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Uomini politici, economisti e giornalisti vari ci hanno ormai abituato alle più stravaganti teorizzazioni, pur di nascondere il fallimento del capitalismo e giustificare la serie di attacchi senza fine contro le condizioni di vita della classe operaia.
Venticinque anni fa, un presidente americano portavoce del conservatorismo più retrivo, Nixon, si sgolava a proclamare: "Siamo tutti Keynesiani". Erano tempi in cui la borghesia cercava di rispondere alla crisi con "l’intervento dello Stato" e lo sviluppo dello "Stato sociale " come elisir magico. Era in nome di queste politiche che si chiedeva ai lavoratori qualche sacrificio momentaneo per "uscire dal tunnel".
Negli anni 80, di fronte all'evidenza del marasma economico, bisognò trovare qualcosa di nuovo. Ed ecco che il responsabile di tutti i mali diventa lo Stato ed il nuovo elisir magico é “meno Stato”. Sono gli anni d'oro della “Reaganomics”, che provocano la maggior ondata mondiale di licenziamenti dopo gli anni '30, una politica organizzata dallo Stato.
Oggi, la crisi del capitalismo ha raggiunto un livello tale di gravità che tutti gli Stati industrializzati hanno dovuto mettere all'ordine del giorno la liquidazione pura e semplice di quello che restava degli ammortizzatori sociali dello "Stato previdenziale" (sussidio di disoccupazione, pensioni, sanità, educazione; ma anche indennità dì licenziamento, assicurazioni, durata della giornata di lavoro, sicurezza, etc.). Questo attacco spietato, questo salto qualitativo nella tendenza all'impoverimento assoluto preannunciata da Karl Marx, viene accompagnato e giustificato con una nuova teoria: "la mondializzazione dell'economia mondiale"
Questa volta i servitori del capitale hanno veramente scoperto l'acqua calda! Cercano di spacciare con centocinquanta anni di ritardo quella che sarebbe "la grande novità di fine secolo" e che Engels costatava già nei Princìpi del Comunismo, scritti nel 1847: "Le cose sono arrivate ad un punto tale che l'invenzione di un macchinario nuovo qui in Inghilterra, potrà, nello spazio di un anno, condannare alla fame milioni di operai in Cina. Così la grande industria ha collegato tutti i popoli della terra, ha unito in un solo mercato tutti ì mercati locali, ha preparato dappertutto il terreno per la civiltà ed il progresso ed ha fatto tutto questo in un modo tale che tutto quello che si realizza nei paesi civilizzati si ripercuote necessariamente in tutti gli altri."
Il capitalismo ha bisogno di estendersi a scala mondiale, imponendo il suo sistema di sfruttamento salariato in tutti gli angoli del pianeta. L'integrazione nel mercato mondiale, agli inizi del secolo, di tutti i territori significativi del pianeta e la difficoltà di trovarne di nuovi, capaci di soddisfare le esigenze continue di espansione del capitalismo, hanno segnato l'entrata dell’ordine borghese nella sua fase di decadenza, come i rivoluzionari sostengono da ottanta anni.
Nel quadro di questa saturazione cronica dei mercati, il nostro secolo ha visto un inasprirsi senza precedenti della concorrenza intercapitalista. Tutti i capitali nazionali sono obbligati ad una doppia tattica: da una parte proteggere i propri prodotti con tutta una serie di misure (monetarie, legislative, etc.) dagli assalti dei concorrenti, dall'altra cercare di convincere questi ultimi ad aprire le porte dei loro mercati alle proprie merci (trattati commerciali, accordi bilaterali, etc.). Quando gli economisti parlano di mondializzazione, cercano di far credere che il capitalismo possa amministrarsi in modo cosciente ed unificato grazie alle regole dettate dal mercato mondiale. E' vero esattamente il contrario: il mercato mondiale impone le sue leggi, ma questo avviene in un quadro caratterizzato dai tentativi disperati di ogni capitale nazionale di sfuggire a queste leggi e caricarne il peso sui concorrenti. Il mercato mondiale attuale ha voglia di essere "mondializzato", non per questo riesce a creare un quadro di progresso e di unificazione! La tendenza dominante del capitalismo decadente é alla disarticolazione del mercato mondiale, dilaniato dalle potenti forze centrifughe delle economie nazionali strutturate in Stati ipertrofici che tentano in tutti i modi (compresi quelli militari) di proteggere i prodotti dello sfruttamento dei "loro" lavoratori contro le mani avide dei loro concorrenti. Mentre nel secolo scorso la concorrenza fra nazioni contribuiva a formare ed unificare il mercato mondiale, la concorrenza fra Stati del nostro secolo tende al risultato opposto: la disgregazione e la decomposizione del mercato mondiale.
E' proprio per questa ragione che la "mondializzazione" può imporsi solo con la forza. Nel mondo uscito dalla spartizione di Yalta nel '45, USA ed URSS avevano approfittato della disciplina imposta dai blocchi imperialisti per creare tutta una serie di organismi per regolamentare (a loro vantaggio, ovviamente) il commercio mondiale: GATT, FMI, Mercato Comune, il Comecon per il blocco russo, etc. Espressione della potenza economico‑militare dei capifila dei blocchi, questi organismi non potevano in ogni caso eliminare le tendenze all’anarchia e organizzare un mercato mondiale armonico ed unificato. Con la sparizione dei due blocchi dopo l’89, la tendenza al caos ed alla concorrenza si é enormemente rafforzata.
