Dicembre 2010-gennaio 2011
La classe operaia in Italia, come nel resto del mondo, non ha minori motivi per essere arrabbiata. E ci sono segnali che indicano che questa rabbia sta prendendo una forma visibile, come ad esempio:
Il problema che devono affrontare i proletari è che queste ed altre lotte sono rimaste isolate. In Francia, la richiesta di abbandonare la riforma delle pensioni è stata ripresa da tutto il movimento, creando la possibilità di manifestazioni di massa non solo contro questo attacco, ma anche contro tutti gli altri che i padroni e lo Stato sono costretti ad imporre per la crisi economica. Questo non significa che i francesi siano all’alba della rivoluzione: anche lì lo Stato può contare sul suo apparato politico e sindacale per impedire una reale unificazione e di auto-organizzazione della lotta, nonostante i piccoli passi in quella direzione.
Nonostante la frammentazione delle lotte e il loro isolamento, non c’è dubbio tuttavia che l’attacco della borghesia sia rivolto a tutta la classe operaia, occupati, disoccupati, studenti, pensionati, lavoratori part time. C’è un disperato bisogno di mobilitazione in cui tutti possano identificarsi e partecipare.
In passato, i sindacati erano una forza che rappresentava gli interessi dei lavoratori nei confronti del capitale. Ma ormai a partire dall’inizio del secolo scorso i sindacati sono diventati parte delle forze dell’ordine, si sono fatti i difensori della sostenibilità delle rivendicazioni salariali e hanno finito per integrarsi nello Stato. La conseguenza è che oggi, per mantenere una credibilità nei confronti dei lavoratori, sono costretti a rispondere al loro malcontento chiamando a delle giornate di sciopero e di manifestazioni, ma facendo il possibile per mantenere gli scioperi divisi e senza risultati.
Se ci deve essere una risposta concreta al violento attacco dello Stato alle condizioni di vita dei lavoratori, sarà prima o poi necessario uscire dai canali ufficiali: i lavoratori dovranno farsi carico in prima persona delle proprie lotte, dovranno combattere insieme e manifestare insieme, raccogliendo le istanze comuni che possono portare le diverse parti della classe operaia nello stesso movimento.
Una tale risposta di massa non verrà fuori dal nulla: può essere preparata solo prendendo parte alle lotte esistenti, per quanto ostacolate dai sindacati possano essere. E’ fondamentale che coloro che vedono la necessità di un movimento veramente indipendente della classe lavoratrice comincino a mettere assieme le loro forze e le loro idee.
CCI, 14 dicembre 2010
Le lotte degli studenti universitari, con un’interessante eco nel mondo dei ricercatori e dei precari nonché delle scuole superiori, sono tornate ancora una volta, fragorose e vivissime come sempre, a riempire le cronache delle ultime settimane, innescate dalla discussione in parlamento sul cosiddetto decreto Gelmini, ma alimentate nel profondo dalla ricerca di un futuro che è stato negato a tutta l’attuale generazione di giovani. Le ragioni della protesta sono profonde: il mondo dell’istruzione, da momento propulsivo per la crescita di tutta la società, è diventato in anni di crisi economica una palla al piede per il governo che cerca tutte le occasioni per ridurre i costi di gestione del settore. Così, nel mondo universitario:
Come si vede, è tutto il sistema universitario che si sta mettendo in discussione e che scricchiola in maniera sempre più inquietante. Ed è altrettanto chiaro che gli studenti, che vivono sul piano sociale la crisi economica nelle loro famiglie e la crisi dell’istituzione universitaria nella loro vita quotidiana, sono fortemente angosciati da questa situazione sociale che non dà loro alcuna garanzia per il futuro. La loro lotta è perciò, come detto, per rivendicare un futuro che si vedono negato. Da questo punto di vista, come era già avvenuto per le lotte del 2008, queste lotte non hanno nulla di studentesco né sono i capricci di figli di papà che una volta erano i soli utenti degli studi superiori, ma esprimono viceversa la lotta di una generazione che non vuole essere emarginata, che reagisce al vuoto di prospettive di una società in crisi.
D’altra parte non è solo in Italia e solo ora che sorgono movimenti di questo tipo. Le lotte contro il contratto di primo impiego degli studenti francesi nel 2006[1], e poi quelle dell’Onda in Italia nel 2008[2], e successivamente in Germania[3], in Grecia, Spagna[4], fino alle recenti lotte in Irlanda[5] e Gran Bretagna[6] (dove la causa scatenante è stata l’aumento vertiginoso delle tasse universitarie: in Irlanda da 1500 a 2500 euro e in Gran Bretagna da 3000 a 9000 sterline!) sono tutte espressione di questo malessere sociale di una componente a pieno titolo proletaria. E che la natura del movimento sia proletaria si vede anche dalle manifestazioni di solidarietà che sono state espresse nel percorso di questo movimento, a partire da quella dei lavoratori e precari dell’università, che spesso si sono uniti alle stesse assemblee degli studenti, a quella dei precari della scuola, che l’hanno espressa per iscritto e nelle piazze, fino alla più recente manifestazione di solidarietà espressa dai lavoratori del S. Carlo nei confronti degli studenti napoletani caricati dalla polizia all’interno dello stesso teatro:
“Arrivati all'ingresso del teatro gli studenti hanno parlato con i lavoratori per chiedere di poter entrare per esporre uno striscione e per raccogliere la loro solidarietà: i tagli che ha subito l’Università rispondono alla stessa logica di quelli effettuati a tutto il settore culturale!” Ma, “incassata la solidarietà dei lavoratori (gli attori avevano addirittura fermato le prove per discutere assieme dei tagli alla cultura e all'università), la celere ha fatto irruzione nel teatro.”[7] Ma l’aspetto più importante è che le forze della repressione non sono riuscite a spezzare quella solidarietà che si stava costruendo attraverso il dibattito improvvisato, e che si è espresso sia in uno specifico comunicato da parte dei lavoratori del S. Carlo (I lavoratori del san Carlo e gli studenti tutti, che hanno partecipato alla manifestazione, DENUNCIANO CON FORZA, l'atto di violenza gratuita delle forze dell'ordine e chiedono il rilascio immediato dei ragazzi fermati di cui ad ora non si hanno notizie)[8] che attraverso delle prese di posizione personali. D’altra parte lo stesso movimento degli studenti, oltre a far giungere attestati di solidarietà nei confronti delle contestazioni di cui si stanno rendendo protagonisti gli universitari del Regno Unito, ha promosso svariate iniziative per rompere l’isolamento mediatico sulle lotte, utilizzando una politica nuova, quella dei flash mob[9], attraverso cui sono stati esposti striscioni sui principali monumenti di tutta Italia e, attraverso gli studenti Erasmus, anche in Europa.
Naturalmente non mancano le debolezze in questo movimento, come ad esempio una eccessiva polarizzazione sulle tematiche della riforma Gelmini, che si giustifica almeno per il fatto che è proprio adesso che questa è in discussione in parlamento, o ancora un certo atteggiamento naif nei confronti della sinistra, del sindacato e della FIOM in particolare, che passa attualmente in alcune parti del movimento come una struttura credibile. O ancora - ma non gliene possiamo fare una colpa - il fatto che non si è realizzato l’incontro tra le lotte degli studenti e quelle dei lavoratori, mancando in questo momento una dinamica di lotte aperte e di massa nei luoghi di lavoro. Ma, al di là di qualsivoglia debolezza possa essere presente in questo movimento, occorre guardarsi da posizioni come quella espressa da un giornalista[10] che fa un paragone tra il movimento studentesco del '68 e quello attuale, considerando il movimento del ‘68 come un movimento “rivoluzionario”, mentre quello attuale sarebbe solo un movimento riformatore, che riuscirà nel suo obiettivo proprio perché gli studenti oggi “non vogliono tutto”, ma solo “un cambio di marcia”. Ora, con tutti i meriti che possiamo attribuire alla generazione del ‘68, ed in particolare quella di aver interrotto con il prorompere nelle lotte di quegli anni la lunga controrivoluzione seguita alla sconfitta dell’ondata rivoluzionaria degli anni ’20, nonostante un lessico rivoluzionario e il continuo riferimento ai classici del marxismo, questa generazione non era pronta per la rivoluzione per il semplice motivo che questa era ancora confusa dal boom economico da cui proveniva e non aveva ancora maturato la necessità di un evento rivoluzionario. Viceversa la generazione attuale, nonostante le sue debolezze, è materialmente costretta a fare i conti con la realtà della crisi economica e dunque del sistema in cui vive, ponendosi il problema della necessità di un cambio storico nel sistema. Come abbiamo già detto, mentre “alla fine degli anni ’60, l’idea che la rivoluzione fosse possibile poteva essere relativamente diffusa, ma non quella della sua necessità. Oggi, al contrario, l’idea che la rivoluzione sia necessaria ha un impatto non trascurabile, ma non altrettanto quella della sua possibilità”. Ma la crisi e lo sviluppo delle lotte a livello internazionale stanno lavorando pazientemente a favore della causa del proletariato.
Ezechiele, 8 dicembre 2010
[1] Vedi Tesi sul movimento degli studenti della primavera 2006 in Francia [2], in www.internationalism.org [3], ICConline 2006.
[2] Vedi “Noi la crisi non la paghiamo!” [4] in www.internationalism.org [3], ICConline del 2008.
[3] Vedi Manifestazione di liceali e universitari in Germania: “Manifestiamo perché ci stanno rubando il nostro futuro” [5] in www.internationalism.org [3], ICConline del 2009.
[4] Vedi Grecia, Germania, Francia, Italia, Spagna … Le rivolte dei giovani confermano lo sviluppo della lotta di classe [6] in www.internationalism.org [3], ICConline del 2009.
[6] Vedi Student/worker demonstrations: We need to control our own struggles! [7] e Revolt in universities, colleges, schools: A beacon for the whole working class [8] in www.internationalism.org [3], ICConline (lingua inglese) del 2010.
[7] Dal comunicato degli studenti, riportato su Caricati gli studenti che protestavano al Teatro San Carlo contro i tagli alla cultura [9], https://www.flickr.com/photos/cau_napoli/sets/72157625515285532/ [10].
[8] Ancora in Caricati gli studenti che protestavano al Teatro San Carlo contro i tagli alla cultura [9]
[9] Dall’inglese flash: breve esperienza o in un lampo, e mob: folla: indica un gruppo di persone che si riunisce all’improvviso in uno spazio pubblico, mette in pratica un’azione insolita generalmente per un breve periodo di tempo per poi successivamente disperdersi. Il raduno viene generalmente organizzato attraverso comunicazioni via internet o tramite telefoni cellulari (da Wikipedia).
