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L'anarchia ed il caos che caretterizzano oggi i rapporti tra le frazioni della borghesia, in particolare a livello internazionale, non sono solo il risultato del terremoto, costituito dal crollo del blocco dell'Est. Questo disfacimento ancora in corso, come mostrano i recenti eventi nella regione caucasica, non è - esso stesso - che una manifestazione di una realtà più profonda, la stessa realtà che spiega la guerra nella ex-Yugoslavia o i 900.000 ruandesi che marciscono nei campi profughi nello Zaire: la decadenza avanzata del capitalismo, la sua decomposizione come sistema storico.
Quando un sistema sociale entra nella sua fase di decadenza, cioè quando le leggi, i rapporti sociali di produzione che lo caratterizzano sono divenuti obsoleti, inadatti alle possibilità e alle necessità della società, la stessa base dei profitti e dei privilegi della classe dominante si riduce e si indebolisce a sua volta. La coesione della classe dominante tende allora a disgregarsi in una infinità di conflitti di interessi in ogni senso. Come animali selvatici sempre più affamati, che non possono sopravvivere che a spese degli altri, le frazioni sempre più numerose della classe al potere si dilaniano tra loro, distruggendo la civilizzazione che avevano contribuito a costruire. Come le molteplici armate della Roma decadente facevano cadere in rovina con i loro continui conflitti i resti dell'Impero in decomposizione, come i signori feudali del basso Medioevo distruggevano degli interi raccolti con i loro conflitti locali permanenti, così le potenze imperialiste del nostro secolo hanno fatto patire all'umanità le peggiori distruzioni della sua storia. I mezzi e le dimensioni del dramma sono cambiati. Le catapulte fatte di legno e di pelle di animali hanno lasciato il posto ai missili autoguidati e il campo di battaglia ha preso le dimensioni dell'intero pianeta. Ma la natura del fenomeno è la stessa. La società si autodistrugge in un caos indescrivibile, prigioniera di rapporti economici, sociali divenuti troppo stretti. Oggi, tuttavia, è l'esistenza stessa della umanità che è in gioco.
Le forze della disgregazione all'opera
Per misurare la dimensione del caos dominante oggi al livello dei rapporti internazionali, si possono distinguere due aspetti. Vi è da una parte un caos generale, "ordinario", onnipresente ed in piena espansione; dall'altra, all'interno di questo, vi sono degli antagonismi più importanti, espressione della tendenza alla ricostituzione di "blocchi" o di alleanze e che segnano delle linee di forza più determinanti: questo è il caso dell'antagonismo che oppone gli Stati Uniti, vecchio capo del blocco, alla Germania riunificata, che si candida al ruolo di capo di un nuovo blocco.
Il caos ordinario
Più i governi organizzano delle riunioni internazionali, dei summit tra responsabili delle grandi potenze, e più scoppiano in maniera aperta le divisioni. Le organizzazioni internazionali, sia che si tratti dell'ONU, della NATO, della CSCE, della UE, etc. appaiono sempre più come mascherate grottesche e impotenti, in cui solo il cinismo prevale sull'ipocrisia. I massmedia si compiacciono a piagnucolare sulle "incomprensioni" tra i paesi membri, sulle "divergenze di metodo" che paralizzano questi templi del "accordo delle nazioni". Ma la realtà dei rapporti internazionali è quella del regno di "tutti contro tutti". Ogni paese è costantemente combattuto tra la necessità di difendere i suoi interessi contro quelli degli altri e, simultaneamente, la necessità di alleanze per poter sopravvivere in una guerra sempre più irrazionale e spietata. I milioni di vittime che questi antagonismi,ogni anno, provocano ai quattro angoli del pianeta non fermano il gioco al massacro al quale si dedicano i capitali nazionali e, in primo luogo, le grandi potenze.
Gli ultimi mesi del 1994 sono stati ricchi di nuove manifestazioni di questo caos frenetico in cui le alleanze si fanno e si disfano in una instabilità sempre maggiore.
