Inviato da CCI il
L’escalation dell’indipendentismo catalano lungo l’iter e le difficoltà riscontrate dal governo del Partito Popolare, e più in generale dall’intero apparato statale nell’affrontare il problema in una cornice di accordi e negoziazioni, configurano una crisi politica rilevante per la borghesia in Spagna, oltre a fungere da catalizzatore nell’opera di rottura dell'“Accordo del 1978” (le regole del gioco che lo Stato si era dato a partire dalla transizione democratica del 1975) che già risultava fortemente indebolito dalla crisi del bipartitismo (PP-PSOE), e dallo sforzo di garantire un’alternativa con la costituzione di nuovi partiti (Podemos y Ciudadanos)[1].
Le ragioni contingenti di questo stato di cose coincidono con l’intensificarsi dei contrasti interni alle frazioni della borghesia e con la tendenza ad un approccio irresponsabile che pone in primo piano gli interessi particolari agli interessi globali dello Stato e il capitale nazionale; oltre al mutamento repentino della formazione politica che ha svolto il ruolo di partito di Stato, dalla transizione fino ad oggi: il PSOE (Partido Socialista Obrero Español). Le motivazioni storiche corrispondono all’acuirsi della crisi e della decomposizione del capitalismo[2].
In assenza, per il momento, di una alternativa proletaria a questa situazione, i lavoratori non hanno nulla da guadagnare e molto da perdere. Le mobilitazioni in Catalogna, l’assedio al Ministero dell’Economia e gli scontri con la guardia nazionale in seguito agli arresti di diversi funzionari delle istituzioni della Generalitat (il governo autonomo della Catalogna) o il boicottaggio dei lavoratori portuali nei confronti delle navi della polizia, non esprimono la forza dei lavoratori che al contrario si vedono pressati:
- Dai partiti apertamente indipendentisti in difesa dei membri distaccati del governo autonomo (lo stesso che taglia i salari e che indebolisce il tenore di vita dei lavoratori) e dai dirigenti di partiti come il PdCat o l’ERC (Esquerra Republicana de Catalunya) che sono palesemente di estrazione borghese e che per il fatto di essere catalani non sono da preferire per i nostri interessi ai loro rivali del PP o dei Ciudadanos;
- Dai Podemos o i “Comunes” della Colau in “difesa dello Stato Democratico”, contro la repressione del PP.
Pertanto esiste il pericolo per noi lavoratori di venire trascinati al di fuori del nostro terreno di classe, che è quello della lotta contro la borghesia, per essere dirottati verso il terreno corrotto dei tafferugli interni alle frazioni della stessa, e venire così incatenati per difendere uno Stato democratico che altro non è che l’espressione della dittatura della boeghesia. Forse lo sfruttamento, la barbarie morale, la distruzione dell’ambiente, le guerre, dovrebbero mutare in qualcos’altro a seconda che la democrazia si travesta con la bandiera spagnola o catalana?
La questione dei separatismi in Spagna.
Ma prendiamo le distanze. Cerchiamo di comprendere il conflitto catalano all’interno di un quadro internazionale e storico.
Iniziamo dal contesto internazionale. L’impasse della rivendicazione catalana ha luogo mentre il referendum kurdo spruzza benzina al fuoco della tensione in Medio Oriente e lo scontro nell’ambito della minaccia nucleare, tra due bulli – la Corea del Nord e gli Stati Uniti – mostra un deterioramento crescente del fronte imperialista. Tutto ciò in un contesto in cui la situazione economica mondiale presenta grosse nubi all’orizzonte.
Passiamo ora all’analisi storica. Abbiamo già rivendicato in precedenza nei nostri articoli l’analisi Marxista che chiarisce come in Spagna non esista un problema di «prigione delle nazioni»[3], quanto di cattiva saldatura del capitale nazionale[4]. Il capitalismo avanza in Spagna portandosi dietro un forte squilibrio tra le regioni più aperte al commercio e all’industria – quelle della linea costiera – e il resto del paese, più limitato dall’isolamento e dal ritardo nella crescita. Il paese giunse al declino del capitalismo (1914 Prima Guerra Mondiale) senza che la borghesia avesse trovato delle soluzioni a tale questione che al contrario - rispetto ai contraccolpi della crisi - acuiva le tensioni in particolare tra gli strati della borghesia in Catalogna, le regioni basche e la borghesia centrale.