Il 9/10 ottobre 2010 a Milano, presso il circolo Arci Bellezza, si è tenuta un’importante riunione indetta da coordinamenti e lavoratori in lotta contro i licenziamenti e il precariato intitolata 2° Incontro Nazionale Autoconvocati in lotta contro la crisi - Stati generali della precarietà[1]. Di questa tendenza dei lavoratori a riunirsi e della convocazione di questa seconda riunione avevamo dato notizia nel numero scorso del nostro giornale[2].
Nel volantino di convocazione[3] si legge che “la crisi internazionale del capitalismo è tutt'altro che finita. Di conseguenza l’attacco senza precedenti alle nostre condizioni di lavoro e ai nostri salari si sta amplificando e portando alle estreme conseguenze.” …“in questa situazione di profonda sconfitta che stiamo attraversando (…) tutti noi lavoratori dobbiamo trovare la capacità di riunirci, di riorganizzarci in maniera autonoma e indipendente, per ricostruire la nostra capacità di organizzazione e resistenza e mettere efficacemente in discussione fino a rigettare i piani di ristrutturazione dei padroni.”
A questa riunione, dove si discutevano in contemporanea più aree tematiche[4] in diversi locali, hanno partecipato, secondo gli organizzatori, circa 500 persone. La sessione a cui abbiamo partecipato - Lavoratori uniti contro la crisi - vedeva un’enorme sala piena di lavoratori di molte città del centro e del nord Italia. Anche se non mancava la presenza di elementi del sindacato e del sindacalismo di base, finanche tra le firme del volantino di convocazione, nei fatti chi era presente interveniva come lavoratore, spinto dalla crisi economica e dal duro attacco della borghesia e dello Stato alle nostre condizioni di vita.
La discussione è stata introdotta da una presentazione sulla situazione economica e sociale molto interessante in cui si diceva tra l’altro che:
La discussione, che si è sviluppata successivamente con interventi ordinati di 10 minuti massimo a testa, ha ripreso sviluppandoli diversi dei punti della relazione introduttiva, arricchendo ognuno di questi con la passione e le sofferenze dei vari compagni che sono intervenuti. La discussione ha espresso il chiaro sentimento che non c’è possibilità di uscita dalla crisi, che non ci sono settori privilegiati, che gli attacchi prima o poi colpiranno tutti, ed ancora è emerso con altrettanta chiarezza che non c’è in generale granché da fidarsi dei sindacati, anche se sullo strumento del sindacalismo restano dei dubbi perché i proletari ancora non hanno preso coscienza della propria forza e della possibilità di prendere in mano la gestione della propria lotta.
Da qualche intervento è venuta fuori anche la necessità di andare oltre: non è abbastanza la denuncia della situazione presente, noi dobbiamo fare un salto qualitativo, oggi la lotta è per il lavoro e per vivere: “basta con i lavoratori che vanno sui tetti o che si suicidano!”
Come detto anche in un articolo precedente, questa tendenza a incontrarsi per confrontarsi e coordinarsi nell’azione a livello di tutto il territorio nazionale e tra lavoratori di tutte le categorie, disoccupati, precari, immigrati, studenti, ecc., costituisce in sé un elemento di grande forza e di incoraggiamento per tutti. La traiettoria finora seguita è la traiettoria vincente. Ma questo non significa che non ci siano debolezze nel percorso seguito e delle insidie poste sul cammino che stiamo percorrendo che è importante individuare.
La prima questione riguarda la richiesta ripetuta più e più volte di uno sciopero generale. Questa richiesta, ripresa in diversi interventi, era già presente nel volantino di convocazione:
“organizzare la partecipazione comune alla manifestazione del 16 ottobre a Roma per renderla una giornata di riorganizzazione e ricompattamento di tutta l’opposizione di classe nel nostro paese, per promuovere una mobilitazione dal basso, articolata e permanente fino all’autorganizzazione dello sciopero generale come momento finale e decisivo di una grande mobilitazione di massa dei lavoratori contro governo e padroni.”
Diciamo che noi, in prima battuta, abbiamo letto questa richiesta di sciopero generale anzitutto come il desiderio di tutti i proletari che l’hanno evocato di realizzare una unità nella lotta a livello territoriale e fra tutte le diverse categorie. Da questo punto di vista non si può che essere d’accordo con questa aspirazione. Dov’è dunque la debolezza? La debolezza non è di chi aspira a questo obiettivo parlando di sciopero generale, ma nel fatto che questa parola d’ordine può essere facilmente recuperata dai sindacati che usano questa carta per “addormentare” la lotta in attesa del fatidico sciopero generale che, quando arriva, finisce per essere una sfilata vuota e anonima. Di scioperi generali indetti, controllati e manovrati dai sindacati ne abbiamo visti a bizzeffe e non sono mai stati decisivi nel bloccare l’attacco dei padroni e dello Stato. Al contrario essi sono stati spesso l’atto finale, di chiusura di una ondata di lotte, come l’ultima arma da usare. E perciò vengono preparati con mesi di anticipo in modo tale che anche la controparte possa prepararsi, spostano l’attenzione sulla giornata fatale che si dimostra una grande passeggiata, una prova di forza del ... sindacato. Non dei lavoratori.
Un secondo elemento critico riguarda la parte conclusiva della riunione di Milano che, al di là dello spirito appassionato e assolutamente fraterno con cui si è svolta, ha espresso a nostro avviso una debolezza. Nella risoluzione finale[5] infatti non è stato ripreso il punto riguardante la crisi del capitalismo intesa come crisi di sovrapproduzione e di saturazione dei mercati, come detto nella presentazione e non messo in discussione da nessuno. Al contrario si fa riferimento a speculazioni edilizie e finanziarie come cause principali della chiusura di fabbriche e delle delocalizzazioni. L’introduzione di un’interpretazione della crisi basata sui giochi del capitale finanziario, oltre a favorire una lettura della realtà con dei capitalisti “cattivi” (gli speculatori) a cui potrebbero corrispondere altri capitalisti … “buoni”, esprime anche una forzatura politica procedurale. Nella misura in cui le assemblee dei lavoratori devono servire soprattutto a fare chiarezza, le risoluzioni diventano utili ed acquistano forza quando ribadiscono ciò che è stato detto nella discussione e su cui c’è accordo.
Ma queste debolezze possono essere superate se c’è dietro la spinta all’unità e alla solidarietà. Perciò sono così importanti questi momenti di discussione intercategoriali, in cui si costruisce solidarietà tra settori diversi e si pongono le basi per sentirsi un’unica classe di lavoratori con un unico nemico, la borghesia e il suo Stato.
Oblomov 5 dicembre 2010
[2] Italia: la maturazione della lotta di classe [13], in Rivoluzione Internazionale n°167.
[3] https://www.precaria.org/stati-generali-2010/ii-incontro-nazionale-dei-lavoratori-uniti-contro-la-crisi/ [14]
[4] II Incontro Nazionale dei Lavoratori Uniti Contro la Crisi - Welfare europei: una panoramica - EuroMayDay: General Assembly - Le lotte dei precari - Saperi, formazione e reti - Grandi Eventi - Safety o Security? - Laboratorio sulla Precarietà.
[5] uniti.gnumerica.org/2010/10/12/comunicato-finale-ii-incontro-nazionale
L'era Berlusconi sembra volgere al termine. Il perché lo abbiamo più volte analizzato nella nostra stampa[1] dove abbiamo messo in evidenza la necessità per la borghesia di cambiare assetto governativo, di liberarsi di Berlusconi o quanto meno ridimensionarne il ruolo. Una maggioranza di governo profondamente divisa al suo interno da interessi e preoccupazioni contrapposte, il cui leader mette avanti i propri “affari” e continua a ricorrere ad una politica populista che perde efficacia al confronto con la realtà di peggioramento crescente delle condizioni di vita e di lavoro, il cui degrado morale ed etico getta fango e discredito sul mondo politico ed istituzionale sia al proprio interno che sulla scena internazionale, non può essere in grado di far fronte ad una crisi internazionale incessante. Una crisi che richiede misure drastiche e dolorose, la capacità di farle accettare mantenendo un controllo sul piano sociale, una credibilità sia all’interno che rispetto alle altre potenze. Come andrà a finire? Difficile dirlo perché, come abbiamo sottolineato nei precedenti articoli, un’alternativa solida, omogenea e credibile in effetti non esiste né a destra, né al centro né tantomeno a sinistra.
Una cosa è certa, quale che sia la soluzione che troverà la borghesia italiana, per i proletari saranno sempre e comunque batoste. Licenziamenti, perdita di posti di lavoro, riduzione del salario reale, precarietà, mancanza di prospettive, degrado ambientale e manganellate non sono frutto del solo governo Berlusconi ma della crisi del sistema che non finirà, anche cambiando governo.
Che Berlusconi e tutto il suo mondo di personaggi al suo soldo, dai fidati ministri ai vari deputati e avvocati, faccendieri e puttanieri, suscitino in larga parte della popolazione un senso di nausea e di repulsione è qualcosa di istintivo e salutare. La loro arroganza, l’esplicito disprezzo per le difficoltà della “gente comune”, la spudoratezza delle loro menzogne, è qualcosa che si scontra sempre di più con le crescenti difficoltà in cui versa la popolazione. Ma su questo naturale disgusto la sinistra del capitale, in mancanza di una reale alternativa da proporre, va via via alimentando una vera e propria campagna anti Berlusconi. Stampa, programmi televisivi, cinema, teatro, quasi tutto è impregnato di anti berlusconismo a tal punto che ormai la cosa più frequente che si sente dire in giro è: “qualsiasi altra cosa è meglio di Berlusconi”.
Noi pensiamo che questa campagna sia un’arma contro la classe operaia per due diversi motivi: anzitutto perché tutto questo can-can ostacola la comprensione delle cause di fondo dello sfascio della società attribuendole esclusivamente alla politica di Berlusconi; in secondo luogo perché è uno strumento per compattare la classe operaia e la sua nuova generazione dietro la difesa dello Stato e della democrazia.
L’antiberlusconismo: un ostacolo alla presa di coscienza
E la lista potrebbe continuare a lungo (alla maniera di “Vieni via con me”).