La “mondializzazione” porrà fine a questa tendenza? A sentire i suoi apostoli, la "mondializzazione" prende le mosse da un mercato mondiale "già unificato" ed avrà un "effetto salutare" su tutte le economie e permetterà al mondo intero di uscire dalla crisi liberandolo dagli "egoismi nazionali". In effetti, se si prendono in esame le varie caratteristiche della "mondializzazione", non ce n'é una che possa in qualche modo eliminare il caos in cui si trova il mercato mondiale e che la crisi continua ad aggravare. Tanto per cominciare, le "transazioni elettroniche via Internet" non faranno che aggravare il rischio dei mancati pagamenti, già elevatissimo, contribuendo così ad aumentare ancora il peso già insopportabile dell’indebitamento. Per quello che riguarda la "mondializzazione" dei mercati monetari e finanziari, ci siamo già espressi in precedenza: "Un crac finanziario é inevitabile. Sotto certi aspetti, é già in corso. Anche dal punto di vista del capitalismo, un bel colpo di spillo nella “bolla speculativa" é indispensabile (...). Oggi, la bolla speculativa e, soprattutto, l’indebitamento degli Stati si sono gonfiati in modo allarmante. In una tale situazione, nessuno può prevedere dove arriverà la violenza dell’esplosione. Quello che é certo é che si tratterà di una distruzione massiccia di capitale fittizio che getterà nella rovina settori interi del capi-tale mondiale” (“Tormenta finanziaria: siamo alla follia?”, Révue Internationale n° 81, 1995).
Lo scopo della mondializzazione é in realtà abbastanza differente dalle melodie celestiali che ci sviolinano i suoi cantori. Si tratta di rispondere ai problemi urgenti posti dallo stato attuale della crisi e cioè l’abbassamento dei costi di produzione e la distruzione delle barriere protezionistiche per permettere ai capitalismi più forti di fare man bassa su mercati sempre più ridotti.
Rispetto alla necessità di abbassare i costi di produzione, abbiamo già sottolineato che: ''L’intensificazione della concorrenza tra capitalisti, esacerbata dalla crisi di sovrapproduzione e dalla rarità dei mercati solvibili, li spinge ad una modernizzazione ad oltranza dei processi di produzione, rimpiazzando gli uomini con le macchine, in una corsa sfrenata alla "riduzione dei costi". Questa stessa corsa li spinge a distaccare segmenti di produzione verso paesi in cui la mano d’opera é a miglior mercato (Cina e Sud-Est asiatico, tanto per fare un esempio di attualità)" ("Il cinismo della borghesia decadente", Révue Internationale n.78, 1994.
Questo secondo aspetto della riduzione dei costi (trasferimento di certi passaggi della produzione verso dei paesi a basso costo salariale) si é accentuato negli anni '90. Vediamo così i capitalisti democratici far ricorso ai graditi servigi del regime stalinista cinese per produrre a costi derisori compact, scarpe sportive, dischi rigidi per PC, modem, etc. Il decollo dei cosiddetti "dragoni asiatici" é basato sul fatto che la fabbricazione di computer, componenti elettronici, tessuti, etc. si va spostando verso questi paradisi dai "costi salariali infimi''. Il capitalismo in crisi non esita a profittare fino in fondo delle differenze di costi salariali: "I costi salariali totali nell'industria dei differenti paesi in via di sviluppo che producono ed esportano manufatti ma anche servizi, varia dal 3% (Madagascar, Vietnam) ad un massimo del 40% rispetto alla media dei paesi più ricchi d'Europa. La Cina varia dal 5 al 16%, mentre l'India é sul 3%. Con il crollo del blocco sovietico, esiste oggi alle porte dell'Unione Europea una riserva di mano d'opera il cui costo oscilla dal 5% (Romania) al 20% (Polonia, Ungheria) rispetto ai costi tedeschi." (1)
Un primo risultato della "mondializzazione" è dunque il calo del salario medio mondiale, ma anche i licenziamenti massicci nei grandi centri industriali, senza che le perdite di posti di lavoro siano compensate dalla creazione di nuovi nelle nuove fabbriche ultra automatizzate. Questa perdita di potere di acquisto dei lavoratori non fa che aggravare la malattia cronica del capitalismo (l'insufficienza dei mercati), riducendo la domanda nei paesi industrializzati senza compensarla con una crescita corrispondente nelle economie sottosviluppate (2).
