Inviato da RivoluzioneInte... il
Noi, in quanto rivoluzionari, accogliamo con il massimo favore e piena soddisfazione l’apertura del confronto e del dibattito con questi compagni, condividendo con essi la preoccupazione che l’isolamento in cui molti altri gruppi operai si trovano è uno dei motivi chiave della lentezza della loro evoluzione, se non addirittura della loro sparizione. Infatti noi siamo convinti, ed alcuni importanti sintomi lo confermano, cha si stia sviluppando in diverse città italiane una serie di iniziative operaie di discussione che solo a volte riescono a raggiungere la forza e la maturità per farsi conoscere a livello nazionale, ma che spesso, viceversa, rimangono inviluppate nell’angusto confine cittadino se non di fabbrica. Noi salutiamo calorosamente 1’emergere di questo processo e lo valutiamo come un sintomo di “buona salute politica” della classe operaia, in quanto essa segna il fatto che, nonostante le varie battute d’arresto subite in questi ultimi dieci anni, gli operai non sono sconfitti e si sono messi al lavoro, ripartendo non da zero, ma da un mucchio di esperienze maturate proprio in questi anni. Se perciò questo articolo fa riferimento preciso ad un particolare Coordinamento di operai[2] pervenuto peraltro ad un notevolissimo livello di maturità politica, d’altra parte con esso intendiamo rivolgerci a tutto lo sforzo sotterraneo che sta svolgendo in questa fase la classe operaia, per dare il nostro contributo alla sua ripresa e al suo riproporsi come protagonista sulla scena storica mondiale, per poter finalmente ripetere: “Ben scavato, vecchia talpa!”
La classe alla ricerca della sua unità e della sua coscienza
II periodo che va dal ‘68 ad oggi segna per noi la fine del periodo di controrivoluzione, che si era prodotto a ridosso della sconfitta degli anni 20, e l’inizio della ripresa della lotta di classe.
Questa ripresa, favorita dalla crisi mondiale del capitalismo, è anch’essa mondiale e si va manifestando, anche se con fasi alterne, sia nei centri ad alta concentrazione industriale, che nel Terzo Mondo, all’Est così come in occidente.
Lungo questi anni, di fronte a fasi di riflusso della lotta, molti hanno gridato all’apatia se non alla integrazione della classe operaia nella società borghese, e che si sarebbe dovuto contare, per il futuro, sui nuovi strati sociali emergenti di “proletariato giovanile”, dei “non garantiti”, ecc. Lasciando da parte un nostro giudizio di merito su questi discorsi[3], ci interessa qui sottolineare l’impazienza ribellistica, spesso di natura piccolo-borghese, che è alla base di queste posizioni. La delusione di questi compagni verso la classe operaia è determinata dal fatto che la sue lotte attuali non si sviluppano secondo un crescendo continuo e unico fino alla rivoluzione, ma conoscono anche delle pause, a volte lunghe, di apparente stagnazione. Ma se il cosiddetto “compagno di movimento” si sente compagno solo se c’è movimento e ripiega sul primo strato incazzato, anche se non proletario, purché faccia casino, i rivoluzionari devono essere meno miopi e comprendere e favorire le fasi di maturazione della classe, anche al di fuori della lotta aperta di piazza per poter prevedere e preparare il terreno della futura ripresa della lotta. Dicevamo un anno fa che “gli operai scoprono, sconfitta dopo sconfitta, che per difendere le proprie conditioni di vita bisogna ormai scontrarsi direttamente con lo Stato, di cui i sindacati non sono che un ingranaggio. In una situazione del genere (…) la maggioranza della classe arretra, per non dissanguarsi in scioperi senza storia e senza significato; (…) è come se la classe operaia arretrasse di fronte ad un nuovo ostacolo per poter meglio prendere una rincorsa adeguata al salto”[4] Oggi possiamo aggiungere che questa preparazione al grande salto comincia a venire alla luce ed il moltiplicarsi di iniziative di aggregazioni di compagni operai sotto le più svariate forme e sigle ne è un’evidente conferma. La spinta che è alla base della costituzione di questi vari nuclei operai è comune ed è una tendenza generale nella classe oggi: riappropriarsi degli strumenti della sua emancipazione, cioè la sua unità e la sua coscienza. Poco importa se, in dipendenza delle difficoltà locali, dell’eterogeneità esistente tra vari settori della classe, questa spinta si concretizza in maniera più o meno matura. Quello che conta è che la classe nel suo complesso, anche se spesso in maniera non del tutto cosciente, sta cercando di far fronte agli stessi problemi.
