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Dal 14 marzo l'inquietudine internazionale si è orientata verso lo stretto di Formosa. In questa data il parlamento cinese ha votato, per la prima volta, un legge antisecessione che autorizza Pechino a fare uso di mezzi militari contro Taiwan nel caso in cui le autorità dell'isola avessero optato per l'indipendenza. Il 13 marzo, il presidente cinese Hu-Jinto, in divisa militare, aveva perfino fatto appello pubblicamente agli ufficiali a "prepararsi ad un conflitto armato". Il messaggio era chiaro: la borghesia cinese non avrebbe permesso la separazione di Taiwan, non sarebbe indietreggiata di fronte a niente, guerra compresa.
Immediatamente la tensione è salita velocemente, non solo nel Sud-est asiatico, ma anche tra la Cina ed il Giappone. Quest’ultimo, di fronte alle bellicose dichiarazioni della Cina non poteva restare inerme. Tokio con fermezza ha dunque fatto sapere che questa legge anti-secessione avrebbe avuto immancabilmente un effetto negativo sulla pace e la stabilità della regione, annunciando nello stesso tempo che le sue forze militari avevano già preso il controllo di un faro localizzato sull'arcipelago di Senkaku. Arcipelago tradizionalmente rivendicato da Pechino che lo chiama Diayou. La Cina ha replicato qualificando questo atto militare come una "grave provocazione totalmente inaccettabile".
Il concatenarsi delle tensioni crescenti tra la Cina ed il Giappone ha trovato un'espressione evidente con le manifestazioni anti-giapponesi preparate in ogni piazza dallo Stato cinese, con il pretesto della pubblicazione da parte di Tokio di manuali di storia che minimizzano le atrocità commesse dall'esercito giapponese durante la colonizzazione di una parte della Cina negli anni 1930. In risposta, il Giappone, per la prima volta, ha qualificato la Cina come "potenziale minaccia", evidenziando l'aggravamento della situazione in questa regione del mondo. La situazione nel Sud-est asiatico si è aggravata a tal punto che mai, dal 1945, il Giappone aveva ufficialmente abbandonato la sua neutralità sulla delicata situazione di Taiwan.
Questo spinta febbrile al bellicismo da parte della Cina non ha provocato la risposta del solo Giappone. Gli Stati Uniti hanno fatto sapere che, malgrado Washington dal 1972 ammette una sola Cina di cui Taiwan fa parte, non avrebbe accettato
Il crollo dell'URSS nel 1989 e l'affermazione degli Stati Uniti come unica grande potenza mondiale, avevano già sconvolto la politica imperialista della Cina fin da allora. Dalla formazione della Repubblica popolare cinese nel 1949, passando per il 1972 data in cui la Cina e gli Stati Uniti si sono ritrovati alleati contro l'Unione Sovietica, lo sviluppo delle tensioni inter-imperialiste sono rimaste sempre contenute in un ambito che ne ha limitato la pericolosità per l'insieme del mondo. A partire dal 1989, e con lo sprofondamento accelerato del capitalismo nella decomposizione, la situazione é cominciata a cambiare.
La base dell'alleanza strategica sino-americana resa necessaria all'esistenza di un comune nemico, l’URSS, era sparita ed a partire dalla metà degli anni 1990 si è potuto vedere la prima spinta spettacolare alle tensioni nella regione tra la Cina e gli Stati Uniti. Il bombardamento da parte degli Stati Uniti dell'ambasciata cinese a Belgrado, il 7 maggio 1999, ad un mese dall'insuccesso della visita dell'alta diplomazia cinese a Washington, è stato un'espressione evidente dell’opposizione degli Stati Uniti alle evidenti aspirazioni della Cina a fare il cavaliere solitario nell'arena imperialista mondiale.
Da allora gli appetiti imperialisti di Pechino non hanno tuttavia smesso di acuirsi e con essi una volontà di apparire come una forza militare con la quale le altre grandi potenze avrebbero dovuto fare i conti, in particolare gli Stati Uniti. È particolarmente significativo che il bilancio militare della Cina non smette di crescere! Da quindici anni, le spese militari aumentano ad un ritmo annuo a due cifre: dall' 11,6% nel 2004 al 17% del 2002, che rappresenta non meno del 35% del bilancio nazionale. Segno dei tempi e dei bisogni dell'imperialismo cinese sono la marina e soprattutto l'aviazione che mirano ad un rapido ammodernamento.
Del resto lo Stato cinese, finché può, approfitta delle difficoltà della prima potenza mondiale ad imporsi sul pianeta. Lo testimoniano le interferenze della Cina nel processo di discussione sul dossier nucleare dell'Iran. Il ministro degli Affari esteri cinese Li-Zhaoxing, durante un viaggio a Teheran, ha dichiarato che la Cina si sarebbe opposta all'ONU ad ogni tentativo di sanzionare l'Iran. È la stessa politica imperialista che spinge questo paese a sostenere il regime islamico sudanese. Nello stesso senso, la sua politica nei confronti di Pyongyang, capitale della Corea del Nord, è tra le più chiare: un segno forte della pretesa imperialista della Cina di piantare i propri paletti nella sua zona di influenza naturale, a scapito della politica americana. La borghesia cinese si è inoltre sforzata di consolidare in questi ultimi tempi la sua influenza in Laos, in Cambogia, in Birmania, addirittura in Tailandia, in Malaysia ed in Indonesia, e ciò direttamente contro gli Stati Uniti.