Il segno più tangibile che rivela oggi l'importanza e la profondità di questa instabilità si trova nella evoluzione attuale dei rapporti tra gli Stati Uniti e la Gran Bretagna. Quello che sembrava un riferimento immutabile nei rapporti internazionali, conosce i suoi momenti più difficli dal 1956, all'epoca della crisi del canale di Suez. The Economist, nel suo supplemento annuale, parla di "una amicizia che sfuma". Un rapporto del Pentagono, nello stesso senso, accusa la Francia di favorire la guerra in Jugoslavia per inasprire i rapporti tra gli Stati Uniti e la Gran Bretagna.
In un summit ordinario a Chartes, nell'ottobre 1994, la Gran Bretagna e la Francia decidono la realizzazione di un "gruppo di forze aeree combinate" e di una iniziativa comune volte ad incoraggiare la creazione di una forza interafricana di intervento che agirebbe nel quadro del "mantenimento della pace" nell' Africa, anglofona o francofona. Gli inglesi non considerano più l'Unione Europea come "un sottomarino dei Francesi in seno alla NATO" ed i giornalisti insistono sulla forza che rappresenta l'alleanza delle due sole potenze nucleari d'Europa.
Così, oggi, la Gran Bretagna non fa che allontanarsi dagli Stati Uniti; essa cerca di adottare, per difendere i suoi propri interessi, delle politiche che sono apertamente in contrasto con questi, come si può constatare in Africa e soprattutto nei Balcani.
L'alleanza americano-russa, altro pilastro della costruzione del "nuovo ordine mondiale", è stata messa anch'essa a dura prova. La questione dell'allargamento della NATO verso i paesi che facevano prima parte del blocco dell'URSS (ciò che la Russia chiame il suo "estero vicino"), in particolare la Polonia e la Repubblica ceca, diventa giorno dopo giorno il pomo di discordia maggiore tra le due potenze. "Nessun paese terzo può dettare le condizioni di allargamento della NATO", ha risposto seccamente un funzionario americano alle proteste della Russia.
L'asse franco-tedesco, colonna vertebrale dell'Unione europea, si vede a sua volta messo in discussione : "Noi siamo ad anni luce dalla posizione tedesca", dichiarava un funzionario francese per riassumere l'opposizione francese ad ogni "comunitarizzazione" della politica estera e della sicurezza della UE. La Francia teme che l'Europa diventi semplicemente un "super-Stato tedesco". D'altronde la Germania paventa fortemente un'alleanza franco-britannica nel 1995 contro la visione di una Europa federale alla tedesca e che non avrebbe altro obiettivo che controbilanciare le aspirazioni egemoniche di Bonn.
Oggi la coesione dei grandi blocchi della guerra fredda appare come un lontano ricordo di unità e di ordine, tanto il "concerto delle nazioni" è divenuto una cacofonia barbara. Una cacofonia che ha il volto delle 500.000 vittime del genocidio ruandese, dei milioni di cadaveri che, dalla Cambogia all'Angola, dal Messico all'Afghanistan, insanguinano il pianeta.
All'interno di questo processo di disgregazione, l'implosione dell'ex-URSS non è ancora completata. La federazione della Russia, che veniva considerata l'ultima spiaggia contro le forze centrifughe che avevano fatto scoppiare il vecchio impero, si trova confrontato a queste stesse forze al suo interno, nelle piccola repubblica di Abkhazia, nella repubblica del Tataristan ... in totale in più di una dozzina di regioni. L'intervento massiccio dell'esercito russo in Cecenia (1) traduce la volontà di una parte della classe dominante russa di mettere un freno a queste tendenze che continuano a disgregare ciò che era, appena cinque anni fa, la potenza imperialista capace di rivaleggiare con gli Stati Uniti.
Ma il grado raggiunto dalla decomposizione nella ex-URSS è tale che questa operazione di "ristabilimento dell'ordine" è sul punto di trasformarsi in una nuova fonte di caos interno.
Sul posto, la resistenza all'intervento russo è stata più violenta e "popolare" del previsto. E' in una atmosfera di isterismo nazionalista e anti-russo generalizzato nella popolazione che il presidente della Cecenia, Dudaiev, ha potuto esclamare, al momento dell'inizio dell'avanzata dell'esercito russo: "Il suolo deve bruciare sotto i loro piedi! E' una guerra a morte!" . Il presidente della repubblica russa di Ingoucenia, altra repubblica caucasica, vicina alla Cecenia, ha minacciato l' estensione del conflitto proclamando: "La guerra del Caucaso é cominciata!".
