“I lavoratori italiani hanno i salari più bassi d’Europa” (Eurispes), “Il 15% delle famiglie italiane vive in condizioni di assoluta povertà!”, “In Italia ci sono morti sul lavoro ogni giorno”. Queste notizie non vengono da giornali rivoluzionari, ma direttamente da enti statali, da personaggi eminenti della borghesia e del governo e successivamente dai sindacati i quali, sentendosi chiamati in causa, portano il “loro contributo di solidarietà” ai lavoratori. Come mai la nostra borghesia si preoccupa tanto di far sapere agli operai che stanno nella merda, più degli altri lavoratori europei? E come mai dopo questa constatazione, che vede naturalmente d’accordo gli operai, non arriva un congruo aumento del salario o una reale diminuzione delle tasse?
A dir la verità c’è qualcuno che azzarda l’ipotesi di tagliare le tasse per dare un po’ di respiro alla nostra classe lavoratrice e promette che lo farà. Quando? L’anno prossimo! Questo qualcuno è Prodi e il suo oramai ex governo che, dopo aver bastonato i lavoratori e orgoglioso di aver contenuto l’aumento del debito, promette che non lo dimenticherà. Tale e quale al suo collega Berlusconi. Prodi ha anche promesso, il giorno del funerale degli operai della Thyssen Group, che queste morti sul lavoro non ci sarebbero state più. Mai più! Forse alla Thyssen di Torino, che sta per chiudere, ma non nei cantieri edili di tutt’Italia, non nelle navi da svuotare subito senza aspettare che entri dell’ossigeno nelle stive, non nelle piccole fabbriche gestite come lager. In Italia ogni giorno muoiono sul lavoro in media più di tre lavoratori, ma ce ne sono tanti altri che non vengono contabilizzati semplicemente perché muoiono successivamente a causa delle ferite riportate, per non parlare di quelli che muoiono per “cause sconosciute”, tipo cancro e simili, ricevuti in regalo dai fumi e dagli scarichi che le ciminiere e laboratori vari sfornano ogni giorno. Per non contare ancota i massacri che vengono provocati ogni giorno sulle strade dai TIR guidati da camionisti che non dormono mai per poter fare più viaggi possibili, come richiesto dai vari borghesi che parlano di aumentare la produttività. Chi invoca un aumento della produttività in qualsiasi settore è corresponsabile di questi massacri. Come chi dice, a partire da Montezemolo, che i lavoratori non devono fare malattie ma sacrificarsi sul posto di lavoro. Quanti precari ammalati si rovinano la vita per paura di ritorsioni e per non ridurre il già magro stipendio? Tutto questo in nome del dio Profitto!
Naturalmente i sindacati, quando capita una strage come alla Thyssen o a Porto Marghera, fanno subito uno sciopero preventivo e settoriale per evitare che la rabbia degli operai possa spingerli a prendere iniziative autonome. Iniziative pericolosissime per la borghesia, assolutamente da evitare, perché potrebbero portare a unire settori diversi, a discussioni sulle reali condizioni di vita e quindi alla presa di coscienza della necessità di uscire da questa situazione e della strada da seguire.
È questo il motivo che spinge politici e organi di informazione, gli istituti di statistica come l’Istat e simili, a dichiarare solennemente che i lavoratori italiani non ce la fanno più. E ce lo dicono dalla mattina alla sera. Percentuali che vengono aggiornate giorno per giorno come un bollettino della borsa. E insieme alla miseria crescente hanno anche la faccia tosta di dirci, tramite tv e stampa, come si organizzano i miseri, acquistando negli ipermercati quando ci sono i saldi, razionando questo e quello e ... indebitandosi. Ci danno consigli su come sopravvivere, ci ricordano Maria Antonietta che consigliava di mangiare brioches al posto del pane.
Se oggi la borghesia fa tanta propaganda sulle misere condizioni degli italiani è perché deve coprire il terreno in modo preventivo, deve evitare che a questo ci arrivino i lavoratori dopo aver subito le classiche menzogne della classe politica che tutto va bene e meglio, e soprattutto perché la borghesia sa che ci sono le condizioni per questa presa di coscienza. Condizioni possibili perché le campagne sulla fine della classe operaia, sul fatto che navighiamo tutti nella stessa barca, che bisogna pagare per gli anni delle vacche grasse (chi le ha mai viste?), che bisogna aumentare la produttività altrimenti ci sorpassano, che in definitiva bisogna stringere la cinghia, non fanno più effetto.
I lavoratori incominciano a muoversi. I lavoratori incominciano a discutere. Neanche i ciechi vedono più una differenza tra la destra e la sinistra, tante ne hanno prese, di bastonate, da entrambe le parti.
L’anno passato ha visto molti scioperi, gestiti da sindacati di vertice e di base, in ordine sparso in vari settori, la maggior parte nel settore dei trasporti. Non è passata settimana senza uno sciopero, oggi nelle ferrovie, domani negli aeroporti, un giorno in un compartimento, un altro tra i macchinisti, poi con un sindacato della triplice e dopo con uno di base. Un giorno chiudevano le metropolitane in una città, il successivo gli autobus in un’altra. La farsa è stata raggiunta dai sindacati dei metalmeccanici che hanno lottato “duro” contro gli automobilisti, tra cui molti lavoratori, bloccando le strade per poi accordarsi sulla cifra già prevista dalla borghesia. Hanno ottenuto secondo la stampa 127 € (per il 5° livello) ma la maggior parte degli operai ne prenderà 50. Questo è il contributo della borghesia per diminuire la miseria! E hanno aumentato l’orario di lavoro e la precarizzazione: fino a 44 mesi! Questo porterà ad un ulteriore aumento degli incidenti di lavoro perché non sono solo gli estintori mal funzionanti a far morire gli operai ma anche e soprattutto il mancato riposo, i turni stressanti, i ritmi infernali.
Una serie di scioperi importanti e soprattutto di discussioni si è avuta con la mobilitazione dei precari della Atesia di Roma, il più grande call center d’Europa. Una lotta contro padroni, governo e sindacati, contro il lavoro precario e i miseri salari. Ecco cosa dicono questi lavoratori:
“Il collettivo Precari Atesia è una realtà, una delle tante e sempre più crescenti voci che nascono dal disagio lavorativo e di conseguenza sociale. È semplicemente un gruppo di lavoratori precari uguale in tutto e per tutto agli altri lavoratori precari, ma con una cosa in più: l’autocoscienza e la convinzione che dopotutto ‘parole, idee e lotte possano cambiare il mondo’”.
La cosa più importante nella lotta all’aggressione quotidiana della borghesia e del suo stato non consiste nella quantità di scioperi, anche se questi sono un sintomo del malessere, ma nella loro qualità, che è un sintomo della presa di coscienza, cioè capacità di aggregare settori diversi, qualifiche diverse e soprattutto piena e convinta partecipazione dei lavoratori con una gestione autonoma delle lotte. E spesso sono più importanti le assemblee che gli scioperi.
È questa la situazione attuale, c’è ancora il controllo dei sindacati sui lavoratori ma la tendenza è alla presa in mano delle lotte, unica strada per non affossare nella miseria che la borghesia ci rinfaccia ogni giorno.