Ma questi nuclei operai che si vanno costituendo non hanno vita facile e, proprio perché sorgono dall’esigenza di unire la classe e di costituirne al tempo stesso dei punti di riferimento politici, sono spesso lacerati dal dilemma se operare o no una chiusura orizzontale, se ammettere qualsiasi operaio oppure sottoporre l’adesione all’accettazione di alcune discriminanti politiche. E’ per questo che assistiamo a tutta una gamma di strutture operaie diverse ed anche ad una notevole fragilità di queste. Ma, qualunque sia il loro grado di evoluzione, i rivoluzionari lavorano tenacemente per favorire tutti i tentativi della classe di pervenire coscientemente alla determinazione dei suoi fini storici e di costruire gli strumenti per il suo raggiungimento.
Benché l’attuale apparire di nuclei operai esprima la vitalità della classe, esso manifesta anche dei limiti. In effetti, una delle ragioni per le quali i lavoratori alla ricerca di una chiarezza politica sono condotti a raggrupparsi, indipendentemente da ogni partito, è l’assenza di una vera organizzazione politica della classe che sia riconosciuta come tale in larghe frange del proletariato o almeno tra quelli che sono animati da una tale volontà di ricerca, e che possa costituire una sorta di punto di raccolta e di propulsione delle discussioni e dello sforzo di chiarificazione. Man mano che, con l’estensione della lotta, si svilupperà la forza e l’impatto di una tale organizzazione, sarà sempre più intorno a questa che si ritroveranno i lavoratori in rottura con l’ideologia e le organizzazioni borghesi. D’altra parte nel periodo rivoluzionario, l’istanza portata avanti dagli attuali nuclei operai sarà fatta propria da tutta la classe che sarà impegnata nel suo insieme in una discussione permanente nelle assemblee generali e nei consigli e sarà influenzata in maniera diretta dalle analisi e dalle prese di posizione del partito proletario.
Coordinamento di Sesto S. Giovanni: elementi di forza e di debolezza dopo 10 anni di ripresa della lotta di classe
Se facciamo riferimento al Coordinamento di Sesto S. Giovanni è perché esso rappresenta una delle espressioni più mature di questo processo di riflessione in atto nella classe. Certo, esso rappresenta una punta per coerenza e lucidità, ma ciò che è alla sua base è lo stesso travaglio o lo stesso sforzo in cui si è ingaggiata la classe in questi dieci anni. Diciamo questo per sottolineare la nostra convinzione che la storia non passi invano, soprattutto per la classe operaia, e che un Coordinamento come quello di Sesto poteva nascere oggi e non nel ‘69. Infatti si può riscontrare, dalla lettura dei documenti di questi compagni, tutta la forza dell’esperienza di questi anni, tutte le scottature e disillusioni del passato, tutta la tensione ad evitare vicoli ciechi per il futuro. In questo senso il sorgere di questi gruppi operai é esso stesso una manifestazione della ripresa della lotta di classe, come risultato ultimo di un lungo processo attraversato dalle giovani generazioni operaie dal ‘69 ad oggi: passando attraverso cento comitati di sciopero ed altrettanti coordinamenti, dispersi ed a volte atomizzati dal rifluire delle lotte, attraverso e nonostante l’esperienza all’interno dei gruppi extraparlamentari, gli operai imparano a farsi le ossa, a riconoscere i propri nemici, a comprendere le strade sbagliate.
