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I moti in Francia nella lettura dei gruppi politici proletari
Con questo articolo torniamo ancora una volta sui moti in Francia che si sono sviluppati tra la fine di ottobre e il mese di novembre 2005 perché, oltre a esprimere il nostro punto di vista sugli avvenimenti (1), ci preme intervenire criticamente nei confronti di alcune analisi sbagliate che, seppure espresse in buona fede, finiscono per seminare confusione tra le giovani generazioni alla ricerca di una chiarezza politica. A tale proposito siamo già intervenuti nei confronti del BIPR per mettere in evidenza la doppiezza del suo intervento, che si è espressa con il fatto che tale organizzazione ha presentato due analisi del tutto diverse nei due paesi principali in cui è presente, l’Italia e l’Inghilterra (2). Con il presente articolo torniamo dunque sull’argomento per mostrare le debolezze che si sono mostrate nell’analisi di questi moti, debolezze che si sono propagate fin dentro lo stesso campo politico proletario. Come abbiamo detto durante gli scontri, “gli atti di violenza ed i saccheggi che vengono commessi, notte dopo notte, nei quartieri poveri, non hanno niente a che vedere, né da vicino né da lontano con una lotta della classe operaia (…) Quello che sta avvenendo in questo momento in Francia non ha niente a che vedere con la violenza proletaria contro la classe sfruttatrice: le principali vittime delle violenze attuali sono gli operai. E, al di là di quelli che subiscono direttamente le conseguenze dei danni provocati, è l’insieme della classe operaia del paese che è toccata: la campagna mediatica intorno agli avvenimenti attuali maschera di fatto tutti gli attacchi che la borghesia scatena in questo momento anche contro i proletari, così come le lotte che questi cercano di condurre per farvi fronte.”
La stragrande maggioranza dei gruppi proletari (3), nonostante la pretesa di richiamarsi alla tradizione del marxismo, hanno teso a salutare queste lotte arrivando talvolta a riconoscerle come autentiche espressioni della lotta di classe:
“Il giovane proletariato delle banlieue (…) ha reagito d’impulso con una potente scarica di violenza che da anni tiene in corpo e che è diventata incontenibile. (…) Viva il proletariato delle periferie che si rivolta contro la disperazione e la degenerazione in cui lo costringe a vivere questa società opulenta!” (Il Comunista n° 97-98, novembre 2005).
“Per noi, dunque, quei moti erano (…) una prima, importante rottura della pace sociale in un’Europa da lungo tempo immersa in un sonno interclassista e riformista. (…) I comunisti devono affermare con forza che i ribelli delle banlieue sono proletari, contro tutte le manovre in atto volte a presentarli semplicemente come "immigrati" o come appartenenti a questo o quel gruppo etnico o nazionale o religioso.” (Programma Comunista n. 1, gennaio-febbraio 2006) (4).
“Storcano pure il naso i benpensanti di destra e sinistra, ma questo è il "nuovo" proletariato senza riserve, precario, sottopagato, schiavizzato, che sa di non poter "rivendicare" un lavoro che non c'è. (n+1 newsletter n° 85, 20 novembre 2005).
“Siamo dinnanzi ad un fatto epocale. (…) Questa è la nostra classe che sta reagendo alle sue spaventose condizioni di esistenza e lo fa con gli strumenti che ha a disposizione... benzina, bande giovanili, scontri notturni.” (militante di BC sul forum).
Bisogna pur dire che un po’ tutti quanti questi gruppi, chi più chi meno, hanno messo avanti i limiti soggettivi del movimento. Ma quello che certamente costituisce il minimo comune denominatore di tutte le prese di posizione è l’affermazione del bisogno del partito inteso come strumento taumaturgico capace di trasformare le rivolte in rivoluzione, come ad esempio fa Programma Comunista nel suo ultimo numero: “Manca in tutto ciò – ed è la mancanza più drammatica – il partito rivoluzionario: vale a dire ‘quell’organo e strumento che solo è in grado (…) di recepire la spinta che viene dal basso, di raccogliere l’energia rabbiosa che si sprigiona dal profondo di una società marcia e putrescente, e di dirigerla contro la vera cittadella del potere capitalistico, lo Stato(…)”.