Oblomov 28 gennaio 2008
Nel 2007 in Germania c’è stato il maggior numero di giornate di sciopero dal 1993 (all’indomani della riunificazione), delle quali il 70% a causa degli scioperi della primavera scorsa contro il decentramento di 50.000 posti di lavoro nelle telecomunicazioni. Questo paese è stato sempre vantato in questi ultimi anni per il suo dinamismo economico ma anche come modello di “concertazione sociale”.
La lotta dei ferrovieri
Lo sciopero dei ferrovieri che si è concluso all’inizio di gennaio dopo dieci mesi di conflitto mostra il contrario. In Germania la classe operaia risponde come altrove agli attacchi della borghesia. Mentre il numero di ferrovieri è stato dimezzato in 20 anni e le condizioni di lavoro si sono deteriorate come mai prima nel settore, i salari sono fermi da 15 anni, facendo di questo uno dei lavori più mal pagati in Germania (in media meno di 1500 euro mensili).
Durante questi dieci mesi i ferrovieri tedeschi hanno subito ogni sorta di manovre, di minacce e di pressioni:
▪ In agosto i tribunali tedeschi avevano dichiarato in questo settore che lo sciopero era illegale. Ma lo sciopero di tre giorni, illegale, lanciato dai conduttori di treno in novembre e che era stato chiaramente annunciato come uno sciopero “illimitato”, è stato immediatamente e come per miracolo legalizzato dai tribunali nel momento in cui scoppiava lo sciopero dei ferrovieri in Francia.
▪ I sindacati hanno giocato un forte ruolo di divisione tra gli operai attraverso una ripartizione di compiti tra i sindacati partigiani della legalità e quelli più radicali pronti a trasgredirla come il sindacato corporativo dei conduttori, il GDL, che si è presentato come l’animatore dello sciopero.
▪ I media hanno organizzato una vasta campagna per denunciare il carattere “egoista” dello sciopero quando invece questo ha beneficiato della simpatia dalla maggior parte degli altri lavoratori “utenti” sempre più numerosi ad identificarsi anch’essi come vittime delle stesse ingiustizie sociali.
▪ Lo Stato tedesco ha cercato di intimidire i conduttori di treno minacciandoli di far pagare loro i milioni di euro persi a causa dello sciopero
Nonostante ciò i ferrovieri non hanno ceduto ed hanno invece imposto un rapporto di forza alla borghesia tedesca.
Il conflitto si è concluso con un aumento dell’11% del salario, ma per il solo personale viaggiante della Deutsche Bahn. Inoltre non solo quanto ottenuto è ben lontano dal 31% rivendicato dai lavoratori, ma questo aumento è già intaccata da un insieme di convenzioni salariali su 19 mesi tra cui la riduzione da 41 a 40 ore di lavoro settimanale per i 20.000 conduttori di treno a decorrere dal febbraio 2009. Ma è significativo che lo Stato abbia concesso questo magro aumento per permettere di abbassare un po’ la pressione di fronte ad un incremento generale delle rivendicazioni sui salari.
La lotta intorno alla Nokia a Bochum
Il crescere della combattività del proletariato in Germania si è evidenziata in maniera ancora più eclatante a Bochum quando il produttore finnico di telefonia mobile Nokia ha annunciato per fine 2008 la chiusura della sua fabbrica a Bochum, che occupa 2.300 operai e la cui chiusura implica, con le imprese dell’indotto ed in subappalto, la perdita di 4.000 posti di lavoro per questa città. Il 16 gennaio, il giorno dopo quest’annuncio, gli operai si sono rifiutati di lavorare e degli operai della vicina fabbrica Opel, altri della Mercedes, siderurgici dell’impresa Hoechst di Dortmund, metallurgici venuti da Herne, minatori della regione sono affluiti ai cancelli Nokia per dare il loro sostegno e la loro solidarietà. Il 22 gennaio questo stesso sentimento di solidarietà con gli operai della Nokia è stato al centro di una manifestazione di 15.000 persone che riuniva ancora una volta i lavoratori delle imprese di tutta la regione sfilando nelle vie di Bochum.
Gli operai si ricollegano così alle loro esperienze passate di combattività. Nel 2004, gli operai della fabbrica Daimler-Benz a Brema scesero in lotta spontaneamente rifiutando il ricatto della concorrenza tra gli impianti di produzione operato dalla direzione, per solidarietà nei confronti degli operai di Stoccarda della stessa impresa minacciati di licenziamento. Qualche mese dopo, altri operai del settore automobilistico, proprio quelli della Opel di Bochum, iniziarono spontaneamente uno sciopero a loro volta di fronte ad una pressione della direzione dello stesso tipo. È precisamente per fermare un tale possibile sviluppo di solidarietà operaia rispetto agli operai della Nokia a Bochum, e deviarlo, che la governo ed amministrazioni locali e regionali di ogni colore politico, chiesa, sindacati e rappresentanti del padronato tedesco hanno orchestrato una fervente campagna nazionale “denunciando” il carattere senza scrupoli della Nokia e accusando i costruttori finnici di aver “scandalosamente abusato” dello Stato tedesco e aver di aver approfittato delle sue sovvenzioni. Tutti giurano con la mano sul cuore che avevano dato questi fondi per l’occupazione e che ancora oggi vogliono difendere con le unghie e con i denti i “loro” operai contro i padroni “traditori”1.
La prospettiva è uno sviluppo della lotta di classe. Questo sviluppo delle lotte operaie in un paese così importante, con tutta l’esperienza storica ed il ruolo centrale che detiene per il proletariato dell’Europa, può essere soltanto un potente catalizzatore per le lotte che gli operai conducono su tutto il continente. Ed è per questa ragione che i mass media occultano questi avvenimenti mentre la borghesia cerca i presentarsi a Bochum come quella che difende e protegge i “suoi” operai: lo scopo è soffocare le reali manifestazioni di solidarietà operaia che si sono espresse qui e impedire che si estendano.
WA (27 gennaio)
1. Quale ipocrisia! La classe operaia di questo paese è particolarmente esposta agli attacchi incessanti della borghesia nazionale (età pensionabile portata a 67 anni, piani di licenziamenti, tagli in tutte le prestazioni sociali previsti per il 2010, …).
A metà novembre, appena dopo che gli operai di Dubai erano tornati al lavoro dopo una massiccia e spontanea rivolta, la stampa e la televisione dedicavano le prime pagine alla storia del nipote del re di Dubai Abdallah, Al Walid Ibn Talal, il quale aveva appena acquistato un Airbus A380 per il proprio uso personale.
Non una sola parola sullo sciopero di massa! Non una sola parola sulla ribellione di centinaia di migliaia di operai super-sfruttati! Ancora una volta la borghesia crea un blackout sui mezzi di informazione internazionali.
Contro lo sfruttamento inumano della borghesia…
Negli ultimi cinque anni Dubai ha iniziato una immensa opera di costruzione, in cui enormi grattacieli, uno più incredibile dell’altro, spuntano come funghi. L’Emirato è uno dei simboli borghesi del “miracolo economico” del Medio Oriente. Ma dietro questa vetrina si nasconde una realtà diversa: la realtà non è quella mostrata a turisti ed affaristi, ma quella della classe operaia che ha versato lacrime e sangue per questi “sogni architettonici”.