Fin dai primi scontri, i russi hanno incontrato una viva resistenza che ha inflitto loro rapidamente delle serie perdite in uomini e materiale.
Ma soprattutto, questa operazione ha provocato una nuova frattura nella classe dirigente russa, già molto divisa. Sul terreno, fin dall'inizio, uno dei generali russi (Ivan Babitchev) rifiuta di avanzare sulla capitale Grozny e fraternizza con la popolazione cecena : "Non è colpa nostra se siamo qui. Questa operazione è in contrasto con la Costituzione. E' vietato utilizzare l'esercito contro il popolo." Nel momento in cui scriviamo, molti altri generali si sarebbero localmente collegati a questo movimento di contestazione.
A Mosca, le divisioni sono altrettanto drammatiche. "Oggi in Russia vi sono due conflitti per la Cecenia, uno nel Caucaso e un altro, più pericoloso, a Mosca.", dichiarava all'inizio dell'operazione Emile Paine, uno dei consiglieri di Boris Eltsin. In effetti, contro l'intervento si proclamano sia dei militari "prestigiosi" che il vecchio primo ministro di Eltsin, Egor Gaidar o anche Gorbaciov...
Per il presidente Clinton, la crisi in Cecenia è un "problema interno" e per Willy Claes, Segretario Generale della NATO, "un affare interno". "Non è negli interessi (degli Stati Uniti) nè certo in quelli della Russia avere una Russia in disgregazione" ha dichiarato Warren Christopher alla televisione, il 14 dicembre, mostrando l'inquietudine profonda della borghesia americana rispetto ai problemi del suo alleato.
Ma il problema non è così "interno" come lo si vuol far credere. Da una parte perchè la Cecenia gode di una certa simpatia da parte delle forze straniere, in particolare della vicina Turchia e, probabilmente, della Germania. D'altra parte perchè questa situazione non è che una manifestazione spettacolare di un processo mondiale.
Questo imputridimento drammatico della situazione in Russia non è solo, come pretendono i discorsi "liberali", la conseguenza dei danni fatti dallo stalinismo (mistificatoriamente identificato con il comunismo); non è una specificità dell'Europa orientale. La Russia non è che uno dei luoghi in cui la decomposizione generalizzata del capitalismo mondiale è più avanzata.
Le tendenze alla ricostituzione dei blocchi
Un insieme di briganti imperialisti non può esistere senza la tendenza alla costituzione di bande e di capi banda. I numerosi conflitti che oppongono le nazioni capitaliste tendono inevitabilmente a strutturarsi secondo gli antagonismi che oppongono i più potenti. E tra questi antagonismi, quello che oppone i due principali boss influenza tutti gli altri: l'opposizione tra gli Stati Uniti e la Germania riunificata, tra il vecchio capo del blocco occidentale e il solo serio pretendente a costituire la testa di un nuovo blocco. Questo conflitto si manifesta nella vita politica di numerosi paesi.
Il summit dell'Organizzazione della Conferenza Islamica, per esempio, tenuto a Casablanca (dicembre 1994) non ha potuto evitare di diventare un attacco dei paesi islamici alleati degli Stati Uniti contro quelli che si riavvicinano all'Europa. Fin dall'inizio lo schieramento condotto da Hassan II del Marocco (punta di lancia riconosciuta della diplomazia americana) e Moubarak d'Egitto (il paese nel mondo che, dopo Israele, riceve il più grosso aiuto americano), ha polemizzato con "certi Stati islamici" che appoggiano i terroristi, che "hanno venduto la loro anima al demonio", cioè all'Iran e al Sudan, i cui legami con le potenze europee sono noti.
In Messico, nello Stato del Chiapas, dove si trovano gli Zapatisti, vi sono due governatori: uno del PRI, il partito al governo in Messico dal 1929, che ha sempre saputo agire in stretta alleanza con il grande fratello "yankee" pur servendosi di un linguaggio "anti-imperialista"; l'altro, Avendano, il governatore alleato degli Zapatisti, che rifiuta di riconoscere l'elezione del candidato del PRI a causa delle frodi, e controlla un terzo dei comuni della provincia. Quest'ultimo dichiara che solo l'Europa può dargli l'appoggio necessario per trionfare.