In effetti, come abbiamo già riportato nel nostro precedente articolo di polemica con il BIPR (v. nota 2), Lenin si guardava bene dal terminare ognuno dei suoi articoli con la frase “ci vuole il partito”. Questo mettere avanti a ogni spron battuto la questione del partito non solo è, da parte di chi lo fa, uno sterile esercizio retorico, ma per di più risulta essere del tutto controproducente ai fini della presa di coscienza da parte della classe operaia. C’è infatti da interrogarsi sull’effetto che ciò può avere su degli operai che cominciano a porsi delle questioni e che a un certo punto si trovano tra le mani un volantino o un articolo in cui si dice “ci vuole il partito, noi siamo il partito”, allorché il presunto partito brilla per la sua inconsistenza (per non dire per le sue contraddittorie prese di posizione). Anche per degli operai che potrebbero avvicinarsi alle posizioni della Sinistra comunista, questa insistenza esclusiva su “ci vuole il partito” - senza spiegare chiaramente che IL PARTITO non cadrà dal cielo ma che è esso stesso prodotto e fattore attivo della ripresa della lotta di classe e che, anche prima dell’apparizione del PARTITO con la P maiuscola, la classe operaia deve sviluppare le sue lotte, la sua coscienza, tentando di evitare le trappole che le tende la borghesia - non può che avere un ruolo demoralizzante e sviluppare tra di loro un sentimento di paralisi.
Di fatto questo ricorso ossessivo alla frase “ci vuole il partito” esprime la megalomania di tutti questi gruppi ognuno dei quali, ritenendosi solo al mondo, si sente il messia che salverà l’umanità. Fondamentalmente questa megalomania è il risultato della loro impotenza che, secondo un famoso detto, porta a parlare di vodka quando la vodka non c’è. E questa megalomania, (alla pari del loro settarismo) - che molti lavoratori che cominciano a svegliarsi alla politica non possono non constatare - costituisce un potente fattore non certo d’incitazione di questi operai ad andare più avanti nello studio delle posizioni della Sinistra comunista, ma di scetticismo verso queste posizioni.
Purtroppo, in aggiunta a quanto abbiamo già detto, c’è stato chi, facendo leva sullo scenario di disoccupazione che grava oggigiorno sulla classe operaia, è arrivato a ipotizzare non solo una mutazione della composizione della classe operaia, ma finanche una “conseguente” mutazione dei suoi metodi di lotta, identificando proprio nelle violenze dei rivoltosi delle banlieue francesi una possibile forma dell’attuale nuovo modo di lottare della classe operaia:
“La crisi del capitalismo e le risposte date dalla borghesia in questi ultimi decenni hanno prodotto un cambiamento significativo nella composizione del proletariato.” (Battaglia Comunista)
“Perciò oggi cade completamente la separazione netta tra l'operaio e il diseredato precario, il proletariato s'è diffuso, è aumentata la massa dei senza-riserve nella quale è precipitato anche l'ex salariato con posto fisso garantito. Chi voleva il movimento reale, eclatante, incendiario, è servito. (…) I “teppisti" di Francia e del mondo stanno impartendo lezioni di "marxismo oggettivo", senza rivendicazioni e senza interlocutori” (n+1 newsletter n° 84, 7 novembre 2005).
“Il cambiamento nella composizione del proletariato si riflette inevitabilmente nelle modalità in cui si manifesta lo scontro di classe. Chi si aspetta che il conflitto sociale debba avvenire sempre e solo negli stessi termini di trenta o cinquanta anni fa non ha compreso fino in fondo le modificazioni intervenute all’interno del proletariato. (…) Lo schema classico in base al quale lo scontro sociale parte da una base economico-sindacale per crescere sul piano politico, per le nuove generazioni di proletari precari ed esclusi dal mondo del lavoro non è più del tutto vero, poiché il conflitto sociale si manifesta potenzialmente su un terreno immediatamente politico, ma affinché ciò accada, e l’esperienza francese sta lì proprio a rimarcarlo, occorre la presenza del partito rivoluzionario.” (Battaglia Comunista)
Per capire i moti in Francia bisogna tornare al marxismo
Questi passaggi ci mostrano che ci troviamo di fronte ad un allontanamento significativo dal marxismo in materia di classe operaia e di lotta di classe. Perciò non possiamo che ritornare al marxismo e al suo metodo scientifico per rimettere il problema sui suoi piedi e cercare di risolverlo. Ciò è tanto più importante nella misura in cui, con l’approfondirsi della crisi, strati non sfruttatori ma anche non proletari saranno sempre più ridotti alla miseria assieme alla classe operaia e la loro rivolta, se non integrata all’interno dell’azione della classe operaia, potrà presentarsi come una falsa alternativa al sistema, come è accaduto per le banlieue francesi o le lotte in Argentina del 2001, e costituire una trappola per le lotte future.