Del poco più di un milione di abitanti dell’Emirato, più dell’80% sono lavoratori di origine straniera, la maggior parte indiani, ma anche pachistani, bengalesi e, recentemente, cinesi. Sembra che essi siano più economici degli operai arabi! Dal 24 luglio scorso questi vanno a lavorare nei cantieri praticamente per niente, percependo l’equivalente di 100-150 euro al mese. Costruiscono queste torri e questi palazzi prestigiosi, ma vivono in baracche di una stanza in mezzo al deserto. Vengono portati dall’alloggio al cantiere in carri bestiame che chiamano autobus. E oltretutto senza assistenza medica o contributi… e per prevenire ogni eventuale pericolosa resistenza i datori di lavoro trattengono i loro passaporti. Naturalmente non c’è nessuna considerazione per le famiglie dei lavoratori che sono rimaste nei paesi di origine, possono incontrarsi solo ogni due o tre anni data la difficoltà a trovare i soldi del viaggio.
Ma gli essere umani non puoi trattarli sempre così e farla franca.
… sciopero di massa del proletariato
Nell’estate del 2006, gli operai di Dubai avevano già dimostrato la loro capacità di lottare collettivamente con scioperi di massa. Ad onta della repressione che ne seguì, anche oggi hanno osato levarsi contro i propri sfruttatori e torturatori. E attraverso queste lotte hanno dimostrato il loro coraggio, lo straordinario spirito combattivo, unendosi per opporsi ad una vita di miseria e schiavitù. Hanno fronteggiato il potere costituito col rischio di venire travolti, proprio come i loro fratelli di classe in Egitto. Perché negli Emirati gli scioperi sono proibiti; la pena è immediata e consiste nel ritiro del permesso di lavoro e il bando a vita dai luoghi di lavoro.
La borghesia e il suo Stato hanno risposto con la violenza, come c’era da aspettarsi. Le squadre anti-sommossa hanno usato i cannoni ad acqua per disperdere i dimostranti e molti di loro sono stati portati via dalle le camionette della polizia. “Denunciando questo ‘comportamento barbaro’, il ministero del lavoro ha dato loro la scelta tra tornare al lavoro e l’abrogazione dei loro contratti, tra l’espulsione ed una diminuzione dei compensi” (www.lemaroc.org [5]). A dispetto della repressione della polizia e delle minacce del governo, il vento di sciopero ha continuato a soffiare in altre tre zone di Dubai. Stando ai numeri della Associated Press del 5 Novembre, più di 400.000 operai erano in sciopero!
Le minacce di provvedimenti repressivi hanno avuto come giustificazione il fatto che qualche veicolo della polizia era stato danneggiato, cosa inaccettabile per l’ordine pubblico borghese! Ma chi è stato il responsabile della peggiore violenza? La risposta è chiara: quelli che rendono la vita di centinaia di migliaia di lavoratori un vero e proprio inferno.
Quale la prospettiva per queste lotte?
A Dubai il proletariato ha mostrato la propria forza e determinazione. La borghesia è stata costretta ad un temporaneo passo indietro mettendo da parte le tattiche puramente repressive. Quindi, all’annuncio dell’espulsione di quei 4.000 lavoratori asiatici che avevano iniziato il movimento, “è seguito un tono di riappacificazione il mercoledì seguente” (AFP). La dimensione di massa che ha assunto lo sciopero ha “smosso qualcosa nel governo di Dubai che ha ordinato ai propri ministri di rivedere gli stipendi ed attivare un salario minimo” … ciò ufficialmente, si intende. In realtà la borghesia continuerà i suoi attacchi. Le sanzioni contro i capi della protesta sembra che siano state mantenute, e non ci sono dubbi sul fatto che la borghesia non mollerà la presa su questi per provare a mantenere il feroce livello di sfruttamento imposto a Dubai.
Tuttavia la classe dominante ha dovuto prendere in considerazione la crescita della combattività tra queste sezioni della classe operaia, nonostante la mancanza di esperienza di lotta. E perciò sta raffinando le sue armi: oltre alla repressione, sta cercando di usare strumenti più ideologici. Il primo tentativo è stato piuttosto ridicolo ed inefficiente. Di fronte al moltiplicarsi delle tensioni negli ultimi due anni, “le autorità hanno creato una commissione nelle forze di polizia che ha il compito di accogliere le lamentele dei lavoratori, ed hanno anche istituito un numero gratuito a cui gli operai possono rivolgersi. La maggior parte accusano il mancato pagamento degli stipendi”. Fare le proprie lamentele direttamente alle forze di repressione potrebbe essere più che altro una provocazione! In modo più intelligente, ora gli sforzi del governo vanno verso la creazione di un sindacato tra le imprese al fine di controllare le future lotte dall’interno.
La questione non è tanto la prospettiva di lotta in uno specifico mini-stato come Dubai, ma il fatto che questa lotta è parte di un movimento più largo: la lotta internazionale della classe operaia. “Gli operai non hanno nazione” dicevano Marx ed Engels nel Manifesto del 1848. Le attuali lotte del proletariato sono parte della stessa catena di lotte contro lo sfruttamento capitalistico. Dall’India a Dubai, passando per l’Egitto, il Medio Oriente, il continente africano o l’America latina, i paesi europei e del nord America, la lotta proletaria è in crescita1. Lo sviluppo internazionale della lotta di classe rappresenta un grande incoraggiamento per i lavoratori ogni volta che un movimento insorge. In particolare, l’emergere di un massiccio movimento come quello a Dubai, in Egitto o in Bangladesh deve essere uno stimolo per i lavoratori dei paesi più avanzati, in quanto questi ultimi devono assumersi la precisa responsabilità di indicare la prospettiva della lotta contro tutto il sistema di sfruttamento, mettendo a disposizione la loro esperienza storica accumulata, mostrando in pratica come guidare la lotta e spiegando i motivi per cui non ci si può fidare della sinistra e dei sindacati.
La borghesia coi suoi mezzi di informazione fa tutto il possibile per soffocare le notizie della lotta di classe nel mondo al fine di prevenire la condivisione delle esperienze e lo sviluppo della coscienza. Le lotte a Dubai sono la prova che dappertutto la classe lavoratrice sta soffrendo gli effetti devastanti della crisi economica e che, in risposta, dappertutto sta armando le sue armi della coscienza e della solidarietà.
Map, 18 novembre 2007
1. Su queste lotte vedi i numerosi articoli pubblicati sul nostro sito web nelle diverse lingue.
La CCI ha tenuto la sua prima riunione pubblica a Lima, in Perù, nell’ottobre scorso. E’ stato un avvenimento importante perché ha dato l’opportunità ad alcuni elementi che si avvicinano al progetto rivoluzionario di comprendere meglio le idee della Sinistra Comunista e di prendere contatto con la nostra organizzazione. In questo paese i sinceri militanti della causa proletaria hanno sopportato per decine di anni il peso terribile dello stalinismo, del maoismo (in particolare attraverso “Sendero Luminoso”), del trotzkismo, ecc. In questa regione del mondo che soffre della repressione brutale dello Stato capitalista e dell’isolamento dal resto del proletariato internazionale, era molto importante, per la classe operaia, che sorgesse una minoranza di militanti politici che cercassero di chiarirsi le idee sulla rivoluzione mondiale e sul comunismo.