Ora, queste cose sono senz’altro vere. Ma l’idea di fondo che viene trasmessa in tutti i dibattiti televisivi, da Annozero a Ballarò, o dalle “liste” di Vieni via con me, è che la colpa di questo disastro è esclusivamente di Berlusconi & Co. Individuare un responsabile risulta molto utile alla borghesia perché serve a distrarre l’attenzione dei proletari dal fatto che la crisi economica è profonda ed internazionale e che i tagli alle condizioni di vita, al mondo dell’istruzione, alle pensioni li stanno facendo dappertutto. Serve a far dimenticare che in Francia l’aumento dei suicidi a causa del lavoro è dovuto agli stessi problemi di aumento dei ritmi e minacce di licenziamento che viviamo qui da noi. Serve a far dimenticare che la precarizzazione del lavoro è stata introdotta non da Berlusconi, ma da un governo di sinistra con il sostegno dei sindacati che all’epoca dicevano che la dinamicità della moderna economia non era conciliabile con la “vecchia fissazione del posto fisso”. Serve a far dimenticare che ad Haiti, a nove mesi dal terremoto, la gente sta morendo di colera perché completamente abbandonata a se stessa[2] o che in Irpinia interi paesi distrutti dal terremoto di trent’anni fa sono ormai morti completamente. Serve ad evitare che si faccia un legame tra il problema spazzatura in Campania e in Sicilia e la distruzione di interi territori in Africa avvelenati da rifiuti tossici scaricati dai democratici paesi industrializzati e l’isola di plastica grande quanto un continente che galleggia nell’oceano Pacifico[3].
La borghesia deve impedirci il più possibile di pensare con la nostra testa, di arrivare a farci una visione d’insieme dei problemi che viviamo come lavoratori e come essere umani: potremmo arrivare a capire che abbiamo tutto da perdere a mantenere in piedi questa società ed allora sarebbe messo in discussione il suo predominio.
L’antiberlusconismo baluardo della difesa della democrazia e dello Stato italiano
E’ proprio questo il problema, la voglia di reagire a tutto questo, l’insofferenza crescente verso un mondo che non solo non ci dà niente, nessun futuro, ma che ci costringe anche a subire il suo marciume; la tendenza sempre più forte a vedere che destra e sinistra nella sostanza non sono poi tanto diverse e che quindi il voto non serve a niente. Come fare dunque per bloccare questa riflessione? Attirando tutta l’attenzione sul falso obiettivo dell’antiberlusconismo, che non è solo l’essere contro la persona Berlusconi come uomo politico e di governo, ma vuole esprimere anche un rigetto per quello che lui rappresenta: l’illecito, il malaffare, la corruzione, la mancanza di etica che domina la società. La trasmissione di Fazio e Saviano, Vieni via con me ha parlato di tutto questo riscuotendo un successo enorme. Basta vedere i commenti su facebook, forum o altri siti internet per rendersi conto di quanti, soprattutto tra i giovani, hanno fatto salti di gioia nel vedere finalmente emergere, tra lo squallore di trasmissioni quali il Grandefratello o Amici una trasmissione dove si parla di cose serie, della difficoltà di chi cerca lavoro, di chi vive con cumuli putrescenti di spazzatura sotto il naso. Senza tanto clamore, senza il politichese incomprensibile dei dibattiti dove ci si urla addosso, senza inutili commenti. Solo fatti raccontati, storie, come le chiama Saviano, che parlano del malessere che ognuno di noi avverte quotidianamente. Ma, al di là dell’indubbia qualità del programma, qual è il messaggio che viene trasmesso, qual è la risposta che viene data alla voglia di reagire a tutto questo? Il monologo di Saviano sulla Costituzione italiana ed il voto di scambio, nell’ultima puntata di “Vieni via con me”[4], è chiaro: è facile criticare e tirarsi fuori dalla politica sporca. Bisogna invece “partecipare”. Non partecipare significa lasciare il paese ai potenti per i loro tornaconto. E partecipare significa difendere la Costituzione italiana, “farla vivere come una propria responsabilità”. Perché, come ci spiega altrove, la Costituzione non è né di destra né di sinistra, ma “una base per garantire una convivenza equa a tutti i cittadini, per conservare lo stato di diritto che è una condizione indispensabile anche per la lotta alle mafie. E credo pure che il suo richiamo all’unità di questo Paese sia qualcosa d’importante. Personalmente, terrei che continuasse a esistere un paese di nome Italia”[5].
“Dobbiamo semplicemente pretendere, come fanno migliaia di cittadini (forse quelli che vanno a votare? ndr), che la legge sia uguale per tutti, un diritto costituzionale, che è anche un dovere per chi ha le più alte responsabilità.(…) si può persino difendere la libertà, la giustizia, la legalità”[6].
Il messaggio è chiarissimo, puoi anche scendere in piazza a protestare per far sentire la tua voce quando i tuoi “diritti” vengono calpestati (come fanno a Terzigno o gli studenti), ma hai il “dovere” di assumerti le tue responsabilità che sono difendere la democrazia e la Costituzione che ne è il “pilastro”. Se non lo fai, se non rigetti il voto di scambio, se non combatti la mafia, chi specula, chi si arricchisce illegalmente, sei anche tu corresponsabile di tutto quello che a parole critichi e contribuisci a disgregare la tua patria!
Ma è proprio vero che questa Costituzione, o una qualsiasi altra, possa liberarci dallo stato di schiavitù salariare, dallo sfruttamento incessante, dalla necessità di sottomettere la maggior parte della nostra vita al bisogno della sopravvivenza? Che possa veramente riconoscere e garantire “i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”, come è scritto nell’articolo 3? Nel capitalismo no! Perché il suo sistema economico si basa proprio sull’assoggettamento della stragrande maggioranza dell’umanità agli interessi di una ristretta classe dominante. La necessità per questa stragrande maggioranza non è sconfiggere questo o quel governo, mandare in galera tutti i mafiosi o i corrotti, ma distruggere il sistema stesso e con lui tutto il suo marciume.
Eva, 12-12-2010
[1] Vedi Dietro lo scandalo di escort, festini e cocaina, gli scontri nella maggioranza governativa [17], I perché dello scontro Fini-Berlusconi [18] e Il paradosso della borghesia italiana [19] in Rivoluzione Internazionale n°162, 165 e 167 rispettivamente.
[2] Vedi Epidemia di colera ad Haiti: la borghesia è una classe di assassini [20] sul nostro sito web.
[3] Vedi gli articoli A proposito degli appelli di Saviano. Se “la malavita avvelena la società”, la risposta non è più democrazia! [21] e L’emergenza rifiuti è solo in Campania? Una “zuppa di plastica” nell’Oceano Pacifico [22], Rivoluzione Internazionale 163 e 154 rispettivamente; “Disastri ambientali, inquinamento, variazioni climatiche. Il mondo sulla soglia di un collasso ambientale. 1a parte [23] Rivista Internazionale n. 30.
[5] Intervista esclusiva all’altro Saviano: “La lotta alla mafia non ha colore”, www.robertosaviano.it [25]
[6] “La macchina della paura”, di R. Saviano, La Repubblica del 29/9/2010
Pubblichiamo qui di seguito due volantini che rappresentano lo sforzo manifestato da una parte della classe operaia, ancora molto minoritaria, a prendere il controllo delle sue lotte. Il primo è stato redatto e adottato dall’Assemblea Generale di Saint-Sernin (Tolosa). Il secondo è stato realizzato da alcuni partecipanti all’Assemblea Generale interprofessionale della Stazione dell’est a Parigi.
Ci sarebbero molti altri episodi interessanti, tra i quali ricordiamo solo quelli di Tours o di Rennes, dove dei lavoratori si sono raggruppati in assemblee generali intercategoriali, e l’iniziativa della CNT-AIT che ha organizzato un po’ dappertutto in Francia delle Assemblee popolari autonome.
“L’emancipazione dei lavoratori sarà opera dei lavoratori medesimi” (Karl Marx).
Volantino dell’Assemblea generale di Saint-Sernin (Tolosa)
Di fronte alla determinazione di Sarkozy, i suoi mezzi di comunicazione e lo Stato poliziesco ad annullare la lotta attuale ed a screditarla attraverso le più infami provocazioni:
Disoccupati, pensionati, precari, lavoratori, studenti, universitari,
Affermiamo la nostra unità e prendiamo l’iniziativa delle nostre lotte!
La mobilitazione e l’entusiasmo manifestati in occasione della manifestazione di martedì scorso sono stati giganteschi. Noi abbiamo raggiunto il numero, adesso dobbiamo sviluppare la coscienza che soltanto attraverso il controllo delle lotte, la discussione la più larga possibile, la fusione di tutti i settori, l’appoggio degli studenti liceali ed universitari, dei precari e dei disoccupati possiamo realmente guadagnare ed imporre la volontà delle più ampie masse.
Teniamo immediatamente delle assemblee generali aperte a tutti, decidiamo azioni comuni che estendano il più possibile la lotta e la solidarietà! Condividiamo l’esperienza degli ultimi picchetti e blocchi: inviamo delle delegazioni di sostegno, coordiniamo i nostri sforzi. E’ arrivato infine il momento di portare la lotta nei settori più folti come Thales o Airbus. La nostra sola “violenza” è di voler generalizzare lo sciopero. La vera violenza è lo Stato che la genera e la provoca.
Solidarietà con le vittime della repressione! La lotta che noi portiamo avanti riceve la solidarietà da altri paesi, come in Spagna o in Grecia per esempio: in tutti i paesi, la classe operaia subisce le esigenze del Capitale e della sua sete irrefrenabile di accumulare.
I proletari di tutti i paesi contano sulla nostra vittoria per le loro lotte future!
Ritroviamoci per condividere le informazioni e le prospettive della lotta nell’Assemblea Generale alla fine della manifestazione, ma anche tutte le sere di questa settimana: Camera del lavoro, piazza Saint-Sernin – ore 18.00.
Volantino prodotto da pensionati, disoccupati, lavoratori e studenti riuniti davanti la Camera del Lavoro, 20/10/2010.
saint-sernin.internationalisme.fr
Volantino dei partecipanti all’Assemblea generale della Stazione dell’Est a Parigi
APPELLO a tutti i lavoratori
Per iniziativa dei ferrovieri della Stazione dell’Est e degli insegnanti del 18° Distretto, un centinaio di salariati (delle ferrovie, della scuola, delle poste, del settore agroalimentare, dell’informatica …), di pensionati, di disoccupati, studenti, di immigrati con o senza permesso di soggiorno, di sindacalizzati e non, si è riunito il 28 settembre e il 5 ottobre per discutere delle pensioni e più in generale degli attacchi che subiamo e delle prospettive che abbiamo di fronte per fare arretrare questo governo.