La natura rivoluzionaria della classe operaia non è dovuta semplicemente alle sue condizioni di indigenza, al fatto di essere povera né al fatto di essere sfruttata. Di poveri e di sfruttati nella storia dell’umanità ce ne sono stati parecchi, come gli schiavi dell’epoca romana e greca, i servitori della gleba dell’epoca feudale, e questi poveri e sfruttati della storia, al di là del carattere eroico di rivolte a cui a volte hanno dato luogo, come quella di Spartaco contro l’impero romano decadente o quella dei contadini contro il feudalesimo nel 1381 in Inghilterra, non hanno mai spostato di un centimetro il corso della storia. Il carattere rivoluzionario della classe operaia dipende invece dalla collocazione che questa ha all’interno del sistema capitalista, di cui è il motore. Infatti la classe operaia è la principale produttrice di ricchezza in una società che non è più una società di penuria ma una società di sovrabbondanza. E’ dunque dal ruolo obiettivo che ha all’interno di questa società e dalla consapevolezza del fallimento dell’attuale modo di produzione che il proletariato può derivare non solo la sua forza contrattuale nei confronti della borghesia per le sue lotte rivendicative, ma soprattutto maturare la consapevolezza della possibilità e della necessità del rovesciamento rivoluzionario di questa società.
“La classe operaia è rivoluzionaria nel vero senso del termine perché i suoi interessi corrispondono a un modo di produzione sociale completamente nuovo. Essa ha un interesse oggettivo a riorientare la produzione senza sfruttamento del suo lavoro e per la soddisfazione dei bisogni dell’umanità in una società comunista. Essa ha inoltre tra le mani, anche se non dal punto di vista legale, i mezzi di produzione di massa che possono permettere la realizzazione di questa società. L’interdipendenza già completa di questi mezzi di produzione a livello mondiale significa che la classe operaia è già una classe veramente internazionale, senza alcun interesse in conflitto o in concorrenza, laddove tutti gli altri strati e classi della società, che soffrono nel capitalismo, sono inesorabilmente divisi.” (5)
Questo legame stretto tra il carattere rivoluzionario della classe e la sua collocazione specifica all’interno della società capitalista significa ancora che, se settori di classe vengono sradicati dal loro contesto sociale, questi possono smarrire il loro carattere rivoluzionario. Il che significa che i giovani delle periferie, benché figli di proletari più o meno inseriti nella produzione, nella misura in cui sono collocati in una situazione sociale degradata e non essendo mai entrati nel ciclo produttivo, possono finire per avvertire, piuttosto che la loro identità di classe, le spinte irrazionali di una società allo sfascio.
Per cui se è vero che questi giovani rivoltosi francesi sono anche figli di proletari, dobbiamo riconoscere che il loro è solo uno sfogo di rabbia con un metodo di lotta che non ha niente a che vedere con quello del proletariato perché c’è un uso della violenza in sé, senza alcun obiettivo da raggiungere, mentre la lotta proletaria si pone sempre un obiettivo.
La classe infatti non è una moltitudine amorfa davanti alla quale basta mettere il condottiero capace di guidarla per fare la rivoluzione. Esaltare questi avvenimenti come lotta di classe dimostra solo una grande sfiducia nella classe operaia, proprio perché si presuppone che questa possa solo arrivare ad esprimere episodi di intolleranza violenta che poi il partito miracolosamente sarebbe in grado di trasformare in processo rivoluzionario.