Per quanto riguarda la distruzione delle barriere doganali é certamente vero che paesi come India, Messico o Brasile sono stati obbligati dalla pressione dei grandi ad abbassare le loro tasse protezionistiche, con il risultato di indebitarsi massicciamente (una tattica simile fu utilizzata negli anni 70 e portò alla catastrofe della crisi di indebitamento nel 1982). Ma i vantaggi per il capitale internazionale sono del tutto illusori: "..il recente crollo finanziario di un altro paese "esemplare", il Messico, la cui moneta ha perso la metà del suo valore da un giorno all'altro, e che ha avuto bisogno dell'iniezione urgente di crediti per 50 milioni di dollari (di gran lunga la più grande operazione di salvataggio nella storia del capitalismo) mostra cosa c'é dietro il miraggio dello "sviluppo" di certi paesi del terzo mondo." ("Risoluzione sulla situazione internazionale", Rivista internazionale n. 19).
Nei fatti la "mondializzazione" non riduce, ma esaspera il protezionismo e l’intervento dello Stato rispetto agli scambi commerciali:
‑ lo stesso Clinton, che nel '95 ha obbligato il Giappone ad aprire le frontiere ai prodotti americani, che non smette mai di predicare ai suoi "associati" la "libertà di commercio", ha dato il buon esempio non appena eletto aumentando le tasse sugli aerei, l'acciaio ed i prodotti agricoli esteri e limitando inoltre alle agenzie statali l'acquisto di prodotti stranieri;
- il celebre Uruguay Round, che ha portato alla sostituzione del precedente GATT con l'attuale Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC), non ha ottenuto che risultati di facciata: le tasse sono state eliminate in soli dieci settori industriali, mentre sono state ridotte del 30% in otto altri comparti, e tutto questo non da subito ma scaglionato nello spazio di dieci anni!
‑ un'espressione evidente del neoprotezionismo si trova nelle norme ecologiche, sanitarie e "per la qualità della vita". I paesi industrializzati impongono così degli standards irraggiungibili per i loro concorrenti più deboli: "...nella nuova OMC, i gruppi industriali, le organizzazioni sindacali ed i militanti ecologisti lottano affinché quei beni collettivi che sono l'ambiente, il benessere sociale, etc. e le norme che li regolano non siano dettate dal mercato, ma dalla sovranità nazionale che su questi punti non può tollerare limitazioni" (3).
La formazione di "zone regionali" (Unione europea, accordi del Sud-Est asiatico, Trattato di libero commercio nell'America del Nord, etc.) non contraddicono questa tendenza, ma esprimono il bisogno di gruppi di nazioni capitaliste di formarsi delle zone protette a partire dalle quali sfidare i rivali. Gli USA hanno replicato all'Unione Europea con il Trattato di libero commercio ed il Giappone si é fatto promotore dell'accordo fra i "dragoni" asiatici. Questi "gruppi regionali" tentano di proteggersi dalla concorrenza esterna, ma non per questo eliminano gli scontri commerciali fra partners al loro interno, anzi. Per farsene un'idea basta pensare alla "armoniosa" coabitazione nell'Unione Europea.
Il dato di fatto é che le tendenze più aberranti sviluppatesi sul terreno della decomposizione del mercato mondiale continuano a rafforzarsi: "Oggi l'insicurezza monetaria su scala mondiale é arrivata a livelli tali che riappare sempre più spesso quella forma arcaica di commercio che é lo scambio, e cioè il passaggio di mano di merci in cambio di merci, senza ricorrere all'intermediario della moneta" ("Un'economia corrosa dalla decomposizione", Révue Internationale n.75, 1993).
Un altro tipo di trucco a cui ricorrono gli Stati é la svalutazione delle proprie monete che rende meno care le proprie merci aumentando contemporaneamente quelle dei concorrenti. Tutti i tentativi di impedire questo tipo di manovre sono finiti con un nulla di fatto ed il crollo del Sistema Monetario Europeo é lì a dimostrarlo.
La “mondializzazione”, un attacco ideologico contro la classe operaia
Abbiamo fin qui dimostrato che la "mondializzazione" é uno schermo ideologico destinato a nascondere il fallimento del capitalismo. Le ambizioni di questa "teoria" vanno tuttavia più lontano, visto che (nelle teorizzazioni dei "mondializzatori" più estremisti) dovrebbe superare e "distruggere" gli Stati Nazionali, e scusate se é poco! Uno dei suoi cantori più accreditati, il giapponese Kenichi Ohmae, ci assicura che: "...per riassumere, in termini di flussi reali di attività economica, gli Stati‑nazioni hanno già perduto il loro ruolo di unità significative di partecipazione all'economia senza frontiere del mondo attuale" (4). In più, non esita a qualificare gli Stati come dei "filtri brutali" e ci promette le delizie dell’economia globale: "A mano a mano che aumenterà il numero di individui che supererà il filtro brutale che separa le geografie, residuato della vecchia economia mondiale, il controllo sull'attività economica passerà inevitabilmente dalle mani dei governi centrali degli Stati‑nazioni a quelle delle reti senza frontiere delle innumerevoli decisioni individuali, basate sul mercato." (4).
Fino ad oggi solo il proletariato combatteva lo Stato‑nazione. Ma, come si vede, l'audacia dei nuovi pensatori borghesi non ha limiti: ecco che si proclamano militanti della "lotta contro l'interesse nazionale".