Ogni volta che il capitale spagnolo si è imposto la necessità di risanare la propria organizzazione economica o politica, le frange separatiste hanno fatto valere le loro aspirazioni con tutti i mezzi a disposizione, ricorrendo anche alla violenza (ETA o Terra Lliure) e cercando di servirsi del proletariato come carne da macello.
In questo modo analizzava il separatismo catalano e gli avvenimenti del ’36 la pubblicazione della Sinistra Comunista Italiana, BILAN:
“I movimenti indipendentisti lungi dall’essere una componente della rivoluzione borghese sono espressione delle contraddizioni insanabili e insiti nella struttura della società capitalista spagnola che realizzò l’industrializzazione nelle zone della periferia mentre gli altopiani centrali venivano colpiti dal regresso economico. Il separatismo catalano invece di aspirare all’indipendenza totale viene bloccato dalla struttura della società spagnola, facendo sì che le forme estreme in cui si manifesta varino in funzione dalle necessità di canalizzare il movimento proletario”[5]
Di fatto la relazione tra il separatismo catalano e il proletariato, a sentire i discorsi attuali “di sinistra” della CUP (Candidatura d'Unitat Popular), non è di compagni di strada, bensì di antagonismo di classe.
Maciá, fondatore dell’ERC, viene dal carlismo reazionario e in una traiettoria che molti anni più tardi lo avrebbe portato al nazionalismo basco, introdusse nel nazionalismo catalano elementi del discorso ideologico stalinista. Il suo partito iniziò ad organizzare durante la 2° Repubblica un esercito specializzato nel cercare e torturare i militanti operai: gli Escamots.
Cambó, dirigente della Lega Regionalista, si accordò con la borghesia centralista per far fronte agli scioperi che in Spagna incarnavano l’onda rivoluzionaria a livello mondiale nel 1917-19 e appoggiò la dittatura di Primo De Riveira.
Companys nel 1936 fece della Generalitat de Cataluña Indipendiente una roccaforte a sostegno dello Stato nazionale, e che mobilitò gli operai verso il fronte della guerra imperialista contro Franco, distogliendoli dalla lotta di classe contro lo stato e la Generalitat[6].
E Tarradellas, allora leader dell’ERC, scese a patti con la destra tardo-franchista nel 1977 in favore della restaurazione della Generalitat.
Le autonomie e l'Accordo del 1978
L’assetto che favorì la transizione democratica di fronte al problema dei separatismi fu quello inaugurato dalle autonomie che senza giungere a delineare uno Stato federale conferivano competenze nella riscossione delle imposte, nella sanità, l’educazione, la sicurezza etc., alle varie regioni e in particolare alla Catalogna e alle regioni basche.
Il pilastro di questa politica fu il PSOE che ha saputo attribuirsi una struttura “federale” mantenendo disciplinate le organizzazioni regionali. Ad esso si sommarono - opportunamente spinti[7] – il Partido Nacionalista Vasco (PNV) e Convergència i Unió (CiU) catalano.
Tanto il PNV che il CiU finirono per fungere da tamponi canalizzando le rivendicazioni delle frange nazionaliste - dai più moderati ai più anarchici – nel quadro della contrattazione fungendo da supporto principalmente ai governi di destra; e anche al PSOE quando è stato necessario per governare[8].
Questo non significa tuttavia che il mare di conflitti nazionalisti fosse calmo. Dietro la facciata del fairplay parlamentare del PNV si è sviluppato l’indipendentismo intransigente dell’HB (HERRI BATASUNA) e dell’ETA. Lo stesso vale per CiU e l’ERC. D’altro canto nel PSOE si erano andate sviluppando forme di baronie regionali che hanno sempre di più messo in discussione la dimensione statale. Gli ambienti del nazionalismo basco si sono serviti degli attentati dell’ETA nel corso dei loro negoziati nella stessa misura in cui si sono visti pressati dall’HB e dall’ETA nel porre di nuovo sul piatto la disciplina delle autonomie e nel proseguire verso l’indipendenza.