All’interno dell’impostazione dei due documenti, complessivamente ottimi, si possono sottolineare alcuni elementi di particolare importanza, primo fra tutti lo stesso modo di concepirsi. Infatti quando questi compagni affermano:
“Il Coordinamento degli operai non risolve tutti i problemi. In esso viene necessariamente mediata sia l’esigenza di organizzazione comunista sia l’esigenza dell'organizzazione sindacale di classe”[5]
dimostrano di essere consapevoli della intima contraddittorietà presente generalmente in questo tipo di strutture. Ed aggiungono:
“Ci rendiamo conto che i compiti politici ed organizzativi sono ben più vasti, ma questo strumento ci é necessario come un “luogo” dove le avanguardie possono misurarsi e misurare la possibilità di sviluppare fra gli operai un movimento politico indipendente (…). Un luogo dove mettere sotto verifica le proposte politiche che vengono riversate sugli operai (…). Non siamo il partito e non vogliamo neppure esserne un surrogato (…). Conosciamo i nostri limiti, i limiti di un’organizzazione ibrida, una forma transitoria, primitiva ma necessaria. Quanto questa forma di organizzazione potrà sopravvivere, quanto possa funzionare non possiamo stabilirlo ora. Ciò che ci é chiaro è che essa serve per confrontarci e per riunire gli operai di avanguardia dispersi nelle fabbriche attorno alla definizione del progetto comunista (…).”[6]
Quello dei compagni di Sesto S. Giovanni non è fatalismo, scetticismo, ma è sana coscienza della difficoltà del lavoro militante. Noi crediamo che sarà loro preziosa per reggere nel futuro, quale che sia la sorte dell’attuale Coordinamento.
Ma più che continuare ad enumerare i punti di accordo con questi compagni, crediamo sia fondamentale battere su quelle che consideriamo loro debolezze e che, non a caso, sono il contrappeso ai loro elementi di forza. Se dieci anni di ricerca, di esperienze sono stati sufficienti a fargli raggiungere l’attuale grado di maturità, costituiscono nello stesso tempo un retroterra troppo angusto per piantare solide radici nel movimento rivoluzionario e per mettere in chiaro ogni problema. Non che manchi in questi compagni la tensione a riallacciarsi alla tradizione del marxismo e del movimento operaio, assolutamente. Ma è certo arduo per chiunque, soprattutto dopo mezzo secolo di controrivoluzione, comprendere fino in fondo la lotta degli operai della Comune di Parigi, degli operai di Pietroburgo, di Berlino, di Kronstadt ed ancora far sì che nessuna di queste esperienze sia passata invano[7]. In questo senso riteniamo fondamentale la collaborazione nel dibattito ed il confronto fra tutte le organizzazioni e tendenze proletarie per riannodare il filo storico del movimento operaio ed è in questo senso che cerchiamo di dare il nostro contributo.
La prima questione riguarda i sindacati. Se i compagni di Sesto ne individuano chiaramente la netta funzione antioperaia e di appoggio al capitale nazionale, si sbagliano però di grosso nel darne la responsabilità ai “vertici sindacali”. Certo, i Lama, i Benvenuto sono gli abili manovratori della politica padronale, ma quante volte, compagni, vi siete trovati contro nei momenti critici un semplice “delegato di base”, uno del Consiglio di Fabbrica, un “compagno” della sinistra sindacale? Sono forse questi i vertici del sindacato? Eppure sono proprio questi elementi che, coscienti o meno, costituiscono a volte le pedine più pericolose in mano al nemico. A meno che non si voglia intendere per base la massa degli operai che hanno la tessera del sindacato e che notoriamente non hanno niente a che fare con la vita del sindacato se non subirne i soprusi (si tenga presente che in molte nazioni il tesseramento é obbligatorio, in altre é “fortemente consigliato”).
Sarebbe come dire che l’esercito é una istituzione cattiva perché ha dei pessimi capi, ma la base può rovesciare le cose ed utilizzarlo in maniera diversa. Qui non è questione di capi, ma di funzione oggettiva svolta da un organo. Come l’esercito é la forza armata della borghesia nazionale, così il sindacato é lo strumento di divisione e di incanalamento del malcontento operaio, qualunque sia la sua sigla e chiunque siano i suoi dirigenti.[8] I compagni che non. fossero d’accordo su questo ci indichino un solo sindacato di classe, e noi cambieremo la nostra posizione.