Comunque, é nel quadro dell'offensiva ideologica antiproletaria che questa "fobia" antinazionale gioca il suo ruolo principale, cercando di piazzare i lavoratori di fronte ad una falsa contrapposizione:
‑ da una parte le forze politiche che difendono in modo deciso la "mondializzazione" (in Europa sono i partigiani di Maastricht), sottolineano la necessità di "superare gli egoismi nazionali retrogradi" per integrarsi in "vasti insiemi mondiali" che permetteranno di uscire dalla crisi;
‑ dall'altra i partiti di sinistra (soprattutto quando sono all'opposizione) ed i sindacati cercano di legare la difesa degli operai alla difesa dell'interesse nazionale, che sarebbe messo sotto i piedi dai governi "traditori della patria".
I sostenitori della "mondializzazione" scagliano le loro folgori contro il "minimo sociale garantito", e cioè la previdenza sociale, le indennità di licenziamento, i sussidi di disoccupazione, le pensioni, gli sgravi per l'educazione o gli alloggi, i limiti all'orario di lavoro, ai ritmi, al lavoro minorile, etc. Ecco, in breve, gli "orribili" pesi di cui lo Stato-nazione non può sbarazzarsi, prigioniero come é di quegli "spaventosi" gruppi di pressione che sono i lavoratori. E questo ci porta al nòcciolo della “mondializzazione", una volta levate di mezzo tutte le chiacchiere tipo: "superamento della crisi" o "internazionalismo di liberi individui su liberi mercati". Questo non é altro che l'ennesimo alibi per l'attacco imposto dalla crisi del capitale a tutti gli Stati nazionali: farla finita con il "minimo sociale garantito", quest'insieme di legislazioni del lavoro e di misure previdenziali che il capitale non può più permettersi.
Qui interviene l'altro aspetto dell'attacco ideologico della borghesia, quello portato avanti da sinistra e sindacati. Negli ultimi 50 anni il "minimo sociale garantito" é stato il faro del cosiddetto Welfare State, la copertura "sociale" del capitalismo di Stato. (questo "Stato Sociale" é stato contrabbandato come la prova vivente delle capacità rispettive del capitalismo di "addolcirsi" e dello Stato di fungere da luogo di incontro in cui le esigenze di padroni ed operai potessero trovare un terreno di intesa). Sindacati e partiti di sinistra (in particolare quando sono all'opposizione) si spacciano per grandi difensori dello "Stato Sociale", contrapponendo "l'interesse nazionale" di mantenere un "minimo sociale" al "cosmopolitismo senza patria“ dei governi. Questo é stato d'altronde un elemento non secondario delle manovre della borghesia francese durante le lotte dell'autunno '95, quando l'intero movimento é stato presentato come una spontanea rivolta popolare contro Maastricht e le corrispondenti misure di rigore, il tutto ben canalizzato ed imbrigliato dai sindacati.
Le contraddizioni di Battaglia Comunista rispetto alla “mondializzazione”
Il compito dei gruppi della Sinistra Comunista (base del futuro partito mondiale del proletariato) é di denunciare senza ambiguità questo veleno ideologico. Il proletariato non ha nulla da scegliere fra "mondializzazione" ed "interessi nazionali". Le sue rivendicazioni non si basano sulla difesa del Welfare State, ma sul terreno dei suoi interessi di classe, e la difesa di questi interessi non passa per il socialpatriottismo o per il mondialismo, ma per la distruzione dello Stato capitalista di tutti i paesi.
La questione della "mondializzazione" é stata trattata da Battaglia Comunista ( BC ) a più riprese sulla sua rivista teorica semestrale, Prometeo. Battaglia difende con fermezza una serie di principi della Sinistra Comunista che vogliamo qui sottolineare:
‑ denuncia senza concessioni la "mondializzazione" come un feroce attacco contro la classe operaia, evidenziando come essa si basi “sull’impoverimento progressivo del proletariato mondiale e sullo sviluppo delle più violente forme di supersfruttamento” (5);
‑ rigetta l'idea per cui la "mondializzazione" sarebbe un superamento delle contraddizioni del capitalismo: “Qui ci interessa sottolineare che anche le più recenti modificazioni intervenute nel sistema economico mondiale sono per intero riconducibili nell’ambito del processo di concentrazione-centralizzazione del capitale segnando senza dubbio una nuova fase, ma non il superamento delle contraddizioni immanenti al processo di accumulazione del capitale.” (5);
‑ riconosce che le ristrutturazioni e le "innovazioni tecnologiche" introdotte negli anni '80 e '90 non hanno portato ad ampliamenti del mercato mondiale: “Contrariamente alle aspettative, la ristrutturazione basata sull’introduzione di tecnologie sostitutive di manodopera senza la nascita di nuove attività produttive compensative, anziché rilanciare il cosiddetto “circolo virtuoso” che era stato alla base del poderoso sviluppo dell’economia mondiale nella prima fase del capitalismo monopolistico, lo interrompe. Per la prima volta gli investimenti supplementari anziché dar luogo a una espansione della base produttiva e a una crescita totale dei processi produttivi, ne determinano la riduzione sia relativa che assoluta” (5);
‑ rigetta ogni illusione sulla "mondializzazione" come forma armonica e pianificata della produzione, affermando senza il minimo equivoco che “si assiste così al paradosso di un sistema che mentre persegue, mediante il monopolio, il massimo della razionalità porta all’irrazionalità al suo grado più elevato: tutti contro tutti; ogni capitale contro tutti i capitali; i capitali contro il capitale” (5);
‑ ricorda che “il suo abbattimento (del capitalismo) non è la risultante matematica delle contraddizioni del mondo dell’economia; ma è opera del proletariato che prende coscienza che questo non è il migliore dei mondi possibili” (5).