Nella stessa Europa, la questione della scelta tra l'opzione americana e l'opzione tedesco-europea lacera le classi dominanti. In Gran Bretagna, in seno al partito al potere, da tempo permane un braccio di ferro che si è recentemente concretizzato nel fatto che gli "euroscettici" hanno messo praticamente Major in minoranza alla camera dei Comuni sulla questione dei contributi da versare all'Unione Europea. Major sta pensando alla possibilità di un referendum sulla questione.
In Italia, paese per molto tempo definito "la portaaerei degli Stati Uniti in Europa", ma anche uno dei pilastri della Unione Europea, la guerra tra i due campi scuote la classe politica, anche se la vera posta in gioco resta per lo più mascherata. Carlo de Benedetti non ha tuttavia avuto timore di attaccare il governo di Berlusconi (pro-americano) in termini espliciti: "l'Italia si allontana dall'Europa ed entra in una spirale distruttiva". E' questa opposizione di fondo che è la prima ragione dell'instabilità governativa in cui è tuffato questo paese.
In Francia, la classe politica, in piena campagna elettorale presidenziale, vive tante profonde divisioni in questo canpo, in particolare tra i partiti della maggioranza governativa. Ed è a colpo di scandali e di arresti di uomini politici che si regolano i contrasti.
Poichè non hanno questo tipo di scelta da fare, solo le borghesie tedesca e americana sembrano un pochino coerenti per quel che riguarda la loro politica internazionale, anche se non senza difficoltà.
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Dopo il crollo dell'URSS, la Germania ha fatto grossi passi in avanti sul piano internazionale: oltre alla sua riunificazione, essa ha sviluppato con sicurezza la sua zona di influenza sui paesi dell'Europa centrale, vecchi membri del blocco dell'Est; ha intensificato i suoi legami con dei paesi molto importanti strategicamente come la Turchia o l'Iran, e la Malesia; essa ha proseguito nella costruzione e l'allargamento della Unione Europea con l'integrazione di nuovi paesi che le sono particolarmente vicini, come l'Austria; nella ex-Yugoslavia, ha imposto il riconosciemnto internazionale della Slovenia e della Croazia, suoi alleati, che le aprono un accesso al Mediterraneo. La nuova Germania riunificata si è così affermata senza equivoci come il solo candidato credibile alla costituzione di un blocco antagonista a quello degli USA.
La politica internazionale americana si caratterizza con una offensiva che ha due dimensioni principali: da una parte, preservare la posizione dominante del capitale americano; dall'altra, distruggere sistematicamente le posizioni dei nuovi rivali europei. Gli Stati Uniti riaffermano la loro posizione di prima potenza facendo ricorso a delle operazioni militari spettacolari, che costringono spesso i vecchi alleati a schierarsi dietro di loro (guerra del Golfo del 1991, intervento in Somalia, invasione di Haiti, nuova operazione nel Golfo nell'ottobre 1994, ecc.); col mantenere in piedi degli organismi internazionali concepiti alla fine della II guerra mondiale, per assicurare il loro controllo sugli alleati, come la NATO, senza d'altronde ingannare i principali interessati ("Più che mai gli Stati Uniti vogliono fare della Nato una succursale del dipartimento di Stato e del Pentagono" - dichiarava recentemente un diplomatico francese (2); con il consolidare e tenere ben strette le proprie zone di influenza più vicine attraverso la creazione di "zone di libero scambio", come il NAFTA che raggruppa gli Stati Uniti, il Canada ed il Messico, o i progetti di nuovi accordi per raggruppare tutta la zona del Pacifico o la totalità del continente americano (durante il mese di dicembre 1994, Clinton ha convocato successivamente, in Malesia poi a Miami, due summit spettacolari di capi di Stato, destinati a promuovere questi progetti).