A parte queste note vogliamo rilevare un altro aspetto che salta agli occhi nel confronto fra i due documenti del Coordinamento. Mentre nella critica alla piattaforma confederale abbondavano i discorsi sui “vertici sindacali” e sulle possibilità future di una “ricostituzione” del sindacato oppure dell’“espulsione di tutte le componenti piccolo-borghesi che oggi lo dirigono”, nel successivo Manifesto scompare ogni riferimento esplicito a queste posizioni:
“Le organizzazioni sindacali, gestite dai partiti governativi, e principalmente dal PCI, si configurano oggi come un pilastro del sistema capitalistico. Il fatto che il sindacato conti milioni di operai tra i suoi iscritti non lo caratterizza come organizzazione di classe (…). L’unione in un’unica organizzazione che difenda sul mercato e nel consumo la forza-lavoro è una necessità sempre presente fra gli operai. Ma qui sorge il problema: si può contrattare la forza-lavoro, dando per scontata la continuità del modo di produzione capitalistico, per cui il compratore va assicurato in ogni modo. Ciò non esclude le lotte fra venditori e compratori, ma la politica di una simile organizzazione sindacale non può che seguire l’andamento degli affari dei padroni, ed “ottenere quello che si può”. Nei moment di espansione degli affari si possono rivendicare anche aumenti salariali, miglioramenti normativi; ma nella crisi, siccome bisogna salvare il compratore, tutti debbono sacrificarsi e lavorare di più perché, superata la crisi, il compratore torni a comprare la merce che gli operai hanno da vendere. (…) L’attuale sindacato non è l’organizzazione nella quale gli operai possano sviluppare le lotte per i loro interessi.”[9]
Ora, se si fa piazza pulita di alcune posizioni chiaramente insostenibili, è anche vero che il discorso rimane ambiguo, a mezza strada. Si parla ancora dell’attuale sindacato, ma il problema a cui bisogna dare una risposta é se sia mai possibile avere un sindacato diverso da quello attuale. Fermarsi alle soglie del problema, limitarsi a lasciar cadere le formulazioni più stridenti e poi tirarsi su dicendo: “crediamo che basti nella situazione attuale”, significa lasciare a metà il lavoro di “chiarezza e scontro sui programmi” che ci si é dati come obbiettivo.[10] E non basta neanche contrapporre una scelta concreta di lotta agli aut-aut della borghesia:
“Al ricatto posto dalla domanda “operare all’interno o fuori”, che nascondeva sempre una mistificazione sul giudizio da dare su questo sindacato, rispondiamo cercando di definire un programma ed un giudizio su cui impostare un’azione di difesa degli interessi materiali degli operai.”[11]
perché é nel concreto stesso dalla lotta che gli operai si ritrovano puntualmente di fronte non solo “questo” sindacato, ma tutte le varianti possibili della trappola sindacale (dai sindacati autonomi, ai mini-sindacatini “rivoluzionari”, all’indipendentismo “apolitico”, etc.) come le attuali lotte degli ospedalieri stanno a dimostrare. E’nella lotta che l’aver lasciato una porta aperta alla possibilità di un sindacato di classe si paga su tutti i piani, compreso quello della difesa degli interessi immediati dei lavoratori.