Noi sosteniamo queste prese di posizione e, partendo da questo accordo di base, vogliamo combattere qualche confusione e contraddizione che a nostro avviso sono presenti nelle posizioni di Battaglia. Non si tratta di una polemica gratuita, ma di una precisa preoccupazione militante: di fronte all'aggravarsi della crisi é fondamentale denunciare le teorie fumose del tipo "mondializzazione", il cui obiettivo é proprio quello di impedire la presa di coscienza del fatto che il capitalismo oggi é proprio "il peggiore dei mondi possibili" e deve essere spazzato via dalla faccia del pianeta.
La prima cosa che ci sorprende é che BC pensi che “grazie ai progressi della microelettronica, sia per quanto riguarda le telecomunicazioni che l’organizzazione dei cicli produttivi, il pianeta è stato di fatto unificato” (5). I compagni si fanno imbrogliare dalle idiozie propagandate dalla borghesia sul "miracolo unificatore" basato sulle telecomunicazioni ed Internet, dimenticando che: "...da un lato la formazione di un mercato mondiale internazionalizza la vita economica, influenzando profondamente la vita di tutti i popoli; ma dall'altro lato si sviluppa, sempre più accentuata, la nazionalizzazione degli interessi capitalisti, ciò che illustra nel modo più evidente l'anarchia della concorrenza capitalista nel quadro dell'economia mondiale e conduce a violente convulsioni e catastrofi, ad un'immensa perdita di energia, mettendo così imperativamente all'ordine del giorno l'organizzazione di nuove forme di vita sociale." (6).
Un’altra debolezza di BC sta nella sua strana scoperta per cui “l’allora presidente degli Stati Uniti Nixon quando assunse la storica decisione di denunciare gli accordi di Bretton Woods e di dichiarare l’inconvertibilità del dollaro non immaginava neppure lontanamente che stava dando il via a uno dei più giganteschi processi di trasformazione che avesse conosciuto il modo di produzione capitalistico in tutta la sua storia.” ( Prometeo n. 9)
Ora, non si può analizzare come causa (la famosa decisione del 1971 di dichiarare la non convertibilità del dollaro) quello che non é stato altro che un effetto dell'aggravarsi della crisi capitalista e che in ogni caso non ha assolutamente alterato "i rapporti di dominio imperialisti". L’economicismo di BC, che abbiamo già avuto l'occasione di criticare, la spinge ad attribuire un peso spropositato ad un avvenimento che di per sè non ebbe alcuna conseguenza nello scontro tra i blocchi imperialisti allora esistenti (sovietico ed occidentale).
In ogni caso, il principale pericolo di questa posizione é di lasciare uno spiraglio alla mistificazione borghese secondo cui il capitalismo attuale é capace di "cambiare e trasformarsi". Per il passato, BC ha avuto la tendenza ad essere scombussolata da qualsiasi "trasformazione importante" la borghesia ci facesse balenare sotto il naso. Si é già lasciata sedurre dalle "novità" della "rivoluzione tecnologica", poi dal miraggio dei sedicenti favolosi mercati aperti dalla "liberazione" dei paesi dell'Est. Oggi prende per oro sonante alcune delle mistificazioni contenute nella cagnara intorno alla "mondializzazione": "Il passaggio alla centralizzazione della gestione delle variabili macroeconomiche su base continentale o per aree valutarie, per esempio, comporta per forza di cose una diversa distribuzione dei capitali nei vari settori produttivi e fra questi e quello finanziario. Non solo la piccola e media impresa, ma anche gruppi di grandi dimensioni rischiano di essere marginalizzati o assorbiti da altri con relativo declino delle rispettive posizioni di potere. Per molti paesi ciò può comportare rischi di frattura della stessa unità nazionale, come insegna la vicenda della ex Jugoslavia e dell'ex blocco sovietico. I rapporti di forza tra i diversi settori della borghesia mondiale sono destinati a profondi mutamenti e pertanto a generare, per un lungo periodo di tempo, un inasprimento della tensione e dei conflitti, con evidenti riflessi sugli stessi processi di mondializzazione dell'economia che potranno rallentare, quando non addirittura bloccarsi" (Prometeo n. 10, “Lo Stato a due dimensioni: la mondializzazione dell’economia e lo Stato”).