In occasione delle ultime giornate di azione siamo scesi a milioni a manifestare e a fare sciopero. E il governo non arretra ancora. Solo un movimento di massa sarà capace di farlo. Questa idea si sta facendo strada attraverso tutte le discussioni a proposito di sciopero illimitato, generale, prorogabile e del blocco dell’economia …
La forma che prenderà il movimento è un problema nostro. Tocca a noi tutti costruirlo sui nostri posti di lavoro attraverso i comitati di sciopero, nei nostri quartieri attraverso delle Assemblee Generali sovrane. Queste strutture devono riunire il più ampiamente possibile la popolazione lavoratrice, coordinata a livello nazionale attraverso dei delegati eletti e revocabili. Tocca a noi decidere sui mezzi di azione, sulle rivendicazioni … e a nessun altro.
Lasciare gli Chérèque (CFDT), Thibault (CGT) e compagnia decidere al nostro posto significa prepararsi a nuove sconfitte. Chérèque é per un’anzianità di lavoro di 42 anni. Non si può ugualmente avere fiducia in Thibault che non rivendica il ritiro della legge, così come non dimentichiamo che nel 2009 beveva champagne con Sarkozy mentre migliaia di noi venivano licenziati, lasciandoci sconfiggere separati gli uni dagli altri. Non abbiamo fiducia neanche nei pretesi sindacati “radicali”. La radicalità di Mailly (FO) è quella di stringere la mano a Aubry nella manifestazione mentre il PS vota per le 42 annualità. E per quanto riguarda la Sud-Solidaires, la CNT o l’estrema sinistra (LO, NPA), questa non ci offre altra prospettiva che l’unità sindacale. Vale a dire l’unità dietro quelli che vogliono negoziare dei passi indietro.
Se oggi i sindacati usano l’arma degli scioperi prorogabili, è soprattutto per evitare di farsi scavalcare. Il controllo delle nostre lotte serve come moneta di scambio per essere ammessi al tavolo dei negoziati … e perché? Per, come sta scritto nella lettera firmata da sette organizzazioni sindacali della CFTC a Solidaire, “fare intendere il punto di vista delle organizzazioni sindacali nella prospettiva di definire un insieme di misure giuste ed efficaci per assicurare la perennità del sistema delle pensioni per ripartizione.” Si può credere per un solo istante che vi possa essere un’intesa possibile con coloro che hanno messo le mani sulle nostre pensioni dal 1993 in poi, con quelli che hanno intrapreso la distruzione metodica delle nostre condizioni di vita e di lavoro?
La sola unità capace di far retrocedere questo governo e le classi dirigenti, é quella tra pubblico e privato, tra salariati e disoccupati, tra giovani e pensionati, tra lavoratori regolari e immigrati senza carta di soggiorno, tra sindacalizzati e non, che sia alla base di Assemblee Generali comuni dove siamo capaci noi stessi di controllare le lotte.
Noi pensiamo che il ritiro della legge sulle pensioni sia l’obiettivo minimo. Questo non ci deve bastare. Centinaia di migliaia di lavoratori in pensione già sopravvivono con meno di 700 euro al mese, mentre centinaia di migliaia di giovani vivacchiano con l’RSA, quando ce l’hanno, per mancanza di lavoro. Per milioni di noi, il problema cruciale è già quello di poter mangiare, avere un alloggio e potersi curare. Di queste cose non ne vogliamo più.
In realtà gli attacchi contro le pensioni sono l’albero che nasconde la foresta. Dall’inizio della crisi, le classi dirigenti con l’aiuto dello Stato gettano per la strada centinaia di migliaia di lavoratori, sopprimendo migliaia di posti nei servizi pubblici. E siamo solo all’inizio. La crisi continua e gli attacchi contro di noi diventano sempre più violenti.
Per far fronte alla situazione, dobbiamo soprattutto stare attenti a non avere alcuna fiducia nei partiti di sinistra (PS, PCF, PG …). Questi hanno sempre gestito lealmente gli affari della borghesia non rimettendo mai in discussione la proprietà privata industriale e finanziaria così come la grande proprietà fondiaria. D’altra parte, in Spagna come in Grecia, è la sinistra al potere che organizza l’offensiva del capitale contro i lavoratori. Per le nostre pensioni, la salute, l’istruzione, i trasporti e per non crepare di fame, i lavoratori dovranno accaparrarsi le ricchezze prodotte per sopperire ai loro bisogni.
In questa lotta, noi non dobbiamo apparire come difensori di interessi categoriali ma di quelli di tutti i lavoratori, compresi i piccoli contadini, i pescatori, i piccoli artigiani, i piccoli negozianti, che sono gettati nella miseria con la crisi del capitalismo. Li dobbiamo trascinare e metterci alla testa di tutte le lotte per meglio far fronte al Capitale.
Che noi siamo salariati, disoccupati, precari, lavoratori senza permesso di soggiorno, e indipendentemente di quale sia la nostra nazionalità, siamo tutti quanti nella stessa barca.
Vediamoci per discutere in Assemblea Generale intercategoriale martedì 12 ottobre alle ore 18,00 e mercoledì 13 ottobre alle ore 17,00. Camera del lavoro, métro République.
Alcuni lavoratori e precari dell’Assemblea Generale intercategoriale della Stazione dell’Est
(lecole_duraille_trenteseptcinq@yahoogroupes.fr [28]) 8 ottobre 2010
In Irlanda i turisti sono invitati ad esplorare una terra di miti e leggende. Nel corso degli ultimi quindici anni racconti fantasiosi sullo stato dell’economia irlandese sono stati aggiunti in gran quantità alla mitologia. Nella metà degli anni 90 ci fu il mito della Tigre Celtica, della radicata prosperità irlandese. Come George Osborne (membro del Partito Conservatore) diceva nel 2006 “L’Irlanda rappresenta un fulgido esempio dell’arte del possibile nelle politiche economiche a lungo termine”. Ma da quando l’Irlanda è diventato il primo paese dell’eurozona ad entrare in recessione si sono susseguite, dal budget di emergenza dell’ottobre 2008 in poi, una serie crescente di misure di austerità e di fondi pompati nelle banche nel corso del 2009 e del 2010. Lungi dall’aver portato ad un lieto fine i tagli di spesa e gli aumenti fiscali hanno portato solo all’ultimo round di tagli e al piano di salvataggio da 85 miliardi di euro da parte del FMI, dell’UE e della BCE (Banca Centrale Europea). Non c’era nulla di sostanziale nella “prosperità” irlandese e l’imposizione dell’austerità porterà solo sofferenza, senza offrire alcuna soluzione alla crisi dell’economia capitalista.
L’ultima serie di attacchi
Le misure più recenti proposte alla fine di novembre non sono affatto le ultime: ne sono previste altre nel bilancio del 7 dicembre. Negli ultimi due anni abbiamo già visto la perdita di migliaia di posti di lavoro e il taglio dei servizi per la maggioranza della popolazione. Uno su sette è già ufficialmente senza lavoro ed ai lavoratori del settore pubblico sono già stati tagliati i salari. Nell’ultima busta paga il salario minimo è stato ridotto di 1 euro all’ora (cioè del 12%). La soglia minima per l’imposta sul reddito è stata ridotta da 18.000 a circa 15.300 euro, portando più lavoratori con basso reddito nel regime fiscale. Le pensioni sono state congelate per i prossimi quattro anni. L’età pensionistica sarà gradualmente aumentata a 68 anni. Ci saranno tagli di vari sussidi, tra cui l’indennità di disoccupazione, ma i dettagli saranno resi noti solo al 7 dicembre. La VAT (corrispondente all’IVA) salirà nel 2013 ed anche nel 2014. La Carbon Tax sta per essere raddoppiata. Sta per essere introdotta una nuova tassa per l’acqua, come pure una tassa sulla proprietà che interesserà tutte le famiglie. I calcoli del governo prevedono che 100.000 persone emigreranno entro il 2014.
In risposta ad ogni attacco del governo c’è stata una grande manifestazione organizzata dai sindacati. Questa volta il Congresso Irlandese dei Sindacati detto che le misure di austerità sono ingiuste e troppo dure ed che è un peccato che non fosse prevista una tassa sui profitti (Corporation Tax). Molti dimostranti hanno insistito sul fatto che il governo è stato una “marionetta della UE e del FMI”. Anche i ministri hanno lamentato il fatto che l’Irlanda, come il Portogallo, fosse obbligata ad accettare le condizioni della UE e del FMI. Mentre riceveva il sostegno finanziario dal FMI, da vari organismi dell’Unione Europea, da Regno Unito, Svezia e Danimarca, lo Stato irlandese è stato costretto a dare il suo contributo al fondo di salvataggio bancario prelevando 17.5 miliardi di euro dal National Pensions Reserve Fund (Fondo Nazionale di Riserva delle Pensioni). Perché allora il FMI e l’UE corrono in aiuto?. Dopo la Grecia, la borghesia internazionale temeva che il crollo delle economie dell’Irlanda e del Portogallo avrebbe avuto un impatto sulla stabilità non solo dell’eurozona ma ben oltre. Il Regno Unito non fa parte dell’eurozona, ma il governo ha ritenuto necessario dare 7 miliardi di euro proprio nell’interesse dell’economia britannica. Tutte le economie sono interdipendenti, nessuna può funzionare isolata dal resto dell’economia mondiale. Dopo l’ultimo salvataggio resta comunque una preoccupazione per la possibilità di successo con l’economia irlandese, così come ci si interroga su quale paese, tra Spagna, Italia e Belgio, possa essere il prossimo ad aver bisogno di cure urgenti.
Le false alternative
Per quanto riguarda la durezza degli attacchi, i “critici” possono non essere d’accordo sui dettagli, ma, come dappertutto, concordano sulla necessità di affrontare il deficit. Il Sinn Fein (movimento indipendentista irlandese [30]), per esempio, ha recentemente prodotto un documento intitolato “C’è un modo migliore”, che vantano esser stato “pienamente valutato e approvato da economisti indipendenti”. In esso sostengono che una maggiore tassazione delle società ricche e grandi genererà miliardi, e se il governo dovesse “prendere 7 miliardi di euro dal National Pensions Reserve Fund per tre anni e mezzo con un ampio programma di investimenti” ciò potrebbe “stimolare l’economia e creare posti di lavoro”. Il disavanzo verrebbe ridotto perché lo stimolo all’economia porterebbe crescita. L’esperienza dell’economia capitalista durante gli ultimi cento anni ha dimostrato, al contrario, che pur ricorrendo al debito, facendo investimenti, tagli alla spesa o aumenti delle tasse, nessun governo ha trovato un modo per sfuggire la realtà della crisi economica capitalistica.