Parallelamente gli Stati Uniti attaccano metodicamente le zone di influenza dei vecchi "alleati" europei, in particolare quelle delle ex-potenze coloniali e principali forze militari del continente: la Francia, e la Gran Bretagna. Gli Stati Uniti hanno così cacciato la Francia dal Libano, dall'Irak, dal Ruanda. Minacciano fortemente le sue posizioni negli altri paesi dell'Africa nera e magrebina (in particolare l'Algeria, dove appoggiano delle frazioni del movimento islamico). Hanno inoltre reso più debole la posizione della Gran Bretagna in alcune delle sue vecchie riserve di caccia, come l'Africa del sud e il Kuwait.
Se i blocchi costituiti nel fuoco dell'ultima guerra mondiale sono stati per decenni dei fattori di relativa stabilità, perlomeno al loro interno, oggi la lotta per la costituzione di nuovi blocchi si rivela al contrario uno dei principali fattori di instabilità e di caos.
La decomposizione delle relazioni internazionali nel capitalismo decadente della fine del 20° secolo assume le forme del trionfo di "tutti contro tutti" e dell'accentuarsi della legge del più forte.
La guerra nella ex-Yugoslavia costituisce il focolaio degli scontri più significativo del periodo. 250.000 persone uccise, un milione di feriti a poche centinaia di chilometri dai grandi centri industriali dell'Europa; quattordici paesi militarmente presenti dietro le bandiere delle Nazioni Unite (3); cinque grandi potenze (Stati Uniti, Russia, Germania, Francia, Gran Bretagna) che utilizzano le molteplici divisioni della classe dominante locale, acuite dal crollo dell'URSS, per farne un campo di battaglia (in cui la carne da cannone è essenzialmente autoctona) e che, dall'alto del loro "gruppo di contatto", tirano le fila dell'evolversi dei rapporti di forza in campo.
Chi è dietro chi nella ex-Yugoslavia?
"So che l'opera della Forpronu era discutibile. Ma l'idea dell'ONU, organizzazione di pace al di sopra delle nazioni, mi piaceva molto. Io ero piuttosto naif . Ora, ho l'impressione che per cinque mesi ho aiutato i Serbi. Io ho l'intima convinzione che la Francia è dalla parte serba, che la Francia pensa che il casino nei Balcani sarebbe minore con la stabilità serba." (4)
Queste parole di un casco blu francese di 25 anni (5) riassumono bene il contrasto esistente tra le illusioni di coloro che credono ai discorsi dei loro governanti sulla Yugoslavia e la cruda realtà sul terreno.
Dacchè esistono le classi, per imbrigliare gli sfruttati nelle carneficine guerriere, le classi dominanti hanno sempre fatto ricorso alle menzogne e alle mistificazioni. Le religioni ed i loro preti sono così sempre stati il complemento indispensabile dei militari e dei responsabili politici. Nella nostra epoca, è il totalitarismo dei massmedia, l'indottrinamento delle masse, scientificamente organizzato in modo "dittatoriale" o sotto le forme più sofisticate della "democrazia", che gioca questo ruolo di reclutatore di carne da cannone e di giustificatore dei massacri. La guerra nella ex-Yugoslavia non fa eccezione alla regola. Ma raramente una guerra sarà stata coperta da una tale quantità di menzogne e di ipocrisia.
Le potenze implicate dichiarano tutte di volere la pace e la Forpronu si considera una "organizzazione di pace al di sopra delle nazioni". Ma tutte appoggiano, armano una delle parti impegnate sul campo, senza dirlo apertamente, cioè mostrandosi in pubblico ostili alla parte che in segreto esse sostengono. In realtà, dietro i discorsi umanitari e pacifisti, ogni potenza spinge alla guerra, non fosse altro che per intralciare le alleanze e i passi in avanti dei concorrenti. Così, per esempio, il Pentagono ha reso pubblico un rapporto secondo il quale la Francia tenta di far continuare il conflitto nella ex-Yugoslavia per inasprire i contrasti tra gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, il che è certamente vero; gli Stati Uniti e la Gran Bretagna hanno entrambi altrettanto interesse al proseguimento della guerra, al fine di acuire l'opposizione tra Francia e Germania; la Russia vi ritrova il riconoscimento del suo statuto di grande potenza e si permette di giocare utilizzando gli antagonismi che oppongono le potenze occidentali tra loro; quanto alla Germania, che ha messo il fuoco alle polveri con il suo appoggio all'indipendenza della Slovenia e della Croazia, essa non può volere la pace che quando vedrà le posizioni dei suoi alleati sul posto favorevolmente consolidate.