La CCI ha partecipato a questo dibattito pubblico animata dalla preoccupazione di aprire uno spazio di discussione fraterna il cui scopo fosse la chiarificazione e non il “reclutamento” sistematico e senza principi. Vogliamo ringraziare pubblicamente i nostri simpatizzanti della regione per il loro sostegno logistico, senza il quale difficilmente avremmo potuto realizzare tale obiettivo, intavolare un profondo dibattito sul mondo attuale, su ciò che ci offre il capitalismo e le prospettive che ne derivano per l’umanità. Undici persone hanno partecipato alla riunione, affrontando temi cruciali riguardanti la futura rivoluzione. (…) Il tema annunciato sui manifesti attaccati sui muri di Lima era: “Che cos’è il socialismo e come lottare per realizzarlo?”, ma l’entusiasmo dei partecipanti e le questioni poste hanno permesso alla riunione di affrontare ben altri argomenti.
Nel corso delle discussioni sono state espresse posizioni diverse: di compagni che avevano avuto legami con il GCI1 o che ne condividevano ancora, più o meno, alcune posizioni; altre da compagni che si rivendicavano all’anarchismo; altre ancora da simpatizzanti molto vicini alla nostra organizzazione. Il fatto più significativo è stato, tuttavia, il clima sincero, fraterno ed aperto del dibattito.
Nella misura in cui tutti i partecipanti hanno mostrato un accordo tacito sulla necessità della rivoluzione e la prospettiva di distruggere il capitalismo, la discussione si è incentrata da subito su questioni più “concrete”. Una delle prime questioni affrontate ha riguardato il concetto di “decadenza del capitalismo”, dato che i partecipanti, più o meno influenzati dal GCI, hanno una certa visione “a-storica” del processo che conduce alla trasformazione della società, che include anche l’idea dell’esistenza di un proletariato prima ancora dell’arrivo degli spagnoli nelle Americhe (uno dei partecipanti ha espresso questa idea quasi testualmente in questi termini: “non c'è stato niente di progressista nel massacro dei proletari durante la conquista delle Americhe”). Questa posizione esprime le tipiche confusioni seminate a profusione dal GCI. Piuttosto che tentare di comprendere i processi storici, il GCI diffonde il “radicale” (quanto vuoto) metodo della “violenza reazionaria contro la violenza degli oppressi”, senza considerare il contesto storico nel quale essi si sviluppano. Un metodo che naturalmente rende incomprensibili le ragioni per le quali la rivoluzione mondiale era impossibile nel 19o secolo, ed anche perché le lotte proletarie e le organizzazioni politiche della classe operaia avevano, all’epoca, un contenuto e delle forme differenti da oggi (sindacati, partiti di massa, programma minimo, ecc.). Altri partecipanti alla riunione pubblica hanno invece insistito per sviluppare la spiegazione della decadenza del capitalismo (…).
La discussione si quindi spostata su cosa è il proletariato, sulla sua natura e sul modo di lottare. Alcuni partecipanti hanno sostenuto che gli avvenimenti argentini del 2001 fossero stati provocati da un movimento autenticamente proletario e che bisognava “sostenerli ed imitarli” così come i “soviet in Iraq” (sic!). La CCI ha potuto presentare la sua analisi2, dando elementi di riflessione che sono stati discussi con serietà dai partecipanti. Abbiamo incentrato la discussione su tre assi:
- La necessità di rigettare “la violenza per la violenza”. Se è certo che la rivoluzione che distruggerà il capitalismo sarà necessariamente violenta, perché la minoranza che detiene l’apparato dello Stato resisterà fino al suo ultimo respiro, questa violenza di classe del proletariato non è l’essenza della rivoluzione; questa risiede nella capacità del proletariato a sviluppare la propria lotta di massa e cosciente. Ciò che distingue la classe che sarà il soggetto della futura rivoluzione, non è la sua violenza ma la sua coscienza3.
- Le lotte operaie si organizzano attraverso organismi generati nel corso della lotta stessa, che vanno dalle assemblee generali, dalle delegazioni, dai comitati di lotta fino alle forme più avanzate dove esse si amplificheranno quando la situazione storica farà sorgere i Consigli Operai. Non siamo che all’inizio delle risposte operaie a livello internazionale dopo la gigantesca campagna sulla “morte del comunismo” ed il riflusso che il proletariato mondiale ha subito a livello della sua coscienza4. Rigettare le assemblee attraverso le quali si esprime lo sforzo del proletariato per prendere nelle proprie mani le sue lotte è un grave errore, così come lo è privilegiare le azioni disperate (incendi di auto, scontri sterili con la polizia, ecc.), invece di trarre le lezioni, riflettere e discutere collettivamente su: come e perché la borghesia ed il suo apparato statale mistificano la classe operaia e lo sforzo di chiarificazione della sue minoranze più coscienti?
- Le lotte autenticamente “pure” del proletariato non esistono, e la CCI non si aspetta affatto lotte da subito sganciate dall’influenza dell’ideologia borghese o lotte nelle quali siano totalmente assenti gli organi dell’apparato statale (sindacati di ogni tipo, partiti integrati al sistema politico e parlamentare del capitale, così come il braccio armato “radicale” della borghesia: il gauchismo, maoista, trotskista o anarchico ufficiale che sia, ecc.). L’autenticità di una lotta proletaria non si misura dalla presenza o meno di elementi che appartengono, dal punto di vista sociologico, a questa o quella categoria di lavoratori manuali. Essa si verifica dall’esistenza, nelle lotte proletarie, di una dinamica in cui i partecipanti si riconoscono come parte di una classe, come lavoratori che devono scendere in lotta con gli altri e che condividono interessi immediati comuni. Quando comincia a sorgere la coscienza che esiste un’identità proletaria, la lotta contro il capitale fa grandi passi in avanti ed è di primaria importanza generalizzare queste lezioni. Per contro, quando all’indomani di una lotta, sussiste un clima di divisione, di settarismo, di segregazione, di corporativismo, ecc., allora bisogna riflettere sul perché di un tale clima sociale e sulla trappola in cui si è caduti.
Resta un lungo cammino di chiarificazione da fare per comprendere tutti i problemi legati alla lotta di classe del proletariato.
Anche questa questione è stata affrontata nella discussione. La classica visione che un sindacato possa essere “recuperabile” per la classe operaia non si è fatta attendere (principalmente attraverso la visione anarchica difesa dalla CNT), ed è stata posta esplicitamente la possibilità di un “sindacalismo rivoluzionario”. Tutti i partecipanti sono stati d’accordo nell’affermare che se la CNT ha tradito durante gli avvenimenti del 1936 in Spagna, c’è stato tuttavia almeno un gruppo, “gli Amici di Durruti” che si è opposto alla militarizzazione del lavoro5. Uno dei partecipanti ha sostenuto l’argomento classico del GCI: “Il sindacato non è mai stato e mai sarà rivoluzionario”. Questa affermazione contiene una parte di verità nel senso che, effettivamente, i sindacati non sono sorti come organi della lotta rivoluzionaria del proletariato, ma come organi della sua lotta immediata permettendogli di ottenere riforme durature all’interno del capitalismo ed un reale miglioramento delle sue condizioni di vita.