Eppure in altri posti, ivi compresa la stessa Francia (Marsiglia), proprio in questi ultimi mesi la classe operaia sta dimostrando di essere capace di riprendere la via della lotta, di riannodarsi alle sue esperienze precedenti, come la comprensione che non è la propria fabbrica o il proprio settore che subisce la crisi ma tutta l’economia, o ancora di esprimere atti concreti di solidarietà, come è accaduto in:
- Argentina, dove c’è stata una ricerca attiva tra vari settori di proletari per lottare assieme;
- Inghilterra, con lo sciopero degli addetti all’aeroporto di Heatrow, sviluppatosi dopo solo qualche settimana dagli attentati di Londra del 7 luglio e quando la borghesia tentava di rilanciare l’unione nazionale attraverso la campagna antiterrorista, dove un migliaio di lavoratori dell’aeroporto si sono messi in sciopero spontaneamente per solidarietà con i 670 operai dell’impresa americana di ristorazione Gate Gourmet, la gran parte dei quale di origine indo-pakistana;
- Spagna, dove il 23 dicembre, negli stabilimenti automobilistici della SEAT di Barcellona, gli operai del turno di mattina e del pomeriggio si sono spontaneamente messi in sciopero in solidarietà con 660 compagni di lavoro a cui la direzione aveva spedito quel giorno stesso una lettera di licenziamento;
- USA, dove lo sciopero dei 33700 lavoratori del metrò ha paralizzato la città di New York per tre giorni durante la settimana di Natale, esprimendo così la lotta operaia più significativa degli ultimi 15 anni negli Stati Uniti nella misura in cui i lavoratori si sono messi in lotta in solidarietà per le nuove generazioni di lavoratori, per quelli che addirittura devono ancora essere assunti. (6)
La prospettiva della lotta di classe
La gran parte dei gruppi che pretende di appartenere alla sinistra comunista, lungi dal fare riferimento al comune patrimonio storico, si perde dietro le chimere che la borghesia si incarica di gonfiare a dismisura, come le lotte disperate delle periferie francesi o le lotte interclassiste di Val di Susa o contro l’inceneritore ad Acerra. In realtà, come abbiamo già detto, “i rivoluzionari attribuiscono una grandissima attenzione ad ogni forma di rivolta sociale, qualunque ne siano i protagonisti o le prospettive. Allo stesso modo il proletariato, e noi al suo interno, non siamo «indifferenti» alle condizioni di vita abominevoli (fame, oppressione, repressione, ecc.) di cui sono vittime dei settori considerevoli della società non appartenenti al proletariato. Ma accordare un’attenzione non vuole dire considerare tutte queste manifestazioni di violenza sociale come lotte del proletariato o che queste manifestazioni abbiano una qualunque potenzialità di mettere in discussione lo sfruttamento capitalista.” (vedi nota 2).
Non è partendo dai moti di strati disperati che si può rimettere in piedi una dinamica di classe. E’ viceversa a partire dalle lotte autentiche della classe operaia, come quelle che abbiamo citato sopra, che strati marginali del proletariato, settori sottoproletari, strati genericamente non proletari e non sfruttatori, piuttosto che lasciarsi andare ad una violenza senza domani, possono essere gradualmente integrati nelle lotte del proletariato. E in questo, il ruolo dell’avanguardia rivoluzionaria è assolutamente insostituibile nell’indicare e difendere senza cedimenti i metodi di lotta propri dell’unica classe sociale che può distruggere il capitalismo e costruire una società comunista.
2 febbraio 2006 Ezechiele
1. Vedi il nostro volantino pubblicato sul sito web dal titolo “Tumulti nelle periferie francesi: Di fronte alla disperazione, solo la lotta di classe porta all’avvenire” e l’articolo pubblicato sul giornale n. 143 “La borghesia utilizza gli scontri nelle periferie contro la classe operaia”.
2. Vedi l’articolo pubblicato sul nostro sito web: “Gli avvenimenti delle periferie francesi mettono a dura prova la vocazione del BIPR ad essere ‘partito’”.
3. Qualche eccezione per fortuna c’è: “Certo spontanea, ma è una manodopera a disposizione di qualunque partito. (…) I giovani declassati delle banlieue, quando anche la morte diventa un gioco, vogliono distruggere tutto e tutti. Se stessi per primi. Non hanno nulla da perdere. Ma neppure nulla da guadagnare. Al contrario la disciplinata rivolta della classe operaia, che dovrà scoppiare, illuminata dal partito di classe, che saprà dove davvero colpire e cosa è necessario distruggere, ha un mondo intero da conquistare, e sa di averlo.” (Il Partito, n.°314, ott-nov 2005). Il fatto che dei bordighisti siano capaci di fare delle analisi giuste, malgrado la presenza di posizioni completamente errate, come quella sul sindacato, dimostra che si può ancora sperare che questi compagni possano un giorno aprire gli occhi e spiega perché noi ci rivolgiamo a loro come dei militanti della nostra classe.
4. Da notare che Programma Comunista, in questo stesso articolo, oltre a fare una denuncia dell’“opportunismo” dei vari Lutte Ouvriere, Scalzone, Negri, ecc., ha la pretesa di criticare anche i vari gruppi di sinistra comunista tra cui la CCI. Peccato però che, a questo punto, Programma si limiti a citare dei brevi passaggi di articoli senza neanche dire il nome del gruppo e senza sviluppare alcun commento, a parte la battuta di chiusura: “parole tutte in libertà”. Per quanto ci riguarda possiamo dire che se Programma avrà la capacità politica di esprimere una critica alle nostre posizioni politiche, saremo ben lieti di prenderla in considerazione.
5. “Moti sociali: Argentina 2001, Francia 2005, solo la lotta di classe del proletariato prospetta un avvenire.” Rivista Internazionale (versione in inglese, francese, spagnolo) n. 124.
6. Scarica gli articoli relativi alle varie lotte dal nostro sito.