Il velo delle menzogne umanitarie e pacifiste si è un po' più lacerato recentemente in occasione dell'inizio dei grandi scontri per la sacca di Bihac. Questa zona, al nord della Bosnia, occupa un posto strategicamente importante, nel cuore della Krajina, quella parte della Croazia controllata dai serbi. E' importante per i bosniaci e per i serbi, ma essa è soprattutto cruciale per la Croazia (6). L'importanza della posta in gioco ha fatto venire alla luce, ancora più chiaramente del solito, in che modo le potenze internazionali partecipano alla guerra.
Gli Stati Uniti hanno platealmente incoraggiato l'esercito bosniaco a marciare su Bihac, togliendo unilateralmente l'embargo sulla vendita di armi a questo paese. Ciò ha sollevato un coro di proteste da parte delle altre potenze che tuttavia sanno tutte da molto tempo che Washington arma segretamente la Bosnia e le ha anche fornito dei "consiglieri militari". Il ministro francese degli affari esteri riassumeva la reazione generale dei membri della NATO contro le enormi libertà che si prende il primo dei boss : "Noi lamentiamo che un membro permanente del Consiglio di sicurezza abbia potuto unilateralmente esonerarsi dall'applicazione di una risoluzione che aveva votato e di decisioni prese di comune accordo in seno all'Alleanza" (7).
Ma l'atteggiamento dei francesi, come quello dei loro alleati del momento, i britannici, non è più conforme alle decisioni prese nelle conferenze diplomatiche. L'impressione del casco blu francese di avere "aiutato i Serbi", mentre si supponeva dovesse proteggere la popolazione civile contro questi ultimi, non è sbagliata. Due mesi fa, il governo francese aveva ritirato i suoi caschi blu dall'enclave di Bihac (furono rimpiazzati dalle inesperte truppe del Bangladesh) aprendo la porta ai futuri scontri. Per tutto il tempo dell'attacco dei Serbi, le truppe della Forpronu (dirette dai britannici e dai francesi) danno prova di una complice impotenza. Il 5dicembre, Izetbegovic, il presidente bosniaco, denuncia apertamente i Francesi e gli inglesi come "i protettori dei Serbi". Il senatore americano Robert Dole, futuro capo della maggioranza repubblicana al Senato, dichiara che, dall'inizio del conflitto, l'ONU non ha fatto che "aiutare gli agressori Serbi". Il governo croato denuncia Yashushi Akashi, il giapponese, rappresentante speciale del Segretario generale dell'ONU nella ex-Yugoslavia, come "pro-serbo" (8).
Di fronte a queste accuse ancora una volta i governi francese e britannico giocano a fare gli offesi e minacciano di ritirare le loro truppe. Gli Stati Uniti, che hanno sempre ripetuto di non potersi permettere di inviare un solo "ragazzo" nella terra Yugoslava, sembrano approfittare dell'occasione per dichiarare che, in questo caso, sarebbero pronti ad inviare 25.000 uomini per aiutare il ritiro della Forpronu. "E' a ciò che servono gli alleati", ha dichiarato un funzionario americano (9). E' da notare che la Germania si è affrettata anche essa ad offrire i suoi servigi, cioè i bombardieri Tornado, per contribuire alla partenza dei francesi e degli inglesi.
Gli eventi di Bihac hanno mostrato, ancora una volta, come gli americani appoggiano la Bosnia, ed i Francesi, con i britannici, i Serbi. L'atteggiamento degli Stati Uniti che dichiarano, da quando i Serbi sono entrati nella città di Bihac, : "i Serbi hanno vinto la guerra in Bosnia", mostra, d'altronde, che Washington non dimentica la Croazia ed il suo alleato tedesco. La posizione degli USA è chiara: i Croati devono accettare i rapporti di forza imposti dai Serbi, essi devono fare la pace con i Serbi della Krajina, cioè accettare che l'enclave di Bihac, così come il terzo dei territori croati che i Serbi hanno conquistato nella prima parte della guerra, restino nelle mani dei Serbi. Così, rispetto alla Germania, gli Stati Uniti utilizzano i Serbi. Il recente viaggio "privato" di Carter per discutere direttamente con i serbi di Bosnia ne è una prova.