Ma questo argomento ha anche la debolezza di mancare di metodo e di non concepire i sindacati come prodotto storico. Il che non consente di comprendere che la loro apparizione, costata tante sofferenze al proletariato, è stata condizionata da un periodo storico durante il quale la rivoluzione proletaria mondiale non era ancora possibile, né oggettivamente né soggettivamente. Quest’argomento va di pari passi con il vecchio ritornello del GCI secondo cui la 2a Internazionale non ha avuto niente di proletario! Ricordiamo che la 2a Internazionale ha avuto il merito di adottare il marxismo come metodo scientifico (materialista, storico, dialettico) per sviluppare la teoria rivoluzionaria del proletariato. E’ questo metodo che ha permesso di fare la distinzione tra le organizzazioni unitarie del proletariato (i sindacati) ed i suoi partiti politici. E’ questo metodo che ha permesso di condurre una lotta a fondo contro la visione del mondo della franco-massoneria. E’ ancora questo metodo che ha permesso di sviluppare le discussioni sulle origini del cristianesimo ed ha fornito una moltitudine di articoli fondamentali. Il fatto che i partiti della 2a Internazionale abbiano tradito votando i crediti di guerra durante la Prima Guerra Mondiale non impedisce di riconoscere che la 2a Internazionale è stata, prima del 1914, un anello in più nella catena degli sforzi del proletariato per dotarsi di un partito mondiale.
In seguito alla discussione su questa questione, un compagno ha difeso le posizioni della CCI sulla questione sindacale, dimostrando come i sindacati siano un sofisticato strumento di controllo statale e come lo stesso Fujimori (ex-presidente del Perù) abbia sviluppato, in accordo con l’opposizione, una campagna di “distruzione dei sindacati” destinata a deviare la combattività operaia su un terreno di lotta per creare nuovi sindacati (e non per una chiarificazione politica che permettesse di battersi più efficacemente contro gli attacchi del capitale).
I sindacati hanno costituito un’arma del proletariato in un’epoca storica in cui, da un lato, il capitalismo era capace di accordare riforme durevoli, dall’altro, la rivoluzione non era all’ordine del giorno (è per tale motivo che il “programma minimo” era, all’epoca, una realtà per cui la classe operaia doveva lottare). Gli avvenimenti del 1905 e soprattutto quelli del 1917 in Russia hanno dimostrato qual è la risposta alle questioni di organizzazione che il proletariato in lotta mette in atto quando la rivoluzione diviene d’attualità, durante il periodo di decadenza del capitalismo; la rivoluzione non si è realizzata attorno ai sindacati ma attorno ai Consigli Operai, “la forma in fine trovata della dittatura del proletariato” (Lenin).
Da allora, lo sviluppo delle lotte operaie è stato continuamente confrontato alla necessità di organizzarsi al di fuori e contro i sindacati. Sappiamo che per il proletariato non è possibile creare in un qualsiasi momento dei Consigli Operai, che la loro nascita dipende dalle condizioni di generalizzazione delle lotte in una situazione pre-rivoluzionaria. Ciononostante, le lotte operaie non possono aspettare questa situazione pre-rivoluzionaria per auto organizzarsi. Appena esplode uno sciopero per la classe operaia si pone la questione di appropriarsi e di controllare la sua lotta, attraverso Riunioni Generali e di massa che le permettano di prendere tutte le decisioni (che devono essere discusse collettivamente e sottoposte al voto). La ricerca della solidarietà con gli altri sfruttati è una questione di vita o di morte per ogni sciopero (non parliamo di simulacri della solidarietà orchestrati dai sindacati). Cominciare a capire che l’isolamento segna sempre la morte di ogni sciopero è una lezione da approfondire perché permette di prepararsi alle lotte decisive contro il capitalismo. La rapida estensione geografica di ogni sciopero è una necessità vitale per l’avvenire della lotta.
Nella discussione i compagni hanno dato prova di un vero spirito proletario, cioè di essere aperti agli argomenti degli altri e voler sviluppare una riflessione collettiva. Questi due aspetti mettono in evidenza lo sforzo difficile ma entusiasmante delle minoranze alla ricerca di una prospettiva di classe in questa regione del mondo. Quello che li unisce è la comprensione della catastrofe verso cui ci sta conducendo il capitalismo. Noi siamo consapevoli delle divergenze che ancora sussistono e continueremo a lottare contro le aberrazioni politiche del GCI. Ma ciò non ci impedisce, nemmeno lontanamente, di salutare questo spirito dei partecipanti e li incoraggiamo a continuare a sviluppare il dibattito politico con spirito d’apertura e d’ascolto attento, ad integrare nuovi argomenti perché il dibattito contraddittorio permette di passare dalla confusione alla chiarezza.
In un clima sociale dominato dall’ideologia borghese e dal gauchismo, il dibattito è concepito come un rapporto di forza, una “lotta a morte” dove alla fine uno dei protagonisti deve necessariamente eliminare e distruggere i propri avversari, in una visione di guerra dove una “frazione” schiaccia l’altra. Questi sono i comportamenti quotidiani delle diverse frazioni del capitale: gli individui (o gruppi di individui) sono sottoposti alla legge capitalista della competizione nella quale l’altro è sempre un nemico, un concorrente, dove chi si impone come il più “forte”, il più “muscoloso” sarà il “vincitore” (la competizione sul mercato del lavoro sempre più saturo trova il suo equivalente nei sentimenti di “gelosia” infantile, la concorrenza scolastica, la competizione intellettuale, politica, ecc.). Per il marxismo, il dibattito ed il confronto fraterno delle idee e degli argomenti (che fanno evolvere queste idee e permettono di superare i pregiudizi dovuti alla divisione della società in classi) sono i soli mezzi per superare gli ostacoli allo sviluppo della coscienza. Per condurre un dibattito veramente proletario, le minoranze più consapevoli della classe operaia devono bandire l’umiliazione e gli insulti (anche se il confronto politico può prendere in alcune circostanze una forma polemica ed appassionata, come lo si vede per esempio talvolta nei dibattiti alquanto “burrascosi” delle Assemblee Generali di massa della classe operaia). La nostra concezione della cultura del dibattito presuppone la volontà di convincere e non di imporre le proprie idee a qualsiasi prezzo e con qualsiasi mezzo. La cultura del dibattito presuppone anche la capacità di ascoltare attentamente gli argomenti e di lasciarsi convincere (essere convinto dagli argomenti altrui non è una “capitolazione” o una “sconfitta”, poiché nel dibattito proletario non ci sono avversari da battere).
Il modo con cui si è tenuta questa prima riunione pubblica della CCI in Perù, ci permette di affermare che è necessario aprire uno spazio di discussione in questa parte del mondo, un spazio in cui gli elementi della classe operaia che vogliono dibattere, chiarirsi, esporre le proprie convinzioni possano incontrare un ambiente politico che permette l’elaborazione collettiva delle idee. Costruire questo ambiente politico vivente in cui il dibattito proletario sia al centro della vita politica è una prospettiva che, in Perù, come altrove nel mondo, costituisce una preparazione indispensabile alla rivoluzione mondiale futura.