Socialist Worker[1] del 27 novembre, scrivendo sulla crisi irlandese, trova una soluzione buona per tutti i paesi: “I governi potrebbero prendere le banche sotto il pieno controllo – prelevando gli utili, saccheggiando i banchieri e utilizzando il denaro per progetti di cui ha bisogno la società ... Le tasse devono essere aumentate in maniera massiccia sui ricchi e le imprese (...). Le spese per la guerra imperialista e l’esercito dovrebbero cessare da domani. Governi come la Grecia e l’Irlanda potrebbero sfidare il Fondo Monetario Internazionale e l’Unione Europea sulle richieste di tagli”.
La nazionalizzazione delle banche è già molto spinta in Irlanda, come altrove. Dopo l’ultimo salvataggio, la partecipazione del governo nella Allied Irish Bank è superiore al 96%; nella Anglo Irish Bank è al 100%; nella Bank of Ireland (così rimpicciolita che è ormai un istituto finanziario più piccolo dell’allibratore Paddy Power, ma è ancora una banca) è oltre il 70%, nella Irish Nationwide è al 100%, così per l’EBS. L’intervento dello Stato capitalista in ogni aspetto della vita economica è stato una tendenza dominante nel secolo scorso e in nessun modo ha rappresentato un guadagno per la classe operaia. Il SWP parla della necessità di un “potente movimento di massa”, ma in realtà solo come sostegno ai governi. Dire che la Grecia o l’Irlanda potrebbero “sfidare” il Fondo Monetario Internazionale e l’Unione Europea significa negare la realtà dell’economia capitalista: i mendicanti non possono scegliere. E se ci dovesse essere una folle manifestazione di “sfida”, la rinuncia alla spesa militare sarebbe sconsigliabile, perché le potenze capitaliste potrebbero facilmente ricorrere alla forza militare per far rispettare la loro volontà.
Per quanto riguarda l’aumento della tassazione, c’è dietro l’idea che se la società capitalista fosse organizzata in modo diverso si potrebbe funzionare senza sfruttamento e crisi economica. Un anno fa, nel dicembre 2009, il ministro delle finanze irlandese Brian Lenihan ha dichiarato: “Abbiamo svoltato l’angolo … Se adesso lavoriamo insieme e condividiamo gli oneri, possiamo avere una crescita economica sostenibile per tutti”. Un anno dopo possiamo vedere che non c’è stata alcuna svolta e che, lungi dal condividere l’onere, i più poveri ne sono le maggiori vittime. Per quanto riguarda la crescita e la sostenibilità, laddove sia possibile dimostrare che ci siano, si può essere certi che sarebbero comunque a spese di qualche altro paese.
Le grandi manifestazioni che hanno accompagnato ogni annuncio di nuovi attacchi hanno dimostrato che c’è una rabbia diffusa in Irlanda. Secondo i sondaggi, il 57% della gente pensa che il governo non dovrebbe pagare i suoi debiti. Ma questo non porterebbe alcun vantaggio così come non lo portano le manifestazioni controllate dai sindacati. Come dappertutto, i bisogni della classe operaia possono essere soddisfatti solo lottando per i propri interessi, organizzandosi in prima persona, discutendo come e su quali obiettivi lottare. Riporre ogni fiducia nei governi o nei sindacati è fatale per le lotte dei lavoratori. La storia del movimento operaio dall’inizio del secolo scorso ad oggi mostra che le riforme dei governi ed i cortei sindacali non offrono nulla alla classe operaia, l’unica prospettiva certa sta nello sviluppo di lotte di massa per la conclusione ultima del rovesciamento rivoluzionario del capitalismo.
World Revolution, 1/12/10, organo della CCI in Inghilterra
Il 17 febbraio 2010 il segretario alla difesa americano, Robert Gates, ha approvato, in una nota indirizzata al capo del Comando Centrale David Petraeus, la nuova strategia della missione americana in Iraq. Nella nota egli sottolinea che l’operazione “Iraqi Freedom”, il nome americano per l’invasione del 2003 e l’occupazione di questo paese per sette anni, “è giunto alla fine e le nostre forze operano nel quadro di una nuova missione” Sei mesi dopo, il 19 agosto, le ultime brigate americane di combattimento hanno attraversato la frontiera irakena per entrare in Kuwait, e 12 giorni dopo, cioè più di sette anni dopo che il presidente Bush aveva fatto un annuncio simile, il presidente Obama annunciava “la fine della nostra missione di guerra in Iraq”.
La politica estera americana nell’era del dopo Guerra Fredda
Al momento della guerra del Golfo, nel 1991, la principale preoccupazione della borghesia americana era quella di rafforzare il suo controllo su un blocco imperialista i cui membri di secondo piano avevano perduto le motivazioni per aderire alla signoria americana dopo il crollo del blocco dell’Est e la diminuzione della minaccia costituita dalla Russia. Prima di questo avvenimento, per gli USA era molto facile implicare nell’intervento militare, non solo i paesi della NATO, ma anche l’URSS che stava affondando, tramite le sanzioni dell’ONU. Il decennio seguente ha visto il rafforzamento della tendenza al “ciascuno per sé” a livello delle tensioni imperialiste, con delle potenze di seconda e terza categoria sempre più spinte alla difesa dei propri interessi (nell’ex Jugoslavia, nel Medio Oriente, in Africa). L’obiettivo degli Stati Uniti nel 1991 era quindi quello di stabilire un controllo militare in zone di importanza strategica in Asia e in Medio Oriente che potessero essere utilizzate per esercitare una pressione sui suoi concorrenti, piccoli e grandi.
Gli attentati dell’11 settembre sono stati l’occasione per lanciare la “guerra contro il terrorismo” e giustificare la prima incursione in Afganistan nel 2001, ma lo slancio non è durato a lungo. Nel 2003 gli Stati Uniti sono stati incapaci di mobilitare la loro vecchia coalizione per la seconda mobilitazione in Iraq. La Francia e la Germania, in particolare, pur non potendo creare un loro proprio blocco imperialista, si sono mostrate reticenti a seguire gli Stati Uniti, vedendo la “guerra al terrorismo” per quello che effettivamente era: un tentativo degli Stati Uniti di rafforzare la loro posizione di superpotenza mondiale.
Le vere intenzioni del ritiro americano dall’Iraq
Nel 2007 c’è stato un notevole cambiamento nella strategia americana in Iraq a causa delle molteplici difficoltà incontrate. La prima è stata una sanguinosa contro-insurrezione che alla fine ha visto la morte di 4.400 soldati americani, 36.000 feriti e 100.000 civili irakeni morti (anche se certe stime parlano di più di mezzo milione, comunque ben al di sopra delle “decine di migliaia” riportate dai principali mezzi di informazione). La guerra in Iraq stava diventando un vero inferno e il più grande disastro sul piano delle relazioni pubbliche, vista anche l’inesistenza delle “armi di distruzione di massa” che erano state la giustificazione dell’invasione. Il fantasma del Vietnam percorreva i corridoi di Washington. E pesava anche il costo crescente della guerra: lo stesso Obama ha ammesso che è costata più di un bilione di dollari[1]. e che ha contribuito al deficit del bilancio e danneggiato la capacità dell’economia americana di far fronte alla crisi economica. Una seconda preoccupazione è stata la controffensiva dei talebani in Afganistan, espulsi dalle forze americane nel 2001, ma non vinti, e l’estensione degli attacchi terroristi in Europa e in Asia sostenuti da elementi con base nelle regioni frontaliere dell’Afganistan e del Pakistan.
Quando Kerry, che aspirava alla ricomposizione del vecchio blocco imperialista, si è dimostrato ineleggibile, gli Stati Uniti hanno puntato ad affermare la loro supremazia sulla regione. Adottata questa strategia, il dibattito ha cominciato ad accentrarsi sul numero di soldati necessari per un tale obiettivo. Rumsfeld si fissava sul suo progetto di una militarizzazione più leggera, più automatizzata. I democratici, alleati con certi elementi della destra, erano sostenere il “pic”, un dispiegamento temporaneo di truppe supplementari in Iraq per mantenere l’ordine, difendere la giovane “democrazia” e assicurare il trasferimento delle responsabilità militari alle forze irakene. Questa fu la politica di Bush nei suoi ultimi anni di presidenza, e questa è ora la politica di Obama in Afganistan.
La strategia complessiva adottata dalla borghesia americana è rimasta essenzialmente la stessa. Se l’amministrazione Obama sembra mettere l’accento innanzitutto sulla diplomazia, in realtà c’è continuità con l’amministrazione precedente. Come lo stesso Obama ha detto nel discorso del 31 agosto: “… uno degli insegnamenti dei nostri sforzi in Iraq è che l’influenza americana nel mondo non è funzione della sola forza militare. Noi dobbiamo utilizzare tutti gli elementi della nostra potenza, compreso la nostra diplomazia, la nostra forza economica, e il potere dell’esempio dell’America, per garantire i nostri interessi e sostenere i nostri alleati… Gli Stati Uniti d’America hanno l’intenzione di mantenere e rafforzare la nostra leadership in questo nuovo secolo…”.
Bilancio della guerra in Iraq
Dobbiamo pensare che il ritiro delle forze americane dall’Iraq significhi che il mondo è ora un posto più sicuro? Per niente! Il Segretario alla Difesa, Bob Gates, è stato ancora più esplicito di Obama: “Anche con la fine ufficiale delle operazioni di combattimento, l’esercito americano continuerà a sostenere l’esercito e la polizia irakene, ad aiutare lo sviluppo della marina e della forza aerea dell’Iraq, e ad aiutarlo nelle sue operazioni di lotta contro il terrorismo”.
L’amministrazione americana afferma pubblicamente di essere ampiamente soddisfatta dello stato del governo e della società civile in Iraq. Tuttavia l’Iraq detiene oggi il record per il numero di volte in cui uno Stato-nazione moderno non riesce ad avere un governo efficace. Anche se l’Iraq sembra sufficientemente forte da permettere agli Stati Uniti di occuparlo di meno, questi devono ancora rinforzare lo Stato iracheno formando altri militari e poliziotti. Gli Stati Uniti lasciano in Iraq un esercito di 50.000 soldati “non combattenti” per almeno un anno. Queste forze permetteranno loro un dominio senza rivali sul governo irakeno: nessun’altra potenza ha una forza simile così vicina ai centri del potere irakeno e così necessaria perché quest’ultimo continui ad esistere. Questo approccio è simile a quello avuto dagli Usa in Corea del Sud dopo la seconda Guerra Mondiale, dove furono stanziati 40.000 soldati per mantenere una presenza nella regione. Il fatto di avere delle basi militari nell’Iraq, anche se in numero più ridotto, assicurerà agli Stati Uniti una certa pressione sull’Iran e su altre potenze regionali.
Bisogna fare attenzione ad avere una visione troppo superficiale dell’influenza dell’amministrazione americana. In realtà è molto probabile che l’Iraq si disintegri quando gli Stati Uniti se ne andranno, con tutte le differenti parti che contribuiranno allo scoppio del paese, in particolare i nazionalisti curdi, con lo scatenamento di una guerra civile. Anche la situazione dell’Afganistan è assolutamente catastrofica e mostra tutti i segni di un peggioramento, con il rischio della disintegrazione del Pakistan e dell’esportazione della guerra in questo paese.
Nonostante le disillusioni, la borghesia americana ha quanto meno registrato il fatto che esiste un mondo di tutti contro tutti, ed ha tirato delle preziose lezioni sulla maniera di fare la guerra e di condurre un’occupazione oggi. Il ritiro delle truppe dall’Iraq non significa la fine della guerra. Da una parte, le truppe americane avranno una presenza permanente nel paese, e Stati Uniti, Turchia, Israele, Russia, Iran e Germania continueranno i loro giochi di influenza imperialista nella regione come facevano prima. Dall’altra parte, gli Stati Uniti potranno concentrare i loro sforzi sull’Afganistan, e avranno anche liberato una certa capacità per intervenire in altre parti del mondo. La fine della guerra in Iraq, sotto l’influenza dell’imperialismo, è, in effetti, la continuazione di una guerra già devastante e l’inizio di guerre altrove. La conseguenza logica dell’imperialismo è la distruzione dell’umanità. Di fronte a ciò, il difensore dell’umanità è il proletariato, portatore di comunismo.
RW, 10 novembre2010
(da Internationalism, organo della CCI negli USA)
Il fango tossico rosso proveniente dalla fabbrica di alluminio in prossimità della città di Ajka[1], che ha insozzato il Danubio, inondando i corsi d’acqua vicini e i villaggi di Devecser Kolontar (i più toccati), non poteva che generare un sentimento di desolazione. Si tratta del più grave inquinamento che l’Ungheria abbia conosciuto nella sua storia! Sono migliaia i metri cubi di fango tossico che sono stati riversati nella natura. Tuttavia, al di là delle immagini spettacolari del paesaggio devastato dei primi servizi televisivi, un’altra realtà altrettanto scioccante, ma molto meno pubblicizzata, si faceva strada tra le righe dei comunicati ufficiali: quella delle persone morte, nell’immediato e successivamente. L’orrore generato dalla decina di vittime (tra cui una bimba di 14 mesi), dai dispersi, il fatto che più di un centinaio di feriti con gravi lesioni si ritrova oggi in preda ad atroci sofferenze. Questo fango rosso, corrosivo e caustico, contenente metalli pesanti e leggermente radioattivo, provoca in effetti delle forti bruciature e irrita fortemente gli occhi. Migliaia di abitanti hanno deciso di fuggire da casa per evitare di mettere in pericolo la loro salute.
Tutti i drammi umani di questa catastrofe sono stati intenzionalmente nascosti nei commenti che i giornalisti ci hanno presentato. Come al solito la classe dominante ha minimizzato la catastrofe: “Il rischio di inquinamento del Danubio a causa del fango rosso tossico è evitato”. Ecco cosa annunciava il Primo ministro ungherese, Victor Orban, in una conferenza stampa a Sofia solo qualche giorno dopo l’incidente, aggiungendo senza arrossire che “le autorità ungheresi controllavano la situazione”[2]. Allo stesso tempo i giornalisti hanno distolto l’attenzione e la riflessione sulle conseguenze tragiche dell’incidente, contentandosi di immagini spettacolari, destinate a terrorizzare le popolazioni, evitando così ogni vera spiegazione[3]. Comunque, secondo la propaganda dello Stato, gli incidenti industriali legati ai “rischi tecnologici”[4] sono solo “l’inevitabile prezzo da pagare per l’avanzare del progresso”. In altre parole, il fatto che ci siano delle vittime deve essere accettata come una fatalità, per non dire come qualche cosa di “normale”!
Non possiamo che denunciare con rabbia e indignazione questa nauseabonda ideologia e soprattutto la volontà di nascondere degli omicidi programmati da una classe capitalista senza scrupoli. Non possiamo che denunciare con fermezza la barbarie che obbliga le popolazioni a vivere in un ambiente pericoloso, per poi spostare freddamente dei cittadini, come se si spostassero dei polli d’allevamento, dopo che li si è deliberatamente sovraesposti ai rischi, in totale disprezzo della loro vita.
Da tempo erano state individuate delle perdite di fango rosso da un serbatoio difettoso e si sapeva a quali rischi di contaminazione diretta i villaggi vicini e i corsi d’acqua erano sottoposti. L’esposizione delle popolazioni non era un segreto per i padroni e per i politici locali! Ma poiché la prevenzione non è un’attività che rende, la borghesia ha preferito economizzare, anche a costo di giocare alla roulette russa con una parte della popolazione. A questo gioco sono sempre gli stessi che la pagano.
Gli “esperti”, i politici, i padroni e i giornalisti sanno perfettamente che la zona industriale del Danubio è una discarica a cielo aperto, che le istallazioni vecchie, non messe in sicurezza per mancanza di mezzi, non possono che provocare nuove catastrofi delle stesso tipo. Dalle prime fuoriuscite di fango hanno fatto di tutto per minimizzare l’ampiezza dei danni, per sminuire l’impatto della catastrofe. Dopodiché, di fronte all’evidenza, hanno fatto finta di scoprire con sorpresa le condizioni di questa nuova catastrofe, puntando il dito sull’eredità lasciata loro dal periodo del cosiddetto “comunismo”, per meglio assolvere il proprio sistema e la loro responsabilità[5].
Anche se oggi i mezzi di informazione sono passati ad altro, se l’avvenimento non fa più notizia, la catastrofe e le sofferenze non sono ancora terminate!
Questa catastrofe non è né naturale, né è il prodotto della fatalità. Essa è l’espressione della follia distruttrice generata dalla ricerca sfrenata del profitto. La concorrenza sfrenata, in un mondo in cui i mercati si restringono come un tessuto bagnato, obbliga tutti gli industriali e gli Stati ad assumere sempre più rischi, a ridurre sempre più i margini di sicurezza per fare economia. Nello stesso tempo le risorse naturali sono sottoposte dappertutto a un vero saccheggio e sono sottomesse a distruzioni accelerate. La catastrofe in Ungheria ne è un esempio. Non solo il Danubio, secondo fiume europeo per lunghezza, è inquinato, ma certi corsi d’acqua appartenenti al suo bacino idrografico hanno un ecosistema completamente distrutto. E’ il caso del fiume Marcal (che si getta nel Raab, affluente diretto del Danubio) dove i pesci morti galleggiano su un’acqua color ruggine. Ci vorranno molti anni, se non decenni, prima di vedervi rinascere la vita; senza contare i danni prodotti in tutte le terre circostanti e le acque di infiltrazione, di ruscellamento e quelle che filtrano fino ad arrivare nella falda freatica. Più di un migliaio di ettari contaminati hanno ormai danneggiato l’attività agricola e la catena alimentare di questo spazio inquinato. Dopo un certo tempo cosa provocherà la polvere, quando il fango si sarà seccato? Perché è stato appurato che finché i fanghi restano liquidi la loro pericolosità è minore.
Ancora una volta la borghesia mostra il suo disinteresse e il suo disprezzo totale per la vita umana. E non solo il suo istinto di classe è guidato solo dalla sete di un profitto immediato, ma il suo accecamento è tale che essa scivola ogni giorno di più sulla china su cui si trova. Certo, esistono dei borghesi che chiedono al resto della propria classe di frenare la caduta verso la catastrofe. E’ tempo perso, perché la logica generale del capitalismo del profitto immediato, congiunta con l’involuzione attuale nella crisi e dunque nel crollo di intere porzioni di economia, non può che spingere ancora più i rapaci dell’industria e della finanza a succhiare fino al midollo le poche industrie ancora redditizie, le regioni del pianeta in cui è ancora possibile un profitto rapido sfruttando peggio delle bestie i proletari, infischiandosene di ogni misura di sicurezza, troppo “costose”. E questo anche a costo di trascinare con loro, e senza pensarci su un secondo, il resto dell’umanità.
WH (14 ottobre 2010)
[1] A 160 chilometri a ovest della capitale, Budapest.
[2] fr.sputniknews.com [33].
[3] Ricordiamo, tra l’altro, il silenzio orchestrato non molto tempo fa sugli 11 operai morti a seguito dell’esplosione della piattaforma petrolifera nel Golfo del Messico. Tutte le immagini mostrate di questa spettacolare esplosione sono state accompagnate da commenti che hanno sistematicamente omesso di parlare delle vittime (Vedi Révolution Internationale n°413, giugno 2010).
[4] Nei programmi di geografia dei licei francesi esiste un argomento di studio dal titolo « rischi tecnologici ». Una maniera per abituare i giovani ad integrare con fatalismo il fatto che le popolazioni urbane sono sempre più esposte alle catastrofi.
[5] In Francia, a Gardanne (Bouches-du-Rhône), il problema posto da una parte di questi fanghi, in forma liquida, è stata regolata in partenza: sono stati buttate al largo, nel mare Mediterraneo!
Legalmente spetterebbe ai sindacati il compito ufficiale di organizzare queste lotte e la risposta a tutti gli attacchi. Questi dovrebbero quindi essere in piena attività per tessere legami tra le fila operaie. Ma che cosa fanno? Esattamente il contrario! Questi “professionisti della lotta” non smettono nemmeno un attimo di organizzare... la dispersione e la divisione! Una giornata di sciopero qui per questa fabbrica, una giornata di lotta per quel settore pubblico lì... La risposta orchestrata dai sindacati non è semplicemente “debole”, è soprattutto frammentata, spezzettata, impregnata di veleno corporativo. Non c’è modo migliore per portare la classe operaia alla sconfitta.
Allora, perché il sindacato fa questa politica? Si tratta semplicemente di un errore tattico o invece sono proprio i sindacati a pugnalare volontariamente la classe operaia alla schiena? A quale campo appartengono veramente i sindacati?
19° secolo: i sindacati, strumenti per la lotta e la solidarietà operaie
Per comprendere ciò che è diventato il sindacalismo oggi, occorre inevitabilmente rifarci al suo passato. In realtà il sindacalismo si è sviluppato in una situazione storica particolare, durante la più dinamica e fiorente epoca del capitalismo, il 19° secolo. Questo sistema è in piena espansione. Le merci inglesi, tedesche, francesi invadono tutti i continenti. Data l’ottima salute economica, il capitalismo è in grado di concedere importanti miglioramenti alle condizioni di vita di numerose categorie della classe operaia. Pertanto, quando lotta, il proletariato riesce a strappare delle riforme reali e durature. Nel 1848, per esempio, la classe operaia ottiene in Inghilterra una riduzione del tempo di lavoro da dodici a dieci ore al giorno[1]. E’ proprio per portare avanti queste lotte che gli operai si organizzano in sindacati.
Nel 19° secolo, ogni padrone affronta direttamente ed isolatamente gli operai che sfrutta. Non c’è unità padronale organizzata (solo nell’ultimo terzo del secolo si sviluppano sindacati padronali). Meglio ancora, in questi conflitti, non è raro vedere dei capitalisti approfittare delle difficoltà di una fabbrica concorrente in sciopero per appropriarsi della sua clientela. In quanto allo Stato, in generale questo si tiene al di fuori di tali conflitti, intervenendo solo nel caso limite quando cioè questi ultimi rischiano di turbare “l’ordine pubblico”. La forma della lotta operaia corrisponde evidentemente a queste caratteristiche del capitale. Gli scioperi sono in genere di lunga durata. Questa è una delle condizioni della loro efficacia per piegare, attraverso la pressione economica, il padrone minacciato di bancarotta. Queste lotte che espongono gli operai al rischio di carestia, richiedono una necessaria preparazione preventiva di fondi di sostegno (“casse di resistenza”) e di far ricorso alla solidarietà finanziaria degli altri operai, da una corporazione all’altra ed anche da un paese all’altro.
La forma che prende il sindacalismo è adeguata a questi tipi di lotta. I sindacati sono generalmente delle organizzazioni unitarie (capaci di raggruppare l’insieme dei lavoratori, di una stessa corporazione) e permanenti (esistenti anche al di fuori dei periodi di sciopero al fine di prepararli). In altre parole, la lotta sistematica per le riforme è un compito permanente che unisce gli operai. Concretamente, gli operai vivono all’interno del sindacato. Giorno dopo giorno si raggruppano, discutono, si organizzano e preparano la lotta futura. I sindacati sono allora dei veri focolari di vita della classe; costituiscono delle scuole di solidarietà dove gli operai comprendono la loro appartenenza ad una stessa classe.
Marx ed Engels così sottolineano questo ruolo inestimabile dei sindacati: “I sindacati e gli scioperi che intraprendono hanno un’importanza fondamentale perché sono il primo tentativo fatto dai loro operai per sopprimere la concorrenza. Implicano di fatto la coscienza che il dominio della borghesia si basa necessariamente sulla concorrenza tra gli stessi operai, cioè sulla divisione del proletariato e sull’opposizione tra gruppi individualizzati di operai” (Raccolta di testi su “Il sindacalismo” Edizioni Maspéro). O ancora: “La grande industria raccoglie in un solo luogo una folla di persone sconosciute le une alle altre. La concorrenza le divide, nei loro interessi. Ma il mantenimento del salario, questo interesse comune che essi hanno contro il loro padrone, li unisce in uno stesso proposito di resistenza: coalizione. Così la coalizione ha sempre un duplice scopo, di far cessare la concorrenza degli operai tra loro, per poter fare una concorrenza generale al capitalista. Se il primo scopo della resistenza era solo il mantenimento dei salari, nella misura in cui i capitalisti si uniscono a loro volta in un proposito di repressione, le coalizioni, dapprima isolate, si costituiscono in gruppi e, di fronte al capitale sempre unito, il mantenimento dell’associazione diviene per gli operai più necessario ancora di quello del salario. Ciò è talmente vero, che gli economisti inglesi rimangono stupiti a vedere come gli operai sacrifichino una buona parta del salario a favore di associazioni che, agli occhi di questi economisti, erano istituite solo a favore del salario” (Marx, Miseria della Filosofia).
20° e 21° secolo: i sindacati, strumento di divisione e sabotaggio delle lotte
All’inizio del 20° secolo, le condizioni che avevano permesso la straordinaria espansione del capitalismo cominciano a sparire. La costituzione del mercato mondiale si conclude e, con essa, si inaspriscono gli antagonismi tra potenze capitaliste per la dominazione dei mercati. Lo scatenamento della prima carneficina mondiale nel 1914 segna l’entrata del capitalismo nella sua fase di decadenza[2]. La vita economica e sociale di ogni nazione, ma soprattutto la vita e la lotta del proletariato, si trovano profondamente sconvolte. Il sistema capitalista ha smesso di essere progressista. Da allora, la guerra economica spietata alla quale si dedicano tutte le nazioni per la ripartizione dei mercati si traduce in una lotta accanita di ogni capitale nazionale contro ogni miglioramento duraturo delle condizioni di esistenza della “sua” classe operaia. Nessun capitale nazionale può più accordare concessioni al “suo” proletariato senza correre lui stesso il rischio di arretrare sull’arena internazionale nei confronti dei rivali. Pertanto le basi dell’attività proletaria sul piano della conquista delle riforme diventano caduche. D’ora in poi, di fronte alla classe operaia, c’è un’unità ed una solidarietà ben più grande tra i capitalisti di una stessa nazione. Questi creano organizzazioni specifiche per non affrontare più individualmente la classe operaia. E soprattutto lo Stato, che esercita un controllo sempre più potente, onnipresente e sistematico su tutti gli aspetti della vita sociale, interviene direttamente nei conflitti sociali opponendosi al proletariato in quanto rappresentante degli interessi della borghesia nel suo insieme. Di conseguenza, lo sciopero lungo in una sola fabbrica non è più un’arma efficace. Al contrario, sono gli operai che finiscono per sfiancarsi e riprendere il lavoro, demoralizzati. Il successo degli scioperi non dipende più dai fondi finanziari raccolti dagli operai ma fondamentalmente dalla loro capacità a coinvolgere una parte crescente dei loro fratelli di classe di fronte all’insieme del capitale nazionale, di cui lo Stato è l’incarnazione. In altre parole, la solidarietà nei riguardi dei lavoratori in lotta non risiede più nel solo sostegno finanziario ma nell’unirsi alla lotta. Una tale dinamica di estensione della lotta, specifica al periodo di decadenza, non può essere pianificata in anticipo. Al contrario, gli scioperi esplodono spontaneamente. Il sindacato, quest’organo specializzato nel 19° secolo alla pianificazione ed el finanziamento delle lotte per corporazione, di questo braccio di ferro tra un padrone ed i “suoi” operai, diventa non solo inadatto ma un freno allo sviluppo della lotta. Se nel 19° secolo i sindacati operai potevano essere delle organizzazioni permanenti ed unitarie della classe operaia perché la lotta sistematica per le riforme poteva produrre riforme durature e con risultati concreti, con l’entrata nella fase di decadenza del capitalismo, non è più possibile avere un raggruppamento generale e permanente del proletariato. Questo non può organizzarsi per molto tempo e in massa intorno ad un’attività senza avere un’efficacia immediata.
L’esperienza delle lotte operaie dall’inizio del 20° secolo ha provato largamente che non è possibile mantenere un rapporto di forze contro la borghesia ed il suo Stato al di fuori delle fasi di lotte aperte. In particolar modo perché, immediatamente dopo la lotta, lo Stato fa gravare di nuovo pesantemente le necessità del capitalismo in crisi sulla classe operaia e impone con ancora più determinazione nuovi attacchi. Sotto la penna di Rosa Luxemburg, alcune righe bastano a fare vivere tutto questo profondo sconvolgimento per la lotta del proletariato. Descrivendo il grande sciopero che animò gli operai in Belgio nel 1912, uno sciopero che aveva “il carattere metodico, rigorosamente limitato, di uno sciopero sindacale ordinario”[3], Rosa Luxemburg dimostra magistralmente che i metodi sindacali sono diventati obsoleti e nocivi, ed afferma con forza la maggiore importanza della spontaneità e della presa in mano delle lotte direttamente da parte degli operai: “Spontaneamente, come un uragano, il proletariato belga si sollevò di nuovo dopo le elezioni del giugno 1912, (...). Poiché era impossibile domare diversamente l’impetuosa volontà popolare, si propose agli operai di disarmare lo sciopero di massa già iniziato e di preparare in modo completamente sistematico uno sciopero di massa. (...) La preparazione di lungo periodo dello sciopero di massa appariva questa volta come un mezzo per calmare le masse operaie, per spegnere il loro entusiasmo combattivo e per far loro abbandonare provvisoriamente l’arena. (...) È così che si realizzò finalmente lo sciopero di aprile, dopo nove mesi di preparazione e dei tentativi ripetuti per impedirlo e rinviarlo. Dal punto di vista materiale, esso fu preparato certamente come mai lo era stato nessuno sciopero di massa al mondo. Se delle casse di soccorsi molto copiose e la ripartizione molto organizzata dei viveri avessero dovuto decidere dell’esito di un movimento di massa, lo sciopero generale belga di aprile avrebbe dovuto fare miracoli. Ma il movimento rivoluzionario di massa non è purtroppo un semplice calcolo che si può risolvere con i libri cassa o con i depositi di viveri delle cooperative. Il fattore decisivo in ogni movimento di massa è l’energia rivoluzionaria delle masse, lo spirito di risoluzione dei capi e la loro precisione sullo scopo da raggiungere. Questi due fattori riuniti possono, all’occorrenza, rendere la classe operaia insensibile alle privazioni materiali più dure e farle compiere, a dispetto di queste privazioni, le prodezze più grandi. Essi al contrario non possono essere sostituiti da casse di soccorso ben guarnite”[4]. Rosa Luxemburg già percepiva il ruolo crescente dello Stato contro la classe operaia e le sue ripercussioni sulla lotta: “È chiaro, in ogni caso - ed è ciò che conferma la storia degli scioperi di massa nei differenti paesi - che più uno sciopero politico cade velocemente ed inaspettatamente sulla testa delle classi dirigenti, più l’effetto è grande e la probabilità di vittoria considerevole. Quando il Partito operaio annuncia, tre trimestri in anticipo, la sua intenzione di scatenare uno sciopero politico, non è solamente lui, ma anche la borghesia e lo Stato che guadagnano tutto il tempo necessario per prepararsi materialmente e psicologicamente a questo avvenimento”[5].