Un secondo punto su cui vogliamo intervenire é la tendenza dei compagni del Coordinamento a delimitare e definire il più nitidamente possibile il concetto di classe operaia, in contrapposizione ed in giusta polemica con i concetti di “operaio-sociale”, “sfruttamento sociale”, “nuovo proletariato”, etc. Si tratta di una sana reazione alle “ultime trovate” degli inventori di professione, ma è proprio il permanente pericolo dell’influenza della ideologia piccolo-borghese che spinge questi compagni a forzare un po’ la mano su questo punto. Si approda così ad una analisi che tende ad assumere come base di valutazione politica di un gruppo l’estrazione sociale dei suoi aderenti e non le sue posizioni politiche. Per cui si ottengono due errori opposti a simmetrici. Da una parte non si é abbastanza risoluti con i gruppi extraparlamentari limitandosi a definirli un’espressione della piccola borghesia e non come gruppi esplicitamente controrivoluzionari, dall’altra si fa tabula rasa di altri gruppi come i Comitati Comunisti Rivoluzionari che, secondo noi, non possono essere certo considerati alla stessa stregua di L.C. e P.dU.P.[12]
In qualche modo questa delimitazione dei confini politici della classa operaia coincidente con i suoi confini sociali è ingannevole e può alimentare un certo localismo fabbrichista e/o geografico. Infatti, pure se i compagni esprimono in maniera ineccepibile la posizione sull’internazionalismo proletario, non fanno alcun cenno ad episodi specifici di lotta a livello internazionale (vedi Polonia, Spagna, Germania, etc.); d’altra parte, oltre alla diffusione nazionale del “Manifesto”, che ci è sembrata un’iniziativa molto felice, par il resto vi può essere la tendenza a rinchiudersi nell’ambiente strettamente di fabbrica, scartando a priori la ricerca di altri contatti politici, in Italia o all’estero, con altri gruppi di discussione o con gruppi politici costituiti. Certo i compagni di Sesto non escludono il dibattito con altri compagni che siano su un minimo di posizioni di classe e sono ben chiari sul fatto che non intendono fermarsi al coordinamento e che questo è al tempo stesso uno strumento “per cominciare a lavorare”. Ma la loro esperienza e la loro iniziativa sono di una tale importanza per il movimento proletario che non ci facciamo scrupolo di segnalare e di metterli in guardia da tutti i pericoli, presenti o futuri, che possono bloccare o svilire questo lavoro e impedirgli di divenire patrimonio di tutta la classe.
L.
[1] I compagni che vogliono entrare in contatto con il coordinamento possono scrivere a: Luciano Doldi, Casella Postale 147, Cordusio, 20100 Milano.
E’ interessante notare che a questo “Coordinamento” è stato già dedicato un articolo da “Battaglia Comunista” sul n°10-11 del 1-30 luglio 1978.
[2] E’ interessante notare che a questo “Coordinamento” è stato già dedicato un articolo da “Battaglia Comunista” sul n°10-11 del 1-30 luglio 1978.
[3] Vedi “L’area dell’autonomia: la confusione contro la classe operaia” pubblicato sui n°8 e 10 di Rivoluzione Internazionale.
[4] Rivoluzione Internazionale n°10, pag. 22.
[5] Dal Manifesto di Sesto S. Giovanni, pag. 3.
[6] Idem.
[7] Su questo tema, che contiamo di approfondire in un ulteriore incontro con i compagni del Coordinamento, vedi anche su questo stesso numero la nostra risposta alla lettera della redazione di Collegamenti.
[8] Una esposizione più articolata delle nostre posizioni sulla natura controrivoluzionaria dei sindacati si trova nel n°1 di Rivoluzione Internazionale, nell’articolo “I sindacati contro la classe operaia”. Segnaliamo la prossima ripubblicazione di questo scritto in un opuscolo che conterrà anche un testo introduttivo sulla esperienza maturata dalla classe dal ‘68 ad oggi.
[9] Dal Manifesto di Sesto S. Giovanni, pag. 11-12.
[10] Una questione analoga riguarda i compagni di “Operai e Teoria”, che partecipano attivamente al Coordinamento. Nel numero unico del loro giornale si trovava, in stridente contrasto con l’insieme dalle posizioni espresse, un fugace accenno alla natura proletaria o ex-proletaria di Cina ed Albania. Nel Manifesto si afferma invece chiaramente: “Noi non ci poniamo a fianco di qualcun altro nella lotta alle due superpotenze; ci poniamo a fianco degli operai di tutti i paesi per lottare ognuno contro il proprio governo imperialista”. E’ chiaro che da parte di questi compagni si impone una definitiva chiarificazione a questo proposito.
[11] Dal Manifesto di Sesto S. Giovanni, pag. 13.
[12] Nei confronti di formazioni come questa che, pur segnata da pesanti errori e da rilevanti lacune, ha mostrato di sapersi distinguere in più occasioni dalla palude della Autonomia, i rivoluzionari devono avere un atteggiamento di critica ferma e spietata se occorre, ma non di condanna senza appello. Contiamo infatti di dedicare un prossimo articolo all’analisi delle posizioni dei C.C.R.