1. “Groupe Communiste International”: si tratta di un gruppo dalla fraseologia “radicale” ma la cui pratica si avvicina a quella dei gruppi dell’estrema sinistra del capitale. Vedi la nostra denuncia di questo gruppo nella Revue Internationale n°124, sul nostro sito web: “A che serve il Groupe Communiste International?”.
2. Sui pretesi “soviet” in Iraq e sugli avvenimenti argentini, vedi il nostro articolo “Rivolte popolari in Argentina: solo l’affermazione del proletariato sul suo terreno può far arretrare la borghesia”, Rivista Internazionale n°26, pubblicata anche sul nostro sito web.
3. Classe maggiormente “alienata” della società (per il fatto che, nell’economia capitalista, i proletari sono totalmente spossessati e separati dai mezzi materiali di produzione), la classe operaia possiede al suo interno la forza che le permette di superare questa alienazione economica: la coscienza del futuro. La borghesia è, per la sua posizione di classe sfruttatrice, anch’essa una classe alienata. Ma essa è incapace di superare quest’alienazione perché ciò presupporrebbe che essa rinunciasse ad essere la borghesia.
4. Vedi il nostro articolo “Il crollo del blocco dell’Est: difficoltà accresciute per il proletariato” nella Revue Internationale n°60, e “Una svolta nella lotta di classe – Risoluzione sull’evoluzione della lotta di classe”, Revue internationale n°119, pubblicati sul nostro sito.
5. Vedi la nostra serie sulla storia della CNT nella Revue Internationale dal n°128 al 131. Vedi anche, in spagnolo, il nostro libro “Franco e la Repubblica massacrano i lavoratori”. Rispetto a “gli Amici di Durruti”, leggi nella Revue Internationale n°102 “Gli Amici di Durruti: lezione di una rottura incompleta con l’anarchismo”.Dopo tre mesi dallo scoppio dell’emergenza rifiuti la situazione in Campania continua ad essere critica. La città di Napoli è stata in parte ripulita, ma nella periferia esistono cumuli di rifiuti ormai in piena fermentazione da prima di Natale che continuano ad invadere le strade e le “soluzioni” del commissario De Gennaro non fanno che esasperare ancora di più la popolazione. Intanto le 7mila pseudo eco-balle sparse sul territorio stanno ancora lì, così come le discariche legali ed abusive i cui effetti devastanti sull’uomo e sull’ambiente sono già stati accertati da tempo. Tutti sanno che questa “emergenza” dura in realtà da 14 anni, ma adesso che la gente si mobilita perché la spazzatura gli arriva fin sotto il naso ed è stanca di essere imbrogliata, da una parte arriva l’esercito per tenere “sotto controllo la situazione”, dall’altra fioccano conferenze e dibattiti eruditi di esperti, scienziati ed ecologisti d’ogni sorta che ci vengono a spiegare cosa si dovrebbe fare per risolvere il problema dello smaltimento dei rifiuti. Intanto si moltiplicano le iniziative per “l’auto raccolta differenziata”, come se la soluzione dipendesse semplicemente dalla buona volontà di chi ci governa o, ancor di più, dal “senso civico” dei cittadini.
La situazione paradossale ed inaccettabile raggiunta in Campania ha provocato non solo una mobilitazione da parte delle popolazioni direttamente colpite dal problema, ma anche una riflessione sul degrado che siamo costretti a subire e sulle sue cause. “Come è possibile arrivare a tonnellate di spazzatura nelle strade che non si sa dove mettere?”, “Di chi è la responsabilità? Dei napoletani che non vogliono fare la raccolta differenziata?”, “Delle popolazioni dei singoli comuni della regione che rifiutano nuove discariche o impianti vicino casa? Di Bassolino, della Iervolino, della camorra che fa affari d’oro con i rifiuti?”, “Si può fare qualcosa? E cosa?”, queste sono le questioni che un po’ tutti si sono posti in questi mesi e continuano a porsi.
La nostra organizzazione ha tenuto a gennaio delle riunioni pubbliche a Napoli e Milano su questo tema. I compagni possono trovare la relazione introduttiva alla discussione fatta dalla CCI sul nostro sito web (“Emergenza rifiuti in Campania: di chi la responsabilità?”, www.internationalism.org [9]).
In questa presentazione, che ha cercato di dare una risposta a queste domande, pur riconoscendo l’innegabile responsabilità delle istituzioni locali e nazionali nella gestione dei rifiuti ed il peso che in questa assume la collusione tra potere politico e camorra (collusione che non si limita certo alla gestione dei rifiuti), abbiamo cercato di andare al di là della contingenza immediata e locale del problema mettendo in evidenza che:
“Quello che succede in questa regione è solo l’espressione più drammatica di una contraddizione che è tipica della produzione capitalista …. E’ con la società capitalista che il rifiuto diventa un problema perché il bene diventa una merce che deve essere venduta e commercializzata per realizzare il massimo profitto in un mercato dove l’unica legge è quella della concorrenza.
E questo comporta:
- una produzione irrazionale della merce con un’eccedenza di prodotti …
- una produzione abnorme di involucri, imballaggi, ecc. costituiti tra l’altro in larga misura da sostanze tossiche non degradabili che si accumulano nell’ambiente” perché il tutto deve essere prodotto al minor costo possibile.
“La logica di questo sistema non è produrre quello che serve a soddisfare i bisogni dell’umanità e quindi consumare secondo le reali necessità della collettività. Nel capitalismo la logica è quella del guadagno dell’impresa, del singolo capitalista, del singolo Stato capitalista e questa logica porta a quantità enormi di prodotti di rifiuto (miliardi di tonnellate all’anno nel mondo)… Come per il problema più generale dell’inquinamento ambientale, di cui la questione dei rifiuti fa parte, questo è un problema generale la cui radice sta nel modo di produzione capitalistico e non può trovare una soluzione effettiva se non eliminando questo sistema di produzione”.
I compagni presenti, pur condividendo che il problema di fondo sta nella produzione abnorme di rifiuti insita nel modo di produzione capitalista, hanno animato la discussione con tutta una serie di questioni dall’insieme delle quali è possibile trarre tre ordini di problematiche che riprenderemo qui brevemente.
Perché in Campania il problema dei rifiuti assume proporzioni così drammatiche mentre altrove si riesce a smaltire i rifiuti con la raccolta differenziata, il riciclaggio, ecc.?
La risposta che generalmente viene data a questa domanda, in particolare dalle varie forze della sinistra “alternativa” e dai vai paladini del buon costume quali Grillo e compagni, è che in Campania c’è un intreccio così forte tra le istituzioni e la camorra da impedire una buona e sana gestione dei rifiuti. Dunque cambiando i politici ed i responsabili del settore, facendo rispettare la legge e mettendo in galera tutti i camorristi ed i collusi con essa, il problema dovrebbe essere risolto.
La discussione ha mostrato come non c’è niente di più illusorio e mistificatorio. E per due motivi:
1. L’illegalità, la truffa, la collusione tra mafie, mondo politico ed imprenditoriale sono proprie del capitalismo per il quale non esiste etica, non esiste morale se non quella del profitto. Pretendere un capitalismo pulito, onesto, significa chiedere al capitalismo di non essere più capitalismo.