Ma Taiwan non è il solo punto caldo dello scontro larvato in Asia. Anche l'Aksai-chin e l'Arunachal-Pradesh, situati alla frontiera tra la Cina e l'India, sono regioni sempre più contese da questi due Stati e sono potenzialmente origine di scontro tra queste due potenze nucleari. Se momentaneamente c’è una relativa diminuzione delle tensioni tra l'India ed il Pakistan da una parte, e tra l'India e la Cina dall’altra, ciò non significa affatto una stabilità di questa regione per i tempi a venire. Se il Primo ministro indiano Mammhan Singh ha potuto dichiarare: "l'India e la Cina condividono la stessa aspirazione a costruire un ordine politico ed economico internazionale giusto, equo e democratico", è perché gli squali imperialisti in Asia, che sono la Cina, l'India ed il Pakistan sono costretti per il momento a mettere in sordina i loro reciproci scontri, per far fronte all'attuale offensiva degli Stati Uniti in questa parte del mondo.
In questa situazione, è ovvio che le altre potenze imperialiste mondiali, in particolare la Francia, la Germania e la Russia, devono tentare anche loro di difendere i propri interessi in questa regione, andando ad ombrare ulteriormente gli Stati Uniti già confrontati all'indebolimento della loro leadership mondiale. I recenti viaggi di Chirac e poi di Raffarin in Cina non avevano come unico scopo rafforzare i legami economici tra Parigi e Pechino. Si trattava anche di riaffermare il sostegno della Francia, subentrata alla Germania, a togliere l'embargo sulle vendite di armi cinesi e nello stesso momento vendere una tecnologia avanzata alla Cina. Una Cina più forte e più aggressiva di fronte agli Stati Uniti fa il gioco della Germania e la Francia. In effetti, se la strategia americana di insediamento di basi militari nel Kirghizistan, in Tagikistan, in Afghanistan ed in Uzbekistan mira ad accerchiare contemporaneamente l'Europa e la Russia, ciò serve anche a porre uno sbarramento contro l'influenza espansionista della Cina verso l'occidente, contribuendo così ad isolare tra loro i suoi principali concorrenti imperialisti.
Sbagliato credere che lo sviluppo delle tensioni imperialiste in Asia significa che la barbarie capitalista non continua ad accelerarsi nelle altre regioni del mondo. È vero proprio il contrario. È chiaro che la borghesia americana si ritrova sprofondata nel pantano iracheno, nonostante le proclamate intenzioni di iniziare un ritiro parziale delle truppe dal 2006. Essa è anche sul chi vive in Medio Oriente nei confronti della Siria e dell'Iran, ma anche sul fronte dell'estremo oriente rispetto alla Corea del Nord. E per continuare a giocar il ruolo di gendarme del mondo, è spinta continuamente in una fuga in avanti sul terreno militare. Il moltiplicarsi dei punti caldi in Estremo Oriente, dove la spinta dell'imperialismo cinese diventa un polo di preoccupazione preponderante, porta fin da ora la Casa Bianca a rafforzare le sue basi militari nella regione ed i suoi legami con Stati quali l'Indonesia, le Filippine, la Malesia, la Tailandia o ancora lo Sri Lanka. L'evoluzione della situazione nel Sud-est asiatico mostra una volta di più alla classe operaia che tutti i discorsi di pace della borghesia preparano solo nuove guerre e che questo sistema capitalista non ha niente da offrire se non la barbarie. La minaccia di una guerra in Asia ne è una nuova espressione, gravida di conseguenze per l'avvenire. Gli appetiti e le pretese dei principali rivali dell'imperialismo americano, tra i quali si pone oggi apertamente la Cina, non possono che aumentare. La crisi della leadership americana, la sua offensiva attuale e le reazioni che ne derivano, spingono il mondo in una spirale di caos crescente.
Tino, 22 aprile
L’intensificazione degli scontri imperialisti porta ad un caos sempre più profondo
La pressione imperialista della Cina
Il Sud-est asiatico, un nuovo focolare di tensioni
Mentre i media agli ordini della borghesia danno ampia risonanza al referendum sulla Costituzione europea, come se da questo dipendesse la pace e la stabilità nel mondo, la barbarie capitalista continua drammaticamente la sua marcia avanti. In particolare l'Asia è diventata il nuovo epicentro dell'accelerazione delle tensioni inter-imperialiste.
passivamente e senza reagire un’azione di forza militare della Cina su Taiwan. "Questa legge anti-secessione è scellerata", ha dichiarato Scott Clellan, portavoce della Casa Bianca. "Noi ci opponiamo ad ogni modifica unilaterale dello status quo". Queste chiare e nette dichiarazioni sono state fatte dalla segretaria di Stato americano Condoleeza Rice al presidente Hu-Jintao, durante la sua visita a Pechino il 21 marzo scorso. È chiaro ora che per far fronte agli aumentati appetiti imperialistici della Cina, il Giappone e gli Stati Uniti fanno causa comune in questa parte del mondo. Tale è il senso dell'accordo firmato da Washington e Tokio che si da "come obiettivo strategico comune" quello di operare per una "risoluzione pacifica" delle questioni riguardanti lo stretto di Formosa.