Bisogna dire che si é un tantino sconcertati nello scoprire che le tensioni imperialiste, il crollo delle nazioni, la guerra nella ex Jugoslavia, non si spiegano con la decadenza e la decomposizione del capitalismo, con l'aggravarsi della sua crisi storica, ma che sarebbero dei fenomeni interni al processo di "mondializzazione"! BC qui scivola dal quadro di analisi proprio alla Sinistra Comunista (decadenza e crisi storica del capitalismo) al quadro ideologico borghese della "mondializzazione". E' per contro essenziale che i gruppi della Sinistra Comunista non cedano a queste mistificazioni e mantengano fermamente la posizione rivoluzionaria, che afferma che nella decadenza, e più concretamente nel periodo di crisi aperta a partire dalla fine degli anni '60, i diversi tentativi del capitalismo di frenare il suo degrado non hanno prodotto alcun cambiamento reale, ma unicamente ed esclusivamente un aggravarsi ed accelerarsi del degrado stesso (7). Nella nostra risposta al BIPR nella Révue Internationale n.82, affermiamo chiaramente che noi non vogliamo ignorare questi tentativi, vogliamo al contrario analizzarli nel quadro delle posizioni della Sinistra Comunista, ma senza abboccare all'amo che di volta in volta ci tende la borghesia.
“Mondializzazione” e Stato nazionale
Il rischio insito nelle contraddizioni di BC appare in tutta la sua gravità a proposito del ruolo degli Stati nazionali, che in seguito alla "mondializzazione" sarebbe profondamente alterato ed indebolito. BC non arriva certo a sostenere, come il samurai Kenichi Ohmae, che lo Stato nazionale sia in caduta libera, ed infatti mantiene tutta una serie di discriminanti che noi condividiamo:
‑ lo Stato nazionale conserva la stessa natura di classe;
‑ é un fattore attivo dei "cambiamenti" in atto nel capitalismo odierno;
‑ non é entrato in crisi.
Ciononostante si afferma: "Sicuramente uno degli aspetti più interessanti della mondializzazione dell'economia (..) é dato dalla tendenza all'integrazione trasversale e transnazionale di grandi concentrazioni industriali che per dimensioni e potere superano di gran lunga quello degli Stati nazionali." (Prometeo n° 10).
Ciò che si può dedurre da questi "aspetti interessanti" é che nel capitalismo esisterebbero delle entità superiori agli Stati nazionali, i famosi monopoli "transnazionali". Si tratta di una vecchia tesi revisionista che si oppone al principio marxista per cui l'unità suprema del capitalismo é rappresentata dallo Stato, dal capitale nazionale. Il capitalismo non può superare il quadro della nazione, ancor meno diventare internazionalista. Il suo "internazionalismo", come abbiamo visto, consiste nella pretesa di dominare le nazioni rivali o di conquistare la fetta più grande possibile del mercato mondiale.
Nell'editoriale di Prometeo n. 9 vediamo confermata questa revisione del marxismo: “Le multinazionali produttive e/o finanziarie superano per potenza e per interessi economici in gioco le varie formazioni statali che attraversano. Il fatto che le banche centrali dei diversi stati non siano in grado di reggere e contrastare le ondate speculative che un pugno di mostruosi gruppi finanziari scatenano giornalmente, dice molto del mutato rapporto fra gli stati stessi”.
Dobbiamo ricordare che questi poveri Stati impotenti sono appunto quelli che possiedono (o quantomeno controllano completamente) questi giganti finanziari? É' proprio necessario rivelare a BC che questo "pugno di mostri" é costituito da "rispettabili" istituzioni bancarie i cui responsabili sono nominati direttamente o indirettamente dai rispettivi Stati nazionali?
Non solo BC abbocca all'amo di questa pretesa opposizione fra Stati e multinazionali, ma va ancora più lontano e scopre che: “per questa ragione capitali sempre più grandi... hanno dato luogo alla nascita di colossi che controllano ormai l’intera economia mondiale. Basti pensare che mentre dagli anni trenta fino a tutti gli anni settanta, i cosiddetti Big Three, ovvero le tre più grandi imprese del mondo erano tre case automobilistiche: le statunitensi General Motors, Chrysler e Ford; oggi sono tre fondi pensioni anche essi statunitensi: Fidelity Investments, Vanguard group e Capital Research & Mamagement. Il potere accumulato da queste società finanziarie è immenso e travalica di gran lunga quello dei singoli stati che di fatto hanno perduto negli ultimi dieci anni qualunque capacità di controllo dell’economia mondiale” (Prometeo n° 9).
Vale la pena di ricordare che durante gli anni '70 il mito delle famose multinazionali andava fortissimo: gli extraparlamentari ci ripetevano continuamente che il capitale era "transnazionale" e che per questo la "grande rivendicazione" operaia doveva essere la difesa dell'autonomia nazionale contro un "pugno di apolidi". Battaglia, ovviamente, si contrappone con forza a simili mistificazioni, ma, in qualche modo, ne ammette una giustificazione "teorica", nella misura in cui riconosce la possibilità di un'opposizione, o quanto meno di una divergenza di fondo di interessi tra Stati e monopoli "trasversali agli Stati nazionali" (per usare la definizione della stessa BC).