2. Alla base della difficoltà della borghesia a gestire i vari aspetti della produzione e della società c’è la crisi economica senza via d’uscita1 che, inasprendo la concorrenza, rende sempre più necessario ridurre all’osso i costi di produzione e di conseguenza rende sempre più difficile alla borghesia gestire in modo efficiente i diversi piani della società. Il che è tanto più vero per lo smaltimento dei rifiuti la cui velocità di produzione è in continuo aumento. Questo porta a situazioni estreme nelle economie più deboli (in Africa, Asia e America Latina, alle periferie delle grandi città, si vive su montagne di spazzatura), ma diventa una realtà ormai tangibile anche nei paesi più forti dove certe cose minime fino ad ora si potevano fare. Un esempio significativo è stato dato da una compagna inglese che ha raccontato come a Londra, dove la raccolta differenziata dei rifiuti è da decenni un fatto acquisito e praticato con meticolosità da tutti, negli ultimi tempi in alcuni quartieri è stato comunicato agli abitanti che non potevano più portare i sacchetti della differenziata nei centri di raccolta perché … l’amministrazione non aveva più soldi per assicurare questo servizio.
In questi giorni i vari “esperti” sfornano le loro proposte per un adeguato smaltimento dei rifiuti, ed è vero che le conoscenze scientifiche e la tecnologia per poterlo fare ci sono e non da oggi. Ma allora bisogna chiedersi: perché non si mettono in pratica? Come mai, pur essendoci la possibilità di fare imballaggi e buste con materiale biodegradabile, si continua a farli di plastica? Semplicemente perché, come ha giustamente sottolineato un altro compagno nella discussione, queste vie alternative, sicuramente meno dannose per l’ambiente, costano però di più e richiederebbero inoltre una riconversione degli impianti, per cui l’imprenditore o lo Stato che dovesse adottarle fallirebbe schiacciato dalla concorrenza sul mercato.
Le inefficienze e gli intrallazzi a livello di amministrazione locale, particolarmente prosperi là dove l’economia è più povera come appunto in Campania, non fanno che aggravare un problema che è ben più ampio: la crescente incapacità della classe dominante ad assicurare un minimo di condizioni adeguate di vita. La miseria crescente, l’aumento delle morti sul lavoro, la mancanza di prospettiva per i giovani, l’insicurezza sociale, la guerra endemica, l’inquinamento ambientale, sono tutte conseguenze del fatto che il capitalismo, per poter sopravvivere alla crisi economica profonda che l’attanaglia da più di 40 anni, è costretto a scaricarne i costi sui proletari e, sempre più, sull’insieme della società. Il che non toglie che queste diverse piaghe assumano una maggiore o minore virulenza a seconda delle condizioni specifiche e storiche delle varie parti del mondo.
Ma lo Stato non dovrebbe salvaguardare i cittadini facendo rispettare la legge?
Durante la discussione una compagna si meravigliava del fatto che, pur essendoci leggi che regolano la gestione dei rifiuti, lo Stato non le faccia rispettare da quegli imprenditori che, con l’aiuto della camorra, disperdono rifiuti tossici e nocivi nelle campagne per evitare i costi per il loro conferimento in discariche speciali.
Questa idea, largamente diffusa tra i proletari e che si basa sulla convinzione che il mondo della politica sia nettamente separato da quello economico, è frutto della più grande mistificazione di cui la borghesia si serve per giustificare il suo dominio: la democrazia. Nella visione democratica lo Stato sarebbe al di sopra delle parti, sarebbe il garante del rispetto delle regole, dell’equità tra le diverse componenti della società. E se questo non succede è solo colpa degli uomini che si trovano a capo di questa istituzione, della loro brama di potere, della loro corruzione. In realtà la storia ci ha mostrato che la forma di potere e gestione politica assunta nelle differenti società è stata sempre espressione del sistema economico della società stessa. L’Impero nell’antica Roma e il Feudo nella società medioevale corrispondevano ai modi di produzione esistenti nelle rispettive epoche. Lo Stato nazionale non è altro che lo strumento di dominio della classe dominante nel capitalismo sull’intera società e dunque le sue leggi ed il fatto che siano rispettate o meno dipendono dalle esigenze di questa. Se alle grosse aziende conviene far smaltire i loro rifiuti tossici dalla camorra abbassando così i costi, se le leggi sulla sicurezza nei posti di lavoro non vengono rispettate per far aumentare la produttività, lo Stato non ha nulla da obiettare perché è l’economia nazionale che deve marciare sul mercato internazionale e non la salute delle popolazioni o dei lavoratori.
Non esiste uno Stato al di sopra delle parti, così come non esiste un’etica nel suo operato.
C’è un sistema economico e politico sbagliato e bisogna cambiarlo. Ma per cambiarlo ci vorrà molto tempo ed allora nell’immediato cosa facciamo?
Questa domanda, posta da una compagna nel corso della discussione, esprime un sentimento comune alla maggior parte dei compagni, dei lavoratori e di quanti avvertono uno sdegno crescente verso questa società: la voglia di agire, di cambiare lo stato attuale, ma al tempo stesso la difficoltà a vedere cosa fare. Sgomenta l’idea di rimanere fermi mentre il mondo va a rotoli ed il più delle volte questo spinge a cercare una soluzione alla contingenza immediata o qualche strumento che possa “aprire gli occhi a tutti”. Nel caso specifico la compagna diceva “una risposta immediata potrebbe essere iniziare a far valere nei quartieri la raccolta differenziata… Incominciamo a rifiutare il sacchetto di plastica quando compriamo qualcosa e lanciamo questo messaggio, facciamo un tam-tam, in modo da impedire che ci impongano i sacchetti, la plastica, gli imballi …”.
Altri compagni hanno sottolineato che, se queste proposte manifestano una giusta preoccupazione e se è vero che la raccolta differenziata si sarebbe dovuta fare in Campania, come la si fa in altre parti del mondo, ciò non elimina il problema della massa enorme di rifiuti prodotti e del loro smaltimento con processi adeguati. Così come il rifiuto della busta di plastica, oltre ad essere poco praticabile per il tipo di vita che si è costretti a condurre, è una logica che non porta a niente. Secondo questa logica dovremmo rifiutare di fare la spesa nei supermercati dove tutti i generi sono impachettati con plastica e pellicola, dovremmo rifiutare di comprare l’acqua minerale o i giornali spesso impacchettati con il supplemento, il gadget o altro, dovremmo utilizzare i fazzoletti di stoffa invece di quelli di carta che sono impacchettati nella plastica, e così via.
Ma la conseguenza più insidiosa è che questo approccio, nel tentativo di “fare qualcosa subito”, fa perdere di vista la dimensione più ampia del problema e la sua causa di origine, finendo così per lasciarci intrappolati nella logica capitalista che invece vogliamo rigettare.