Non vi è niente di "umanitario" nell'intervento delle grandi potenze nella ex-Yugoslavia. Non si tratta che di una guerra per i più sordidi interessi imperialisti. Una guerra che, contrariamente alle litanie ripetute da più di tre anni, è lungi dall'incamminarsi verso una conclusione pacifica: l'offensiva americana si è scontrata con una grossa resistenza, e ciò non può che essere fonte dell'intensificazione dei conflitti; d'altronde, la Croazia non ha ancora attuato le sue minacce di intervento, ma, se lo farà, la conflagrazione sarà ancora più generale.
Il capitalismo in decomposizione non può vivere senza guerre e le guerre non possono essere eliminate senza il rovesciamento del capitalismo.
E' vitale che il proletariato comprenda la vera natura di questa nuova guerra dei Balcani. Non per dilettarsi ad analizzare le strategie imperialiste in sè, ma per combattere il senso di impotenza che la borghesia cerca di instillare rispetto a questo conflitto. Comprendere il ruolo determinante che giocano le grandi potenze in questa guerra, significa comprendere che il proletariato dei paesi centrali ha la possibilità di fermare una tale follia. Che lui solo può offrire una via di uscita alla barbara situazione di stallo nella quale la decadenza del capitalismo spinge l'umanità e di cui la guerra nella ex-Yugoslavia non è che una delle manifestazioni più spettacolari.
RV, 27 dicembre 1994
1. Questa piccola repubblica della Federazione Russa (un milione e mezzo di abitanti, 13.000 chilometri quadrati) situata tra il Mar Nero ed il Mar Caspio, ricca di petrolio, tra-dizionale luogo di passaggio e di traffici di ogni tipo (armi, droga in particolare), organizzata in gran parte secondo il sistema di clan familiari con ramificazioni anche nelle gran-di città della Russia sotto forme mafiose, a maggioranza mussulmana, si è autoproclamata indipendente nel 1991. Questa indipendenza non è mai stata riconosciuta nè dalla Russia nè da altri. Dall'estate 1994, la Russia vi ha provocato una guerra civile, armando e sostenendo un movimento di rivolta della minoranza russa contro il regime di Dudaiev.
2. Libération, 1/12/1994.
3. Le forze del Forpronu in Yugoslavia contano 23.000 uomini in Bosnia-Erzegovina, con quasi 8.000 automezzi. Paesi partecipanti: Belgio, Canada, Danimarca, Stati Uniti, Spagna, Granbretagna, Francia, Italia, Paesi Bassi, Norvegia e Turchia, membri della Nato, ai quali bisogna aggiungere il Pakistan, il Bangladesh e l'Ucraina.
4. Libération, 13/12/1994.
5. Si tratta di un giovane che stava facendo il suo regolare servizio militare e che ha accettato di partire "volontario per l'azione estera", cioè contrattando un salario come mercenario. La borghesia delle principali potenze industriali occidentali non può ancora permettersi di inviare dei soldati di leva in una operazione militare perché non troverebbe d’accordo il proletariato.
6. Le autorità croate hanno dichiarato, dall'inizio degli scontri di Bihac, che non potrebbero accettare la caduta dell'enclave: "Noi abbiamo detto che se non vi è soluzione negoziata a Bihac, vista la sua importanza strategica, visto il numero dei rifugiati che rischia di riaggiungere il nostro paese, noi saremmo obbligati ad intervenire... L'occidente ci ha costretto a non intervenire fino ad oggi..." (Dichiarazioni di un alto funzionario croato, Le Monde, 29/11/94). "L'esercito croato è pronto per la guerra, ma ciò avverrà al momento propizio, tanto sul piano interno che internazionale." (Dichiarazione del comandante in capo dell'esercito croato, Liberation, 30/11/94).
7. Le Monde, 16/11/94.
8. Akashi si era già rivelato al momento della presa di Gorazde da parte dei Serbi nell'aprile 1994, con il suo rifiuto di ricorrere ai raid aerei per fermare l'offensiva serba.
9. International Herald Tribune, 9/12/94.