In realtà le multinazionali sono strumenti dei loro Stati nazionali. IBM, General Motors, Exxon, etc. sono controllate con tutta una serie di fili dallo Stato americano: una percentuale importante della loro produzione (il 40% per l'IBM) é acquistata direttamente dallo Stato, che influisce direttamente o indirettamente sulla nomina dei direttori (8). Una copia di ogni nuovo prototipo informatico é obbligatoriamente inviata al Pentagono. E' proprio incredibile che BC abbocchi alla menzogna del superpotere planetario costituito dai primi tre Fondi di Investimento. In primo luogo le società di investimento non hanno un'autonomia reale, ma sono strumenti delle banche, delle casse di risparmio e di varie propaggini statali, come i sindacati, le casse di previdenza, etc. In secondo luogo, sono sottomesse ad una stretta regolamentazione da parte dello Stato, che fissa le percentuali che debbono investire in azioni, obbligazioni, buoni del Tesoro, titoli esteri, etc.
“Mondializzazione” e capitalismo di Stato
Tutto questo ci porta alla questione essenziale, quella del capitalismo di Stato. Uno dei tratti essenziali del capitalismo decadente risiede nella concentrazione del capitale nelle mani dello Stato, che diventa l'entità intorno alla quale ogni capitale nazionale si organizza per lo scontro, tanto contro il proprio proletariato che contro gli altri capitali nazionali. Gli Stati non sono strumenti delle imprese, per grandi che queste ultime possano essere. Nel capitalismo decadente é esattamente il contrario a verificarsi: i grandi monopoli, le banche si sottomettono ai diktat dello Stato e ne assecondano il più possibile gli orientamenti. L'esistenza nel capitalismo di poteri sovranazionali che “attraversano" gli Stati e gli ordinano la politica da seguire é impossibile. Al contrario, le multinazionali sono utilizzate dai rispettivi Stati come strumenti al servizio dei loro interessi commerciali ed imperialisti. Sia chiaro che noi non vogliamo assolutamente dire che grandi imprese come la Ford o la Exxon siano pure e semplici marionette nelle mani dei loro Stati. E' certamente vero che cercano di promuovere e difendere i loro interessi particolari, i quali, a volte, possono entrare in contraddizione con quelli del loro Stato. Ma é anche vero che nel capitalismo di Stato "alla occidentale" si é realizzata una reale fusione fra capitale privato e statale, in modo che globalmente, al di là dei conflitti e delle contraddizioni interne che non possono mancare, essi agiscono sempre in modo coerente in difesa degli interessi nazionali del capitale e sotto la bandiera del loro Stato.
BC obietta che é difficile determinare a quale Stato appartenga, per esempio, la Shell (a capitale anglo‑olandese) o altre multinazionali ad azionariato misto. A parte il fatto che si tratta di casi abbastanza eccezionali, insignificanti a livello del capitale mondiale, il fatto fondamentale é che non sono i titoli di proprietà a determinare veramente chi controlla una compagnia. Nel capitalismo di Stato, é lo Stato che dirige e determina il funzionamento delle imprese, anche se non ne detiene ufficialmente neanche un'azione. E' lui che regola i prezzi, i contratti collettivi, i tassi di esportazione, i tassi di produzione, etc. E' lui che condiziona le vendite delle imprese, di cui é spesso il principale cliente. E' lui che tiene le cose in pugno e, attraverso la politica monetaria, creditizia e fiscale, dirige l'evoluzione del "libero mercato". Battaglia trascura questo aspetto essenziale dell'analisi marxista sulla decadenza del capitalismo e preferisce restare fedele ad un aspetto parziale dello sforzo di Lenin ed altri rivoluzionari della sua epoca per comprendere tutta l'ampiezza della questione dell'imperialismo: la teoria sul capitale finanziario, che Lenin riprese dall' "austro‑marxista" Hilferding. Nel suo libro sull'argomento, Lenin individua chiaramente l'imperialismo come fase decadente del capitalismo, ciò che mette all'ordine del giorno la rivoluzione proletaria. Purtroppo lo caratterizza sulla base dello sviluppo del capitale finanziario come mostro parassita emergente dal processo di concentrazione del capitale, ulteriore fase di sviluppo dei monopoli.
Ma in realtà: "... numerosi aspetti della definizione di Lenin dell'imperialismo oggi sono inadeguati, ed alcuni lo erano anche nel momento in cui furono elaborati. Nei fatti il periodo in cui il capitale sembrava essere dominato da un'oligarchia del "capitale finanziario e dai 'cartelli dei monopoli internazionali" cedeva già il passo ad una nuova fase nel corso della prima guerra mondiale, l’era del capitalismo di Stato, dell'economia di guerra permanente. In un'epoca di continue rivalità interimperialiste sul mercato mondiale, il capitale tende tutto a concentrarsi intorno all'apparato di Stato che sottomette e disciplina ai bisogni della sopravvivenza militare/economica tutte le frazioni particolari del capitale." ("Sull'imperialismo", Révue Internationale n° 19, 1979.