E non si tratta solo di questo, ma entro le coordinate del problema del separatismo in Spagna, che non ha via d’uscita se non quella di acuirsi sempre di più, l’incidenza dell’inasprimento della crisi e la disgregazione ha generato il fenomeno di “una crescente spirale di difficoltà sempre più evidenti che conducono a vicoli ciechi ancor più insuperabili per il capitale spagnolo” dove inoltre “i settori più radicali, dall’Abertzalismo (movimento socio-politico volto alla difesa più o meno radicale del nazionalismo basco, ammettendo l’uso della violenza per servire la propria causa, ndr) fino al nazionalismo spagnolo più ultramontano, invece di perdere importanza guadagnano al contrario un più accentuato protagonismo”[9].
Nel paese basco, il Piano Ibarretxe, autentica dichiarazione di indipendenza, fu una conferma di questa tendenza. Il governo centrale tuttavia fu in grado di disinnescare l’ordigno separatista, facendo credere che avrebbe potuto rientrare nella legalità costituzionale. Ibarretxe portò il suo piano in Parlamento dove fu ignorato e bocciato immediatamente.
In Catalogna è stata la formazione sia della tripartizione di Maragall e Montilla sia del logoramento del CiU e della sua implicazione nei casi di corruzione, a mettere fuori gioco gli indipendentisti radicali. Di fronte alle sue rilevanti perdite di appoggio elettorale e, di fatto, dinanzi alla minaccia di dissolversi nel medio termine nell’ascesa dell’ERC oltre che nell’impatto del Pujolismo (il movimento politico sorto intorno alla figura di Jordi Pujol presidente della Generalidad de Cataluña tra il 1980 ed il 2003), il CiU una volta riconvertito nel PdCat per coprire le proprie pecche di corruzione, ha avviato una campagna ostile all’indipendentismo dell’ERC; eppure a conti fatti, invece di guadagnare spazio elettorale dell’ERC, ha reso il PdCat ostaggio di quest’ultimo, e di rimbalzo della CUP.
D’altra parte il PSOE intraprese una manovra di “riforma delle autonomie” che si concluse con un clamoroso fallimento e che ha finito per compromettere la propria coesione come partito. Nella Risoluzione sulla situazione nazionale che abbiamo pubblicato in Accion Proletaria n.179 rendevamo conto di questo fiasco: “La verità è che il famoso spirito ZP (Zapatero) non è riuscito a ridimensionare le ambizioni sovraniste del nazionalismo basco, tutt’altro, poiché che il piano Ibarretxe è stato ratificato nella sua mossa finale dal nazionalismo spagnolo. Altrettanto si può dire della situazione in Catalogna, dove il tentativo di controllare gli ambienti più radicali dell’ERC - attraverso il governo tripartito presieduto da Maragall - sta degenerando nel fatto che Maragall appaia (volente o nolente non è dato saperlo) come un ostaggio dell’ultra nazionalista Carod Rovira. Le difficoltà di coesione del capitale spagnolo tendono ad aggravarsi, in quanto la politica dei “gesti” del ZP, senza contentare i nazionalisti baschi e catalani (che definiscono la sua proposta di riforma della costituzione come una truffa), sta riuscendo più che altro a stimolare negli altri nazionalismi periferici quel medesimo sentimento di “irredentismo”, di “svantaggio comparativo”, etc., che a propria volta sta aprendo il vaso di Pandora del nazionalismo spagnolo che non si limita al PP, bensì può contare su ramificazioni rilevanti interne allo stesso PSOE”.
Le due tripartiti catalani non sono serviti né a placare le pulsioni indipendentiste in Catalogna né a tenere a bada l’ERC che al contrario si è radicalizzato nelle sue pretese “sovraniste” ottenendo di slogare il braccio catalano del PSOE che ha perso gran parte della sua frazione pro-catalana. Essi hanno contribuito in realtà a creare le premesse dell’enorme radicalizzazione odierna.
L’imbroglio catalano, effetto della decomposizione
Quanto detto conferma quello che abbiamo formulato nelle nostri Tesi sulla decomposizione: “Tra le caratteristiche principali della decomposizione della società capitalista bisogna sottolineare la difficoltà crescente della borghesia a controllare l’evoluzione della situazione sul piano politico. (…) L’assenza di una prospettiva (che non sia quella di “salvare il salvabile” procedendo alla giornata) verso la quale essa possa mobilitarsi come classe - e nella misura in cui il proletariato non costituisce ancora una minaccia per la sua sopravvivenza - determina all'interno della classe dominante, ed in particolare del suo apparato politico, una tendenza crescente all’indisciplina e al “si salvi chi può”[10].
E si arriva così alla situazione attuale in cui il governo del PP e più in generale la borghesia spagnola, hanno sottovalutato ampiamente l’invito del 1-10.
L’impressione è che dopo il fallimento del piano Ibarretxe, essi abbiano pensato di poter convivere ugualmente con la sfida indipendentista catalana, convinti che dopo l’insuccesso del referendum del 2014, le frange indipendentiste avrebbero fatto marcia indietro. Al contrario, non solo hanno rafforzato la loro determinazione, ma la borghesia “spagnolista” non ha tenuto conto dell’impatto della decomposizione sull’apparato politico dello Stato, in particolare:
- Della crisi del PSOE, un partito diviso in regni feudali regionali e che ha perso una parte della sua capacità di iniziativa politica e di articolazione dell’insieme dei partiti del capitale nazionale[11];
- Della deriva indipendentista del CiU; il partito si è visto sempre più indebolito da una banda di talebani ultranazionalisti affermatisi nei distretti meno sviluppati della Catalogna, cosa che lo ha spinto a liberarsi in seguito di tutti i sospettati di “inclinazione spagnolista”: il primo fu Duran i Lleida ed in seguito tutti quelli che proponevano la vecchia politica del “grido nazionalista e azione di collaborazione” con l’insieme del capitale spagnolo;
- Dell’ERC, un vecchio partito indipendentista che pur avendo prestato grandi servigi al capitale spagnolo (vedi sopra) ha adottato come bandiera l’attuazione immediata dell’indipendenza (prima era un obiettivo “storico”) sviluppando un discorso nazionalista e xenofobo[12], tutte cose che possono contribuire a farlo diventare il partito centrale dello scenario politico catalano, spodestando la vecchia CIU, oggi PDCat;
- Dell’irruzione della CUP, una miscela indigesta di stalinisti, vecchi terroristi catalani e anarchici, che porta avanti un discorso di catalanismo estremo, trasfigurato, esclusivo, di una quasi purezza etnica intrisa di xenofobia, che parla di “Paesi Catalani” indipendenti e repubblicani e la cui iniziativa è volta a pregiudicare l’unione ERC-PDCat per obbligarli ad allontanarsi sempre di più dalle sfide della borghesia centrale spagnola.
Il Piano Ibarretxe fu “risolto” e in apparenza fu ristabilita la “quiete”. Il PNV si convertì in un “alunno esemplare” del maestro Urkullu (Íñigo Urkullu Rentería). Il che lo ha spinto ad affidarsi alla borghesia centrale spagnola credendo che la storia sarebbe tornata a ripetersi con la prova catalana. Fin dall’inizio i “catalanisti” non hanno commesso il grave errore di Ibarretxe di rivolgersi al Parlamento spagnolo. Hanno perseguito l’unica via possibile, quella del referendum unilaterale così da privare la borghesia centrale di qualsiasi margine di manovra, poiché la sua costituzione non consente di “mettere a repentaglio la sovranità nazionale” in 17 stati autonomi.
Quello a cui stiamo assistendo è la crisi dell'“Accordo del 1978”, gli accordi che tra il 1977-78 furono firmati da tutte le forze politiche, al fine di assicurare una “democrazia” il cui perno è stato molto di recente il bipartitismo, l’alternanza PSOE-PP, seppur il primo con un peso politico e una capacità di orientamento di gran lunga maggiori.
Tutto questo è andato in mille pezzi e la borghesia spagnola è andata a scontrarsi con il rischio che la prima regione economica della Spagna – che rappresenta il 19% del suo PIL – potesse sottrarsi al suo controllo. Ha investito tutto in una risposta repressiva: misure giudiziarie, detenzioni, sospensione di fatto dell’autonomia catalana…
Si è in pratica dimostrata incapace di far scendere in campo alternative politiche che consentissero un controllo della situazione. I sostenitori di questa strada (Podemos, Colau…) non dispongono della forza necessaria per metterla in pratica ed essi stessi risultano divisi per posizioni conflittuali. L’interlocutore di Podemos, l’IU (Izquierda Unida), ha dichiarato fermamente la propria opposizione al referendum catalano e la sua difesa incondizionata dell’“unità spagnola”. Ma d’altra parte Iglesias (Pablo Iglesias Turrión) deve affrontare la ribellione della sua variante catalana, incline ad appoggiare “criticamente” l’indipendentismo. Da parte sua, Ada Colau, gioca da mediatrice, vedendosi vincolata ad equilibri improbabili tra gli uni e gli altri, il che le ha valso l’appellativo scherzoso di Cantinflas (attore comico Messicano, ndr) catalana.
Lo stesso PSOE non è in grado di intraprendere una politica coerente. Un giorno appoggia il governo fino a difendere persino l’articolo 155 della Costituzione che permette di sospendere l’autonomia catalana. Un altro giorno proclama che la Spagna è una “nazione di nazioni”. La sua proposta di una “commissione parlamentare finalizzata al dialogo intorno alla questione catalana” è stata rifiutata con sdegno dai vari avversari.
Tuttavia, il fallimento della soluzione politica non ha come motivazione principale l’ottusità degli uni o degli altri bensì dall’imputridimento della situazione, dall’impossibilità stessa di trovare una soluzione. E ciò si spiega solo attraverso l’analisi globale che abbiamo sviluppato sulla decomposizione del capitalismo.
Questa comporta, come abbiamo già visto qualcosa che oggi è evidente: la crisi generale dell’apparato politico spagnolo che, con la questione catalana, ne uscirà ancor più danneggiato.
Ma occorre segnalare un altro elemento di analisi molto importante e che risulta allo stesso tempo connesso alla decomposizione: lo stallo politico. Anche se la situazione lì è molto diversa, questo è un aspetto che riscontriamo in Venezuela: nessuna delle due fazioni in lizza è capace di assicurarsi la vittoria. Si osserva la stessa cosa nei conflitti imperialisti dove l’autorità degli Stati Uniti come gendarme del mondo tende a indebolirsi – ancor di più con il trionfo di Trump – e ciò provoca un imputridimento insanabile dei numerosi conflitti internazionali.
Il fronte indipendentista ha un “limite”: la sua forza sta nei distretti catalani delle zone interne, ma è più debole nelle grandi città e in particolare nella fascia industriale di Barcellona.
L’alta borghesia catalana lo guarda con riserva dal momento che sa che i propri affari sono vincolati all’odiata Spagna. La piccola borghesia procede divisa, sebbene ovviamente nelle circoscrizioni della “Catalogna profonda” appoggi massivamente la separazione dalla Spagna. Ma l’enorme concentrazione economica di Barcellona – più di 6 milioni di abitanti – risulta più incline all’indifferenza. Questa concentrazione ha ben poco di quella “purezza di razza catalana”, è un enorme melting pot dove convivono persone appartenenti a più di 60 nazionalità diverse.
Dobbiamo completare l’analisi mettendo in evidenza l’importanza delle tendenze centrifughe, interne, identitarie, di rifugio esclusivo “nelle piccole comunità chiuse”, che alimenta senza sosta la decomposizione capitalista. Il capitalismo decadente tende fatalmente alla “dislocazione e disintegrazione dei suoi componenti. La tendenza del capitalismo decadente è lo scisma, il caos, da qui l’esigenza essenziale del socialismo che vuole costruire il mondo come una unità”[13]. La crescente impotenza, acuita dalla crisi, porta ad “aggrapparsi sugli specchi di ogni tipo di false comunità - come quella nazionale - che offrono una sensazione illusoria di sicurezza, di «sostegno collettivo»”[14].
Nei tre partiti favorevoli all’indipendenza catalana lo si vede chiaramente. La propaganda completamente assurda che prefigura una Catalogna “libera” come un’oasi di progresso e di crescita economica perché così “ci potremmo liberare del fardello di Madrid”, l’azione persecutoria dei turisti da parte della CUP giacché “aumenterebbero il costo della vita in Catalogna”, le allusioni sfacciate ai migranti e agli andalusi, tutto questo mostra delle tendenze xenofobe, identitarie, che poco si discostano dalle prediche populiste di Trump o di Alternativa per la Germania.
Queste tendenze esclusioniste sono parte integrante della società e sono cinicamente favorite dai tre alleati del JuntsXSi, anche se la palma se la conquista la CUP (Candidatura d'Unitat Popular).
Eppure il monopolio di questa barbarie non lo detengono in esclusiva gli indipendentisti catalani. I loro rivali “spagnolisti” praticano un discorso duplice: i grandi dirigenti si riempiono la bocca con parole come “costituzione”, “democrazia”, “solidarietà tra gli spagnoli”, “convivenza” etc., mentre di nascosto istighino all’odio contro “i catalani” e “il catalano”, propugnano il boicottaggio dei prodotti “catalani”, invitano a “rafforzare l’identità del popolo spagnolo” e la sua politica anti-emigrazione tende a connotarsi di tinte razziste.
Il vero volto dello Stato democratico
In realtà il conflitto pacchiano tra spagnolisti e indipendentisti catalani mostra in entrambi gli schieramenti ciò che ha detto in modo chiaro Rosa Luxemburg: “Imbarazzata, disonorata, mentre nuota nel sangue e cola fango: così vediamo la società capitalista. Non come la vediamo sempre, mentre riveste il ruolo di pace e di giustizia, di ordine, di filosofia, di etica, ma come una bestia ululante, un'orgia anarchica, pestilente nebbia, distruttrice della cultura e dell’umanità, così ci appare in tutta la sua orribile crudezza” (La crisi della socialdemocrazia, cap I).
La situazione attuale sta svelando il vero volto dello Stato democratico. Tutte le forze politiche in campo rivendicano la democrazia, la libertà, i diritti che costituirebbero il patrimonio dello Stato. Gli uni in nome della “difesa della costituzione” e la “sovranità nazionale” (PP, Ciudadanos, PSOE). Gli altri in nome della “libertà democratica” di organizzare referendum e della costituzione (Podemos, Comunes, independentistas).
Ma dietro il discorso democratico ufficiale, ciò che viene elargito nella realtà dei fatti si risolve in colpi bassi, scandali di corruzione che si mettono in piazza e si nascondono all’occorrenza, inganni, etc.
Gli uni distribuiscono “colpi” nel senso stretto del termine, mandando la Guardia civile e la polizia (per quanto sia sulle navi dipinte della Warner[15]), gli altri “colpi ad effetto”; però la questione è che ciò che conta non sono le urne (a prescindere dal tipo di urna) né il voto; bensì le relazioni di forza, i ricatti in puro stile mafioso.
Gli “antisistema” della CUP non sono da meno in questo, con i loro striscioni e manifesti di delazione, mettendo all’indice i sindaci che si oppongono al referendum.
Questo è il reale funzionamento dello Stato democratico. I suoi ingranaggi non si muovono per effetto del voto, dei diritti, delle libertà e altre farse, ma grazie alle manovre, ai colpi bassi, alle cospirazioni segrete, alle calunnie, alle campagne di intimidazione e colpi bassi…
La situazione del proletariato
Il proletariato è disorientato. La sua perdita di identità, il riflusso del movimento, molto debole ma con potenzialità per il futuro, del 15 M[16], lo inducono in uno stato confusionale, ad una difficoltà a farsi guidare dai suoi interessi di classe. Il pericolo più grande è che tutto il suo pensiero rimanga rinchiuso in quel pozzo infestato che è il conflitto tra la Catalogna e la Spagna, costretto a ragionare, sentire, in base al dilemma “con la Spagna o con l’indipendenza”.
I sentimenti, le riflessioni, le aspirazioni già non gravitano più intorno alla lotta per le condizioni di vita, il futuro dei figli, su come sarà il mondo etc., idee che riguardano la classe operaia, sebbene siano in uno stadio embrionale. Ma sono radicalizzati sul fatto che “Madrid ci deruba” o “la Spagna ci ama”, sulla bandiera stellata o rosso-oro, su una ragnatela di concetti borghesi: democrazia, diritto di decidere, autodeterminazione, sovranità, costituzione…
Il pensiero del proletariato nella più elevata concentrazione operaia di Spagna è stato dirottato da questa discarica concettuale che mira unicamente al passato, al contraccolpo, alla barbarie. In queste condizioni le misure repressive adottate dal governo centrale il 20 settembre, possono provocare una serie di martiri, possono alimentare il vittimismo irrazionale, e in tal modo spingere in una condizione emotiva di alta tensione a scegliere con chi schierarsi e probabilmente propendere per il fronte nazionalista.
Tuttavia il maggior rischio è quello di vedersi deviati verso la difesa della democrazia.
La borghesia spagnola ha una larga esperienza nell’affrontare il proletariato sviandolo verso un terreno di difesa della democrazia al fine di massacrarlo in continuazione o inasprire violentemente lo sfruttamento.
Non dimentichiamo che la lotta iniziata in un terreno di classe, il 18 luglio del 1936 davanti all’insurrezione di Franco, fu deviata sul terreno della difesa della democrazia contro il fascismo, e sulla possibilità di scegliere tra due nemici: la repubblica o Franco, che diede come risultato UN MILIONE DI MORTI.
Così come non dimentichiamoci che nel 1981 per scongiurare i rischi rappresentati dagli ultimi residui del franchismo, il “colpo di stato” del 23 febbraio permise un’ampia mobilitazione democratica del “popolo spagnolo”. Nel 1997, un passo fondamentale per isolare l’ETA furono le ingenti mobilitazioni “per la democrazia contro il terrorismo”.
Il groviglio catalano si trova in una strada senza uscita, e con o senza referendum del 1° ottobre, potrà avere solamente una conclusione: lo scontro tra gli indipendentisti e i nazionalisti continuerà a radicalizzarsi, come nel quadro di Goya Duelo a Bastonazos, seguiteranno a sferrarsi colpi senza pietà, in ogni caso questo dilanierà il corpo sociale, accentuerà le divisioni e i conflitti più irrazionali. Il pericolo più grande è che il proletariato venga intrappolato in questa battaglia campale, specie perché tutti i contendenti si servono senza sosta dell’arma della Democrazia per legittimare i loro propositi, avanzando pretese verso nuove elezioni e nuovi “diritti di decidere”.
Siamo coscienti della situazione di fragilità in cui oggi versa il proletariato, tuttavia, questo non può impedirci di riconoscere che solamente dalla sua lotta autonoma come classe potrà emergere una soluzione. Il contributo a questo orientamento richiede di opporsi alla mobilitazione democratica, alla scelta tra la Spagna e la Catalogna, al terreno nazionale. La lotta del proletariato e il futuro dell’umanità potranno avere una prospettiva solo al di fuori da questi putridi terreni.
Acción Proletaria, 27 settembre 2017
[1] Vedi: “Che succede al PSOE?” https://es.internationalism.org/revista-internacional/201611/4182/que-le-pasa-al-psoe e le analisi che sviluppiamo in “Referendum catalano: l’alternativa è Nazione o lotta di classe del proletariato”, https://es.internationalism.org/accion-proletaria/201708/4224/referendum-catalan-la-alternativa-es-nacion-o-lucha-de-clase-del-prole.
[2] Vedi “Tesi sulla decomposizione”.
[3] L’espressione si riferisce alle nazioni che per interessi imperialisti sono state create artificialmente, assoggettando nazionalità differenti: uno degli esempi più significativi è la Yugoslavia.
[4] Vedi in Acción Proletaria n. 145, “Né il nazionalismo basco, né quello spagnolo; autonomia politica del proletariato”: “Come si può spiegare il singolare fenomeno durato quasi tre secoli e cioè che sotto una dinastia asburgica seguita da un’altra borbonica - ciascuna delle quali basta e avanza per soffocare un popolo - siano più o meno sopravvissute le libertà locali in Spagna, che proprio nel paese in cui a partire da un insieme di stati feudali è riuscita a insediarsi la monarchia assoluta nelle modalità meno mitigate, e che la centralizzazione non sia in ogni caso riuscita a mettere radici? La risposta non è complicata. Le grandi monarchie si sono formate nel secolo XVI e si stabilirono ovunque grazie alla decadenza delle classi antagoniste. Eppure negli stati principali d’Europa la monarchia si è presentata come un fuoco civilizzatore, come promotrice dell’unità sociale… In Spagna al contrario, mentre la nobiltà affondava nella degradazione senza perdere i suoi peggiori privilegi, le città furono private del loro potere feudale senza avere un’importanza in età moderna. Dai tempi dell’instaurazione della monarchia assoluta è subentrato il crollo del commercio, dell’industria, dei trasporti marittimi e dell’agricoltura. Il declino della vita industriale e commerciale rese sempre più rado il traffico interno e meno frequente l’interscambio tra gli abitanti delle diverse regioni… La monarchia assoluta trovò una base naturale che, per sua propria natura, rifiutava la centralizzazione ed essa stessa ha fatto tutto quel che poteva per impedire che si facessero strada interessi comuni basati su di una divisione nazionale del lavoro e una proliferazione del traffico interno… Perciò la monarchia spagnola a prescindere dalla sua somiglianza superficiale con le monarchie assolute europee, deve essere ben identificata al fianco delle forme di governo asiatiche. Come la Turchia, la Spagna continua ad essere un conglomerato di repubbliche mal rette con alla testa un sovrano nominale. Il dispotismo presentava caratteri diversi nelle distinte regioni a causa dell’arbitraria interpretazione della legge generale dei viceré e dei governatori; nonostante il suo dispotismo, il governo centrale non ha contrastato la sussistenza nelle varie regioni dei diversi diritti e costumi, delle monete e dei regimi fiscali. Il dispotismo orientale non aggredisce l’autonomia municipale fino a quando esso non si oppone direttamente ai suoi interessi, permettendo di buon grado a tali istituzioni di continuare la loro vita, il che non fa che risparmiare alle sue delicate spalle la fatica di qualsiasi onere, sottraendole al peso dell’amministrazione regolare» («Revolución en España», Marx/Engels, Ariel 1970, pag 74-76)
[5] BILAN, “La lezione degli avvenimenti in Spagna”, pubblicato nel nostro opuscolo in lingua spagnola “Franco y la República masacran al proletariado”.
- Vedi il nostro libro España 1936: Franco y la República masacran al proletariado, https://es.internationalism.org/cci/200602/539/espana-1936-franco-y-la-republica-masacran-al-proletariado
- Bisogna far presente che se questi si ponevano in contrapposizione o intendevano andare troppo lontano nelle loro pretese “sovraniste”, il PSOE riusciva sempre a rimetterli in riga. Per esempio, contro gli indipendentisti catalani di Pujol, tirando fuori lo scandalo della Banca Catalana che doveva essere posta sotto controllo o rispetto al PNV con il caso delle slot machine che li obbligò a piegarsi ad una coalizione con il PSOE.
- Tra il 1993 ed il 1996 il CiU, il partito di Pujol oggi ereditato con un nuovo nome da Puigdemont, appoggiò il governo presieduto dal PSOE e tra il 1996-2000 il governo del PP.
[9] https://es.internationalism.org/accion-proletaria/200602/572/el-plan-ibarretxe-aviva-la-sobrepuja-entre-fracciones-del-aparato-polit
[10] "La decomposizione, fase ultima della decadenza del capitalismo"
[11] Vedi: https://es.internationalism.org/content/4214/primarias-y-congreso-del-psoe-el-engano-democratico-de-las-bases-deciden e https://es.internationalism.org/revista-internacional/201611/4182/que-le-pasa-al-psoe
- L’attuale pezzo grosso del partito, Oriol Jonqueras, ha scritto nel diario Avui un sofisticato articolo in cui si discutevano le differenze che, secondo lui, differenziano “la struttura del DNA propria dei catalani - con la forma dei filamenti dell’acido desossiribonucleico caratteristici dell’uomo sapiens oriundo - dal resto della Penisola Iberica”, articolo che iniziava con un vecchio detto xenofobo catalanista “bon vent y barca nova” utilizzato per invitare i forestieri indesiderati ad andare via. Ed uno dei suoi ispiratori fu un antico presidente del partito, Heribert Barrera, il quale diceva “i negri hanno un coefficiente intellettuale inferiore ai bianchi”. Fonte informazioni: https://www.elmundo.es/cataluna/2017/09/17/59bd6033e5fdea562a8b4643.html
[13] Internationalisme, (pubblicazione della Sinistra Comunista di Francia) “Rapporto sulla situazione internazionale”, 1945
- “La barbarie nazionalista”, https://es.internationalism.org/revista-internacional/200712/2116/la-barbarie-nacionalista
[15] L’ubicazione della polizia nazionale nel porto di Barcellona su di una nave dipinta con disegni enormi di Road Runner e Titti ricorda il film di Blake Edwards: “Operazione sottoveste”, in cui il sottomarino americano dipinto di rosa e che lancia indumenti intimi femminili come siluri, lascia perplesse le corazzate giapponesi; questo aneddoto dimostra il grado di improvvisazione insito nella risposta del PP nella misura in cui ha compreso che la sfida catalana gli sarebbe scivolata di mano.
- Vedi “El 15 M cinco años después”, https://es.internationalism.org/content/4169/el-15-m-cinco-anos-despues