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Nel 1848 Marx ed Engels pubblicando il Manifesto del partito comunista indicano nella lotta delle classi il perno attorno al quale si muove da sempre la storia delle società umane:
“Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri delle corporazioni e garzoni, in una parola oppressori e oppressi sono sempre stati in contrasto fra di loro, hanno sostenuto una lotta ininterrotta, a volte nascosta, a volte palese: una lotta che finì sempre o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la rovina comune delle classi in lotta”.
La propaganda borghese più volte si è rivolta contro questo assunto dell’analisi marxista della storia cercando di negare la sua verità. E gli avvenimenti degli ultimi anni hanno costituito un comodo trampolino di lancio da cui sferrare l’attacco ideologico contro la classe operaia. Fidando nello scoramento generale in cui il proletariato occidentale è caduto dopo il crollo dell’Unione sovietica, immediatamente presentato come la fine del comunismo, e nei rivolgimenti a cui le nuove tecnologie hanno sottoposto il sistema produttivo - rivolgimenti che hanno favorito la scomparsa delle grandi concentrazioni industriali, eccezion fatta per alcuni comparti tradizionali come quello dell’auto della petrolchimica o della cantieristica - si è voluto sostenere un mutamento delle forme sociali che vedrebbe una drastica diminuzione del proletariato. Così ad esempio dagli anni ’80 fino al recente passato abbiamo assistito al proliferare di ogni genere di teorie sul ridimensionamento della forza della classe operaia. C’è chi ha parlato di “frammentazione” dei lavoratori, chi di imborghesimento della classe e chi addirittura di “fine del lavoro”. Basti dire che, per quanto varie, ciascuna di queste teorie sottintende lo stesso identico assunto: venuto meno il ruolo centrale del proletariato, Marx è superato e non ha più senso parlare di lotta di classe.
L’idea che il proletariato, a differenza di quanto prospettato da Marx, sia in diminuzione viene sostenuta sulla base della falsa equazione tra proletariato e classe operaia industriale. Ma questa equazione è corretta? Il concetto di proletariato non coincide con quello di “classe operaia industriale”. Una classe è un gruppo di persone accomunate dal proprio rapporto con i mezzi di produzione ed il proletariato in particolare è quella classe che, non possedendo mezzi di produzione, è costretta a vendere la propria forza lavoro per vivere. Da questo punto di vista non solo il proletariato è enormemente più numeroso rispetto ai tempi di Marx, ma anche rispetto agli stessi anni ’60.
Per chiarire meglio quanto detto è opportuno rivolgere l’attenzione alla differenza che Marx pone tra il lavoro produttivo e quello improduttivo. Ricordiamo che nel sistema capitalistico i prodotti del lavoro umano assumono la forma di merci. Un prodotto in quanto merce assume un valore che non dipende dalla sua mera utilità ma dalla possibilità di essere scambiato con altre merci sul mercato. La determinazione del valore di una merce è data dalla quantità di forza lavoro occorsa per la produzione di quella merce. Una parte di questo valore viene corrisposta all’operaio sotto forma di salario, mentre l’altra costituisce il profitto del capitalista, o per meglio dire del capitale. Il lavoro produttivo è dunque quel lavoro che scambiato contro capitale produce plusvalore. Ciò significa che esso riproduce, accresciuta, la somma di valore che è stata spesa in esso, ossia che produce più lavoro di quanto ne riceve in forma di salario. Il lavoro improduttivo, invece, è lavoro che scambiato con denaro non produce un aumento del capitale. L’operaio di fabbrica, dunque è senz’altro un lavoratore produttivo. Ma che dire di tutte quelle figure, medici, insegnanti, gente impiegata nel terziario che a prima vista non sembrano direttamente collegate alla produzione di plusvalore e dunque di profitto per il capitale? Possono essere inclusi nell’alveo della classe operaia o devono restarne fuori?
Innanzitutto vorrei far notare come la differenza che intercorre tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo non è assolutamente una discriminante per dividere i proletari dalle altre classi sociali. Questa distinzione viene fatta dal punto di vista dell’accrescimento del capitale e non dal punto di vista di chi vende la propria forza lavoro. Ma quali possono essere i criteri per definire l’appartenenza alla classe operaia?
1) Bisogna arricchire direttamente un padrone per farne parte? Volgendo lo sguardo ad alcune attività lavorative ci si accorge immediatamente che la risposta ad una simile domanda deve essere negativa: gli insegnanti, gli infermieri, gli operatori di call center, anche quando non lavorano per alcun un padrone, appartengo alla classe perché a) sono costretti a vendere la propria forza lavoro per sopravvivere e b) contribuiscono alla produzione complessiva della ricchezza, risultato dello sforzo di tutti i lavoratori. L’istruzione o la cura della forza lavoro sono attività assolutamente necessarie perché la produzione delle merci possa essere realizzata.
2) Tutti gli sfruttati appartengono alla classe operaia? Basta pensare ai contadini poveri molto numerosi nei paesi sottosviluppati che non posseggono la terra per rispondere negativamente anche questa volta.
3) Poliziotti e preti non sono proprietari dei loro mezzi di produzione e sono salariati, appartengono, forse, alla classe? Ovviamente no, queste figure non producono ricchezza in alcun modo, mentre svolgono un ruolo di difesa dei privilegi della classe dominante e di conservazione del suo dominio.
Riassumendo, si può dire che la classe operaia è composta da tutti quei lavoratori che vendendo la propria forza lavoro per vivere, partecipano direttamente o indirettamente alla produzione complessiva della ricchezza sociale. Ma questo non è tutto. Una classe ha senso solo se contrapposta ad un’altra, solo se posta nella condizione di partecipare attivamente al divenire della storia. Definire e comprendere cosa è la classe operaia, capire chi ne fa parte, è, dunque, una questione della massima importanza, non solo per liberarsi dalle false ideologie che tentano di distogliere il proletariato dal suo compito storico e perpetuarne, così, lo sfruttamento, ma soprattutto perché, l’identità di classe è il maggior elemento di forza della classe stessa. Vedersi come proletari, sentire di non essere soli con la propria angoscia, la propria paura per il futuro, ma sapere di appartenere ad un corpo collettivo è l’elemento fondamentale che permette di scorgere una prospettiva alternativa al capitalismo e di sviluppare le armi necessarie che seppelliranno un sistema ormai in putrefazione, ossia la solidarietà e l’unità dei proletari.
19 aprile 2008 E.