Quello che in Lenin era un errore legato al difficile processo di comprensione dell'imperialismo, nelle mani di BC rischia di diventare una pericolosa aberrazione. In primo luogo, la teoria della "concentrazione in super monopoli transnazionali" va nella direzione opposta alla posizione marxista sulla concentrazione nazionale del capitale in seno allo Stato, sulla tendenza al capitalismo di Stato, a cui partecipano tutte le frazioni della borghesia, quali che siano i loro legami e ramificazioni a livello internazionale. In secondo luogo, questa teoria apre uno spiraglio verso la teoria del "super‑imperalismo" di Kautsky. In effetti, é sorprendente che BC critichi la teoria kautskiana solo per l'illusione di superare l'anarchia della produzione, senza criticarla sull'essenziale: l'illusione che il capitale possa unirsi al di sopra delle barriere nazionali. Questa critica parziale si spiega col fatto che Battaglia ammette l'esistenza di unità sopranazionali, anche se rigetta, giustamente, la tesi estrema della "fusione delle nazioni". In terzo luogo, Battaglia sviluppa l'idea che lo Stato nel quadro della "mondializzazione" avrebbe due dimensioni: una in difesa degli interessi multinazionali, e l'altra subordinata, al servizio degli interessi nazionali: "Si va delineando in maniera sempre più marcata uno Stato che articola il suo intervento nel mondo dell'economia su due livelli: uno che afferisce al centro sovranazionale preposto alla gestione centralizzata della massa monetaria ed alla determinazione delle variabili macroeconomiche per l'area valutaria di riferimento, ed uno locale di controllo della compatibilità di queste ultime con quelle nazionali" (Prometeo n° 10).
Battaglia fa veramente camminare il mondo sulla testa! Basta osservare le peripezie dell'Unione Europea per convincersi del contrario: ogni Stato nazionale pensa esclusivamente agli interessi del proprio capitale nazionale e non si comporta in alcun modo come una specie di "delegato" degli interessi "europei", come farebbero credere le formulazioni ambigue di BC. Lasciandosi trascinare dalle proprie speculazioni sugli interessi "transnazionali" questi compagni arrivano a conclusioni incredibili: i conflitti interimperialisti attuali non degenererebbero in guerra imperialista generalizzata perché, “... una volta scomparso il confronto tra blocco dell’Ovest e blocco dell’Est per implosione di quest’ultimo, non sono precisati con chiarezza i fondamenti di un nuovo confronto strategico. Gli interessi strategici dei grandi e veri centri del potere economico non si sono finora espressi in confronto strategico tra Stati, perché agiscono trasversalmente a questi” (Prometeo n° 9).
Questa é una confusione veramente grave. La guerra imperialista non sarebbe più uno scontro fra capitali nazionali armati fino ai denti (secondo la definizione di Lenin), bensì fra gruppi transnazionali che si servirebbero degli Stati nazionali. Questi ultimi non sarebbero più i protagonisti e responsabili della guerra, ma semplici agenti di mostri transnazionali che "li attraverserebbero". E' una fortuna che BC non vada fino in fondo in questa aberrazione. E' una fortuna, perché questo la condurrebbe a sostenere che la lotta proletaria contro la guerra imperialista non deve essere più lotta contro gli Stati nazionali, ma lotta per "liberare" questi ultimi dall'abbraccio degli interessi transnazionali. Che é poi quello che già dicono i demagoghi dell'estrema sinistra più o meno extraparlamentare.
Su queste cose bisogna essere seri e Battaglia deve essere coerente con il quadro di posizioni della Sinistra Comunista, facendo una critica a fondo delle sue speculazioni sui monopoli ed i mostri finanziari. Deve radicalmente eliminare dalle sue parole d'ordine aberrazioni come “si inaugura una nuova era caratterizzata dalla dittatura del mercato finanziario” (Prometeo n° 9). Queste debolezze prestano il fianco alla penetrazione di mistificazioni borghesi come la "mondializzazione" o come le pretese alternative fra interessi nazionali ed interessi transnazionali, fra Maastricht e gli interessi popolari, tra il Trattato per il Libero Commercio e gli interessi dei popoli oppressi.
Tutto questo potrebbe condurre BC a difendere qualcuna fra le tesi e le mistificazioni della classe dominante, contribuendo così all'indebolimento della coscienza e della lotta operaia. E' non é sicuramente questo il ruolo di un'organizzazione rivoluzionaria del proletariato.
Adalen
1) Annuario Mondiale l996, "Impiego ed ineguaglianza".
2) "Questo sviluppo economico non può non influenzare in tempi brevi la produzione dei paesi più industrializzati, i cui Stati si indignano delle pratiche commerciali "sleali" di queste economie emergenti" ("Risoluzione sulla situazione internazionale", Rivista internazionale n° 19)
3) Annuario Mondiale l996, "Cosa cambierà con l'OMC"
4) K. Ohmae, "Lo sviluppo delle economie regionali".
5) Prometeo n.9, "I capitali contro il capitale".
6) N. Buckarin, "L'economia mondiale e l'imperialismo".
7) La desolante incoerenza di BC appare chiaramente quando dichiara; “In realtà il capitalismo è sempre uguale a se stesso e non sta facendo altro che organizzarsi in chiave di autoconservazione secondo le linee di sviluppo dettate dalla legge della caduta tendenziale del saggio medio del profitto”. Prometeo n.9.
8) Molti uomini politici americani, ma anche europei, dopo aver occupato posti al Senato o nell'amministrazione statale, diventano dirigenti delle grandi multinazionali.