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Ma questi tempi migliori non sono mai venuti, anzi negli ultimi anni i sacrifici chiesti a tutti i lavoratori non hanno fatto che appesantire la situazione di chi già partiva da condizioni peggiori e quindi a questi lavoratori non è restato che la via della lotta per cercare di migliorare la propria situazione.
A pochi mesi dalla lotta degli autoferrotranviari, questo nuovo focolaio di lotta va a confermare una tendenza alla ripresa della lotta di classe che comincia a preoccupare la borghesia. Non c’è solo la volontà di difendere le proprie condizioni di vita a preoccupare (visto che il disastro dell’economia capitalista impone di chiedere nuovi sacrifici e non certo di annullare quelli vecchi), ma il fatto che in questo caso erano le nuove regole che il sindacato aveva fatto accettare ai lavoratori che mostravano tutte le loro pesanti conseguenze, ed il fatto che sono ancora una volta i lavoratori giovani ad essere protagonisti della lotta. Quei giovani su cui più aveva pesato il ricatto della disoccupazione e la campagna propagandistica secondo cui non bisogna più sognare il posto fisso, ma essere disponibili a cambiare lavoro spesso. Certo, non sarebbe male, se esistessero veramente diverse e nuove opportunità di lavoro, visto che il lavoro alienato in fabbrica è una schiavitù, per cui se almeno si potesse ogni tanto cambiare aria ogni lavoratore ne sarebbe contento. Ma la realtà è che se hai un posto te lo devi tenere ben stretto, il che però non vuol dire che ti devi tenere per forza ogni cosa.
Per evitare che si potesse ripetere la situazione degli autoferrotranvieri, e cioè che i lavoratori partissero in lotta da soli, senza rispetto di regole e compatibilità, i sindacati questa volta si sono mossi subito, imponendo la loro direzione alla lotta, in maniera da condurla in vicoli ciechi e poterla chiudere senza troppe difficoltà. La tattica è stata la solita: divisione tra sindacati “duri” e quelli “morbidi”, radicalizzazione formale della lotta per dare l’impressione di una forza apparente e facilitando in questa maniera l’isolamento degli operai di Melfi. Così le RSU di fabbrica hanno preso l’iniziativa della lotta, in modo da poter sostenere che la lotta era in mano alla base, mentre CISL e UIL si sono dissociate e la CGIL ha “criticato” le iniziative prese. E per far vedere che le RSU erano decise ad andare fino in fondo sono stati organizzati i picchetti “duri” (blocco merci in entrata e uscita e ingresso impedito ai crumiri).
Questa apparente radicalità è servita in realtà ad isolare i lavoratori, tenendoli impegnati a presidiare la fabbrica invece che spingerli ad andare a cercare gli altri lavoratori per allargare la lotta. E onde evitare che questa esigenza dell’allargamento fosse portata avanti direttamente dai lavoratori i sindacati nazionali hanno proclamato un giorno di sciopero nazionale di tutto il settore FIAT in “solidarietà” con gli operai di Melfi. Uno sciopero simbolico che non solo non cambiava niente nei rapporti di forza con il padronato, ma che in realtà non ha niente a che vedere con la vera solidarietà di classe: questa infatti non sta nel semplice e isolato sciopero di “appoggio” ad un settore in lotta, ma nell’entrata in lotta di altri settori di lavoratori sulla base della coscienza che la lotta è una sola e che solo lottando uniti si può stabilire un rapporto di forza più favorevole.
Ingabbiati in questa maniera i lavoratori, i sindacati hanno potuto mettere in piedi la solita finzione della trattativa con la controparte, arrivando ad un accordo che raccoglie ben poco di quello che gli operai chiedevano: se il turno notturno di due settimane consecutive è stato abolito, sul piano del recupero salariale i 105 euro ottenuti (e comunque raggiungibili solo nel 2006) sono ben lontani dall’equiparazione ai salari degli altri operai FIAT (ed anche pieno questo salario ormai riesce sempre meno a soddisfare anche i bisogni più elementari dei lavoratori, come ormai sono costretti a riconoscere anche i giornali borghesi). Che i risultati raggiunti fossero ben miseri era abbastanza chiaro a molti lavoratori, ma la stanchezza di una lotta di più settimane, con i presidi davanti alla fabbrica, gli scontri con la “democratica” polizia dello Stato italiano e, soprattutto l’isolamento in cui erano rimasti gli operai di Melfi ha avuto facilmente la meglio sul malcontento restante.
Ma se questa volontà di lotta è stata bruciata in questa maniera, c’è un risultato più importante che i lavoratori tutti possono ottenere da questo episodio, e sono le lezioni che da esso si possono trarre: innanzitutto che non ci si può basare sui sindacati per portare avanti una lotta; i sindacati sono gli agenti sabotatori delle lotte, sostenuti dallo Stato borghese proprio per fare questo lavoro ed evitare così il più possibile il ricorso alla repressione vera e propria (che in questo caso comunque si è affacciata con le cariche della polizia fuori alla fabbrica). Poco alla volta nella lotta dei lavoratori deve tornare la coscienza di questa vera natura dei sindacati, che già durante gli anni ottanta aveva spinto i lavoratori a cercare di organizzarsi in maniera autonoma (vedi comitati di base della scuola nel 1987). Ed un’altra lezione importante, in questo momento in cui la classe mostra una ripresa della combattività, è che la volontà di lotta non basta, come non basta la decisione e la radicalità formale delle forme di lotta: la vera forza di una lotta sta nella sua conduzione autonoma da parte della classe (evitando così anche i sabotaggi sindacali) e nella ricerca dell’unità con gli altri lavoratori, sulla base dell’unicità della condizioni di sfruttamento e dell’unicità del proprio nemico di classe, al di là del settore e della fabbrica in cui si lavora.
Helios