi con cui il capitalismo di Stato ha accompagnato questa caduta nel baratro per rallentarla, arrivando alla situazione attuale.

[11] Keynes è particolarmente celebre per i suoi incoraggiamenti ad una politica di interventismo statale, nel quale lo Stato impiega misure fiscali e valutarie avente per obiettivo quello di fermare gli effetti sfavorevoli dei periodi di recessione ciclici dell’attività economica. Gli economisti ritengono che questi sia stato uno dei fondatori della macroeconomia moderna.

 

[12] Ricordiamo che, contrariamente a quanto affermano i bugiardi di ogni risma, questa politica non è stata una caratteristica dei governi “neoliberali” ma fu approvata al cento per cento dai governi “socialisti” o “progressisti”. In Francia il governo Mitterrand, sostenuto dai Comunisti fino al 1984 adottò misure dure come quelle di Reagan e della Thatcher. In Spagna il governo “socialista” di González organizzò una riconversione che determinò la scomparsa di un milione di posti di lavoro.

[13] Inoltre è stupido pensare che questo diluvio di miliardi non avrà conseguenze. Al contrario prepara un futuro ancora più nero. Lo scetticismo generalizzato con cui è stato accolto il più gigantesco piano di salvataggio finanziario della storia (700miliardi di dollari!) attraverso il “piano Paulson” dimostra che il rimedio sta creando un nuovo campo minato, più potente e devastante nel sottosuolo di una economia capitalista già malmenata e il cui crollo, alla fine, sarà inevitabile.

Questioni teoriche: