La "Sinistra Comunista" è in gran parte il prodotto di quelle sezioni del proletariato mondiale che hanno rappresentato la minaccia più grande per il capitalismo durante l'ondata rivoluzionaria internazionale che ha seguito la guerra del 1914-18: il proletariato russo, quello tedesco e l'italiano. Sono queste sezioni "nazionali" che hanno dato il contributo più significativo all'arricchimento del marxismo nel contesto della nuova epoca di decadenza del capitalismo inaugurata dalla guerra. Ma coloro che si sono elevati più in alto sono anche quelli che sono caduti più in basso.
Abbiamo visto negli articoli precedenti di questa serie come le correnti di sinistra del partito bolscevico, dopo i loro primi tentativi eroici di capire e resistere all'inizio della controrivoluzione stalinista, furono quasi completamente eliminate da quest'ultimo, lasciando ai gruppi di sinistra al di fuori della Russia il compito di analizzare che cosa era andato male con la rivoluzione in Russia e di definire la natura del regime che aveva usurpato il suo nome. Qui ancora, le frazioni tedesche ed italiane della Sinistra Comunista hanno svolto un ruolo assolutamente chiave, anche se non sono state le uniche (il precedente articolo di questa serie, per esempio, ha descritto l'emergere d'una corrente comunista di sinistra in Francia negli 1920-30 ed il suo contributo alla comprensione della questione russa) (1). Ma se le sconfitte subite dal proletariato furono pesanti sia in Italia che in Germania, è certamente il proletariato tedesco, che aveva tenuto effettivamente tra le sue mani la sorte della rivoluzione mondiale nel 1918-19, quello che è stato schiacciato più brutalmente e sanguinariamente dagli sforzi congiunti della socialdemocrazia, dello stalinismo e del nazismo. Questo fatto tragico, insieme a determinate debolezze teoriche ed organizzative risalenti all'inizio dell'ondata rivoluzionaria e perfino prima, ha contribuito ad un processo di dissoluzione non meno devastatore di quello che è capitato al movimento comunista in Russia.
Senza entrare nel merito del perchè è stata la Sinistra italiana che è meglio sopravvissuta al naufragio della controrivoluzione, desideriamo confutare una leggenda mantenuta da coloro che sostengono non soltanto di essere gli eredi esclusivi della Sinistra italiana storica, ma riducono la Sinistra comunista, che fu soprattutto un'espressione internazionale della classe operaia, al solo ramo italiano. I gruppi bordighisti, che esprimono più chiaramente questo atteggiamento, naturalmente riconoscono che c'era una importante componente "russa" del movimento marxista durante l'ondata rivoluzionaria ed gli avvenimenti che ne seguirono, ma escludono molte delle correnti di sinistra più significative all'interno del partito bolscevico (Ossinski, Miasnikov, Sapranov, ecc.) e tendono a riferirsi in modo positivo soltanto ai leader "ufficiali" come Lenin e Trotsky. E per quanto riguarda la sinistra tedesca, i bordighisti non fanno che ripetere tutte le deformazioni accumulate su di essa dall'Internazionale Comunista (IC): che era anarchica, sindacalista, settaria, ecc., e ciò precisamente nel momento in cui l'IC cominciava ad aprire le sue porte all'opportunismo. Per questi gruppi è logico concludere che non ci può essere motivo per discutere con le correnti che provengono da questa tradizione o che hanno tentato di fare una sintesi dei contributi delle differenti Sinistre.
Questo non fu in alcun modo il metodo adottato da Bordiga, sia nei primi anni dell'ondata rivoluzionaria, quando il giornale Il Soviet apriva le sue colonne agli articoli scritti da coloro che facevano parte della Sinistra tedesca o si trovavano nella sua orbita, quali Gorter, Pannekoek e Pankhurst; o nel periodo di riflusso, come nel 1926, quando Bordiga rispondeva molto fraternamente alla corrispondenza ricevuta dal gruppo di Korsch (1).
La Frazione italiana ha mantenuto questo atteggiamento negli anni '30. Bilan fu molto critico rispetto alle facili denigrazioni portate dall'IC nei confronti della Sinistra tedesca ed olandese ed apriva molto volentieri le sue colonne ai contributi di questa corrente, come fece per le questioni sul periodo di transizione. Anche se ha avuto disaccordi molto profondi con "gli internazionalisti olandesi", li ha rispettati come espressione genuina del proletariato rivoluzionario. Possiamo dire, con il beneficio del giudizio retrospettivo, che su molte questioni cruciali la Sinistra tedesca ed olandese è arrivata più rapidamente della Sinistra italiana a delle corrette conclusioni: per esempio, sulla natura borghese dei sindacati, sul rapporto fra il partito e i consigli operai e sulla questione trattata in questo articolo: la natura dell'URSS e la tendenza generale verso il capitalismo di stato.
Nel nostro libro sulla Sinistra olandese, per esempio, ricordiamo che Otto Rühle, una delle figure principali della Sinistra tedesca, aveva raggiunto conclusioni molto avanzate sul capitalismo di stato dal 1931.
"Uno dei primi teorici del comunismo dei consigli ad esaminare in profondità il fenomeno del capitalismo di stato fu Otto Rühle. In un libro notevole e pionieristico, pubblicato nel 1931 a Berlino sotto lo pseudonimo di Carl Steuermann, Rühle ha mostrato che la tendenza verso il capitalismo di stato era irreversibile e che nessun paese avrebbe potuto evitarlo a causa della natura mondiale della crisi. Il percorso preso dal capitalismo non era un cambiamento di natura, ma di forma, nel fine di assicurare la sua sopravvivenza come sistema: «la formula di salvezza per il mondo capitalista oggi è: un cambiamento di forma, trasformazione dei quadri, rinnovamento di facciata, senza rinunciare al fine che è il profitto. Si tratta di cercare una via che permetta al capitalismo di continuare ad un altro livello, in un altro campo dell'evoluzione».
Rühle ha previsto approssimativamente tre forme di capitalismo di stato, corrispondenti a differenti livelli di sviluppo. A causa della sua arretratezza economica, la Russia rappresentava la forma estrema del capitalismo di ato: «l'economia pianificata è stata introdotta in Russia prima che l'economia capitalista liberale avesse raggiunto il suo zenit, prima che il suo processo vitale la conducesse alla senilità». Nel caso russo, il settore privato fu completamente controllato ed assorbito dalla stato. All'altro estremo, in un'economia capitalista sviluppata come la Germania, è l'opposto che è accaduto: il capitale privato ha preso il controllo dello stato. Ma il risultato fu identico: il rafforzamento del capitalismo di stato. «c'è una terza via per arrivare al capitalismo di stato. Non attraverso l'espropriazione del capitale da parte dello stato, ma nel modo contrario: il capitale privato s'impadronisce dello stato».
Il secondo "metodo", che potrebbe essere considerato un " misto" dei due, corrisponde all'appropriazione graduale da parte dello stato di settori del capitale privato: «[lo stato] conquista un'influenza crescente sull'industria intera: poco a poco si trasforma in padrone dell'economia».
Tuttavia, il capitalismo di stato non può essere in alcun caso una "soluzione" per il capitalismo. Esso non rappresenta che un palliativo per la crisi del sistema: «il capitalismo di stato è ancora capitalismo(...) anche sotto la forma di capitalismo di stato, il capitalismo non può sperare di prolungare la sua esistenza per molto tempo. Le stesse difficoltà e gli stessi conflitti che lo obbligano ad andare dalla forma privata alla forma statale riappaiono ad un livello più elevato.». Nessuna "internazionalizzazione" del capitalismo di stato potrebbe risolvere il problema del mercato: «la soppressione della crisi non è un problema di razionalizzazione, di organizzazione o di produzione di credito, è puramente e semplicemente un problema di riuscire a vendere». (La Sinistra tedesco-olandese- edizione inglese, pag 276-7).
Anche se, come il nostro libro aggiunge, la posizione di Rühle conteneva una contraddizione nel fatto che egli vedeva nel capitalismo di stato una specie di forma "superiore" del capitalismo che stava preparando la via per il socialismo, il suo libro rimane "un contributo al marxismo di prim’ordine". In particolare, proponendo il capitalismo di stato come una tendenza universale nella nuova epoca, gettava le basi per distruggere l'illusione che il regime stalinista in Russia rappresentasse una totale eccezione in rapporto al resto del sistema mondiale.
Ma Rühle incarna le debolezze della sinistra tedesca così come le sue innegabili forze.
Primo delegato del KAPD al secondo congresso dell'IC nel 1920, Rühle vide per primo la terribile burocratizzazione che già aveva afferrato lo stato sovietico. Ma, senza prendere il tempo necessario per individuare le origini di questo processo nel tragico isolamento della rivoluzione, Rühle abbandonò la Russia senza nemmeno tentare di difendere i punti di vista del suo partito al congresso e rapidamente rigettò ogni forma di solidarietà verso il bastione russo assediato. Espulso dal KAPD per questa trasgressione, cominciò a sviluppare le basi del "consiliarismo": la rivoluzione russa non era altro che una rivoluzione borghese, la forma partito era adatta soltanto a tali rivoluzioni; tutti i partiti politici erano borghesi per natura, ora era necessario fondere gli organi economici e politici della classe in una sola organizzazione "unificata". All’interno della Sinistra tedesca in molti hanno certamente resistito a queste idee negli anni '20 e perfino negli anni '30, esse non erano in alcun modo accettate universalmente all'interno del movimento del comunismo dei consigli, come si può vedere nel testo estratto da Räte Korrespondenz che abbiamo pubblicato nella Révue Internationale n.105. Ma esse hanno certamente causato importanti guasti nella Sinistra tedesco-olandese ed enormemente accelerato il suo crollo organizzativo; allo stesso tempo, negando ogni carattere proletario alla rivoluzione russa e al partito bolscevico, esse hanno bloccato ogni possibilità di comprensione del processo di degenerazione a cui entrambi soccomberanno. Questi punti di vista riflettevano il peso reale dell'anarchismo sul movimento operaio tedesco e hanno reso più facile l'amalgama tra la tradizione della Sinistra comunista tedesca e l'anarchismo.
La Sinistra Italiana: lentamente ma con fermezza
Nel precedente articolo di questa serie, abbiamo visto che all'interno dell'ambiente politico attorno all'Opposizione di sinistra di Trotsky, compreso molti gruppi che stavano muovendosi verso le posizioni della Sinistra comunista, c'era, alla fine degli anni '20 e nel corso degli anni '30, una enorme confusione sulla questione dell'URSS; una confusione particolarmente importante era l'idea che la burocrazia fosse una specie di nuova classe non prevista dal marxismo. Data la profonda debolezza teorica che predominava anche nella Sinistra tedesca ed olandese su questo problema, non era sorprendente che la Sinistra italiana abbia abbordato questo problema con molta prudenza. Rispetto a molti altri gruppi proletari fu molto lentamente che essa arrivò a riconoscere la vera natura della Russia stalinista. Ma poiché era solidamente ancorata al metodo marxista, le sue ultime conclusioni furono più coerenti e più approfondite.
La Frazione ha abbordato "l'enigma russo" nello stesso modo con cui abbordò gli altri aspetti del "bilancio" che doveva essere tirato dai titanici scontri rivoluzionari del periodo successivo alla prima guerra mondiale, e soprattutto dalle sconfitte tragiche che il proletariato aveva sofferto: con pazienza e rigore, evitando qualsiasi giudizio affrettato, basandosi sulle conclusioni che la classe aveva tirato una volta per tutte prima di rimettere in questione delle posizioni acquisite. Riguardo alla natura dell'URSS, la Frazione era in continuità diretta con la risposta di Bordiga a Korsch che noi abbiamo esaminato nel precedente articolo di questa serie: per essa era chiaramente stabilito il carattere proletario della rivoluzione di ottobre e del partito di bolscevico che l'aveva diretta. Effettivamente possiamo dire che la comprensione crescente, da parte della Frazione, dell'epoca inaugurata dalla guerra - l'epoca della decadenza capitalista - le ha permesso di vedere, più chiaramente di Bordiga, che solo la rivoluzione proletaria era all'ordine del giorno della storia in tutti i paesi. Essa dunque non perdeva tempo in speculazioni sul carattere "borghese" o "doppio" della rivoluzione russa. Una idea che, come abbiamo visto, aveva una grande presa sulla sinistra tedesca ed olandese. Per Bilan, rigettare il carattere proletario della rivoluzione di ottobre poteva risultare solo da una specie di "nichilismo proletario", una reale perdita di fiducia nella capacità della classe operaia di portare a termine la sua propria rivoluzione (la frase proviene dall'articolo di Vercesi: "lo stato sovietico" della serie "Partito, Internazionale, Stato" in Bilan n. 21).
Niente di questo fa pensare che la Frazione avesse sposato la nozione di "invarianza del marxismo" dal 1848, che doveva divenire un credo per i bordighisti d'oggi. Al contrario: fin dall'inizio - vedi l'editoriale del n. 1 di Bilan - essa si è impegnata ad esaminare le lezioni delle recenti battaglie della classe "senza dogmatismo od ostracismo"; e questo l'ha condotta ad esigere una revisione fondamentale di alcune delle tesi di base dell'Internazionale Comunista, per esempio sulla questione nazionale. Riguardo all'URSS, insistendo sulla natura proletaria d'Ottobre, essa ha riconosciuto che durante gli anni era avvenuta una profonda trasformazione, al punto che al posto d'essere un fattore di difesa e di estensione della rivoluzione mondiale, lo "Stato proletario" aveva giocato un ruolo controrivoluzionario a scala mondiale.
Un punto di partenza ugualmente cruciale per la Frazione era che i bisogni del proletariato a scala internazionale avevano sempre la priorità su ogni espressione locale o nazionale e che in nessuna circostanza si poteva transigere sul principio dell'internazionalismo proletario. Ecco perchè il Partito comunista d'Italia aveva sempre sostenuto sempre che l'Internazionale doveva considerarsi come un unico partito mondiale le cui decisioni legavano tutte le sue sezioni, persino quelle, come in Russia., che detenevano il potere statale; è anche per questo motivo che la sinistra italiana ha subito parteggiato per l'Opposizione di Trotsky nella sua lotta contro la teoria di Stalin del socialismo in un solo paese.
Effettivamente, per la Frazione, "è non soltanto impossibile costruire il socialismo in un solo paese, ma anche stabilirne le basi. Nei paesi dove il proletariato è stato vittorioso, non si trattava di realizzazione una condizione di socialismo (attraverso l'amministrazione libera dell'economia da parte del proletariato), ma solo di salvaguardare la rivoluzione, che richiede il mantenimento di tutte le istituzioni di classe del proletariato." ("Natura ed evoluzione della rivoluzione russa - risposta al compagno Hennaut", Bilan n. 35, settembre 1936, p 1171). Qui la Frazione è andata più avanti di Trotsky, che con la sua teoria "dell'accumulazione socialista primitiva" considerava che la Russia effettivamente aveva cominciato a porre le fondamenta di una società socialista, anche se rigettava ciò che pretendeva Stalin: che una tal società già era arrivata. Per la Sinistra italiana, il proletariato non poteva realmente che stabilire la sua dominazione politica in un paese, ed anche questo sarebbe stato inevitabilmente insidiato dall'isolamento della rivoluzione.
Internazionalismo o difesa dell'URSS?
Ma malgrado questa chiarezza fondamentale, la posizione di maggioranza all'interno della Frazione era, almeno all’apparenza, simile a quella di Trotsky: l'URSS rimaneva uno stato proletario, anche se profondamente degenerato, sulla base del fatto che la borghesia era stata espropriata e che la proprietà restava nelle mani della stato che era sorto dalla rivoluzione di ottobre. La burocrazia stalinista era definita come uno strato parassita, ma non era vista come classe - come una classe capitalista o una nuova classe imprevista dal marxismo: "la burocrazia russa non è una classe, ancora meno una classe dominante, dato che non ci sono diritti particolari sulla produzione al di fuori della proprietà privata dei mezzi di produzione e che in Russia l'essenziale della collettivizzazione sussiste ancora. È certamente vero che la burocrazia russa consuma una grande parte del lavoro sociale, ma questo riguarda tutto il parassitismo sociale, che non dovrebbe essere confuso con lo sfruttamento di classe" (" I problemi del periodo di transizione, parte IV", Bilan n. 37, nov.-dic. 1936).
Durante i primi anni della vita della Frazione, la questione di sapere se era necessario difendere questo regime non fu mai completamente risolta e resterà ambigua nel primo numero di Bilan nel 1933, dove il tono è quello di avvisare il proletariato d'un possibile tradimento: "Le frazioni di sinistra hanno il dovere di mettere in guardia il proletariato sul ruolo che ha giocato l'URSS nel movimento operaio e di indicare fin d'ora l'evoluzione che avrà lo stato proletario sotto la direzione del centrismo. Fin da ora bisogna che sia chiara e lampante la dissociazione della politica imposta dal centrismo allo stato operaio. Deve essere gettato l'allarme tra la classe operaia contro la posizione che il centrismo imporrà allo Stato russo non nei suoi interessi, ma contro i suoi interessi. Domani, e bisogna dirlo da oggi, il centrismo tradirà gli interessi del proletariato.
Un tale atteggiamento energico è capace di risvegliare l'attenzione dei proletari, di strappare i membri del partito alla presa del centrismo, di difendere realmente lo Stato operaio. Solo un tale atteggiamento, può mobilitare delle energie per la lotta che conserverà al proletariato l'Ottobre 1917." ("Verso l'Internazionale due e tre quarti" Bilan, n. 1, nov. 1933, p.26 - Rivista Internazionale n° 3, pag. 13)
Nello stesso tempo, la Frazione è sempre stata vivamente cosciente della necessità di seguire l'evoluzione della situazione mondiale e giudicare su un criterio semplice ma chiaro la questione della difesa dell'URSS: essa svolgeva o no un ruolo completamente controrivoluzionario a livello internazionale? Una politica di difesa minava la possibilità di mantenere un ruolo strettamente internazionalista in tutti i paesi? In caso affermativo questo avrebbe avuto molta più importanza che sapere se sussisteva qualche "guadagno" concreto della rivoluzione d'ottobre all'interno della Russia. E qui il suo punto di partenza era radicalmente differente da quello di Trotsky, per il quale il carattere "proletario" del regime era in sé una giustificazione sufficiente per una politica di difesa, qualunque fosse il suo ruolo nell'arena mondiale.
Il metodo seguito da Bilan nei confronti di questo problema era intimamente legato alla sua concezione del corso storico: dal 1933 in poi la Frazione dichiara con una certezza crescente che il proletariato aveva subito una profonda sconfitta e che il corso ora era aperto ad una seconda guerra mondiale. Il trionfo del nazismo in Germania ne fu una prova, l'arruolamento
del proletariato nei paesi "democratici" dietro la bandiera dell'antifascismo ne fu un'altra; ma una conferma ulteriore fu precisamente "la vittoria del centrismo" - termine che Bilan usava ancora per descrivere lo stalinismo- all'interno dell'URSS e dei partiti comunisti e, nello stesso tempo, l'incorporazione crescente dell'Unione Sovietica nella marcia verso una nuova suddivisione imperialista del globo. Ciò era evidente per Bilan nel 1933, quando l'URSS fu riconosciuta dagli Stati Uniti (un evento descritto come "vittoria per la controrivoluzione mondiale" nel titolo di un articolo in Bilan n. 2, dicembre del 1933). Alcuni mesi più tardi, alla Russia fu accordato il diritto d'entrare alla Società delle Nazioni (antenata dell'ONU): "l'entrata della Russia nella Società delle Nazioni pone immediatamente il problema della partecipazione della Russia ad uno dei blocchi imperialisti per la prossima guerra." ("La Russia sovietica entra nel concerto dei briganti imperialisti, Bilan n. 8, giugno 1934, p. 263). Il brutale ruolo giocato dallo stalinismo contro la classe operaia fu confermato in seguito dal suo ruolo nel massacro degli operai in Spagna e dai processi di Mosca, attraverso i quali un'intera generazione dei rivoluzionari fu eliminata.
Questi sviluppi condussero la Frazione a rigettare definitivamente ogni politica di difesa dell'URSS. Ciò a sua volta ha contrassegnato una fase ulteriore nella rottura fra la Frazione ed il trotzkismo. Per quest'ultimo esisteva una contraddizione fondamentale fra "lo Stato proletario" e il capitale mondiale. Quest'ultimo aveva un interesse oggettivo ad unirsi contro l'URSS ed era dunque dovere dei rivoluzionari difenderla contro gli attacchi imperialisti. Per Bilan, al contrario era chiaro che il mondo capitalista poteva adattarsi abbastanza facilmente all'esistenza dello stato sovietico e della sua economia nazionalizzata, sia a livello economico che, soprattutto, a livello militare. Ha predetto con terribile esattezza che l'URSS sarebbe stata completamente integrata in uno o nell'altro dei due blocchi imperialisti che si sarebbero confrontati nella futura guerra, anche se la questione di sapere in quale blocco in particolare non era stata ancora decisa. La Frazione dimostrò in modo molto esplicito che la posizione trotzkista di difesa non poteva condurre che all'abbandono dell'internazionalismo di fronte alla guerra imperialista:
"Inoltre, secondo i bolscevico-leninisti, in caso di «alleanza dell'URSS con uno stato imperialista o con un raggruppamento imperialista contro un altro raggruppamento», il proletariato dovrà quanto meno difendere l'URSS. Il proletariato di un paese alleato manterrebbe la sua ostilità implacabile verso il suo governo imperialista, ma praticamente non potrebbe comunque agire come il proletariato di un paese avversario della Russia. Così, «sarebbe, per esempio, assurdo e criminale, in caso di guerra tra l'URSS e il Giappone che il proletariato americano sabotasse l'invio di armi americane all'URSS»
Noi non abbiamo naturalmente niente in comune con queste posizioni. Una volta che avesse preso parte ad una guerra imperialista, la Russia deve essere considerata, non come oggetto in sé, ma come strumento della guerra imperialista; deve essere giudicata rispetto alla lotta per la rivoluzione mondiale, cioè in funzione della lotta per l'insurrezione proletaria in tutti i paesi.
D'altronde, la posizione dei bolscevico-leninisti non si distingue da quella dei centristi e dei socialisti di sinistra. Bisogna difendere la Russia, anche se si alleasse con uno stato imperialista, pur continuando una lotta senza pietà contro «l'alleato». Ma tuttavia questa «lotta senza pietà» commette già il tradimento di classe, non appena si vieta di scioperare contro la borghesia «alleata». L'arma specifica della lotta proletaria è precisamente lo sciopero e proibirlo contro una borghesia significa rinforzare soltanto le sue posizioni ed impedire ogni reale lotta.
Come possono gli operai d'una borghesia alleata alla Russia lottare senza pietà contro quest'ultima, se non possono scatenare movimenti di sciopero?
Noi pensiamo che, in caso di guerra, il proletariato di tutti i paesi, compreso la Russia, avrebbe il dovere di concentrarsi in vista della trasformazione della guerra imperialista in guerra civile. La partecipazione dell'URSS ad una guerra di rapina non cambierebbe il carattere essenziale della guerra e lo Stato proletario non potrebbe che affondare sotto i colpi delle contraddizioni sociali che una tale partecipazione porterebbe" ("Dall'Internazionale due e tre quarti alla seconda Internazionale", Bilan n.10, agosto 1934, p 345-6). Questo passaggio è particolarmente profetico: per i trotzkisti la difesa dell'URSS, nella seconda guerra mondiale, diventa un semplice pretesto per la difesa degli interessi nazionali dei loro propri paesi.
Lungi dall'essere una forza intrinsecamente ostile al capitale mondiale, la burocrazia stalinista era vista come suo agente - come una forza attraverso la quale la classe operaia russa subiva lo sfruttamento capitalista. In numerosi articoli, Bilan ha ben mostrato con forza che questo sfruttamento era precisamente questo, una forma di sfruttamento capitalista:
"... in Russia, come in altri paesi, la corsa sfrenata all'industrializzazione conduce inesorabilmente a fare dell'uomo un pezzo dell'ingranaggio meccanico della produzione industriale. Il livello vertiginoso raggiunto dallo sviluppo della tecnica impone una organizzazione socialista della società. Il progresso incessante dell'industrializzazione dovrebbe armonizzarsi con gli interessi degli operai, altrimenti questi ultimi diverrebbero i prigionieri ed infine gli schiavi delle forze dell'economia. Il regime capitalista è l'espressione di questa schiavitù perché, attraverso i cataclismi economici e sociali, trova in essa la fonte della sua dominazione sulla classe operaia. In Russia, è sotto la legge dell'accumulazione capitalista che si realizzano le gigantesche costruzioni di officine, e i lavoratori sono alla mercé della logica di questa industrializzazione: qui incidenti ferroviari, là esplosioni nelle miniere, altrove catastrofi nelle officine." ("I processi di Mosca", Bilan n.39, gen.- feb. 1937, p.1271). Ancora, Bilan ha riconosciuto che la natura assolutamente feroce di questo sfruttamento è determinata dal fatto che la "costruzione del socialismo" fatto dall'URSS, l'industrializzazione accelerata degli anni '30, era in effetti la costruzione d'una economia di guerra in preparazione del prossimo olocausto mondiale: "L'Unione Sovietica, come gli stati capitalisti a cui è collegata, deve agire in vista di una guerra che si avvicina sempre di più: l'industria essenziale dell'economia deve quindi essere l'industria degli armamenti, che richiede un continuo rifornimento di capitale" ("L'assassinio di Kirov, la soppressione dei buoni per il pane in URSS", Bilan n.14, gennaio 1935, p. 467).
O ancora: "La burocrazia centrista russa sta estraendo il plusvalore dai suoi operai e contadini in vista della preparazione della guerra imperialista. La Rivoluzione d'Ottobre, uscita dalla lotta contro la guerra imperialista del 1914, è sfruttata dai suoi epigoni degenerati per spingere le nuove generazioni nella futura guerra imperialista" ("Il massacro di Mosca", Bilan n. 34, ago.-set. 1936, p. 1117).
Qui il contrasto con il metodo di Trotsky è evidente: mentre Trotsky non poteva astenersi ne "La Rivoluzione tradita" dal cantare i successi delle enormi "realizzazioni" economiche dell'URSS, che supponevano determinare "la superiorità del socialismo", Bilan replicava che in nessun caso il progresso verso il socialismo è misurato tramite la crescita del capitale costante, ma soltanto tramite i reali miglioramenti delle condizioni di vita e di lavoro delle masse. "Se la borghesia stabilisce la sua bibbia sulla necessità di una crescita continua del plusvalore per convertirlo in capitale, nell'interesse comune di tutte le classi (sic), il proletariato al contrario deve andare nel senso d'una diminuzione costante del lavoro non pagato, che ha inevitabilmente come conseguenza un ritmo molto più lento di accumulazione in rapporto all'economia capitalista " ("Lo Stato sovietico" Bilan n. 21, luglio-agosto 1935, p720). Questa visione, inoltre, trovava le sue radici nella comprensione di Bilan della decadenza capitalista: il rifiuto di riconoscere che l'industrializzazione stalinista era un fenomeno "progressista" non era basato soltanto sul riconoscimento che esso s'appoggiava sulla miseria assoluta delle masse, ma anche sulla comprensione della sua funzione storica come partecipante alla preparazione della guerra imperialista, essa stessa l'espressione più evidente della natura regressiva del sistema capitalista.
Se inoltre ricordiamo che Bilan era perfettamente al corrente di quel passaggio dell'Anti-Duhring dove Engels rigetta l'idea che la statizzazione in sé abbia un carattere socialista, e nei fatti più di una volta ha usato questo argomento per confutare le pretese dei difensori dello stalinismo, (cf. "Lo Stato sovietico", op. citata, e "Problemi del periodo di transizione" in Bilan n. 37), possiamo renderci conto quanto Bilan sia stato molto vicino nel vedere l'URSS di Stalin come un regime capitalista ed imperialista. Infine, fu costretto a riconoscere che dappertutto il capitalismo si appoggiava sempre di più sull'intervento dello stato per sfuggire agli effetti del crollo economico mondiale e per prepararsi per la guerra a venire. L'esempio migliore di questa analisi è contenuto negli articoli sul programma di De Man nel Belgio nei numeri 4 e 5 di Bilan. Non poteva ignorare le somiglianze fra quello che stava accadendo nella Germania nazista, nei paesi democratici e nell'URSS.
Tuttavia Bilan esitava ancora a sbarazzarsi dell'idea che l'URSS fosse uno stato proletario. Era perfettamente cosciente che il proletariato russo veniva sfruttato, ma tendeva ad esprimere questo come un rapporto che gli era direttamente imposto dal capitale mondiale senza la mediazione d'una borghesia nazionale: la burocrazia stalinista era vista come "agente del capitale mondiale" piuttosto che come espressione del capitale nazionale russo con la sua propria dinamica imperialista. Questa enfasi sul ruolo primario del capitale mondiale era completamente in conformità con la sua visione internazionalista e la sua profonda comprensione che il capitalismo è in primo luogo un sistema globale di dominazione. Ma il capitale globale, l'economia mondiale, non è una astrazione esistente al di fuori dello scontro dei capitali nazionali in competizione. Era questo ultimo pezzo del puzzle che la Frazione non è riuscita a mettere al suo posto.
Allo stesso tempo, questi ultimi scritti sembrano esprimere un'intuizione crescente che le sue posizioni sono contraddittorie, e i suoi argomenti a favore della tesi dello "Stato proletario" stavano diventando sempre più difensivi e poco sostenuti:
"Malgrado la rivoluzione di ottobre, tutto, dalla prima all'ultima pietra dell'edificio costruito sul martirio degli operai russi, dovrà essere messo da parte perché questa è l'unica posizione che permette di affermare una posizione di classe nell'URSS. Negare la «costruzione del socialismo» per arrivare alla rivoluzione proletaria, ecco dove l'involuzione di questi ultimi anni ha condotto il proletariato russo. Se obiettate che l'idea d'una rivoluzione proletaria contro uno stato proletario è un'assurdità e che si tratta di armonizzare i fenomeni denominando questo Stato uno Stato borghese, rispondiamo che coloro che ragionano in questo modo stanno esprimendo semplicemente una confusione sul problema già trattato dai nostri maestri: i rapporti tra il proletariato e lo Stato, confusione che li condurrà all'altro estremo: partecipazione all'Unione Sacra dietro allo stato capitalista della Catalogna. Questo dimostra che tanto dalla parte di Trotsky, dove sotto il pretesto di difendere le conquiste d'Ottobre si difende lo Stato russo, che dall'altra parte dove si parla di uno stato capitalista in Russia c'è un'alterazione del marxismo che conduce questa gente a difendere lo stato capitalista minacciato in Spagna." (" Quando parla il boia", Bilan n. 41, maggio-giugno 1937, p 1339). Questa argomentazione era fortemente contrassegnata dalla polemica con dei gruppi come l'Unione Comunista e la Lega dei Comunisti Internazionalisti sulla guerra di Spagna; ma essa non riesce a mostrare il collegamento logico fra la difesa della guerra imperialista in Spagna e la conclusione che la Russia si era trasformata in uno stato capitalista.
In effetti un certo numero di compagni all'interno stesso della Frazione cominciarono a mettere in dubbio la tesi dello Stato proletario e non erano gli stessi della minoranza caduta sotto l'influenza di gruppi come l'Unione o la LCI sulla questione della Spagna. Ma qualunque sia stata la discussione nel seno della Frazione nella seconda metà degli anni '30, essa fu eclissata da un altro dibattito provocato dallo sviluppo dell'economia di guerra a scala internazionale: il dibattito con Vercesi, che aveva cominciato a sostenere che il ricorso all'economia di guerra da parte del capitalismo aveva assorbito la crisi ed aveva eliminato la necessità di un'altra guerra mondiale. La Frazione è stata consumata letteralmente da questo dibattito e con le idee di Vercesi che influenzavano la maggioranza, la Frazione fu gettata nel totale smarrimento dallo scoppio della guerra (vedi il nostro libro "La Sinistra Comunista Italiana" per un resoconto più sviluppato di questo dibattito).
Era stato posto come un assioma che la guerra infine avrebbe chiarito il problema dell'URSS e se ne ebbe la prova. Non è un caso che coloro che si erano opposti al revisionismo di Vercesi sono anche quelli che hanno attivamente chiamato alla ricostituzione della Frazione italiana e alla formazione del Nucleo francese della sinistra comunista. Sono gli stessi compagni che hanno condotto il dibattito sulla questione dell'URSS. Nella sua dichiarazione di principio iniziale nel 1942, il Nucleo francese definiva ancora l'URSS come uno "strumento dell'imperialismo mondiale". Ma nel 1944 la posizione della maggioranza era perfettamente chiara: "l'avanguardia comunista potrà effettuare il suo compito di guida del proletariato verso la rivoluzione nella misura in cui sarà capace di liberarsi dalla grande menzogna «della natura proletaria» dello stato russo e di mostrarlo per quel che è, di svelare la sua natura e la sua funzione capitalista controrivoluzionaria.
È sufficiente notare che l'obiettivo della produzione rimane l'estrazione di plusvalore, per affermare il carattere capitalista dell'economia. Lo stato russo ha partecipato al corso verso la guerra, non soltanto a causa della sua funzione controrivoluzionaria nello schiacciare il proletariato, ma a causa della sua propria natura capitalista, attraverso la necessità di difendere le sue fonti di materie prime, di assicurarsi un suo posto sul mercato mondiale dove realizza il suo plusvalore, attraverso il desiderio, la necessità, di ingrandire le sue sfere di influenza economica e di aprirsi delle vie d'accesso" ("La natura non proletaria dello stato russo e la sua funzione controrivoluzionaria", Bollettino internazionale di discussione, n° 6, giugno 1944). L'URSS aveva la sua propria dinamica imperialista che trovava la sua origine nel processo di accumulazione; essa era spinta all'espansione perché l'accumulazione non può avvenire in un cerchio chiuso; la burocrazia era così una classe dirigente in tutti i sensi. Queste previsioni furono ampiamente confermate dalla brutale espansione dell'URSS in Europa Orientale alla fine della guerra.
Il processo di chiarificazione continua dopo la guerra, ancora principalmente con il gruppo francese che ha preso il nome di Gauche Communiste de France (GCF - Sinistra Comunista di Francia). Le discussioni inoltre continuarono all'interno del Partito Comunista Internazionalista (PCInt) appena formatosi, ma purtroppo non sono ben conosciute. Sembrerebbe che ci fosse moltissima eterogeneità. Alcuni compagni del PCInt svilupparono posizioni molto vicine a quelle della GCF, mentre altri sprofondarono nella confusione. L'articolo della GCF: "Proprietà privata e proprietà collettiva", Internationalisme n.10, 1946 (ripubblicato nella nostra Révue Internationale n° 61) critica Vercesi, che aveva raggiunto il PCInt, perché manteneva l'illusione che, anche dopo la guerra, l'URSS poteva ancora essere definita come uno Stato proletario; Bordiga, da parte sua, faceva ricorso in quel periodo al termine insignificante di "industrialismo di stato"; e anche se più tardi accettò di considerare l'URSS come capitalista, non ha accettato mai il termine di capitalismo di Stato e il suo significato come espressione della decadenza capitalista. In questo articolo del n. 10 di Internationalisme, al contrario, si trovano riuniti tutti i dati essenziali del problema.
Nei suoi studi teorici verso la fine degli anni '40, inizio anni '50, la GCF li mise in un insieme omogeneo. Il capitalismo di Stato era analizzato come "la forma che corrisponde alla fase decadente del capitalismo, come lo fu il capitalismo di monopolio nella sua fase di pieno sviluppo"; inoltre, non era qualcosa limitata alla Russia: "Il capitalismo di Stato non è l'appannaggio d'una frazione della borghesia o di una scuola ideologica particolare. Lo abbiamo visto installarsi tanto nell'America democratica che nella Germania di Hitler, nella Gran Bretagna 'laburista' come nella Russia 'sovietica'" . Andando oltre la mistificazione secondo la quale l'abolizione 'della proprietà privata' individuale permetteva di sbarazzarsi del capitalismo, la GCF fu capace di situare la sua analisi sulle radici materiali della produzione capitalista:
"l'esperienza russa ci insegna e ci ricorda che non sono i capitalisti che fanno il capitalismo, ma l'inverso; è il capitalismo che genera dei capitalisti… I principi capitalisti della produzione possono esistere dopo la scomparsa giuridica e anche effettiva dei capitalisti beneficiari del plusvalore. In questo caso, il plusvalore, come nel capitalismo privato, sarà reinvestito nel processo della produzione per estrarre una massa più grande di plusvalore.
In poco tempo, l'esistenza del plusvalore darà vita a degli uomini che formeranno la classe che si approprierà del plusvalore. La funzione genera l'organo. Che si tratti di parassiti, burocrati o tecnici che partecipano alla produzione, che il plusvalore sia ridistribuito in un modo diretto o indirettamente con l'intervento dello Stato, sotto forma di alti salari o di vari tipi di privilegi (come nel caso della Russia), questo non cambia niente circa il fatto fondamentale che ci troviamo in presenza di una nuova classe capitalista."
La GCF, in continuità con gli studi di Bilan sul Periodo di Transizione, ne tirò tutte le implicazioni necessarie per ciò che concerne la politica economica del proletariato dopo la presa del potere politico: da una parte, il rifiuto di confondere statizzazione con socialismo e il riconoscimento che, dopo la scomparsa dei capitalisti privati, "il pericolo reale d'un ritorno al capitalismo verrà essenzialmente dal settore dello Stato. Tanto più perché qui il capitalismo raggiunge una forma impersonale e quasi eterea. La statizzazione può servire a camuffare, per un periodo considerevole, un processo opposto al socialismo" (idem). D'altra parte, la necessità di una politica economica proletaria che attacchi radicalmente il processo di base dell'accumulazione del capitale: "al principio capitalista del lavoro accumulato che comanda il lavoro vivo in vista della produzione di plusvalore, deve essere sostituito il principio del lavoro vivo che comanda il lavoro accumulato in vista della produzione di prodotti di consumo per soddisfare i bisogni dei membri della società" (idem). Ciò non voleva dire che era possibile abolire il lavoro in eccedenza come tale, in particolare subito dopo la rivoluzione quando un intero processo di ricostruzione sociale sarebbe necessario. Tuttavia, la tendenza a capovolgere il rapporto capitalista tra ciò che il proletariato produce e ciò che consuma "dovrebbe servire da indicazione dell'evoluzione dell'economia, come barometro della natura di classe della produzione".
Non era per caso che la GCF non ha avuto timore di includere le visioni migliori della Sinistra tedesco-olandese nelle sue basi programmatiche. Nel periodo del dopoguerra, la GCF ha dedicato considerevole sforzi per riaprire la discussione con questo ramo della Sinistra comunista (vedi il nostro opuscolo 'La Gauche Communiste de France'). La sua chiarezza su alcune questioni, come il ruolo dei sindacati e il rapporto fra il partito ed i consigli operai furono certamente il frutto di questo lavoro di sintesi. Ma si può dire la stessa cosa sulla sua comprensione della questione del capitalismo di Stato: le previsioni che la Sinistra tedesca aveva sviluppato qualche decennio prima, erano ora integrate nella coerenza teorica generale della Frazione italiana. Ciò non significa che il problema del capitalismo di Stato era stato chiuso una volta per tutte: in particolare, il crollo dei regimi stalinisti alla fine degli anni '80 doveva richiedere una ulteriore riflessione e la chiarificazione sul modo in cui la crisi economica capitalista ha toccato questi regimi e determinato il loro affondamento.
Ma è la questione russa che determinerà in modo netto e definitivo, alla fine del secondo olocausto imperialista, la frontiera di classe: da allora in poi, soltanto coloro che riconoscevano la natura capitalista ed imperialista dei regimi stalinisti potevano rimanere nel campo proletario e difendere i principi internazionalisti di fronte alla guerra imperialista. La prova in negativo di ciò è fornita dalla traiettoria del trotzkismo, la cui difesa dell'URSS l'aveva condotto a tradire l'internazionalismo durante la guerra, e la cui adesione continua alla tesi dello "Stato operaio degenerato" l'ha condotto a fare l'apologia del blocco imperialista russo durante la guerra fredda. La prova in positivo è fornita dai gruppi della Sinistra comunista, la cui capacità di difendere e sviluppare il marxismo nel periodo di decadenza del capitalismo ha permesso loro infine di risolvere "l'enigma" russo e mantenere la bandiera del comunismo autentico privo dalle macchie della propaganda borghese.
CDW
* La serie completa di questi articoli è disponibile nella versione trimestrale della Rivista Internazionale, in francese, inglese e spagnolo.
Vedi Révue Internationale n. 105.
La risoluzione sulla situazione internazionale del 14° Congresso, adottata nel maggio 2001, era centrata sulla questione del corso storico nella fase di decomposizione del capitalismo (Revue Internazionale n. 106). Questa metteva molto correttamente in evidenza l’accelerazione, sia sul piano della crisi che su quello dello sprofondamento nella guerra e nella barbarie su tutto il pianeta, ed esaminava i problemi e le potenzialità di una risposta proletaria. La risoluzione che segue, proposta per la Conferenza straordinaria della CCI a Pasqua 2002, vuole essere un supplemento della prima, alla luce degli avvenimenti dell’11 settembre e della “guerra contro il terrorismo” che ne è seguito, che hanno largamente confermato le analisi generali del Congresso del 2001.
L’offensiva imperialista americana
1. I rivoluzionari marxisti possono trovarsi d’accordo con il presidente americano Bush quando questi descrive l’attacco dell’11 settembre come “un atto di guerra”. Ma con l’aggiunta che è stato un atto della guerra capitalista, un momento della guerra imperialista permanente che caratterizza l’epoca della decadenza del capitalismo. Attraverso il massacro deliberato di migliaia di civili – lavoratori per la maggior parte – la distruzione delle Twin Towers ha costituito un crimine barbaro supplementare contro l’umanità da aggiungere ad una lunga lista che include Guernica, Londra, Dresda, Hiroshima… Il fatto che il probabile esecutore del crimine sia stato un gruppo terrorista legato ad uno Stato molto povero non cambia nulla al suo carattere imperialista, perché nel periodo attuale tutti gli Stati, anche quelli che reclamano una legittimità e i signori della guerra, sono imperialisti.
La natura criminale dell’11 settembre risiede non soltanto nell’atto stesso, ma anche nella sua cinica manipolazione da parte dello Stato americano – una manipolazione che è del tutto comparabile alla cospirazione che ha circondato Pearl Harbor, quando Washington ha permesso, in maniera cosciente, che avesse luogo l’attacco del Giappone allo scopo di avere un pretesto perché gli Stati Uniti potessero entrare in guerra e mobilitare la popolazione dietro di loro. Resta ancora da precisare fino a che punto i servizi segreti dello Stato americano hanno attivamente partecipato … lasciando fare gli attacchi dell’11 settembre, benché si disponga già di una massa di elementi nel senso di un intrigo machiavellico senza scrupoli. Ma quello che è certo è il modo in cui gli Stati Uniti hanno tratto profitto dal crimine, utilizzando lo choc e la collera reali provocati nella popolazione per mobilitarla nel sostegno ad un’offensiva imperialista di ampiezza senza precedenti.
2. Sotto la bandiera dell’antiterrorismo, l’imperialismo americano ha diffuso l’ombra della guerra sull’intero pianeta. La “guerra contro il terrorismo” condotta dagli Stati Uniti ha devastato l’Afghanistan e la minaccia che la guerra si estenda all’Iraq diviene sempre più esplicita. Ma la presenza armata dell’America ha già toccato altre regioni del globo, che queste appartengano o no a “l’asse del male” (Iran, Iraq, Corea del nord). Truppe americane sono state stanziate nelle Filippine per portare aiuto alla lotta militare “Insurrezione islamica” mentre delle operazioni spettacolari sono state già lanciate nello Yemen ed in Somalia. E’ previsto quest’anno un aumento del budget americano della difesa del 14% e nel 2007 questo budget sarà dell’11% più elevato del livello medio raggiunto durante la guerra fredda. Questi dati forniscono un’indicazione sull’enorme squilibrio delle spese militari globali: la parte degli Stati Uniti ammonta attualmente al 40% del totale mondiale; il budget attuale è ben superiore a quelli cumulati da Gran Bretagna, Francia e da altri dodici paesi della NATO. In una recente “fuga di notizie”, gli Stati Uniti hanno fatto capire chiaramente che essi sono perfettamente preparati a utilizzare questo arsenale terrificante – ivi incluse le sue componenti nucleari – contro una serie di rivali. Allo stesso tempo, la guerra in Afghanistan ha riacceso le tensioni tra l’India e il Pakistan, mentre il medio oriente la carneficina aumenta di giorno in giorno, con – sempre in nome dell’antiterrorismo – il sostegno apparente degli Stati Uniti all’obiettivo espresso da Sharon di sbarazzarsi di Arafat, dell’Autorità Palestinese e di ogni possibilità di regolamentazione negoziata.
Nel periodo che ha seguito immediatamente l’11 settembre, vi è stata una quantità di discussioni sulla possibilità di una terza guerra mondiale. Questo termine è stato utilizzato in lungo e in largo dai mass media ed era in generale associato all’idea di un “crollo della civilizzazione”, di un conflitto tra “l’Occidente” moderno e l’Islam fanatico (riflesso nell’appello di Bin Laden alla Jihad contro i “cristiani e gli ebrei”). Vi è stata un’eco di questa idea finanche in certe componenti del campo politico proletario, come per esempio nel Partito Comunista Internazionale (che pubblica Il Partito) che ha scritto nel volantino diffuso dopo l’11 settembre: “Se la prima guerra imperialista basava la sua propaganda sulla demagogia irredentista della difesa nazionale, se la seconda era antifascista e democratica, la terza, pur rimanendo imperialista, prende il costume di una crociata tra opposte religioni, contro dei personaggi così donchisciotteschi, incredibili e dubbi come dei Saladini barbuti”.
Altre componenti di questo campo, come il BIPR, più capaci di riconoscere che quello che si nasconde dietro la campagna americana contro l’Islam risiede nel conflitto interimperialista tra gli Stati Uniti e i loro principali rivali, in particolare le grandi potenze europee, non sono tuttavia in grado di rifiutare in maniera netta il bombardamento mediatico sulla terza guerra mondiale perché manca loro la comprensione delle specificità storiche del periodo aperto con la disintegrazione dei due grandi blocchi imperialisti alla fine degli anni ’80. In particolare essi hanno tendenza a pensare che la formazione dei blocchi imperialisti che dovrebbero portare ad una terza guerra mondiale sia oggi ad un livello molto avanzato.
Malgrado l’aggravarsi delle contraddizioni del capitalismo, la guerra mondiale non è all’ordine del giorno
3. Per comprendere quello che questo periodo contiene di nuovo e tirare fuori così la reale prospettiva che si apre all’umanità oggi, è necessario ricordarci quello che rappresenta realmente una guerra mondiale. La guerra mondiale è l’espressione della decadenza, del carattere obsoleto del modo di produzione capitalista. E’ il prodotto dell’impasse storico nella quale è entrato il sistema quando si è stabilito come economia mondiale all’inizio del 20° secolo. Le sue radici materiali si trovano dunque in una crisi insolubile in quanto sistema economico, benché non vi sia un legame meccanico tra gli indicatori economici immediati e lo scoppio di una tale guerra. Su questa base, l’esperienza delle due guerre mondiali e i lunghi preparativi della terza tra il blocco russo e quello americano, hanno dimostrato che la guerra mondiale vuol dire un conflitto diretto per il controllo del pianeta tra blocchi militari costituiti dalle potenze imperialiste dominanti. In quanto guerra tra gli Stati capitalisti più potenti, essa richiede anche la mobilitazione e il sostegno attivo dei lavoratori di questi Stati; e ciò, a sua volta, non può realizzarsi che dopo la sconfitta di questi principali battaglioni proletari da parte della classe dominante. Un esame della situazione mondiale mostra che le condizioni richieste per una terza guerra mondiale non esistono nel prossimo futuro.
4. Non è evidentemente il caso a livello della crisi economica mondiale. L’economia capitalista si confronta sempre di più con le sue proprie contraddizioni che superano largamente quelle degli anni ’30. In questi anni, la borghesia era stata capace di reagire al grande tuffo nella depressione grazie ai nuovi strumenti del capitalismo di Stato; oggi sono proprio questi strumenti che, pur continuando a gestire la crisi e ad impedire la paralisi totale, acuiscono profondamente al tempo stesso le contraddizioni che devastano il sistema. Negli anni ’30, anche se quello che restava del mercato precapitalista non era più in grado di permettere un’espansione “pacifica” del sistema, restavano ancora grandi zone mature per uno sviluppo capitalista (in Russia, in Africa, in Asia, ecc.). Alla fine, durante questo periodo di declino del capitalismo, la guerra mondiale, malgrado il prezzo di milioni di esseri umani morti e della distruzione di secoli di lavoro umano, ha ancora potuto produrre un beneficio apparente (anche se ciò non è mai stato lo scopo della guerra da parte dei belligeranti): un lungo periodo di ricostruzione che, in legame con la politica capitalista di Stato di indebitamento, è sembrato dare un nuovo slancio di vita al sistema. Una terza guerra mondiale significherebbe la distruzione dell’umanità, né più né meno.
Quello che colpisce nel corso della crisi economica dalla fine del periodo di ricostruzione è che qualunque “soluzione”, qualunque “medicina miracolosa” sia stata provata per l’economia capitalista, si è dimostrata essere niente altro che rimedio da ciarlatani in tempi sempre più brevi.
La risposta iniziale della borghesia al riapparire della crisi alla fine degli anni ’60 è stata quella di utilizzare la maggior parte delle politiche keynesiane che le erano state di così grande aiuto durante il periodo di ricostruzione.
La reazione “monetaria” degli anni ’80, presentata come un ritorno alla realtà (illustrata dai discorsi della Thatcher secondo la quale un paese non può distribuire più di quello che guadagna), ha completamente fallito l’obiettivo di ridurre il peso delle spese dovute al debito o al costo di funzionamento dello Stato (boom dei consumi alimentato dalla speculazione immobiliare in Gran Bretagna, programma di “guerre stellari” di Reagan negli Stati Uniti).
Il boom fittizio degli anni ’80 basato sull’indebitamento e la speculazione, e accompagnato dallo smantellamento di settori interi dell’apparato produttivo e industriale, fu bruscamente arrestato con il crack del 1987. La crisi che seguì a questo crack ha fatto posto a sua volta alla “crescita” alimentata dall’indebitamento che caratterizza gli anni ’90.
Quando, con il crollo delle economie del sud-est asiatico alla fine di questo decennio, si è verificato che questa crescita era stata di fatto all’origine dell’aggravarsi della situazione economica, abbiamo dovuto assistere all’esibizione di nuove panacee, tra cui quelle della “rivoluzione tecnologica” e della “nuova economia”. Gli effetti di queste ricette miracolose sono stati i meno duraturi di tutti: proprio mentre la propaganda su “l’economia tirata da Internet” veniva lanciata, questa medicina si rivelava una grossa frode speculativa.
Oggi, i “dieci gloriosi anni” di crescita americana sono ufficialmente terminati; gli Stati Uniti hanno ammesso di essere in recessione così come hanno fatto altre potenze come la Germania; inoltre lo stato dell’economia giapponese desta una preoccupazione crescente alla borghesia mondiale che parla anche del pericolo che il Giappone prenda lo stesso cammino della Russia. Nelle regioni periferiche, il crollo catastrofico dell’economia argentina non è che la punta dell’iceberg; tutta una serie di altri paesi si trovano esattamente nella stessa situazione.
E’ vero che, contrariamente agli anni ’30, l’attacco della crisi non ha avuto come risultato immediato una politica del “ciascuno per sé” a livello economico, con i singoli paesi che si ritirano dietro barriere protezioniste. Questa reazione ha senza alcun dubbio accelerato il corso alla guerra in quegli anni. Anche l’esplosione dei blocchi, attraverso i quali il capitalismo era anche riuscito a regolare i suoi affari economici nel periodo 1945-1989, ha avuto un impatto essenzialmente al livello imperialista-militare. A livello economico, le vecchie strutture di blocco sono state adattate alla nuova situazione e la politica globale è stata quella di impedire ogni serio crollo delle economie centrali (e di permettere un crollo “controllato” delle economie periferiche messe peggio) grazie al largo ricorso a prestiti amministrati da istituzioni quali la Banca Mondiale e il FMI. La cosiddetta “mondializzazione” rappresenta, ad un certo livello, l’accordo tra le economie più potenti per limitare la concorrenza tra di loro in modo da rimanere a galla e continuare a depredare il resto del mondo. D’altra parte la borghesia proclama spesso di aver tirato le lezioni degli anni ’30 e che non permetterà più ad una guerra commerciale di degenerare direttamente in guerra mondiale tra le più grandi potenze; e vi è una briciola di verità in questa affermazione, nella misura in cui la strategia della “gestione” internazionale dell’economia è stata mantenuta nonostante tutte le rivalità nazional-imperialiste tra le grandi potenze.
Tuttavia, la determinazione della borghesia a frenare le tendenze più distruttrici dell’economia mondiale (iperinflazione e depressione simultanee, concorrenza sfrenata tra unità nazionali) si trova sempre più a fare i conti con le contraddizioni inerenti gli stessi processi. E’ chiaramente il caso della politica centrale di indebitamento che minaccia sempre più di esplodere. Nonostante le voci ottimiste sulla futura ripresa, l’orizzonte si oscura e il futuro dell’economia mondiale diviene ogni giorno più incerto. Ciò non può che acuire le rivalità imperialiste. La posizione estremamente aggressiva che gli Stati Uniti hanno adottato attualmente è certamente legata alle loro difficoltà economiche. Gli Stati Uniti con la loro economia in difficoltà saranno sempre più obbligati a ricorrere alla forza militare per mantenere il loro dominio sul mercato mondiale. Allo stesso tempo, la formazione di Euroland contiene le premesse di una guerra commerciale molto più aspra in avvenire, poiché le altre grandi economie sono costrette a rispondere all’aggressività commerciale degli Stati Uniti. La gestione borghese “globale” della crisi economica è dunque estremamente fragile e sarà minata in maniera crescente dalle rivalità sia economiche che strategico-militari.
5. A livello della sola crisi economica, il capitalismo sarebbe potuto andare alla guerra durante gli anni ’80. Durante il periodo di guerra fredda, quando i blocchi militari necessari per condurre un tale conflitto erano in piedi, il principale ostacolo alla guerra mondiale è stato il fatto che la classe operaia non era sconfitta. Oggi, questo fattore sussiste, nonostante tutte le difficoltà che la classe operaia ha incontrato nel periodo successivo al 1989 – la fase che noi caratterizziamo come quella della decomposizione del capitalismo. Ma prima di riesaminare questo punto, dobbiamo considerare un secondo fattore storico che costituisce oggi un ostacolo allo scoppio di una terza guerra mondiale: l’assenza di blocchi militari.
In passato, la sconfitta di un blocco nella guerra ha rapidamente condotto alla formazione di nuovi blocchi: il blocco della Germania che aveva combattuto nella prima guerra mondiale ha cominciato a ricostituirsi all’inizio degli anni ’30, mentre il blocco russo si è formato immediatamente dopo la seconda guerra mondiale. In seguito al crollo del blocco russo (più a causa della crisi economica che direttamente della guerra), la tendenza, inerente al capitalismo decadente, alla divisione del mondo in blocchi concorrenti si è riaffermata, con una Germania di nuovo riunificata che era il solo possibile pretendente a dirigere un nuovo blocco capace di sfidare l’egemonia degli Stati Uniti. Questa sfida si è espressa in particolare con l’interferenza della Germania nello smantellamento della Jugoslavia che ha precipitato i Balcani in uno stato di guerra da circa un decennio. Tuttavia, la tendenza alla formazione di un nuovo blocco è stata frenata in maniera significativa da altre tendenze:
- la tendenza di ogni nazione a condurre la sua propria politica imperialista “indipendente” a partire dalla fine del sistema dei blocchi della guerra fredda. Questo fattore si è principalmente affermato a causa del bisogno imperativo per le grandi potenze del vecchio blocco occidentale di liberarsi del dominio americano; ma ha anche giocato contro la possibilità che si formasse un nuovo blocco con una certa coesione contro gli USA. Così, benché il solo candidato possibile alla formazione di un tale blocco sia in effetti un’Europa dominata dalla Germania, sarebbe un errore pensare che l’Unione europea attuale (Euroland) costituisca già un tale blocco. L’unione europea è anzitutto una istituzione economica, anche se essa ha delle pretese di giocare un ruolo più importante a livello politico e militare. Un blocco imperialista è anzitutto un’alleanza militare. L’“Unione” europea è ben lontana dall’essere unita a questo livello. I due attori chiave di qualunque futuro blocco imperialista basato in Europa, la Francia e la Germania, sono costantemente ai ferri corti per delle ragioni che risalgono ben lontano nella storia; e la cosa vale anche per l’Inghilterra, il cui orientamento indipendente è principalmente basato sui suoi sforzi di giocare la Germania contro la Francia, la Francia contro la Germania, gli Stati Uniti contro l’Europa e l’Europa contro gli Stati Uniti. La forza della tendenza al “ciascuno per sé” è stata confermata in questi ultimi anni dalla volontà crescente di potenze di terzo e quarto ordine di giocare la loro propria carta, sfidando spesso la stessa politica americana (Israele in Medio Oriente, l’India e il Pakistan in Asia, ecc.). Una nuova conferma viene dall’emergere dei “signori della guerra imperialisti” come Bin Laden, che cercano di giocare un ruolo mondiale e non più un semplice ruolo locale, anche quando non controllano uno Stato in particolare.
- la superiorità militare schiacciante degli Stati Uniti che è diventata sempre più evidente in questi dieci ultimi anni e che questi ultimi hanno cercato di rafforzare nei più grandi interventi che hanno condotto durante questo periodo: il Golfo, il Kosovo e adesso l’Afghanistan. In più, attraverso ognuna di queste azioni, gli Stati Uniti hanno via via rinunciato alla pretesa di agire come parte di una “comunità internazionale”: così, se la guerra del Golfo è stata condotta “legalmente” nel quadro dell’ONU, la guerra del Kosovo è stata condotta “illegalmente” nel quadro della NATO e la campagna in Afghanistan è stata condotta sotto la bandiera dell’“azione unilaterale”. Il recente budget americano della difesa non fa che sottolineare il fatto che gli Europei sono, secondo i termini del segretario generale della NATO, il generale Lord Robertson, dei “pigmei militari”, cosa che ha suscitato molti articoli nei giornali europei sui temi: “gli Stati Uniti sono forse troppo forti per il nostro benessere?” e delle inquietudini esplicite sul fatto che “l’alleanza transatlantica” faccia ormai parte del passato. Così, mentre “la guerra contro il terrorismo” è una risposta alle tensioni crescenti tra gli Stati Uniti e i loro principali rivali (tensioni che si sono espresse per esempio nella disputa sugli accordi di Kyoto e nella ripresa del progetto americano di “guerre stellari”) ed esaspera ancor più queste tensioni, il risultato dell’azione americana è di mettere ancor più in evidenza a che punto gli europei sono lontani dal poter sfidare la leadership mondiale degli Stati Uniti. D’altra parete, lo squilibrio è così grande che, come dice il nostro testo di orientamento “Militarismo e decomposizione”, scritto nel 1991, “la ricostituzione di una nuova coppia di blocchi imperialisti non soltanto non è possibile prima di lunghi anni ma potrebbe addirittura non essere più possibile in avvenire, arrivando prima di un tale evento la rivoluzione o la distruzione dell’umanità.” (Revue Internationale n. 64). Un decennio più tardi, la formazione di un vero blocco antiamericano si scontra ancora con gli stessi formidabili ostacoli.
- la formazione dei blocchi imperialisti richiede anche una giustificazione ideologica, soprattutto allo scopo di fare marciare la classe operaia. Una tale ideologia non esiste oggi. L’islam ha provato che esso poteva essere una forza potente per mobilitare gli sfruttati in certe parti del mondo, ma non ha un impatto significativo sugli operai dei paesi del cuore del capitalismo; per la stessa ragione, l’anti-islam non è sufficiente per mobilitare gli operai americani in una lotta contro i loro fratelli europei. Il problema per l’America e i suoi principali rivali, è che essi condividono la stessa ideologia “democratica” così come l’idea collegata secondo cui essi sono di fatto alleati piuttosto che dei rivali. E’ vero che una forte propaganda contro l’America viene agitata dalla classe dominante europea, ma questa non è neanche lontanamente paragonabile ai temi dell’antifascismo o dell’anticomunismo che sono serviti in passato per ottenere il sostegno alla guerra imperialista. Dietro queste difficoltà ideologiche c’è, per la classe dominante, il problema più grande: il fatto che la classe operaia non è sconfitta, e che di conseguenza non è pronta a sottomettersi alle esigenze richieste per i bisogni della guerra dal suo nemico di classe.
Il mantenimento di un corso verso scontri di classe
6. L’enorme dimostrazione di patriottismo negli Stati Uniti dopo l’attacco dell’11 settembre rende necessario il riesame di questo fondamento centrale della nostra comprensione della situazione mondiale. Negli Stati Uniti, l’atmosfera di sciovinismo ha sommerso tutte le classi sociali ed è stata scaltramente utilizzata dalla classe dominante non soltanto per scatenare a breve termine la sua “guerra contro il terrorismo”, ma anche per sviluppare una politica a più lungo termine in vista di eliminare la cosiddetta “sindrome del Vietnam”, cioè la reticenza della classe operaia americana a sacrificarsi direttamente per le avventure imperialiste degli Stati Uniti. E’ sicuro che il capitalismo americano ha fatto dei progressi ideologici importanti a questo riguardo, così come ha utilizzato gli avvenimenti per rafforzare tutto il suo apparato di sorveglianza e di repressione (un successo che ha trovato un’eco anche in Europa). Tuttavia, questi non rappresentano una sconfitta storica mondiale per la classe operaia per le ragioni seguenti:
- il rapporto di forze tra le classi non può essere determinato che a livello internazionale e fondamentalmente si gioca nel cuore dei paesi europei, là dove la sorte della rivoluzione si è decisa e si deciderà. A questo livello, mentre l’11 settembre ha dato alla borghesia europea l’occasione di presentare la sua propria versione della campagna anti-terrorista, non vi è stato uno straripamento di patriottismo paragonabile a quello che ha avuto luogo negli Stati Uniti. Al contrario, la guerra americana in Afghanistan ha suscitato un’inquietudine considerevole nella popolazione europea, cosa che si è riflessa parzialmente nell’ampiezza del movimento “contro la guerra” in questo continente. E’ certo che questo movimento è stato lanciato dalla borghesia, in parte come espressione della sua propria reticenza ad allinearsi sulla campagna di guerra americana, ma anche come mezzo per impedire ogni opposizione di classe alla guerra capitalista.
- anche negli Stati Uniti si può vedere che la marea patriottica non ha ricoperto tutto. Nel corso delle settimane durante le quali hanno avuto luogo gli attacchi, vi sono stati degli scioperi in diversi settori della classe operaia americana, anche quando questi sono stati denunciati come anti-patriottici in quanto difendevano i loro interessi di classe.
Così, i diversi fattori identificati come elementi caratterizzanti di un corso storico verso degli scontri di classe nella risoluzione del 14° Congresso restano validi:
- il lento sviluppo della combattività della classe, in particolare nelle concentrazioni centrali del proletariato. Ciò è stato confermato più recentemente dallo sciopero dei ferrovieri in Gran Bretagna e dal movimento più esteso, anche se disperso, di scioperi in Francia;
- la maturazione sotterranea della coscienza, che si esprime nello sviluppo di minoranze politicizzate in numerosi paesi. Questo processo continua e si è anche sviluppato dopo la guerra in Afghanistan (per esempio, i gruppi che difendono delle posizioni di classe e che sono usciti dalla “palude” in Gran Bretagna, Germania, ecc.)
- il peso “in negativo” del proletariato sulla preparazione e la condotta dei conflitti. Ciò si è espresso in particolare nel modo in cui la classe dominante presenta le sue grandi operazioni militari. Che sia nel Golfo, in Kosovo o in Afghanistan, la funzione reale di queste guerre viene sistematicamente nascosta al proletariato – non solo a livello degli obiettivi reali della guerra (a tale riguardo il capitalismo nasconde sempre i suoi obiettivi dietro delle belle frasi) ma anche a livello di sapere chi è realmente il nemico. Allo stesso tempo la borghesia è ancora più prudente a non mobilitare un gran numero di proletari in queste guerre. Benché la borghesia americana abbia riportato senza alcun dubbio alcuni successi ideologici significativi a questo riguardo, essa è stata tuttavia molto attenta a minimizzare le perdite americane in Afghanistan; in Europa, non è stato fatto alcun tentativo per modificare la politica consistente a inviare solo dei soldati di professione in guerra.
La guerra nella decomposizione del capitalismo
7. Per tutte queste ragioni, una terza guerra mondiale non è all’ordine del giorno nel prossimo futuro. Ma questo non è un motivo di consolazione. Gli avvenimenti dell’11 settembre hanno generato un forte sentimento che un’apocalisse sia imminente; resta l’idea che la “fine del mondo” si avvicini, se noi intendiamo per “mondo” il mondo del capitalismo, un sistema condannato che ha esaurito ogni possibilità di essere rigenerato. La prospettiva annunciata dal marxismo dal XIX secolo resta sempre socialismo o barbarie, ma la forma concreta che prende la minaccia della barbarie è differente da quella che pensavano i rivoluzionari i rivoluzionari del XX secolo, quella della distruzione della civilizzazione attraverso una sola guerra imperialista. L’entrata del capitalismo nella fase finale del suo declino, la fase di decomposizione, è condizionata dall’incapacità della classe dominante a “risolvere” la sua crisi storica attraverso un’altra guerra mondiale, ma porta con sé dei nuovi pericoli ancora più insidiosi, quelli di una discesa continua nel caos e l’autodistruzione. In un tale scenario la guerra imperialista, o piuttosto una spirale di guerre imperialiste, sarebbe sempre il principale cavaliere dell’apocalisse, ma accompagnato da fame, malattie, disastri ecologici a livello planetario e la dissoluzione di ogni legame sociale. A differenza della guerra imperialista mondiale, perché un tale scenario possa giungere alla sua conclusione non è necessario per il capitale inquadrare e sconfiggere i battaglioni centrali della classe operaia; noi siamo già confrontati con il pericolo che la classe operaia possa essere sommersa progressivamente da tutto il processo di decomposizione, e perdere poco a poco la capacità di agire come una forza cosciente antagonista al capitale e all’incubo che questo infligge all’umanità.
8. “La guerra contro il terrorismo” è dunque veramente una guerra della decomposizione capitalista. Mentre le contraddizioni economiche del sistema spingono inesorabilmente verso uno scontro tra i principali centri del capitalismo mondiale, il cammino verso un tale scontro è bloccato e prende inevitabilmente un’altra forma, come nel Golfo, in Kosovo e in Afghanistan – quella di guerre in cui il conflitto latente tra le grandi potenze viene “deviato” verso azioni militari contro delle potenze capitaliste più deboli. Nei tre casi, il principale protagonista sono stati gli Stati Uniti, lo stato più potente del mondo, che è obbligato a passare all’offensiva per impedire che emerga un rivale abbastanza forte da opporsi apertamente alla sua leader-ship, contrariamente al processo che aveva condotto alle due guerre mondiali.
9. Allo stesso tempo, la “guerra contro il terrorismo” significa molto più del semplice remake degli interventi precedenti degli Stati Uniti nel Golfo e nei Balcani. Essa rappresenta una accelerazione qualitativa della decomposizione e della barbarie in quanto:
- non si presenta più come una campagna di breve durata con degli obiettivi precisi in una regione particolare, ma come un’operazione illimitata, un conflitto quasi permanente che ha il mondo intero come scenario;
- ha degli obiettivi strategici molto più globali e più vasti, che includono una presenza decisiva degli Stati Uniti nell’Asia centrale, con lo scopo di assumere il controllo non solo in questa regione ma in Medio Oriente e nel subcontinente indiano, bloccando così ogni possibilità di espansione europea (e della Germania in particolare) in questa regione. Ciò corrisponde effettivamente ad accerchiare l’Europa. Questo spiega perché, contrariamente al 1991, gli Stati Uniti possono accollarsi adesso il rovesciamento di Saddam nella misura in cui non hanno più bisogno della sua presenza in quanto gendarme locale data la loro intenzione di imporre la loro presenza in maniera diretta. E’ in questo contesto che occorre riportare le ambizioni americane di controllare il petrolio e le altre fonti d’energia del Medio Oriente e dell’Asia Centrale. Non è, come dicono i gauchiste, una politica di profitto a breve termine condotta in nome delle compagnie petrolifere da parte del governo americano, ma una politica strategica che mira ad assumere un controllo incontestabile sulle principali vie di circolazione delle risorse di energia nel caso di futuri conflitti imperialisti. Parallelamente, l’insistenza sul fatto che la Corea del nord farebbe parte de “l’asse del male” rappresenta un avvertimento sul fatto che gli Stati Uniti si riservano anche il diritto di montare una grande operazione nell’Asia orientale – che costituisce una sfida alle ambizioni cinesi e giapponesi nella regione.
10. Tuttavia, se la “guerra contro il terrorismo” rivela il bisogno imperativo per gli Stati Uniti di creare un ordine mondiale interamente e per sempre allineato sui loro interessi militari ed economici, questa non può sfuggire al destino di tutte le altre guerre del periodo attuale: essere un fattore supplementare nell’aggravarsi del caos mondiale, ad un livello molto più elevato questa volta delle guerre precedenti:
- in Afghanistan, la vittoria degli Stati Uniti non ha contribuito in niente a stabilizzare il paese sul piano interno. Delle lotte sono già scoppiate tra le innumerevoli fazioni che hanno preso il controllo dopo la caduta dei talebani; i bombardamenti americani sono già stati utilizzati per “servire da mediazione” in queste dispute mentre altre potenze non hanno esitato a gettare olio sul fuoco, l’Iran in particolare che controlla direttamente alcune fazioni dissidenti;
- il “successo” della campagna americana contro il terrorismo islamico ha ugualmente condotto gli Stati Uniti a rivedere la loro politica nei confronti dei paesi arabi; essi sembrano molto meno inclini ad ammansirli. Il loro sostegno all’atteggiamento ultra aggressivo nei confronti dell’Autorità palestinese ha contribuito alla fine a seppellire il “processo di pace” di Oslo, portando gli scontri militari ad un livello superiore. Allo stesso tempo, i disaccordi sulla presenza di truppe americane sul suolo saudita hanno condotto a dei battibecchi con il loro cliente una volta così docile;
- la sconfitta dei talebani ha messo il Pakistan in una situazione molto difficile e la borghesia indiana ha provato ad approfittarne. Le crescenti tensioni di guerra tra queste due potenze nucleari ha delle implicazioni molto gravi per l’avvenire di questa regione, soprattutto sapendo che la Cina e la Russia sono esse stesse direttamente implicate in questo labirinto di rivalità e di alleanze.
11. Questa situazione racchiude il pericolo di una dinamica a spirale che finisce per uscire fuori da ogni controllo, che forza gli Stati Uniti a intervenire sempre più per imporre la loro autorità, moltiplicando però ogni volta le forze che sono pronte a battersi per i loro propri interessi e a contestare la loro autorità. Questo è altrettanto vero quando si tratta dei principali rivali degli Stati Uniti. La “guerra contro il terrorismo”, dopo la commedia iniziale di “gomito a gomito con gli americani”, ha già avuto per risultato un terribile aggravarsi delle tensioni tra gli Stati Uniti e i loro alleati europei. Le preoccupazioni sull’alto livello del nuovo budget della difesa americana si sono combinate a delle critiche aperte ai discorsi di Bush su “l’asse del male”. La Germania, la Francia ed anche la Gran Bretagna hanno espresso la loro reticenza ad essere prese nelle spire dei piani americani di attacco contro l’Iraq sono state particolarmente esasperate per l’integrazione dell’Iran in questo “asse” nella misura in cui la Germania e la Gran Bretagna avevano profittato della crisi afgana per accrescere la loro influenza su Teheran. Esse ben capiscono che gli Stati Uniti, pur essendo in collera con l’Iran a causa dei tentativi di quest’ultimo di colmare il vuoto in Afghanistan, utilizzano lo stesso Iran come bastone contro i loro rivali europei. La prossima fase della “guerra contro il terrorismo” che implica probabilmente un attacco importante contro l’Iraq, amplierà ancora queste differenze. Noi possiamo vedere in tutto ciò una nuova manifestazione della tendenza alla formazione dei blocchi imperialisti intorno all’America e all’Europa. Per le ragioni fornite più sopra, le controtendenze sono in progressione ma ciò non renderà il mondo più pacifico. Frustrate dalla loro inferiorità militare e da fattori sociali e politici che rendono impossibile uno scontro diretto con gli Stati Uniti, le altre grandi potenze moltiplicheranno i loro sforzi di contestazione dell’autorità degli Stati Uniti con i mezzi che sono a loro portata: le guerre per paesi interposti, gli intrighi diplomatici, ecc. L’ideale americano di un mondo unito sotto la bandiera a stelle e strisce è un sogno impossibile quanto quello di Hitler di un Reich di mille anni.
12. Nel prossimo periodo, la classe operaia e, in particolare, i lavoratori dei principali paesi capitalisti, dovranno far fronte ad una accelerazione della situazione mondiale a tutti i livelli. In particolare, apparirà nella pratica il legame profondo che esiste tra la crisi economica e la crescita della barbarie capitalista. L’intensificazione della crisi e degli attacchi contro le condizioni di vita della classe operaia non coincidono meccanicamente con lo sviluppo delle guerre e delle tensioni imperialiste. Ma si rafforzano reciprocamente: l’impasse mortale nella quale si trova l’economia mondiale fa crescere la pressione verso delle soluzioni militari; la crescita vertiginosa dei budget militari richiede dei nuovi sacrifici da parte della classe operaia; la devastazione dovuta alla guerra, senza compensazioni per delle reali “ricostruzioni” comporta come conseguenza lo sfascio ulteriore della macchina economica. Allo stesso tempo, la necessità di giustificare questi attacchi avrà per risultato dei nuovi attacchi ideologici contro la coscienza della classe operaia. I lavoratori non hanno dunque altra scelta, per difendere le loro condizioni di vita, che fare il legame tra crisi e guerra e tirare le implicazioni storiche e politiche per la loro lotta.
I pericoli che la decomposizione del capitalismo
13. I rivoluzionari possono avere fiducia nel fatto che il corso storico verso scontri di classe resti aperto, e che essi avranno un ruolo vitale da giocare nella futura polarizzazione della lotta di classe. Ma il loro ruolo non è quello di consolare la classe operaia. Il più grande pericolo per il proletariato nel prossimo periodo è l’erosione della sua identità di classe in seguito al regredire della sua coscienza che ha fatto seguito al crollo del blocco nel 1989 e aggravato dall’insidiosa avanzata della decomposizione a tutti i livelli. Se questo processo prosegue ulteriormente, la classe operaia sarà incapace di avere un’influenza decisiva sui rovesciamenti sociali e politici che si preparano inesorabilmente con l’approfondimento della crisi economica mondiale e la deriva verso il militarismo. Gli ultimi avvenimenti in Argentina ci danno una visione chiara di questo pericolo: di fronte ad una paralisi seria non solo dell’economia ma anche dell’apparato della classe dominante, la classe operaia è stata incapace di affermarsi come forza autonoma. Al contrario, i suoi movimenti embrionari (scioperi, comitati di disoccupati, ecc.) sono stati annegati all’interno di una “protesta interclassista” che non poteva offrire nessuna prospettiva e che ha permesso alla borghesia di avere tutte le possibilità di manipolare la situazione a suo favore. E’ della massima importanza per i rivoluzionari essere chiari su ciò perché le litanie gauchiste sullo sviluppo di uno sviluppo rivoluzionario in Argentina hanno avuto degli sviluppi simili all’interno di settori del campo politico proletario (ed anche della CCI) che sono l’espressione di fughe immediatiste e opportuniste. La nostra posizione sulla situazione in Argentina non è frutto di una sorta di “indifferenza” nei confronti delle lotte del proletariato dei paesi periferici. Abbiamo insistito più volte sulla capacità del proletariato di queste regioni, quando agisce sul suo proprio terreno, di offrire una direzione a tutti gli oppressi. Ad esempio il movimento di lotte operaie di massa di Cordoba nel 1969 offriva chiaramente una prospettiva agli altri strati sfruttati in Argentina e rappresentava una lotta esemplare per la classe operaia mondiale. Al contrario, gli avvenimenti recenti che alcuni hanno preso per un movimento insurrezionale molto avanzato del proletariato hanno mostrato che le poche espressioni embrionarie del proletariato sono state completamente incapaci di offrire in punto di ancoraggio e una direzione a una rivolta che è stata rapidamente agguantata dalle forze della borghesia. Il proletariato argentino ha sempre un ruolo enorme da giocare nello sviluppo delle lotte di classe in America latina; ma ciò che ha vissuto recentemente non deve essere confuso con le potenzialità future che sono più che mai determinate dallo sviluppo delle lotte della classe operaia dei paesi centrali sul suo terreno di classe.
Le responsabilità dei rivoluzionari
14. La società nel suo insieme è colpita dalla decomposizione del capitalismo, e al suo interno la borghesia in particolare. Il proletariato non ne viene risparmiato e la sua coscienza di classe, la sua fiducia nell’avvenire, la sua solidarietà di classe vengono attaccate continuamente dall’ideologia e dalle pratiche sociali prodotte da questa decomposizione: il nichilismo, la fuga in avanti nell’irrazionale e nel misticismo, l’atomizzazione e la dissoluzione della solidarietà umana rimpiazzate dalla falsa collettività delle bande, delle gang o dei clan. La stessa minoranza rivoluzionaria non è al di fuori degli effetti negativi della decomposizione attraverso in particolare la recrudescenza del parassitismo politico (1), fenomeno che, se non è specifico alla fase di decomposizione, risulta tuttavia fortemente stimolato da questa. La grande difficoltà da parte degli altri gruppi del campo politico proletario a prendere coscienza di questo pericolo, ma anche la mancanza di vigilanza che si è espressa nella stessa CCI (1), costituiscono una debolezza di primo piano. A questo bisogna aggiungere il ritorno di una tendenza alla frammentazione e allo spirito di chiusura da parte degli altri gruppi, giustificati da nuove teorie settarie espressione esse stesse del periodo. Se all’interno del campo politico proletario non si esprimono con forza sufficiente la coscienza e la volontà politica di combattere queste debolezze, allora tutto il potenziale politico rappresentato dall’emergere, nel mondo intero, di una nuova generazione di elementi alla ricerca di posizioni rivoluzionarie rischia di essere disperso. La formazione del futuro partito dipende dalla capacità dei rivoluzionari di elevarsi all’altezza di queste responsabilità.
Lungi dal costituire una distrazione rispetto alle questioni politiche reali, la comprensione da parte della CCI del fenomeno della decomposizione del capitalismo costituisce la chiave per affrontare le difficoltà politiche alle quali sono confrontate la classe operaia e le sue minoranze rivoluzionarie. Alle organizzazioni rivoluzionarie è sempre toccato il compito permanente di elaborazione teorica allo scopo di chiarificare al loro interno e all’interno della classe operaia le questioni poste dai bisogni della sua lotta. Questa è oggi una necessità ancora più imperativa per permettere alla classe operaia – la sola forza che, attraverso la sua coscienza, la sua fiducia e la sua solidarietà ha i mezzi per resistere alla decomposizione – di assumere la responsabilità storica di rovesciare il capitalismo.
1 aprile 2002
1. Vedi l’articolo sulla conferenza straordinaria della CCI pubblicato su Rivoluzione Internazionale n. 126.
Dopo gli attentati dell'11 settembre, la guerra in Afghanistan e la recrudescenza dei massacri nel Medio Oriente, altri due inquietanti avvenimenti sono stati spinti alla ribalta dell'attualità internazionale: da una parte la minaccia di guerra tra l'India e il Pakistan, due stati dotati di armi nucleari che si disputano in modo congenito e ricorrente la regione del Cachemire: dall'altra la progressione dei partiti di estrema destra in Europa occidentale che ha dato l'occasione alla borghesia d'agitare lo spauracchio del fascismo e di sviluppare gigantesche campagne democratiche. Niente sembrerebbe avvicinare i due avvenimenti, geograficamente molto lontani e su piani geopolitici completamente differenti. Per capire le radici comuni di questi due avvenimenti, occorre liberarsi da un approccio fotografico del mondo, frammentario e frazionato, consistente nell'analizzare ogni fenomeno a sé, separatamente. Solo il metodo marxista che procede con un approccio storico globale, dialettico, dinamico, collegando tra loro le differenti manifestazioni del meccanismo del capitalismo per dargli una unità e coerenza, è in grado d'integrare questi due avvenimenti in un quadro comune.
La minaccia d'una guerra nucleare tra l'India e il Pakistan da una parte e la risalita dell'estrema destra dall'altra, rinviano alla stessa realtà, sono legati ad uno stesso mondo. Sono entrambe manifestazioni della stessa impasse del modo di produzione capitalista. Mettono chiaramente in evidenza che il capitalismo non ha alcun avvenire da offrire all'umanità. Illustrano, sotto forme differenti, la realtà della fase presente di decomposizione del capitalismo caratterizzato da un imputridimento della società che ne minaccia l’esistenza stessa. La decomposizione è il risultato di un processo storico dove nessuna delle due classi antagoniste della società, il proletariato e la borghesia, è stata finora capace d'imporre la propria risposta alla crisi insolubile del capitalismo. La borghesia non ha potuto trascinare l'umanità in una terza guerra mondiale perché il proletariato dei paesi centrali del capitalismo non era disposto a sacrificare i suoi interessi sull'altare della difesa del capitale nazionale. Ma, d'altronde, questo stesso proletariato, non è stato all'altezza di affermare la propria prospettiva rivoluzionaria e d'imporsi come sola forza della società capace di offrire un’alternativa al vicolo cieco dell'economia capitalista. Per questo le lotte della classe benché abbiano potuto impedire lo scatenamento di una terza guerra mondiale, non sono state all'altezza di fermare la follia mortale del capitalismo. Ne è testimone il caos sanguinario che, con ritmo sempre più serrato, si spande giorno dopo giorno alla periferia del sistema dopo il crollo del blocco dell'est. L'intensificazione della guerra senza fine in Medio Oriente e oggi la minaccia d'un conflitto nucleare tra l'India e il Pakistan rivelano, se ce n'era ancora bisogno, questo "no future" apocalittico della decomposizione del capitalismo.
D'altra parte, il proletariato dei grandi paesi "democratici" ha subito in pieno gli effetti della manifestazione più spettacolare di questa decomposizione, il crollo del blocco dell'est. Il peso delle campagne borghesi sul preteso "fallimento del comunismo", che hanno profondamente attaccato la sua identità di classe, la fiducia in se stesso e nella prospettiva rivoluzionaria, è stato il principale fattore delle difficoltà a sviluppare le lotte e ad affermarsi come sola forza portatrice d'un avvenire per l'umanità. In assenza di lotte operaie di massa in Europa occidentale capaci di offrire una prospettiva alla società il fenomeno dell'imputridimento del capitalismo si è manifestato con lo sviluppo, nel seno del tessuto sociale, delle ideologie più reazionarie favorendo la rimonta dei partiti di estrema destra. Mentre negli anni 30 l'ascesa del fascismo e del nazismo s'inscriveva nel quadro della marcia del capitalismo verso la guerra mondiale, oggi il programma dei partiti di estrema destra, totalmente aberrante anche dal punto di vista degli interessi della classe dominante, costituisce una nuova illustrazione del "no future" del capitalismo (1). Di fronte alla gravità della situazione storica presente, è compito dei rivoluzionari contribuire alla presa di coscienza da parte del proletariato delle responsabilità che incombono su di lui. Solo lo sviluppo della lotta di classe nei paesi più industrializzati può aprire una prospettiva rivoluzionaria verso il rovesciamento del capitalismo. Solo la rivoluzione proletaria mondiale può mettere definitivamente un termine al cieco scatenamento della barbarie guerriera, della xenofobia e degli odi razziali.
Minaccia di guerra nucleare tra l'India e il Pakistan: La follia omicida del capitalismo
Dal mese di maggio le nubi minacciose di una guerra nucleare si sono addensate tra l'India e il Pakistan. Dopo l'attentato del 13 dicembre 2001 contro il parlamento indiano, le relazioni indo-pakistane si erano fortemente degradate. Con quello dell'inizio maggio 2002 a Jammu, nello stato indiano dello Jammu e Cachemire, attribuito a dei terroristi islamici, questa degradazione ha portato ai recenti scontri nel Cachemire. L'attuale conflitto tra questi due paesi, che si limita fino ad ora a quelli che i media chiamano dei "duelli d'artiglieria" che sovrasta una popolazione terrorizzata, non è il primo, in particolare per il Cachemire che ha già conosciuto centinaia di migliaia di morti, ma la minaccia del ricorso all'arma nucleare non era mai stata così seria. Il Pakistan, in posizione d'inferiorità dato che dispone di 700.000 uomini di truppa contro il 1.200.000 dell'India e di 25 missili nucleari, a corta gittata, contro 60 dell'India, aveva "annunciato chiaramente che di fronte ad un nemico superiore, era pronto a lanciare un attacco nucleare" (The Guardian, 23 maggio 2002). Da parte sua, l'India cerca deliberatamente di spingere allo scontro militare aperto. In effetti, poiché gli obiettivi del Pakistan sono di destabilizzare e far cadere il Cachemire nel suo campo attraverso le azioni di guerriglia dei suoi gruppi infiltrati, l'India ha tutto l'interesse ad interrompere questo processo con uno scontro diretto.
Le borghesie dei paesi sviluppati, americani e britannici in testa (2), si sono quindi realmente inquietate alla possibilità di uno scenario catastrofico che potrebbe causare milioni di morti. E c'è stato bisogno, in seguito all'insuccesso della conferenza dei paesi dell'Asia centrale in Kazakistan sotto la guida di Putin e teleguidata dalla Casa Bianca, che gli Stati Uniti facessero sentire il loro peso inviando il segretario di Stato alla difesa, Donald Rumsfeld, a Karachi e attraverso l'intervento diretto di Bush presso i dirigenti indiani e pakistani per far cadere la tensione. Tuttavia, come riconoscono gli stessi responsabili occidentali, i rischi di sbandamento sono solo momentaneamente schivati, ma niente è risolto.
India, Pakistan: una rivalità insormontabile
Con la spartizione dell'antico impero britannico delle Indie nel 1947, che darà vita (oltre allo Sri Lanka e alla Birmania) agli Stati indipendenti dell'India e del Pakistan occidentale ed orientale, la borghesia inglese e con essa la sua alleata americana, sapevano che creavano delle nazioni congenitamente rivali. Secondo l'adagio "dividere per meglio regnare", il fine di un tale taglio artificiale era di indebolire sulle frontiere occidentali e orientali questo paese gigantesco il cui dirigente Nehru aveva dichiarato la sua volontà di "neutralità" di fronte alle grandi potenze e di fare dell'India una potenza regionale. Nel periodo del dopoguerra in cui si disegnavano già i blocchi dell'Est e dell'Ovest, l'ascesa all'indipendenza di questo paese conteneva in effetti, per una Gran Bretagna ferocemente antirussa e per una America che cercava già di imporre la sua egemonia nel mondo, il rischio reale di vederlo passare al nemico sovietico.
Durante la formazione "democratica" della "nazione" indiana sotto la guida del Pandit Nehru, tre regioni, tra cui il futuro Stato di Jammu e Cachemire, che dovevano far parte del Pakistan, venivano annesse d'autorità dall'India, prima manifestazione di un pomo della discordia permanente che si è cristallizzato su delle rivendicazioni territoriali. Tutta la storia di questi due paesi è così delimitata da scontri militari ripetuti dove si vede New Delhi, in generale all'offensiva, cercare di guadagnare le zone che essa considera come "naturali". E’ stato così nella guerra del 1965 nel Cachemire, in quella del 1971 nel Pakistan Orientale (da dove verrà fuori l'attuale Bangladesh) e nel Cachemire, fino al conflitto di questo anno.
Ma l'interesse della borghesia indiana non sta solo nel bisogno d'espansione, proprio di ogni imperialismo. C'è la necessità da parte dello Stato indiano di farsi riconoscere come una superpotenza con la quale fare i conti, e non solo agli occhi della "comunità internazionale" dei Grandi, ma anche di fronte alla sua principale rivale, la Cina. Perché dietro l'aggressività permanente dell'India verso il Pakistan c’è la rivalità di fondo con la Cina per il posto di gendarme nel sud est asiatico.
Nel 1962 l’andamento della guerra sino-indiana e la vittoria di Pechino hanno mostrato alla borghesia indiana che la Cina era il suo peggior nemico e l’inadeguatezza del proprio armamento. Lo Stato indiano cerca quindi la rivincita contro la Cina. La guerra nel Pakistan orientale nel 1971 faceva già parte di questo quadro di ostilità imperialista al quale si consacrano le due borghesie ed è evidente che oggi un conflitto di grande portata tra l'India e il Pakistan, che lascerebbe il Pakistan esangue se non cancellato dalla carta geografica, non potrebbe che sfavorire uno Stato cinese che sostiene con tutte le sue forze d'Islamabad. Non è un caso se è stata la Cina, con la benedizione americana, a procurare al Pakistan l’arma nucleare quando questa venne "offerta" all'India dall'URSS come garanzia del "patto di cooperazione" tra i due paesi.
L'ipocrisia della grandi potenze
Oggi le grandi potenze, Stati Uniti in testa, sono certamente molto inquiete rispetto alla possibilità di una guerra nucleare tra l'India e il Pakistan, ma certo non per ragioni umanitarie. La loro preoccupazione è innanzitutto impedire che si sviluppi una nuova tappa, che sarebbe senza precedenti, nel peggioramento del "ciascuno per sé" che regna sul pianeta dopo il crollo del blocco dell'est e la scomparsa del blocco occidentale. Durante il periodo della Guerra Fredda che ha seguito la Seconda Guerra Mondiale, le rivalità tra Stati erano sotto il controllo della necessaria disciplina dei blocchi e regolati da questa disciplina. Anche un paese come l'India che cercava di fare il cavaliere solitario e trarre benefici simultaneamente dal potenziale militare dell'Est e dalla tecnologia dell'Ovest, non aveva libertà d'azione per imporsi come gendarme della regione del Sud-Est asiatico. Oggi gli Stati hanno sciolto le briglie alle loro ambizioni. Già nel 1990, appena un anno dopo la caduta del blocco russo, la minaccia di una guerra nucleare tra l'India e il Pakistan è stata bloccata sotto la pressione americana.
Ci si può rendere conto dell'intensità dell'antagonismo tra queste due potenze nucleari di secondo ordine dalle difficoltà che trovano gli Stati Uniti nell'imporre la loro volontà in questa situazione. Appena qualche mese dopo aver messo in atto un’importante manifestazione di forza in Afghanistan, allo scopo di obbligare gli altri Stati ad allinearsi dietro di essi, due dei loro alleati in questa guerra s'azzuffano. Ecco un’altra regione, dove gli Stati Uniti volevano imporre il loro ordine attraverso mezzi militari, che rischia il disastro.
Dalla fine della Guerra Fredda gli Stati Uniti hanno lanciato una serie di operazioni militari di grande portata per affermare il loro dominio sul mondo come unica superpotenza mondiale. Dopo la guerra del Golfo del 1991, al posto di un nuovo ordine mondiale, abbiamo visto l'esplosione della regione dei Balcani accompagnata dagli orrori della guerra e da una indicibile miseria permanente. Nel 1999, dopo la dimostrazione di forza americana contro la Serbia, le potenze imperialiste europee hanno continuato ad opporsi apertamente alla politica americana, in particolare a proposito dello "scudo antimissile" il cui programma viene accelerato da Bush a grande velocità. Ed è ancora per dimostrare questa volontà che gli Stati Uniti hanno devastato l'Afghanistan, con il pretesto dell'attentato dell'11 settembre. Che si tratti di grandi potenze come la Germania, la Francia o la Gran Bretagna, o delle potenze regionali come la Russia, la Cina, l'India o il Pakistan, tutti sono spinti a sbranarsi in lotte sempre più distruttrici. L'attuale conflitto tra l'India e il Pakistan che si trova, con il dopoguerra in Afghanistan, nel cuore della tormenta ne è una illustrazione flagrante.
In una tale generale situazione di caos e di "ciascuno per sé", provocata in primo luogo dall’aumentare delle tensioni le grandi potenze, l'ipocrisia di queste ultime è emersa ancora una volta. Manifestando l'inquietudine delle borghesie "civilizzate" nel vedere esplodere un conflitto nucleare, i loro media indicano il presidente pakistano, Musharraf, e il premier indiano, Vajpayee, come dei veri irresponsabili, che sembrano non "rendersi conto dell'intensità del disastro che risulterebbe dall'utilizzo delle armi atomiche, e non essere capaci di vedere che il risultato porterebbe alla completa distruzione dei loro paesi" (The Times, 1° giugno 2002).
Il bue dice all'asino cornuto! Perché, le grandi potenze, loro, sarebbero “responsabili? Responsabili, in effetti, dei bombardamenti atomici d'Hiroshima e Nagasaki alla fine della Seconda Guerra Mondiale, responsabili della proliferazione allucinante delle armi nucleari per tutta la durata della Guerra Fredda, responsabili di questa accumulazione sotto il pretesto che la "dissuasione nucleare", "l'equilibrio del terrore"(!), sarebbe stato il miglior garante della pace mondiale. E oggi, sono i paesi sviluppati che continuano ad avere le scorte più importanti di armi di distruzione di massa, comprese le armi nucleari!
La lotta contro il terrorismo, un pretesto ed una menzogna
Per la maggior parte dei media questa situazione è la conseguenza del "fondamentalismo religioso". Per la classe dominante indiana i responsabili degli attentati terroristici nel Cachemire e contro il Parlamento indiano sono i fondamentalisti islamici sostenuti dal Pakistan. Dall'altra parte, la classe dominante pakistana denuncia gli eccessi nazionalistici dei fondamentalisti indù del BJP (il partito al potere in India), in particolare la sua repressione contro i "combattenti della libertà" nel Cachemire.
In India il BJP utilizza gli attentati terroristici nel Cachemire e nel resto dell'India per giustificare le sue minacce militari contro il Pakistan. Nello stesso tempo questo partito era implicato nei massacri interetnici nello Stato del Gujarat, nel corso dei quali centinaia di fondamentalisti indù sono stati bruciati vivi in un treno da militanti islamici, e dove, in rappresaglia, migliaia di mussulmani sono stati massacrati. Parallelamente, la borghesia pakistana ha cercato di destabilizzare l'India non solo apportando il suo sostegno alla lotta condotta nel Cachemire contro il dominio indiano, ma anche denunciando il fatto, indubbio, che l'India appoggia dei gruppi terroristici in Pakistan. È iniettando in continuo il nazionalismo più virulento che, nei due campi, gli sfruttatori trascinano larghe frazioni della popolazione nel sostegno delle loro ambizioni imperialiste. L'uso dei nazionalismi, degli odi razziali e religiosi non è qualcosa di nuovo o che sarebbe riservato ai paesi della periferia. La borghesia dei principali paesi capitalisti ne ha fatto un'arte. Nel corso della Prima Guerra Mondiale entrambe le parti hanno accusato l'altra di rappresentare "il male" e di costituire una "minaccia per la civilizzazione". Negli anni '30, i nazisti e gli stalinisti hanno usato l'antisemitismo e il nazionalismo per mobilitare le loro popolazioni. Gli Alleati "civilizzati" hanno fatto di tutto per attizzare l'isteria antitedesca e antigiapponese, con l'utilizzazione cinica dell'Olocausto per giustificare i bombardamenti sulla popolazione tedesca e, come punto culminante, sganciare a due riprese l'orrore nucleare nel Giappone. Durante la Guerra Fredda i due blocchi hanno coltivato degli odi simili per regolare i loro conti. E dopo il 1989, in nome dell' "aiuto umanitario", i dirigenti delle grandi potenze hanno permesso che si moltiplicassero le "pulizie etniche" e hanno attizzato gli odi religiosi e razziali che continuano a trascinare tante regioni del pianeta in una successione di guerre e massacri.
Una minaccia maggiore per la classe operaia e il resto dell'umanità
Se il capitalismo ha bisogno di utilizzare tutte le menzogne di cui dispone per nascondere la vera natura imperialista delle sue guerre e distogliere la classe operaia dal cammino della lotta, è perché questa rappresenta una minaccia. A livello locale, in Asia del sud, la classe operaia non mostra una combattività capace di fermare una guerra. A livello internazionale, la classe operaia è attualmente impotente davanti al capitalismo che si squarcia, con il pericolo di vedere milioni di morti ricoprire in qualche minuto il suolo di una regione del pianeta.
Ma la sola forza storica che sia capace di fermare il carro incontrollabile e distruttore del capitalismo in piena decomposizione resta il proletariato internazionale, e principalmente quello dei paesi centrali del capitalismo. Sviluppando le sue lotte per la difesa dei propri interessi potrà mostrare agli operai del sub continente e delle altre regioni del mondo che esiste un’alternativa di classe al nazionalismo, all'odio religioso e razziale e alla guerra. Sul proletariato dei paesi del cuore del capitalismo incombe dunque una pesante responsabilità. E non deve quindi perdere di vista il fatto che difendendo i suoi interessi di classe, egli ha anche l'avvenire dell'umanità nelle proprie mani.
Confrontato alla follia del capitalismo in decadenza, il proletariato internazionale deve riprendere la parola d'ordine: "Proletari di tutto il mondo, unitevi". Il capitalismo non può che trascinarci nella guerra, la barbarie e la distruzione totale dell'umanità. La lotta della classe operaia è la chiave della sola alternativa possibile: la rivoluzione comunista mondiale.
ZG (18 giugno 2002)
1. Per una argomentazione più approfondita su questo argomento vedi l’articolo “Rimonta dell’estrema-destra in Europa: esiste oggi un pericolo fascista?”, pubblicato sulla Rivista Internazionale n.110 (disponibile in inglese, francese e spagnolo) 2. Bisogna notare che le borghesie americana e britannica hanno volutamente esagerato il rischio immediato, benché reale, di guerra nucleare tra India e Pakistan per giustificare la loro pressione su questi ultimi facendosi passare, al tempo stesso, per le nazioni più contrarie alla guerra ed essere certi di scavalcare altre borghesie, come la Francia, nel “regolamento” del conflitto.
Gli articoli che seguono sono stati pubblicati nel 1936 nei numeri 30 e 31 della rivista Bilan, organo della Frazione italiana della Sinistra comunista. Era fondamentale che la Frazione esprimesse la posizione marxista di fronte al conflitto arabo-israeliano in Palestina, a seguito dello sciopero generale arabo contro l’immigrazione giudea che era degenerato in una serie di pogrom sanguinari. Benché da allora un certo numero di aspetti specifici della situazione siano mutati, ciò che colpisce in questi articoli è a qual punto, ancora oggi, essi siano applicabili alla situazione di questa regione. In particolare, essi dimostrano con molta precisione come i movimenti “nazionali”, sia quelli degli ebrei che quelli degli arabi, pur essendo sorti a seguito dell’oppressione e della persecuzione, sono strettamente legati al conflitto tra gli imperialismi contrapposti; ed inoltre, questi articoli dimostrano come questi movimenti sono entrambi utilizzati per offuscare gli interessi di classe comuni dei proletari arabi ed israeliani, portandoli a massacrarsi reciprocamente per difendere gli interessi dei loro sfruttatori. Gli articoli dimostrano dunque che:
Il movimento sionista è divenuto un progetto reale solo dopo aver ricevuto il sostegno dell’imperialismo britannico che cercava di creare ciò che chiamava “una piccola Irlanda” in Medio Oriente, zona d’importanza strategica crescente con lo sviluppo dell’industria petrolifera;
la Gran Bretagna, pur sostenendo il progetto sionista, faceva anche un doppio gioco: doveva tener conto della notevole componente arabo-musulmana nel suo impero coloniale; aveva cinicamente sfruttato le aspirazioni nazionali arabe durante la prima guerra mondiale, quando la sua principale preoccupazione era chiudere i conti con l’Impero ottomano in disfacimento. Essa aveva fatto quindi tutta una serie di promesse alla popolazione araba della Palestina e del resto della regione. Questa politica classica, ligia alla regola “dividere per regnare”, aveva un doppio scopo: mantenere l’equilibrio tra le differenti aspirazioni imperialiste nazionali in conflitto nelle zone che erano sotto la sua dominazione, pur impedendo allo stesso tempo alle masse sfruttate della regioni di individuare i propri interessi materiali comuni;
il movimento di “liberazione araba”, pur opponendosi al sostegno della Gran Bretagna al sionismo, non era affatto antimperialista – così come non lo erano gli elementi in seno al sionismo che erano pronti a prendere le armi contro la Gran Bretagna. I due movimenti nazionalisti si collocavano interamente nel quadro del gioco imperialista globale. Se una frazione nazionalista si ribellava contro il suo vecchio sostenitore imperialista, non lo poteva fare se non cercando il sostegno di un altro imperialismo. Al momento della guerra di indipendenza di Israele nel 1948, praticamente tutto il movimento sionista era apertamente divenuto anti-inglese ma, ciò facendo, era già diventato uno strumento del nuovo imperialismo trionfante, gli USA, che era pronta ad utilizzare tutto quanto aveva sotto le mani per far fuori i vecchi imperi coloniali. Ugualmente, Bilan dimostra che quando il nazionalismo arabo entrò in conflitto aperto con la Gran Bretagna, ciò non fece che aprire la porta alle ambizioni dell’imperialismo italiano (ed anche tedesco); in seguito abbiamo potuto vedere la borghesia palestinese rivolgersi verso il blocco russo, poi verso la Francia ed altre potenze europee durante il suo conflitto con gli Stati Uniti.
I principali cambiamenti che hanno avuto luogo dopo che questi articoli sono stati scritti consistono evidentemente nel fatto che il sionismo è riuscito a costituire uno Stato che ha fondamentalmente mutato il rapporto di forze nella regione e che l’imperialismo dominante in questa zona non è più la Gran Bretagna ma gli Stati Uniti. Ma l’essenza del problema, anche in questo caso, resta la stessa: la creazione dello Stato di Israele, che ha avuto come conseguenza l’espulsione di decine di migliaia di palestinesi, non ha fatto che acuire al massimo la tendenza all’espropriazione dei contadini palestinesi che, come nota Bilan, era una componente del progetto sionista; e gli Stati Uniti sono, a loro volta, costretti a mantenere un equilibrio contraddittorio tra il sostegno che apportano allo Stato sionista da un lato e, dall’altro, la necessità di mantenere, finché possono, il “mondo arabo” sotto la loro influenza. Nel frattempo, i rivali degli Stati Uniti continuano a fare di tutto per utilizzare a loro vantaggio gli antagonismi tra questi ultimi ed i paesi della regione.
Ciò che è estremamente pertinente è la chiara denuncia da parte di Bilan del modo in cui i due sciovinismi, arabo ed israeliano, sono stati utilizzati per mantenere il conflitto tra gli operai; malgrado ciò, la Frazione italiana rifiutò di fare il benché minimo compromesso nella difesa dell’internazionalismo autentico: “Per il vero rivoluzionario, ovviamente, non c’è una questione “palestinese”, ma unicamente la lotta di tutti gli sfruttati del Medio Oriente, arabi ed ebrei compresi, che fanno parte della lotta più generale di tutti gli sfruttati del mondo intero per la rivolta comunista.”. Essa rigettò quindi totalmente la politica staliniana del sostegno al nazionalismo arabo con il pretesto di combattere l’imperialismo. La politica dei partiti stalinisti dell’epoca è ripresa oggi dai partiti trotskisti ed altri gruppi della estrema sinistra borghese che si fanno portavoce della “Resistenza palestinese”. Queste posizioni sono controrivoluzionarie oggi così come lo erano nel 1936.
Oggi, quando le masse di entrambe le parti sono più che mai spinte in una frenesia di odio reciproco, quando il prezzo dei massacri è tanto più alto di quello pagato negli anni 1930, l’internazionalismo intransigente resta il solo antidoto contro il veleno nazionalista.
C.C.I., giugno 2002
BILAN n° 30 (maggio-giugno 1936)
L’aggravarsi del conflitto arabo-israeliano in Palestina, l’accentuarsi dell’orientamento antibritannico del mondo arabo che durante la guerra mondiale fu una pedina dell’imperialismo inglese, ci ha indotto ad affrontare il problema ebraico e quello del nazionalismo panarabo. Tenteremo in questo articolo di trattare la prima di queste due questioni.
Si sa che dopo la distruzione di Gerusalemme da parte dei Romani e la dispersione degli ebrei, i vari paesi nei quali questi emigrarono fino a che non furono espulsi dai loro territori (non certo per le ragioni religiose invocate dalle autorità cattoliche quanto per motivazioni economiche, leggasi la confisca dei loro beni e l’annullamento del loro credito), ne regolarono le condizioni di vita secondo la bolla papale della metà del 16° secolo che divenne regola in tutti i paesi, obbligandoli a vivere rinchiusi in quartieri recintati (ghetti) e costringendoli a portare un marchio infamante. Espulsi nel 1290 dall’Inghilterra, nel 1394 dalla Francia, emigrarono in Germania, in Italia, in Polonia; espulsi dalla Spagna nel 1492 e dal Portogallo nel 1498, essi si rifugiarono in Olanda, in Italia e soprattutto nell’Impero Ottomano che occupava allora l’Africa del nord e la maggior parte dell’Europa del sud-est; là formarono e formano ancor oggi questa comunità che parla un dialetto giudeo-spagnolo, mentre quelli emigrati in Polonia, in Russia, in Ungheria, ecc., parlano il dialetto giudeo-tedesco (Yddisch). La lingua ebraica che resta in questo periodo la lingua dei rabbini fu tirata fuori dal regno delle lingue morte per divenire la lingua degli ebrei di Palestina con il movimento nazionalista giudeo attuale.
Mentre gli ebrei di Occidente, i meno numerosi, ed in parte quelli degli Stati Uniti, hanno acquisito una influenza economica e politica attraverso la loro influenza borsistica ed un’influenza intellettuale per l’elevato numero di quelli tra loro occupati in professioni liberali, le grandi masse si concentrarono nell’Europa orientale e già, alla fine del 18° secolo, costituivano l’80% degli ebrei dell’Europa. Con la prima spartizione della Polonia e l’annessione della Bessarabia, essi passarono sotto il dominio degli zar che, all’inizio del 19° secolo, avevano sui loro territori i due terzi degli ebrei. Il governo russo adottò fin dall’inizio, a partire da Caterina II, una politica repressiva, che trovò la sua espressione più feroce sotto Alessandro III che ipotizzava come soluzione del problema giudeo la seguente: un terzo deve essere convertito, un terzo deve emigrare ed un terzo deve essere sterminato. Essi erano rinchiusi in un certo numero di distretti di province del nord-ovest (Russia Bianca), del sud-est (Ucraina e Bessarabia) ed in Polonia. Erano queste le loro zone di residenza. Non potevano abitare al di fuori delle città e soprattutto non potevano risiedere nelle regioni industrializzate (bacini minerari e regioni metallurgiche). Ma è soprattutto tra questi ebrei che penetrò il capitalismo nel 19° secolo e che si determinò una differenziazione in classi.
Fu la pressione del terrorismo del governo russo che diede il primo impulso alla colonizzazione palestinese. Tuttavia i primi ebrei ritornarono in Palestina già dopo la loro espulsione dalla Spagna alla fine del 15° secolo e la prima colonia agricola fu costituita presso Jaffa nel 1870. Ma la prima emigrazione seria cominciò solo dopo il 1880, quando la persecuzione poliziesca ed i primi pogrom determinarono una emigrazione verso l’America e la Palestina. Questa prima “Alya” (immigrazione ebrea) del 1882, detta dei “Biluimes”, era in maggioranza composta da studenti russi che possono essere considerati come le pedine della colonizzazione giudea in Palestina. La seconda”Alya” si verificò nel 1904-05, a seguito dello schiacciamento della prima rivoluzione in Russia. Il numero degli ebrei stabilitisi in Palestina, che era di 12.000 nel 1850, salì a 35.000 nel 1882 ed a 90.000 nel 1914. Erano tutti ebrei russi o rumeni, intellettuali e proletari, perché i capitalisti ebrei dell’Occidente si limitarono, come i Rothschild e gli Hirsch, ad un sostegno finanziario che dava loro anche un benevole alone di filantropia, senza dover mettere a disposizione la loro preziosa persona.
Tra i “Biluimes” del 1882, i socialisti erano ancora poco numerosi, e ciò perché nel dilemma dell’epoca, cioè se l’emigrazione degli ebrei dovesse essere diretta verso la Palestina o l’America, loro parteggiavano per quest’ultima. Nella prima emigrazione giudea verso gli Stati Uniti, i socialisti furono dunque molto numerosi e vi costituirono subito delle organizzazioni, dei giornali e praticamente anche dei tentativi di colonizzazione comunista. La seconda volta che si pose la questione di decidere verso dove dirigere l’emigrazione ebrea, fu, come abbiamo detto, dopo la sconfitta della prima rivoluzione russa ed in seguito all’aggravarsi dei pogrom come quello di Kitchinew.
Il sionismo che tentava di assicurare al popolo ebreo un territorio in Palestina e che aveva costituito un Fondo Nazionale per acquistare le terre si divise, all’epoca del 7° Congresso sionista di Baie, in una corrente tradizionalista che restava fedele alla costituzione dello Stato ebreo in Palestina e in corrente territorialista che era per la colonizzazione anche altrove, e nello specifico nell’Uganda, offerta dall’Inghilterra. Solo una minoranza di socialisti ebrei, i Poales sionisti di Ber Borochov, restarono fedeli ai tradizionalisti, tutti gli altri partiti socialisti ebrei dell’epoca, come il partito dei socialisti sionisti (S.S.) ed i Serpisti – una specie di riproduzione negli ambienti ebrei degli Socialisti Rivoluzionari russi – si dichiararono per il territorialismo. La più antica e la più potente organizzazione ebrea del mondo dell’epoca, il Bund, era, come si sa, tutt’altro che contraria alla questione nazionale, per lo meno a quell’epoca.
Un momento decisivo per il movimento di rinascita nazionale fu aperto dalla guerra mondiale del 1914, e dopo l’occupazione da parte delle truppe inglesi della Palestina, alle quali era collegata la Legione ebrea di Jabotinsky, fu promulgata la dichiarazione di Balfour del 1917 che prometteva la costituzione in Palestina del Nucleo nazionale Ebreo. Questa promessa fu sancita alla Conferenza di San Remo del 1920 che pose la Palestina sotto mandato inglese. La dichiarazione di Balfour provocò una terza “Alya”, ma fu soprattutto la quarta, la più numerosa, che coincise con la rimessa del mandato palestinese all’Inghilterra. Questa “Alya” ebbe al suo interno numerosi strati di piccolo borghesi. Si sa che l’ultima immigrazione in Palestina, che seguì l’avvento al potere di Hitler e che è certamente la più importante, era composta già da una forte percentuale di capitalisti.
Se il primo censimento, effettuato nel 1922 in Palestina, considerate le devastazioni della guerra mondiale, non aveva registrato che 84.000 ebrei, l’11 per cento della popolazione totale, quello del 1931 ne censì già 175.000. Nel 1934, le statistiche dicono 307.000 su di una popolazione totale di un milione 171.000. Attualmente la cifra è 400.000 ebrei. L’80 per cento degli ebrei sono stabiliti nelle città il cui sviluppo è ben illustrato dalla comparsa rapida della città fungo di Tel Aviv; lo sviluppo dell’industria giudea è molto rapido: nel 1928 contava 3.505 fabbriche di cui 782 con più di 4 operai, cioè un totale di 18.000 operai con un capitale investito di 3,5 milioni di lire sterline. Gli ebrei stabiliti nelle campagne rappresentano solo il 20% rispetto agli arabi che costituiscono il 65% della popolazione agricola. Ma i fellahs lavorano le loro terre con dei mezzi primitivi, mentre gli ebrei nelle loro colonie e piantagioni lavorano secondo i metodi intensivi del capitalismo, con della manodopera araba pagata molto poco.
Le cifre che abbiamo fornito spiegano già un aspetto dell’attuale conflitto. A partire dal 20° secolo i giudei hanno abbandonato la Palestina ed altre popolazioni si sono stabilite sulla riva del Giordano. Benché le dichiarazioni di Balfour e le decisioni della Società delle Nazioni pretendano di assicurare il rispetto del diritto degli occupanti della Palestina, in realtà l’aumento della immigrazione giudea significa cacciare gli arabi dalle loro terre anche se esse sono state comprate a basso prezzo tramite il Fondo nazionale giudeo. Non è per umanità verso “il popolo perseguitato e senza patria” che la Gran Bretagna ha scelto una politico filo-ebraica. Sono gli interessi dell’alta finanza inglese dove gli ebrei hanno un’influenza predominante che hanno determinato questa politica. D’altra parte, dall’inizio della colonizzazione ebrea si evidenzia un contrasto tra i proletari arabi ed ebrei. Inizialmente i coloni ebrei avevano utilizzato degli operai ebrei perché sfruttavano il loro fervore nazionale per difendersi contro le incursioni arabe. Dopo, con il consolidarsi della situazione, gli industriali ed i proprietari fondiari ebrei preferirono alla mano d’opera ebrea più esigente, quella araba. Gli operai ebrei, costituendo i loro sindacati, più che alla lotta di classe, si dedicarono alla concorrenza contro i bassi salari arabi. Questo spiega il carattere sciovinista del movimento operaio ebreo che viene sfruttato del nazionalismo ebreo e dall’imperialismo britannico.
Vi sono naturalmente anche delle ragioni di natura politica che sono alla base del conflitto attuale. L’imperialismo inglese, a dispetto dell’ostilità tra le due razze, vorrebbe far coabitare sullo stesso territorio due Stati differenti e creare anche un bi parlamentarismo che prevede un parlamento distino per ebrei ed arabi. Nel campo ebreo, oltre alla direttiva temporizzatrice di Weissman, vi sono i revisionisti di Jabotinsky che combattono il sionismo ufficiale, accusano la Gran Bretagna di assenteismo, o addirittura di venir meno agli impegni assunti, e che vorrebbe indirizzare l’emigrazione ebrea verso la Transgiordania, la Siria e la penisola del Sinai. I primi conflitti, che si manifestarono nell’agosto 1929 e che si svolsero intono al Muro del pianto, provocarono, secondo le statistiche ufficiali, la morte di duecento arabi e centotrenta ebrei, cifre certamente inferiori alla realtà, perché se negli insediamenti moderni gli ebrei riuscirono a respingere gli attacchi, a Hebron, a Safi e nei pochi sobborghi di Gerusalemme, gli arabi effettuarono dei veri pogrom. Questi eventi segnarono la fine della politica filoebrea dell’Inghilterra, perché l’impero coloniale britannico aveva sul suo territorio troppi musulmani, compresa l’India, per avere sufficienti ragioni per essere prudenti.
In seguito a questo comportamento del governo britannico verso il Nucleo Nazionale Ebreo, la maggior parte dei partiti giudei: i sionisti ortodossi, i sionisti generali ed i revisionisti passarono alla opposizione, mentre l’appoggio più sicuro alla politica inglese, diretta in questa epoca dal Labour Pary, fu rappresentato dal movimento laburista ebreo che era l’espressione politica della Confederazione Generale del lavoro e che raggruppava quasi la totalità degli operai giudei in Palestina. Di recente si era manifestata, in superficie soltanto, una lotta comune del movimento ebreo ed arabo contro la potenza mandataria. Ma il fuoco covava sotto le ceneri e l’esplosione si ebbe con gli eventi del maggio scorso.
**********
La stampa fascista italiana è insorta contro l’accusa fatta dalla stampa “sanzionista” che fossero stati degli agenti fascisti a fomentare i moti in Palestina, accusa già avanzata a proposito dei recenti eventi egiziani. Nessuno può negare che il fascismo ha tutto l’interesse a soffiare su questo fuoco. L’imperialismo italiano non ha mai nascosto le sue mire verso il Medio Oriente, cioè il suo desiderio di sostituirsi alle potenze mandatarie in Palestina ed in Siria. Esso possiede, d’altronde, nel Mediterraneo una potente base navale e militare rappresentata da Rodi e le altre isole del Dodecanneso . L’imperialismo inglese, da parte sua, se si trova avvantaggiato dal conflitto tra arabi ed ebrei, perché secondo la vecchia formula romana divide et impera, bisogna dividere per regnare, deve tuttavia tener conto della potenza finanziaria degli ebrei e della minaccia del movimento nazionalista arabo. Quest’ultimo movimento, di cui parleremo più diffusamente un’altra volta, è una conseguenza della guerra mondiale che ha determinato una industrializzazione nelle Indie, in Palestina ed in Siria e rafforzato la borghesia indigena che pose la sua candidatura a governare, cioè a sfruttare le masse indigene.
Gli arabi accusano la Gran Bretagna di voler fare della Palestina il Nucleo Nazionale Giudeo, che significherebbe rubare la terra alle popolazioni indigene. Essi hanno inviato nuovamente degli emissari in Egitto, in Siria ed in Marocco per proclamare un’agitazione del mondo mussulmano a sostegno degli arabi di Palestina, al fine di cercare di intensificare il movimento, in vista dell’unione nazionale panislamica. Essi sono incoraggiati dai recenti avvenimenti della Siria dove la potenza mandataria, la Francia, è stata obbligata a capitolare davanti allo sciopero generale, ed anche dagli eventi di Egitto, dove l’agitazione e la costituzione di un Fronte unico nazionale hanno obbligato Londra a trattare da pari a pari con il governo del Cairo. Noi non sappiamo se lo sciopero generale degli arabi di Palestina otterrà parecchio successo. Esamineremo questo movimento insieme al problema arabo in un prossimo articolo.
Gatto MAMMONE
BILAN n° 31 (giugno-luglio 1936)
Come abbiamo visto nella precedente parte di questo articolo, quando, dopo cento anni di esilio, i “Biluimes” acquistarono un pezzo di territorio sabbioso a Sud di Jaffa, essi trovarono altre tribù, gli Arabi, che si erano sostituiti a loro in Palestina. Questi ultimi non erano che poche centinaia di migliaia, o Arabi fellah (contadini) o beduini (nomadi); i contadini lavoravano con dei mezzi molto primitivi, il suolo apparteneva ai proprietari fondiari (effendis). L’imperialismo inglese, come si è visto, spingendo questi latifondisti e la borghesia araba ad entrare in lotta al suo fianco durante la guerra mondiale, ha loro promesso la costituzione di uno Stato nazionale arabo. La rivolta araba fu nei fatti di un’importanza decisiva per il crollo del fronte turco-tedesco nel Medio Oriente, perché essa vanificò l’appello alla Guerra Santa lanciato dal Califfo ottomano e tenne in scacco numerose truppe turche in Siria, senza parlare della distruzione delle armate turche in Mesopotamia.
Ma se l’imperialismo britannico aveva determinato questa rivolta araba contro la Turchia, grazie alla promessa della creazione di uno Stato arabo composto da tutte le province dell’antico impero ottomano (ivi compresa la Palestina), non esitò, per la difesa dei suoi propri interessi a sollecitare come contropartita l’appoggio dei sionisti giudei, dicendo loro che la Palestina sarebbe stata loro restituita tanto dal punto di vista dell’amministrazione quanto della colonizzazione. Nello stesso tempo si metteva d’accordo con l’imperialismo francese per cedergli un mandato sulla Siria, dividendo così questa regione, che forma, con la Palestina, un’unità storica ed economica indissolubile.
**********
Nella lettera che Lord Balfour scrisse il 2 novembre 1917 a Rothschild. presidente della Federazione sionista d’Inghilterra, e nella quale egli comunicava che il governo inglese guardava con simpatia alla costituzione in Palestina di un insediamento nazionale per il popolo ebreo e che avrebbe impiegato tutti i suoi sforzi per la realizzazione di questo obiettivo, Lord Balfour aggiungeva che: niente si sarebbe fatto che potesse portare pregiudizio sia ai diritti civili e religiosi delle collettività non ebree esistenti in Palestina, sia ai diritti e allo statuto politico di cui gli ebrei godevano negli altri paesi. Malgrado i termini ambigui di questa dichiarazione, che permetteva ad un nuovo popolo di insediarsi sul loro territorio, l’insieme della popolazione araba restò indifferente all’inizio ed anche favorevole alla creazione di un insediamento nazionale ebreo. I proprietari arabi, per il timore che venisse varata una legge agraria, si mostrarono disposti a vendere alcuni terreni. I capi sionisti, unicamente per delle preoccupazioni di ordine politico non approfittarono di queste offerte e giunsero fino ad approvare la difesa del governo Albany a proposito della vendita dei terreni. Ben presto, la borghesia manifestò delle tendenze ad occupare totalmente dal punto di vista territoriale e politico la Palestina, spodestando la popolazione autoctona e respingendola verso il deserto. Questa tendenza si manifesta oggi presso i sionisti revisionisti, cioè nella corrente filofascista del movimento nazionalista giudeo.
La superficie delle terre arabe della Palestina è di circa 12 milioni di “dounnams” metrici (1 dounnams = 1 decimo di ettaro) di cui tra 5 e 6 milioni sono attualmente coltivati.
Ecco come viene stabilita la superficie delle terre coltivate dai Giudei in Palestina, dopo il 1899:
1899: 22 colonie, 5.000 abitanti, 300.000 dounnams;
1914: 43 colonie, 12.000 abitanti, 400.010 dounnams;
1922: 73 colonie, 15.000 abitanti, 600.000 dounnams;
1931: 160 colonie, 70.000 abitanti, 1.120.000 dounnams.
Per giudicare il valore reale di questa progressione e dell’influenza che ne deriva, non bisogna dimenticare che gli Arabi coltivano ancora oggi la terra in un modo primitivo, mentre i coloni ebrei impiegano i metodi più moderni di cultura. I capitali ebrei investiti nelle imprese agricole sono stimati in molti milioni di dollari, di cui il 65% nelle piantagioni. Benché gli ebrei non possiedano che il 14% delle terre coltivate, il valore dei loro prodotti raggiunge il quarto della produzione totale. Per quel che riguarda le piantagioni di arance, gli ebrei arrivano al 55% della raccolta totale.
**********
E’ nell’aprile del 1920, a Gerusalemme, e nel maggio 1921, a Jaffa, che si ebbero, sotto forma di pogrom, i primi sintomi della reazione araba. Sir Herbert Samuel, alto commissario in Palestina fino al 1925 tentò di tranquillizzare gli arabi fermando l’immigrazione ebrea, promettendo agli Arabi un governo rappresentativo ed attribuendo loro le migliori terre del patrimonio statale. Dopo la grande ondata di colonizzazione del 1925, che raggiunse il suo massimo con 33.000 immigrati, la situazione peggiorò e finì per determinare i movimenti di agosto 1929. Fu allora che si ricongiunsero alle popolazioni arabe della Palestina le tribù beduine della Transgiordania, chiamate dagli agitatori mussulmani.
In seguito a questi eventi la Commissione di Inchiesta parlamentare inviata in Palestina, e che è conosciuta con il nome di Commissione Shaw, concluse che i fatti erano dovuti all’immigrazione operai ebrea e alla “penuria” di terra e propose al governo l’acquisto di terre per risarcire i fellah sradicati dalle loro terre. Quando, successivamente, nel maggio 1930, il governo britannico accettò nel loro insieme le conclusioni della Commissione Shaw, e sospese nuovamente l’immigrazione operai giudea in Palestina, il movimento operaio ebreo – che la Commissione Shaw non aveva voluto ascoltare – rispose con uno sciopero di protesta di 24 ore, mentre in altri paesi si ebbero numerose manifestazioni di ebrei contro questa decisione. Nell’ottobre 1930 vi fu una nuova dichiarazione riguardante la politica britannica in Palestina, conosciuta con il nome di Libro Bianco.
Essa era ugualmente troppo poco favorevole alla tesi sionista. Ma, di fronte alle proteste sempre più crescenti degli ebrei, il governo laburista rispose, nel febbraio 1931 con una lettera di Mac Donald, che riaffermava il diritto al lavoro, all’immigrazione ed alla colonizzazione ebrea e che autorizzava i datori di lavoro giudei ad impiegare la mano d’opera ebrea – se preferivano questa piuttosto che gli arabi – senza tener conto dell’eventuale aumento di disoccupazione tra questi ultimi. Il movimento operaio palestinese si affrettò a dare fiducia al governo laburista inglese, mentre tutti gli altri partiti sionisti restavano in un’opposizione diffidente. Noi abbiamo mostrato, nell’articolo precedente, le ragioni del carattere sciovinista del movimento operaio in Palestina.
L’Histadrath – la principale Centrale sindacale palestinese non comprende che degli ebrei (l’80% degli operai ebrei sono organizzati). E’ solo la necessità di elevare lo standard di vita delle masse arabe, per proteggere gli alti salari della mano d’opera ebrea, che ha determinato, in questi ultimi tempi, i suoi sforzi di organizzare gli arabi. Ma gli embrioni di sindacai raggruppati nella “Alliance” restano organicamente separati dall’Histadrath, eccezion fatta per il sindacato dei ferrovieri che raggruppa i rappresentanti di tutte le due razze.
**********
Lo sciopero generale degli Arabi in Palestina entra ora nel suo quarto mese. La guerriglia continua, malgrado il recente decreto che infligge la pena di morte agli autori di attentati: ogni giorno si fanno delle imboscate e si assalgono treni ed automobili, senza contare le distruzioni e gli incendi di proprietà ebree. Questi eventi sono costati alla potenza mandataria già quasi mezzo milione di lire sterline per il mantenimento delle forze armate e per la diminuzione delle entrate, conseguenza della resistenza passiva e del boicottaggio delle masse arabe. Ultimamente, ai Comuni, il ministro delle colonie ha fornito come cifre delle vittime: 400 Mussulmani, 200 ebrei e 100 poliziotti; finora 1.800 arabi ed ebrei sono stati giudicati e 1.200 sono stati condannati di cui 300 ebrei. Secondo il ministro, un centinaio di nazionalisti arabi sono stati deportati nei campi di concentramento. Quattro capi comunisti (2 ebrei e 2 armeni) sono detenuti e 60 comunisti sono sorvegliati dalla polizia. Ecco le cifre ufficiali.
E’ evidente che la politica dell’imperialismo britannico in Palestina si ispira naturalmente ad una politica colonia le caratteristica di ogni imperialismo. Questa consiste nel fare affidamento soprattutto su certi strati della popolazione coloniale (opponendo le razze tra loro, o delle confessioni religiose differenti, o meglio ancora risvegliando delle gelosie tra clan o capi), il che permette all’imperialismo di stabilire solidamente la sua super oppressione sulle stesse masse coloniali, senza distinzione di razza o confessione. Ma, se questa manovra è potuta riuscire in Marocco e in Africa centrale, in Palestina ed in Siria il movimento nazionalista arabo presenta una resistenza molto compatta. Si appoggia sui paesi più o meno indipendenti che lo circondano: Turchia, Persia, Egitto, Irak, Stati arabi ed, inoltre, si lega all’insieme del mondo mussulmano che conta parecchi milioni di individui.
A dispetto dei contrasti esistenti tra differenti Stati mussulmani e malgrado la politica anglofila di alcuni tra loro, il grande pericolo per l’imperialismo sarebbe la costituzione di un blocco orientale capace di imporsi – il che sarebbe possibile se il risveglio e il rafforzamento del sentimento nazionalista delle borghesie indigene potesse impedire il risveglio della rivolta di classe degli sfruttati coloniali che hanno da rompere tanto con i loro sfruttatori che con l’imperialismo europeo- e che potrebbe trovare un punto di legame con la Turchia che viene da poco ad affermare i suoi diritti sui Dardanelli e che potrebbe riprendere la sua politica panislamica. Ora la Palestina è di un’importanza vitale per l’imperialismo inglese. Se i sionisti si sono illusi di ottenere una Palestina “ebrea”, in realtà essi non otterranno altro che una Palestina “britannica”, via dei transiti terrestri che lega l’Europa all’India. Essa potrebbe rimpiazzare la via marittima del Suez, la cui sicurezza viene ad essere indebolita dallo stabilirsi dell’imperialismo italiano in Etiopia. Non bisogna dimenticare inoltre che l’oleodotto di Mossoul (zona petrolifera) giunge al porto palestinese di Haifa.
Infine, la politica inglese dovrà sempre tener conto del fatto che 100 milioni di mussulmani popolano l’impero britannico. Finora l’imperialismo britannico è riuscito, in Palestina, a contenere la minaccia rappresentata dal movimento arabo di indipendenza nazionale, opponendogli il sionismo che, spingendo le masse ebree ad emigrare in Palestina, dislocava il movimento di classe del loro paese d’origine dove questo avrebbe trovato il loro posto ed, infine, si assicurava un appoggio solido alla sua politica in Medio Oriente. L’espropriazione delle terre, a dei prezzi irrisori, ha spinto i proletari arabi nella miseria più nera e li ha buttati nelle braccia dei nazionalisti arabi e dei grandi proprietari fondiari e della borghesia nascente. Quest’ultima ne ha approfittato, evidentemente, per estendere le sue mira di sfruttamento delle masse e dirige il malcontento dei fellah e proletari contro gli operai ebrei nello stesso modo in cui i capitalisti sionisti hanno diretto il malcontento degli operai ebrei contro gli arabi. Da questo contrasto tra sfruttati ebrei ed arabi, l’imperialismo britannico e le classi dirigenti arabe non possono che uscire rafforzate. Il comunismo ufficiale aiuta gli arabi nella loro lotta contro il sionismo qualificato come strumento dell’imperialismo inglese. Già nel 1929 la stampa nazionalista ebrea pubblicò una lista nera della polizia dove gli agitatori comunisti figuravano al fianco del gran Mufti e dei capi nazionalisti arabi. Attualmente numerosi militanti comunisti sono stati arrestati. Dopo aver lanciato la parola d’ordine di “arabizzazione” del partito, i centristi hanno lanciato oggi la parola d’ordine “l’Arabia agli arabi”, che non è altro che una copia della parola d’ordine “Federazione di tutti i popoli arabi” propria dei nazionalisti arabi, cioè dei latifondisti (gli effendi) e degli intellettuali che, con l’appoggio del clero mussulmano, dirigono il congresso arabo e canalizzano, in nome dei loro interessi, le reazioni degli sfruttati arabi.
Per il vero rivoluzionario, ovviamente, non c’è una questione “palestinese”, ma unicamente la lotta di tutti gli sfruttati del Medio Oriente, arabi ed ebrei compresi, che fanno parte della lotta più generale di tutti gli sfruttati del mondo intero per la rivolta comunista.
Gatto Mammone
Gli avvenimenti che si sono svolti in Argentina da dicembre 2001 a febbraio 2002 hanno suscitato un grande interesse tra gli elementi politicizzati del mondo intero. Discussioni e riflessioni hanno avuto luogo un po’ dovunque tra gli operai combattivi sul posto di lavoro. Certi gruppi trotzkisti hanno parlato finanche di “inizio della rivoluzione”.
Nel campo della Sinistra comunista, il BIPR ha dedicato numerosi articoli a questi avvenimenti e ha affermato, in una dichiarazione che: “In Argentina, i danni dovuti alla crisi economica hanno messo in moto un proletariato forte e determinato sul terreno della lotta e dell'auto-organizzazione, proprio ad esprimere una rottura di classe” (1)
L'interesse che ha suscitato la situazione di effervescenza sociale in Argentina è completamente legittimo e comprensibile. Difatti, dal crollo del blocco dell'Est nel 1989, la situazione internazionale non è stata segnata da grandi movimenti proletari di massa come invece era accaduto precedentemente, per esempio, con lo sciopero in Polonia nel 1980 o con le lotte come quelle di Cordoba in Argentina nel 1969. Lo scenario successivo è stato invece dominato dalla barbarie guerriera (la guerra del Golfo nel 1991, in Iugoslavia, in Afghanistan, nel Medio Oriente...), dagli effetti quotidiani sempre più profondi dell’avanzamento della crisi economica mondiale (licenziamenti massicci, disoccupazione, abbassamento degli stipendi e delle pensioni), e dalle differenti manifestazioni della decomposizione del capitalismo (distruzione dell’ambiente naturale, moltiplicazione delle catastrofi “naturali” e “accidentali”, sviluppo del fanatismo religioso, razziale, della criminalità, ecc.).
Questa situazione, di cui abbiamo analizzato le cause dettagliatamente (2), rappresenta il motivo per cui gli elementi politicizzati prestano un’attenzione particolare agli avvenimenti che si sono svolti in Argentina e che sembrano rompere con questo ambiente dominante “di cattive notizie”: in Argentina, le proteste di strada hanno provocato un cambio senza precedenti di presidenti (5 in 15 giorni), hanno preso la forma di numerose assemblee “auto-convocate” ed espresso rumorosamente il loro rigetto verso “tutti i politici”.
I rivoluzionari hanno il dovere di seguire attentamente i movimenti sociali per prendere posizione ed intervenire dovunque la classe operaia si manifesti. Certamente gli operai hanno partecipato alle mobilitazioni che si sono avute in Argentina e, in alcune lotte isolate, hanno anche formulato chiare rivendicazioni di classe scontrandosi con il sindacalismo ufficiale. Evidentemente noi siamo solidali con queste lotte, ma il nostro contributo più importante, in quanto gruppo rivoluzionario, è prima di tutto fare la più grande chiarezza nell’analisi di questi avvenimenti. È da questa chiarezza che dipende la capacità delle organizzazioni rivoluzionarie di condurre un intervento adeguato, facendo riferimento al quadro storico ed internazionale definito dal metodo marxista. In effetti, il peggiore errore che le avanguardie del proletariato mondiale possano fare è alimentare le illusioni all’interno della classe operaia, incoraggiandola nelle sue debolezze e facendole scambiare sconfitte per vittorie. Un tale errore, piuttosto che contribuire ad aiutare il proletariato a riprendere l’iniziativa, a sviluppare le lotte sul suo terreno di classe, ad affermarsi come sola forza sociale contro il capitale, può solo rendere il suo compito ancora più difficile.
Da questo punto di vista, la domanda che poniamo è: qual è stata la natura di classe degli avvenimenti in Argentina? È proprio vero che in questo movimento, come pensa il BIPR, il proletariato ha sviluppato la sua “auto-organizzazione” e la sua “rottura” con il capitalismo? La nostra risposta è chiara e netta: no! Il proletariato in Argentina si è trovato immerso e diluito in un movimento di rivolta interclassista. Questo movimento di protesta popolare, in cui la classe operaia è stata sommersa, non ha espresso la forza del proletariato ma la sua debolezza. Perciò la classe non è stata in grado di affermare né la sua autonomia politica, né la propria auto-organizzazione.
Il proletariato non ha bisogno di consolarsi né di aggrapparsi a illusorie chimere. Quello di cui ha bisogno è ritrovare la strada della propria prospettiva rivoluzionaria, di affermarsi sulla scena sociale come unica classe capace di offrire un avvenire all’umanità e, sulla base di questa posizione, trascinare con sé gli altri strati sociali non sfruttatori. Per tale motivo il proletariato ha bisogno di guardare la realtà in faccia, senza avere paura della verità. Per sviluppare la sua coscienza ed elevare le sue lotte all’altezza della posta in gioco della attuale situazione storica, non può risparmiare critiche alle sue debolezze, facendo una riflessione di fondo sugli errori commessi e le difficoltà incontrate. Gli avvenimenti d’Argentina serviranno al proletariato mondiale - ed a quello argentino in particolare se le sue capacità di lotta non si sono esaurite nel frattempo - a trarre una chiara lezione: cioè che la rivolta interclassista non indebolisce il potere della borghesia, ma principalmente lo stesso proletariato.
Il collasso dell'economia argentina manifestazione eclatante dell'aggravamento della crisi.
Non entreremo qui in un’analisi dettagliata della crisi economica in Argentina. Rinviamo per questo alla nostra stampa territoriale (3).
Particolarmente significative della situazione sono comunque la crescita brutale della disoccupazione, che è passata del 7% nel 1992 al 17% nell’ottobre 2001 e che ha raggiunto il 30% in tre mesi (dicembre 2001), e la comparsa, per la prima volta dall’epoca della colonizzazione spagnola, del fenomeno della fame in un paese considerato, appena recentemente, di “livello europeo” e la cui produzione principale è, precisamente, la carne ed il grano.
Lungi dal costituire un fenomeno locale, provocato da cause come la corruzione o la volontà di “vivere come gli europei”, la crisi argentina costituisce un nuovo episodio dell’aggravamento della crisi economica del capitalismo. Questa crisi è mondiale e riguarda tutti i paesi. Ma ciò non significa che li colpisce tutti allo stesso modo ed allo stesso livello. “Se non risparmia nessun paese, la crisi mondiale esercita i suoi effetti più devastanti non tanto nei paesi più evoluti, più potenti, ma in quelli che sono arrivati troppo tardi nell’arena economica mondiale e la cui strada verso lo sviluppo è sbarrata definitivamente dalle potenze più vecchie”. (“Il proletariato dell'Europa occidentale al centro della generalizzazione della lotta di classe” Revue Internationale n° 31).
Inoltre, di fronte all’aggravarsi ulteriore della crisi, i paesi più forti prendono delle misure per difendersi contro i suoi colpi e riversare questi sui paesi più deboli (“liberalizzazione” del commercio mondiale, “mondializzazione” delle transazioni finanziarie, investimenti nei settori chiave dei paesi più deboli che utilizzano le privatizzazioni, le politiche del FMI, ecc.), quello che in una sola parola si chiama “mondializzazione”. Si tratta di un insieme di misure di capitalismo di stato applicate all’economia mondiale dai grandi paesi per proteggersi dalla crisi e rovesciare i suoi effetti peggiori sulle economie più deboli (4). I dati forniti dalla Banca mondiale (5) sono eloquenti: nei venti anni tra il 1980 e il 2000, i creditori privati ricevono dall’insieme dei paesi dell’America latina 192 miliardi di dollari in più dell’importo che avevano prestato, ma in soli due anni tra il 1999 e il 2000, questa differenza ammonta, niente di meno, a 86 miliardi di dollari, praticamente la metà della differenza prodotta in 20 anni. Da parte sua, il FMI, tra il 1980 e il 2000, ha concesso ai paesi sudamericani dei crediti di un importo di 71,3 miliardi di dollari nello stesso momento in cui questi ultimi gli rimborsavano 86,7 miliardi!
Ciononostante, la situazione in Argentina è solo la punta dell’iceberg: dietro questo paese ce ne sono altri, di grande importanza come fornitori di petrolio o per la loro posizione strategica (Venezuela, la Turchia, il Messico, il Brasile, l'Arabia saudita...), che sono candidati potenziali a subire lo stesso crollo economico e politico.
Movimento autonomo di classe o rivolta interclassista cieca e caotica?
Come afferma in modo lapidario il BIPR nella sua pubblicazione italiana, il capitalismo risponde alla fame con ancora più fame. Il BIPR mostra così chiaramente l’assenza di alternative presente nelle molteplici misure di “politica economica” proclamate dai governi, dalle opposizioni o dai “movimenti alternativi” come il Social Forum di Puerto Alegre. I rimedi ingegnosi che prescrivono questi demagoghi sono stati squalificati gli uni dopo gli altri dagli stessi fatti, in 30 anni di crisi (6). Il BIPR conclude a giusta ragione: “non bisogna farsi illusioni: a questo punto, il capitalismo non ha niente altro da offrire se non la generalizzazione della miseria e della guerra. Solo il proletariato può fermare questa tragica deriva”. (7)
Tuttavia, i movimenti di protesta in Argentina sono valutati dal BIPR nel seguente modo: “[il proletariato] è sceso spontaneamente nella strada, trascinandosi i giovani, gli studenti, e parti importanti della piccola borghesia proletarizzata e depauperata come lui. Tutti insieme, hanno esercitato la loro rabbia contro i santuari del capitalismo, le banche, gli uffici e soprattutto i supermercati ed altri negozi che sono stati presi di assalto come i forni del pane nel Medioevo. Nonostante il governo che, nella speranza di intimidire i ribelli, non ha trovato niente di meglio che scatenare una repressione selvaggia, facendo numerosi morti e feriti, la rivolta non ha cessato di estendersi a tutto il paese, assumendo sempre più delle caratteristiche classiste”.
Nelle mobilitazioni sociali che hanno avuto luogo in Argentina, possiamo distinguere tre componenti:
Anzitutto, gli assalti contro i supermercati condotti essenzialmente dagli emarginati, dalla popolazione sottoproletarizzata e dai giovani disoccupati.
Questi movimenti sono stati repressi ferocemente dalla polizia, dalle guardie private e dagli stessi commercianti. In numerosi casi sono degenerati con il saccheggio di abitazioni nei quartieri poveri o di uffici, negozi (8), ecc. La principale conseguenza di questa “prima componente” del movimento sociale è che esso ha condotto a tragici scontri tra gli stessi lavoratori, come illustrato dal sanguinoso scontro tra i piqueteros che volevano impadronirsi di alimenti e gli impiegati del Mercato centrale di Buenos Aires l’11 gennaio (9).
Per la CCI, le manifestazioni di violenza all’interno della classe operaia (che sono in questo caso un’illustrazione dei metodi propri degli strati sottoproletarizzati), non sono per niente un'espressione della sua forza, ma al contrario della sua debolezza. Questi scontri violenti tra differenti parti della classe operaia costituiscono un ostacolo alla sua unità ed alla sua solidarietà e possono servire solo gli interessi della classe dominante.
La seconda componente è stata “il movimento delle cacerolas (casseruole)”
Questa è stata incarnata essenzialmente dalle “classi medie”, esasperate dal cattivo colpo ricevuto dal sequestro e dalla svalutazione dei loro risparmi, quello che si chiama corralito. La situazione di questi strati è disperata: “Da noi, la povertà si allea ad una disoccupazione elevata; a questa povertà si aggiungono i “nuovi poveri”, vecchi membri della classe media che hanno raggiunto questa posizione a causa di una mobilità sociale declinante, al contrario dell'emigrazione argentina fiorente degli inizi del ventesimo secolo”. (10) Gli impiegati del settore pubblico, i pensionati, certi settori del proletariato industriale ricevono, allo stesso modo della piccola borghesia, la pugnalata del corralito: le loro magre economie, acquisite grazie allo sforzo di tutta una vita, si trovano praticamente ridotte a nulla; questi supplementi alle pensioni di miseria si sono volatilizzati. Tuttavia, nessuna di queste caratteristiche conferisce un carattere di classe al movimento dei cacerolas, che resta una rivolta popolare interclassista, dominata da prese di posizione nazionaliste e “ultrademocratiche”.
La terza componente è formata da tutta una serie di lotte operaie
Si tratta in particolare degli scioperi di insegnanti nella grande maggioranza delle 23 province argentine, del movimento combattivo di ferrovieri a livello nazionale, dello sciopero dell’ospedale Ramos Mejias a Buenos Aires o della lotta della fabbrica Bruckmann nella Grande Buenos Aires (durante la quale hanno avuto scontri sia con la polizia in uniforme che con la polizia sindacale), della lotta degli impiegati di banca, di numerose mobilitazioni di disoccupati che, da due anni, fanno marce attraverso l’intero paese (i famosi piqueteros).
I rivoluzionari non possono evidentemente che salutare l’enorme combattività di cui ha dato prova la classe operaia in Argentina. Ma, come abbiamo sempre affermato, la combattività, per tanto forte sia, non è il solo e principale criterio che permette di avere una visione chiara del rapporto di forze tra le due classi fondamentali della società: la borghesia ed il proletariato. La prima domanda cui dobbiamo rispondere è la seguente: queste lotte operaie che sono esplose ai quattro angoli del paese ed in numerosi settori, si sono inserite in una dinamica che può sfociare in un movimento unito di tutta la classe operaia, un movimento massiccio capace di rompere il controfuoco messo in campo dalla borghesia (particolarmente le sue forze di opposizione democratica ed i suoi sindacati)? A questa domanda, la realtà dei fatti ci obbliga a rispondere chiaramente: no! Proprio perché questi scioperi operai sono rimasti sparpagliati e non hanno potuto sfociare in un gigantesco movimento unificato di tutta la classe operaia, in Argentina il proletariato non è stato in grado di stare alla testa del movimento di protesta sociale e di trascinare nella sua scia, dietro i suoi metodi di lotta, l’insieme degli strati non sfruttatori. Al contrario, a causa della sua incapacità a stare alla testa del movimento, le sue lotte sono state immerse, diluite ed inquinate dalla rivolta senza prospettiva degli altri strati sociali che, benché siano loro stessi vittime del crollo dell’economia argentina, non hanno nessuno avvenire storico. Per i marxisti, il solo modo che permette di non perdere la bussola e potersi orientare in una tale situazione si riassume nella domanda: chi dirige il movimento? Qual è la classe sociale che ha l’iniziativa e segna la dinamica del movimento? Solo se saranno capaci di dare una risposta corretta a questa domanda i rivoluzionari potranno contribuire all’avanzamento del proletariato verso la prospettiva della sua emancipazione e, di conseguenza, a quello dell’umanità tutta intera, liberandola della deriva tragica in cui porta il capitalismo.
A tale riguardo il BIPR commette un grave errore di metodo. Contrariamente alla sua visione fotografica ed empirista, non è il proletariato che ha trascinato gli studenti, i giovani e parti importanti della piccola borghesia, ma è precisamente l’inverso che è accaduto. È la rivolta disperata, confusa e caotica di un insieme di strati popolari che ha sommerso e diluito la classe operaia. Un esame sommario delle prese di posizione, delle rivendicazioni e del tipo di mobilitazione delle assemblee popolari di quartiere che hanno proliferato a Buenos Aires e si sono estese a tutto il paese, lo dimostra in tutta la sua crudezza. Cosa chiede l’appello a manifestare del cacerolazo mondiale del 2 e 3 febbraio 2002, appello che ha trovato un’eco in vasti settori politicizzati, in più di venti città di quattro continenti? Questo: “Cacerolazo globale, noi siamo tutta l’Argentina, tutti nella strada, a New York, Puerto Alegre, Barcellona, Toronto, Montreal, (aggiungi la tua città ed il tuo paese). Che tutti vadano via! FMI, Banca mondiale, Alca, multinazionali ladre, governanti e politici corrotti! Che non ne resti uno! Viva l'assemblea popolare! In piedi popolo argentino”! Questo “programma”, nonostante tutta la collera che esprime contro “i politici”, è ciò che questi ultimi difendono tutti i giorni, dall’estrema sinistra all’estrema destra, perché i governi “ultra-liberali” sanno portare essi stessi dei colpi “critici” all’ultra-liberismo, alle multinazionali, alla corruzione, ecc.
D’altra parte, questo movimento di protesta “popolare” è stato particolarmente segnato dal più estremo e reazionario nazionalismo. In tutte le assemblee di quartiere è stato ripetuto fino alla nausea che l’obiettivo è “creare un’altra Argentina”, “ricostruire il nostro paese sulle sue proprie basi”. Sui siti Internet delle differenti assemblee di quartiere si trovano dibattiti di tipo riformistico e nazionalista, come: dobbiamo pagare il debito estero? Qual è la migliore soluzione, imporre il peso o il dollaro? Su un sito Internet viene proposto, in modo lodevole, di lavorare alla “formazione ed alla presa di coscienza” delle persone e, a questo scopo, di aprire un dibattito su Il contratto sociale di Jean-Jacques Rousseau (11) ed viene anche chiesto un ritorno ai classici argentini del diciannovesimo secolo come San Martin o Sarmiento.
Bisogna essere particolarmente miopi (o avere voglia di rassicurarsi raccontandosi delle favole) per non vedere che questo nazionalismo esagerato ha contaminato anche le lotte operaie: i lavoratori della TELAM hanno messo alla testa delle loro manifestazioni delle bandiere argentine; in un quartiere operaio della Grande Buenos Aires, l’assemblea, tenuta contro il pagamento di una nuova tassa municipale, ha intonato all’inizio ed alla fine l’inno nazionale.
Per il suo carattere interclassista, questo movimento popolare e senza prospettiva non poteva fare niente altro che raccomandare le stesse soluzioni reazionarie che hanno condotto alla situazione tragica in cui è caduta la popolazione, e i cui partiti politici, i sindacati, la chiesa, ecc. - e cioè le forze capitaliste contro cui questo movimento voleva lottare - hanno la bocca piena. Ma quest’aspirazione al ritorno alla situazione precedente, questa ricerca della poesia del passato, è una conferma molto eloquente del carattere impotente e senza avvenire di questa rivolta sociale. Come viene espresso, con grande sincerità, da un partecipante alle assemblee: “Molti dicono che non abbiamo proposte da fare, che tutto quello che sappiamo fare è opporci. E noi possiamo dire con orgoglio che sì, noi ci opponiamo al sistema stabilito dal neoliberismo. Come un arco teso dall'oppressione, siamo le frecce lanciate contro il pensiero unico. La nostra azione sarà difesa, passo su passo, dai nostri abitanti per esercitare il diritto più vecchio dei popoli, la resistenza popolare” (12).
Nella stessa Argentina, nel 1969-73, il Cordobazo, lo sciopero di Mendoza, l’ondata di lotte che ha inondato il paese, hanno costituito la chiave dell’evoluzione sociale. Pur senza avere un carattere insurrezionale, queste lotte hanno segnato il risveglio del proletariato che, a sua volta, ha condizionato tutte le richieste politiche e sociali del paese. Ma la situazione in Argentina nel dicembre 2001 non è la stessa a causa dell’aggravamento della decomposizione della società capitalista. Il proletariato deve far fronte a nuove difficoltà, a ostacoli che ancora deve superare per potersi affermare, per poter sviluppare la sua identità e la sua autonomia di classe. Contrariamente al periodo dell’inizio degli anni ‘70, la situazione sociale in Argentina è stata caratterizzata da un movimento interclassista che ha diluito il proletariato e non ha segnato la scena politica se non in modo effimero ed impotente. Certo, il movimento dei cacerolas ha realizzato una prodezza degna del Guiness dei primati, col cambiamento consecutivo di 5 presidenti in 15 giorni. Ma tutto questo non è altro che fuoco di paglia. Attualmente, i siti web delle Assemblee popolari constatano amaramente che il movimento è svanito come per incanto, così che l’astuto Duhalde è riuscito a ristabilire l’ordine senza avere ridotto in nessun modo la miseria galoppante, né fatto in modo che il suo piano economico porti ad una qualsivoglia soluzione.
La lezione degli avvenimenti dell'Argentina
Nel periodo storico attuale che abbiamo definito come fase di decomposizione del capitalismo (13), il proletariato corre un rischio molto grave: quello di perdere la sua identità di classe, la fiducia in sé stesso, nella sua capacità rivoluzionaria ad ergersi come forza sociale autonoma e determinante nell’evoluzione della società. Questo pericolo è il prodotto di tutta una serie di fattori legati tra loro:
- il colpo portato alla coscienza del proletariato dal crollo del blocco dell’Est, che la borghesia ha potuto presentare facilmente come “il crollo del comunismo” e “l’insuccesso storico del marxismo e della lotta di classe”;
- il peso della decomposizione del sistema capitalista che erode i legami sociali e favorisce un’atmosfera di competizione irrazionale, anche negli stessi settori proletari;
- la paura nei confronti della politica e della politicizzazione che è una conseguenza della forma che ha preso la controrivoluzione (attraverso lo stalinismo, vale a dire dall’interno dello stesso bastione proletario e dei partiti dell’Internazionale Comunista) e dell’enorme colpo che ha rappresentato storicamente per la classe operaia la degenerazione, in maniera consecutiva e in meno di una generazione, delle due migliori creazioni della sua capacità politica e di presa di coscienza: prima dei partiti socialisti ed appena dieci anni dopo, dei partiti comunisti.
Questo pericolo può finire per impedirgli di prendere 1'iniziativa di fronte alla disgregazione profonda di tutta la società, conseguenza della crisi storica del capitalismo. L'Argentina mostra con chiarezza questo potenziale pericolo: la paralisi generale dell'economia e le convulsioni importanti dell'apparato politico borghese non sono state utilizzate dal proletariato per elevarsi come forza sociale autonoma, per lottare per i suoi obiettivi e guadagnare attraverso ciò gli altri strati della società. Sommerso da un movimento interclassista, tipico della decomposizione della società borghese, il proletariato si è trovato trascinato in una rivolta sterile e senza avvenire. Per questa ragione, le speculazioni che hanno attizzato gli ambienti trotskisti, anarchici, autonomi, ed in generale, il campo "anti-mondializzazione" a proposito degli avvenimenti in Argentina, presentandoli come "l'inizio di una rivoluzione", un "nuovo movimento", la "dimostrazione pratica che un'altra società è possibile", sono estremamente pericolose.
Più preoccupante ancora è che il BIPR si è fatto eco di queste confusioni, portando il suo contributo alle illusioni su "la forza del proletariato in Argentina". (14)
Queste speculazioni disarmano le minoranze che il proletariato secerne e che oggi sono alla ricerca di un'alternativa rivoluzionaria di fronte a questo mondo che crolla. Ed è anche per questo che ci sembrava importante chiarire le ragioni del perché il BIPR crede vedere dei giganteschi "movimenti di classe" in quelli che non sono niente di più che mulini a vento di rivolte interclassiste.
In primo luogo, il BIPR ha sempre rigettato il concetto di corso storico con cui noi cerchiamo di comprendere l'evoluzione dei rapporti di forza tra il proletariato e la borghesia nella situazione storica presente che si è aperta con la ripresa storica del proletariato sulla scena sociale nel 1968. Tutto ciò appare al BIPR come puro idealismo che fa “cadere nelle predizioni e nei pronostici” (15). Il suo rigetto di questo metodo storico lo porta ad avere un visione immediatista ed empirica, tanto di fronte ai fatti di guerra che nei confronti della lotta di classe. E’ utile, a questo proposito ricordare l'analisi che ha fatto il BIPR sulla guerra del Golfo, presentata come "inizio della 3a guerra mondiale”. Sulla base di questo stesso metodo fotografico la rivolta di palazzo che mise fine al regime di Ceaucescu è stata presentata quasi come una "rivoluzione": “La Romania è il primo paese nelle regioni industrializzate in cui la crisi economica mondiale ha dato nascita ad una reale ed autentica insurrezione popolare il cui risultato è stato il capovolgimento del governo... in Romania, tutte le condizioni obiettive e quasi tutte le condizioni soggettive erano riunite per trasformare l'insurrezione in una reale ed autentica rivoluzione sociale" ("Ceaucescu è morto, ma il capitalismo vive ancora”, Battaglia Comunista di gennaio 1990)
E’ chiaro che il rigetto di ogni analisi del corso storico può condurre solamente a lasciarsi sballottare dagli avvenimenti immediati. L’assenza di metodo di analisi della situazione storica mondiale e del rapporto di forze reali tra le classi porta il BIPR a considerare che siamo ora alle soglie di una terza guerra mondiale, ora alle soglie della rivoluzione proletaria. Resta per noi un mistero come, secondo il "metodo" di analisi del BIPR, il proletariato passa dalla situazione di reclutamento dietro le bandiere nazionali che preparano una terza guerra mondiale alla situazione dove è pronto all'assalto rivoluzionario, e siamo sempre in attesa che il BIPR ci dia una spiegazione coerente di queste oscillazioni.
Per parte nostra, di fronte a tale andirivieni demoralizzante, riteniamo che solo l’orientamento derivante da una visione globale e storica può permettere ai rivoluzionari di non essere in balia degli avvenimenti ed evitare di ingannare la loro classe facendole prendere lucciole per lanterne.
In secondo luogo, il BIPR continua ad ironizzare sulla nostra analisi della decomposizione del capitalismo affermando che essa ci serve "a spiegare" tutto. Tuttavia, il concetto di decomposizione è molto importante per fare la distinzione tra rivolta e lotta di classe del proletariato. Questa distinzione è cruciale nella nostra epoca. La situazione attuale del capitalismo si evolve infatti verso la protesta, il tumulto, gli scossoni tra le classi, gli strati ed i settori della società. La rivolta è il frutto cieco ed impotente delle convulsioni della società agonizzante. Non contribuisce al superamento di queste contraddizioni ma al loro deterioramento ed aggravamento. È l’espressione di una delle conclusioni della prospettiva generale della lotta delle classi nel corso della storia che delinea il Manifesto comunista, secondo il quale "si finisce sempre o con la trasformazione rivoluzionaria della società o con il crollo delle classi presenti". Questo ultimo termine dell'alternativa è quello che fornisce la base del concetto stesso di decomposizione. Di fronte a ciò, c'è la lotta di classe del proletariato che, se è capace di esprimersi sul proprio terreno di classe, mantenendo la sua autonomia ed avanzando verso la sua estensione e la sua auto-organizzazione, può convertirsi in "un movimento dell'immensa maggioranza in favore dell'immensa maggioranza" (ibid.). Tutto lo sforzo degli elementi più coscienti del proletariato e, in modo più generale, degli operai in lotta, è di non confondere la rivolta con la lotta autonoma della classe, di combattere affinché il peso della decomposizione generale della società non trascini la lotta del proletariato nello stallo della rivolta cieca. Mentre il terreno di quest’ultima porta alla progressiva usura delle capacità del proletariato, il terreno della lotta di classe lo conduce verso la distruzione rivoluzionaria dello Stato capitalista in tutti i paesi.
La prospettiva del proletariato
Se in Argentina, i fatti mostrano chiaramente il pericolo che corre il proletariato se si lascia trascinare sul campo viziato della rivolta "popolare" interclassista, l’esito dell'evoluzione della società verso la barbarie o verso la rivoluzione non si gioca là ma nell'epicentro delle grandi concentrazioni operaie del mondo e, più in particolare, in Europa occidentale.
“Una rivoluzione sociale non consiste semplicemente nella rottura di una catena, nello scoppio della vecchia società. È ancora e simultaneamente un'azione per l'edificazione di una nuova società. Non è un fatto meccanico, ma un fatto sociale indissolubilmente legato agli antagonismi di interessi umani, alla volontà ed alle aspirazioni delle classi sociali e della loro lotta". (Revue internationale n° 31 op. cit) Le visioni meccanicistiche e materialiste volgari vedono nella rivoluzione proletaria solo l'aspetto esplosione del capitalismo, ma sono incapaci di cogliere l'aspetto più importante e decisivo: la sua distruzione rivoluzionaria attraverso l'azione cosciente del proletariato, ciò che Lenin e Trotzkij chiamavano "il fattore soggettivo". Queste visioni materialiste volgari costituiscono un ostacolo ad una presa di coscienza della gravità della situazione storica caratterizzata dall'entrata del capitalismo nella fase estrema della sua decadenza: quella della sua decomposizione, del suo deterioramento dalle fondamenta. Di più, un tale materialismo meccanico e contemplativo si accontenta di "soddisfarsi" "dell'aspetto obiettivamente rivoluzionario": l'aggravamento inesorabile della crisi economica, le convulsioni della società, il deterioramento della classe dominante. I pericoli che rappresentano le manifestazioni della decomposizione del capitalismo (e l’uso ideologico che ne fa la classe dominante) per la coscienza del proletariato, per lo sviluppo della sua unità e della fiducia in sé, sono spazzati via con un gesto di mano dal materialismo volgare! (16)
Ma la chiave di una prospettiva rivoluzionaria nella nostra epoca risiede precisamente nella capacità del proletariato a sviluppare nelle sue lotte quest’insieme di elementi "soggettivi", la sua coscienza, la fiducia nel suo diventare rivoluzionario, la sua unità e la solidarietà di classe) che gli permetteranno di contrastare progressivamente e poi mettere fine, superandolo, al peso della decomposizione ideologica e sociale del capitalismo. Le condizioni più favorevoli per questo sviluppo, si trovano proprio nelle grandi concentrazioni operaie dell'Europa occidentale, dove "le rivoluzioni sociali non si producono dove la vecchia classe dominante è più debole e dove la sua struttura è meno evoluta, ma al contrario là dove la sua struttura ha raggiunto il suo più grande completamento compatibile con le forze produttive e dove la classe portatrice dei nuovi rapporti di produzione, chiamata a sostituirsi ai vecchi diventati caduchi, è più forte... Marx ed Engels hanno cercato e puntato là dove il proletariato è più forte, più concentrato e più adatto ad operare la trasformazione sociale. Perché, se la crisi colpisce in primo luogo e più brutalmente i paesi sottosviluppati in ragione stessa della loro debolezza economica e della loro mancanza di margine di manovre, non bisogna perdere mai di vista che la crisi ha la sua sorgente nella sovrapproduzione e dunque nei grandi centri di sviluppo del capitalismo. Questa è un'altra ragione per la quale le condizioni per una risposta a questa crisi ed al suo superamento risiedono fondamentalmente in questi grandi centri." (ibid.)
In effetti, la visione deformata del BIPR sul contenuto di classe degli avvenimenti in Argentina è da mettere in relazione con la sua analisi delle potenzialità del proletariato dei paesi della periferia che si esprime particolarmente nelle sue "Tesi sulla tattica comunista nei paesi della periferia capitalista" adottata dal 6° congresso di Battaglia comunista (pubblicata in italiano in Prometeo n° 13, serie V, giugno 1997). Secondo queste tesi le condizioni che prevalgono nei paesi della periferia determinano in questi ultimi "un potenziale di radicalizzazione delle coscienze più elevate piuttosto che nelle formazioni sociali delle grandi metropoli" ciò implica che "resta la possibilità che la circolazione del programma comunista tra le masse sia più facile ed il “livello di attenzione” ottenuto dai comunisti rivoluzionari più elevati, rispetto alle formazioni sociali del capitalismo avanzato". Nella Revue internationale n° 100 ("La lotta della classe operaia nei paesi della periferia del capitalismo") confutiamo nei dettagli una tale analisi per cui non è necessario ritornarci qui. Ciò che dobbiamo segnalare è che la visione falsata del BIPR del significato delle recenti rivolte in Argentina costituisce non solo un'illustrazione della sua incapacità di integrare la nozione di corso storico e di decomposizione del capitalismo, ma anche del carattere erroneo di queste tesi.
La nostra analisi non significa affatto che disprezziamo o sottovalutiamo le lotte del proletariato in Argentina o in altre zone dove il capitalismo è più debole. Significa semplicemente che i rivoluzionari, come avanguardia del proletariato, avendo una visione chiara della marcia generale del movimento proletario nel suo insieme, hanno la responsabilità di contribuire a fare in modo che il proletariato e le sue minoranze rivoluzionarie abbiano, in tutti i paesi, una visione più chiara e più esatta delle proprie forze e limiti, di chi sono i suoi alleati e di come orientare le lotte.
Contribuire a questa prospettiva è il compito dei rivoluzionari. Per compierlo, essi devono resistere con tutte le forze alla tentazione opportunista di vedere, per impazienza, per immediatismo e mancanza di fiducia storica nel proletariato, un movimento di classe là dove -come in Argentina- non c’è stata che un rivolta interclassista.
Adalen (10 marzo 2002)
1. Si può trovare questa Dichiarazione sul sito Internet del BIPR (https://www.internationalist.net [10]) e si intitola: “Dall’Argentina, una lezione: o il partito rivoluzionario ed il socialismo, o la miseria generalizzata e la guerra”. Se dedichiamo una buona parte di questo articolo a confutare le analisi del BIPR, non è a causa di un’ostilità particolare da parte nostra verso questa organizzazione, ma perché questa rappresenta, insieme alla nostra, la principale componente del campo politico proletario, ciò che ci dà la responsabilità di combattere quelle concezioni che noi consideriamo sbagliate e quindi fattori di confusione nei confronti di elementi che si avvicinano alle posizioni della Sinistra comunista.
2. Vedi i seguenti articoli della Rivista Internazionale (disponibile in inglese, francese e spagnolo): “Crollo del blocco dell’Est, difficoltà aumentate per il proletariato” n° 60; “Perché il proletariato non ha rovesciato ancora il capitalismo?” n° 103 e 104; “Rapporto sulla lotta di classe” n°107.
3. Vedi in particolare i nn. 319 e 320 del nostro giornale in lingua francese Revolution Internationale.
4. Vedi il “Rapporto sulla crisi economica” pubblicato nella Rivista Internazionale n°106 (disponibile in inglese, francese e spagnolo).
5. Fonte: Banca mondiale, World Development indicator 2001.
6. Vedi il “Rapporto sulla crisi economica” nella Rivista Internazionale n°106 e l’articolo “30 anni di crisi del capitalismo” nella Rivista Internazionale da n° 96 a 98 (disponibile in inglese, francese e spagnolo).
7. Presa di posizione del BIPR sull’Argentina.
8. Il giornale Pagina del 12 gennaio 2000 riportava: “il fatto, senza precedenti, che in certi quartieri di Buenos Aires, i saccheggi sono passati dai centri commerciali alle case”.
9. Vedi Revolution Internationale n° 320, organo della CCI in Francia.
10. Ripreso da un Sito Web che presenta delle sintesi della stampa argentina.
11. Studiare opere di pensatori anteriori al movimento operaio non è negativo in sé, poiché il proletariato integra e supera nella sua coscienza rivoluzionaria tutta l'eredità storica dell'umanità. Tuttavia partire da Rousseau non è precisamente un punto di partenza adeguato per affrontare i gravi problemi attuali.
12. Estratto dal forum Internet, www.cacerolazo.org [11]
13. Leggi le “Tesi sulla decomposizione” sulla Rivista Internazionale n° 14 (edizione italiana)
14. In compenso, il PCI nel n° 460 del suo giornale, Le Proletaire, adotta una presa di posizione chiara fin dal titolo del suo articolo (“I cacelorazos hanno potuto rovesciare i presidenti. Per combattere il capitalismo, occorre la lotta operaia!”), e denuncia il carattere interclassista del movimento difendendo che: “esiste solamente una via per opporsi a questa politica: la lotta contro il capitalismo, la lotta operaia che unisce tutti i proletari su degli obiettivi non popolari ma di classe, la lotta non nazionale ma internazionale, la lotta che si fissa lo scopo finale non della riforma ma della rivoluzione”.
15. Per conoscere la nostra concezione del corso storico, si possono leggere i nostri articoli nella Rivista Internazionale n° 15, 17 e 107 (disponibili in inglese, francese e spagnolo). Abbiamo fatto delle polemiche col BIPR su questo argomento nella Rivista Internationale n° 11 (edizione italiana)
16. “i diversi elementi che costituiscono la forza del proletariato cozzano direttamente contro le differenti facce di questa decomposizione ideologica:
l'azione collettiva, la solidarietà trovano di fronte ad esse l'atomizzazione, il “ciascuno per sé”, la soluzione individuale;
il bisogno di organizzazione si confronta alla decomposizione sociale, alla disarticolazione dei rapporti alla base di ogni vita sociale;
la fiducia nell'avvenire e nelle proprie forze è scalzata continuamente dalla disperazione generale che invade la società attraverso il nichilismo, il “no future”;
la coscienza, la lucidità, la coerenza del pensiero, il gusto per la teoria, devono aprirsi una strada difficile nel mezzo della fuga nelle chimere, la droga, le sette, il misticismo, il rigetto della riflessione, la distruzione del pensiero che caratterizza la nostra epoca”. (“La decomposizione, fase ultima della decadenza del capitalismo”, Rivista Internazionale n° 107, (disponibile in inglese, francese e spagnolo) e Rivista Internazionale n° 14 (in italiano).
Links
[1] https://it.internationalism.org/en/tag/4/91/russia-caucaso-asia-centrale
[2] https://it.internationalism.org/en/tag/2/27/capitalismo-di-stato
[3] https://it.internationalism.org/en/tag/sviluppo-della-coscienza-e-dell-organizzazione-proletaria/sinistra-italiana
[4] https://it.internationalism.org/en/tag/sviluppo-della-coscienza-e-dell-organizzazione-proletaria/sinistra-tedesca-ed-olandese
[5] https://it.internationalism.org/en/tag/4/63/india
[6] https://it.internationalism.org/en/tag/4/64/pakistan
[7] https://it.internationalism.org/en/tag/4/87/palestina
[8] https://it.internationalism.org/en/tag/2/33/la-questione-nazionale
[9] https://it.internationalism.org/en/tag/3/50/internazionalismo
[10] https://www.internationalist.net
[11] https://www.cacerolazo.org/
[12] https://it.internationalism.org/en/tag/4/95/argentina
[13] https://it.internationalism.org/en/tag/7/111/bureau-internazionale-per-il-partito-rivoluzionario