Se i sindacati sono il prodotto della possibilità della lotta per le riforme nel capitalismo ascendente del 19° secolo, ciò significa anche che sono segnati dal marchio di questo periodo storico particolare. L’arma sindacale fu forgiata ed affilata dal proletariato per condurre le battaglie per le riforme, non per distruggere il capitalismo ed il salariato. Pertanto quando il capitalismo smette di essere progressista, diventa un sistema decadente e “l’era delle riforme” lascia il posto a “l’era delle guerre e delle rivoluzioni”, i sindacati smettono di essere uno strumento della classe operaia per diventare al contrario il braccio armato della borghesia contro gli interessi della classe operaia. Così durante la Prima Guerra mondiale si è potuto assistere all’integrazione definitiva dei sindacati allo Stato totalitario ed alla sua partecipazione attiva alla mobilitazione degli operai nella carneficina imperialistica, affianco ai partiti socialdemocratici. Nell’ondata rivoluzionaria internazionale che seguirà questi faranno di tutto per ostacolare gli slanci del proletariato. Da allora i sindacati appartengono alla borghesia e si sono integrati definitivamente nello Stato ergendosi al suo fianco rispetto alla classe operaia. Del resto anche finanziariamente i sindacati sono tenuti in vita, non dagli operai, ma in maniera determinante dallo Stato. Essi costituiscono uno degli ingranaggi essenziali dell’apparato statale. Tutta la loro attività è orientata verso il sostegno della borghesia ed il sabotaggio “l’interno” delle lotte operaie. Partecipano attivamente alla regolamentazione del lavoro permettendo l’intensificazione dello sfruttamento. Mostrano un grande zelo nel far rispettare “il diritto del lavoro”, cioè il diritto borghese che codifica lo sfruttamento. Fanno del negoziato uno scopo in sé, nel segreto degli uffici padronali o ministeriali, chiedendo agli operai di mettersi nelle loro mani, di delegare loro il potere, per controllare meglio le lotte. La loro funzione è non solo inquadrare la classe operaia e le sue lotte, ma assicurare continuamente una presenza poliziesca nelle fabbriche, gli uffici, le imprese. Dividono ed isolano gli operai servendosi del corporativismo allo scopo di impedire l’unificazione delle lotte e la loro necessaria generalizzazione. In breve, da più di un secolo e fino ad ora, i sindacati sono i cani da guardia del capitale!
Come lottare e sviluppare la solidarietà operaia?
Come battersi senza i sindacati? Come eliminare questi “professionisti ufficiali della lotta?” La principale debolezza di ogni classe sfruttata è la mancanza di fiducia in sé stessa. Nelle società divise in classi tutto viene costruito per inculcare nello spirito degli sfruttati l’idea del carattere inevitabile della loro situazione e della loro impotenza a sconvolgere l’ordine delle cose, sentimento che i “professionisti dello sciopero”, questi impiegati a tempo indefinito pagati dallo Stato, sostengono vivacemente. Invece, la classe operaia è capace di battersi massicciamente e di prendere le redini, in prima persona, dell’organizzazione della lotta. Da più di 100 anni, le uniche grandi lotte sono state gli scioperi selvaggi, spontanei e di massa. E tutte queste lotte si sono date come base di organizzazione, non la forma sindacale, ma quella delle assemblee generali, dove tutti gli operai discutono della propria loro lotta e dei problemi da risolvere, con i comitati eletti e revocabili per centralizzare la lotta. Il grande sciopero del Maggio 1968 in Francia si scatena nonostante i sindacati. In Italia, durante gli scioperi dell’autunno caldo del 1969, i lavoratori cacciano i rappresentanti sindacali dalle assemblee di scioperanti. Nel 1973, gli scaricatori di Anversa in sciopero attaccano il locale dei sindacati. Negli anni 1970, in Inghilterra, gli operai malmenano spesso i sindacati proprio come quelli di Longwy, Denain, e Dunkerque in Francia, all’epoca dello sciopero del 1979. Nell’agosto 1980, in Polonia, gli operai rigettano i sindacati che sono apertamente degli ingranaggi dello Stato ed organizzano lo sciopero di massa sulla base di assemblee generali e comitati eletti e revocabili, gli MKS. Durante i negoziati, vengono utilizzati dei microfoni affinché tutti gli operai possano seguire, intervenire e controllare i delegati. Ed occorre ricordare in particolare come questa lotta è finita: con l’illusione di un nuovo sindacato, libero, autonomo e combattivo a cui la classe operaia poteva affidare le redini della lotta. Il risultato fu immediato. Questo nuovo sindacato chiamato Solidarnosc, “tutto bello e nuovo, nuovo”, tagliò i microfoni per trattare in segreto ed orchestrò, di concerto con lo Stato polacco, la dispersione, la divisione e, alla fine, la sconfitta violenta della classe operaia![6] Sono numerosissimi gli esempi delle continue manovre di sabotaggio e della necessità di contare solamente su noi stessi. Più recentemente, nel 2006, in Francia, all’epoca della lotta contro il CPE[7], decine di migliaia di studenti, in quanto futuri lavoratori precari, hanno mostrato la capacità della classe operaia a prendere in mano le redini della propria lotta, ad organizzarsi ed a discutere collettivamente nelle assemblee generali, sovrane ed aperte a tutti i lavoratori, disoccupati e pensionati.
Da tutti questi momenti di lotta, si possono tirare due lezioni essenziali:
1) Sono le assemblee generali che decidono ed organizzano l’estensione ed il coordinamento della lotta. Sono esse che si spostano, che mandano delegazioni massicce o dei delegati, per chiamare allo sciopero in altri luoghi di lavoro. Sono esse che nominano e revocano in qualsiasi momento, se necessario, i delegati. Queste assemblee generali devono essere coordinate anche tra loro attraverso comitati costituiti dai delegati eletti, responsabili continuamente davanti ad esse e dunque revocabili. Questa è la prima condizione di una reale estensione delle lotte e di un reale controllo di queste da parte dei lavoratori e delle loro assemblee.
2) Quando dei lavoratori entrano in lotta, devono ricercare la solidarietà e spingere ad estendere il movimento verso i centri operai (fabbriche, amministrazioni, ospedali...) più vicini geograficamente e più combattivi.
Ecco per i proletari di tutti i paesi l’unica via da seguire per arginare lo sviluppo degli attacchi e della miseria. La prospettiva della lotta operaia è di assumere sempre più il suo vero contenuto anti-capitalista, affermando il suo carattere di classe e dunque la sua unità, rompendo tutte le barriere corporative, settoriali, razziali, nazionali... sindacali! Come affermava Marx nel Manifesto del 1848: “Ogni tanto vincono gli operai; ma solo transitoriamente. Il vero e proprio risultato delle loro lotte non è il successo immediato, ma il fatto che l’unione degli operai si estende sempre più”.
Pawel
(da Revolution Internationale n.394, ottobre 2008)
[1] Queste riforme erano “reali e durature” nel senso che non venivano annullate subito dopo con l’obbligo di fare delle ore straordinarie o con un aumento immediato dei ritmi contrariamente, per esempio, alla legge sulle “35 ore” (settimanali) che ha permesso di imporre flessibilità, contratti a termine, aumento dei carichi di lavoro e congelamento dei salari.
[2] Vedi il nostro opuscolo “La decadenza del capitalismo”.
[3] Leipziger Volkszeitung (quotidiano della socialdemocrazia tedesca dal 1894 al 1933), 19 maggio 1913.
[4] Leipziger Volkszeitung, 16 maggio 1913.
[5] Leipziger Volkszeitung, 19 maggio 1913.
[6] Per conoscere meglio questo avvenimento leggere il nostro opuscolo “Polonia 1980”.
[7] Contratto di Primo Impiego.
Links
[1] https://it.internationalism.org/en/tag/2/29/lotta-proletaria
[2] https://it.internationalism.org/icconline/2006_tesi_mov_stud_fr
[3] https://world.internationalism.org
[4] https://it.internationalism.org/content/noi-la-crisi-non-la-paghiamo
[5] https://it.internationalism.org/content/manifestazione-di-liceali-e-universitari-germania-manifestiamo-perche-ci-stanno-rubando-il
[6] https://it.internationalism.org/content/grecia-germania-francia-italia-spagna-le-rivolte-dei-giovani-confermano-lo-sviluppo-della
[7] https://en.internationalism.org/icconline/201011/4076/studentworker-demonstrations-we-need-control-our-own-struggles
[8] https://en.internationalism.org/content/4111/revolt-universities-colleges-schools-beacon-whole-working-class
[9] http://www.caunapoli.org/index.php?option=com_content&view=article&id=751:caricati-gli-studenti-che-protestavano-al-teatro-san-carlo-contro-i-tagli-alla-cultura&catid=42:comunicati-nostri&Itemid=138
[10] https://www.flickr.com/photos/cau_napoli/sets/72157625515285532/
[11] https://corrieredelveneto.corriere.it/veneto/notizie/universita/2010/27-novembre-2010/sogni-lotte-studenti-ma-sessantotto-era-un-altra-cosa-1804257098470.shtml
[12] https://www.precaria.org/assemblea-metropolitana-stati-generali-della-precarieta.html
[13] https://it.internationalism.org/content/italia-la-maturazione-della-lotta-di-classe
[14] https://www.precaria.org/stati-generali-2010/ii-incontro-nazionale-dei-lavoratori-uniti-contro-la-crisi/
[15] https://it.internationalism.org/en/tag/4/75/italia
[16] https://it.internationalism.org/en/tag/situazione-italiana/lotte-italia
[17] https://it.internationalism.org/content/dietro-lo-scandalo-di-escort-festini-e-cocaina-gli-scontri-nella-maggioranza-governativa
[18] https://it.internationalism.org/content/i-perche-dello-scontro-fini-berlusconi
[19] https://it.internationalism.org/content/956/il-paradosso-della-borghesia-italiana
[20] https://it.internationalism.org/content/epidemia-di-colera-ad-haiti-la-borghesia-e-una-classe-di-assassini
[21] https://it.internationalism.org/content/proposito-degli-appelli-di-saviano-se-la-malavita-avvelena-la-societa-la-risposta-non-e-piu
[22] https://it.internationalism.org/url154/plastica
[23] https://it.internationalism.org/rint/30/disastri-ambientali
[24] http://www.robertosaviano.it/gallery/vieni-via-con-me-4a-puntata-la-costituzione-italiana
[25] http://www.robertosaviano.it
[26] https://www.repubblica.it/politica/2010/09/29/news/saviano_macchina_paura-7530177/index.html?ref=search
[27] https://it.internationalism.org/en/tag/situazione-italiana/politica-della-borghesia-italia
[28] mailto:lecole_duraille_trenteseptcinq@yahoogroupes.fr
[29] https://it.internationalism.org/en/tag/4/70/francia
[30] https://it.wikipedia.org/wiki/Irlanda
[31] https://it.internationalism.org/en/tag/4/74/irlanda
[32] https://it.internationalism.org/en/tag/3/47/economia
[33] https://fr.sputniknews.africa/
[34] https://it.internationalism.org/en/tag/3/42/ambiente
[35] https://it.internationalism.org/en/tag/2/30/la-questione-sindacale