Nelle ultime settimane in Campania, ed in particolare a Napoli, sono proliferate iniziative per sensibilizzare la gente sulla raccolta differenziata: Greenpeace organizza la differenziata per 50 famiglie in una via di Napoli; in Piazza del Gesù si installa un presidio permanente con la parola d’ordine “auto-differenziamoci” dove si sensibilizza la gente che passa, gli si insegna come si fa la differenziata e dove vengono raccolti i sacchetti di rifiuti frutto dell’auto-differenziazione (che in verità non si sa poi che fine facciano, vista la mancanza di strutture per l’intero ciclo di recupero e trattamento delle diverse componenti differenziate). Iniziative di questo tipo sembrano rispondere all’esigenza di “fare qualcosa di concreto”, ma quale idea trasmettono? L’idea che la responsabilità è di Bassolino, della Iervolino e della camorra che pensano ai loro interessi (il che è sicuramente vero), o di Pecoraro Scanio e del governo che non fanno rispettare le leggi e se ne fregano della salute dei cittadini. La logica conseguenza è che, se si cambiano i dirigenti e se i cittadini si fanno carico responsabilmente della raccolta differenziata, i rifiuti non saranno più un problema. Questa è la stessa idea che i sindacati cercano di ficcare nella testa dei lavoratori: i licenziamenti, le morti sul lavoro, i salari da fame? Il responsabile è questo o quel padrone o, quando conviene, questo o quel governo di turno. E’ ancora la stessa idea propagandata da Beppe Grillo ed i grillini vari: facciamo pulizia nel parlamento, facciamo le liste civiche e quando il cittadino comune sarà al governo staremo meglio. In altre parole, basta trovare le persone giuste, delle persone pulite e oneste e la società potrà svilupparsi senza più problemi.
Questa è l’idea che fa più comodo alla classe dominante perché allontana il pericolo che i lavoratori, riflettendo e facendo il legame tra i vari aspetti della propria condizione, si rendano conto che quello che bisogna cambiare è il sistema nel suo insieme.
La discussione, al tempo stesso, ha sottolineato come il riconoscimento delle insidie presenti nelle iniziative come “l’auto-differenziazione dei rifiuti”, non significhi essere condannati alla passività. Al contrario! Bisogna opporsi ad ogni ulteriore degrado delle nostre condizioni di vita, e per farlo bisogna lottare perché non possiamo certo illuderci che la borghesia conceda spontaneamente qualcosa. Ma un fattore essenziale in queste lotte è capire realmente perché siamo costretti a vivere sempre peggio e quale è la prospettiva che abbiamo di fronte, perché questo ci permette di capire contro chi dobbiamo lottare e come: se dobbiamo darci da fare per far cadere il Bassolino di turno o piuttosto combattere lo Stato democratico garante di questo sistema sociale; se dobbiamo utilizzare tutta la nostra energia per “dimostrare che la raccolta differenziata si può fare” e fare il tam-tam contro l’uso dei sacchetti di plastica o piuttosto utilizzarla per discutere, confrontarci con gli altri proletari, per fare avanzare la coesione nella classe anche sui problemi dell’ambiente, anzi fare un tutt’uno tra questi e quelli di ordine salariale e sociale in genere. Perché è questa presa di coscienza che permetterà all’umanità di liberarsi dalla barbarie di questo sistema e salvare dalla distruzione l’intero pianeta.
Eva, 15-2-2007
1. Vedi articolo “Verso una violenta accelerazione della crisi economica” in questo stesso numero.
“Lo chiamano Pacific Trash Vortex, il vortice di spazzatura dell’Oceano Pacifico che ha un diametro di circa 2500 chilometri, è profondo 30 metri ed è composto per l'80% da plastica e il resto da altri rifiuti che giungono da ogni dove. “E' come se fosse un’immensa isola nel mezzo dell’Oceano Pacifico composta da spazzatura anziché rocce. Nelle ultime settimane la densità di tale materiale ha raggiunto un tale valore che il peso complessiva di questa “isola” di rifiuti raggiunge i 3,5 milioni di tonnellate”, spiega Chris Parry del California Coastal Commission di San Francisco (…). Questa incredibile e poco conosciuta discarica si è formata a partire dagli anni Cinquanta, in seguito all’esistenza della North Pacific Subtropical Gyre, una lenta corrente oceanica che si muove in senso orario a spirale, prodotta da un sistema di correnti ad alta pressione. (….) La maggior parte della plastica giunge dai continenti, circa l'80%, solo il resto proviene da navi private o commerciali e da navi pescherecce. Nel mondo vengono prodotti circa 100 miliardi di chilogrammi all’anno di plastica, dei quali, grosso modo, il 10% finisce in mare. Il 70% di questa plastica poi, finirà sul fondo degli oceani danneggiando la vita dei fondali. Il resto continua a galleggiare. La maggior parte di questa plastica è poco biodegradabile e finisce per sminuzzarsi in particelle piccolissime che poi finiscono nello stomaco di molti animali marini portandoli alla loro morte. Quella che rimane si decomporrà solo tra centinaia di anni, provocando da qui ad allora danni alla vita marina” (La Repubblica on-line, 29 ottobre 2007).
Una massa di rifiuti estesa quanto due volte la superficie degli Stati Uniti! L’hanno vista solo ora? Niente affatto: è stata scoperta nel 1997 da un ex petroliere che navigava sul suo yacht e adesso ci si viene a sapere che “un rapporto dell’ONU del 2006 calcola che un milione di uccelli marini e oltre 100 mila pesci e mammiferi marini all’anno muoiano a causa dei detriti di plastica e che ogni miglio quadrato nautico di oceano contenga almeno 46 mila pezzi di plastica galleggiante” (La Repubblica, 6 febbraio). Ma cosa è stato fatto in questi dieci anni da chi ha il mano le redini della società? Assolutamente nulla!
Così come non viene fatto nulla rispetto allo scioglimento in atto dei ghiacciai che si prevede provocherà dei cambiamenti climatici tali da raggiungere già nel corso di questo secolo un punto di non ritorno per nove sistemi climatici della terra, con tutte le conseguenze che questo comporterà per l’insieme del pianeta!
Di fronte a queste notizie effettivamente viene da riflettere sulla necessità di distruggere il capitalismo prima che questo distrugga il mondo!
Caduto un governo, se ne fa un altro, si diceva una volta, per sottolineare il fatto che la storia continua più o meno uguale a se stessa. Ma possiamo veramente tirare questa filosofia dagli avvenimenti dell’ultima legislatura e soprattutto dagli ultimi mesi del governo Prodi? Onestamente no! Proviamo a ripercorrerli velocemente. Tutti ci ricordiamo che il governo Berlusconi, che è rimasto in carica fino al 2006, ha ceduto il passo al governo Prodi lasciando un campo minato, quello della legge elettorale che, come tutti adesso ammettono, è una porcata in quanto non permette di fatto a nessun governo di governare tranquillamente perché mentre concede un premio di maggioranza alla Camera, non fa altrettanto al senato, creando una fragilità cronica nell’esecutivo.
Questa legge, che era stata cucita addosso proprio ad un nuovo probabile governo Prodi, ha dato vita ad un esecutivo che doveva accendere i lumi a S. Antonio per ogni giorno in più che rimaneva in carica e che ha finito di governare, travolto dal flagello Mastella, a meno di 2 anni dalle elezioni politiche del 2006. Ma stavolta non si tratta di una semplice alternanza destra-sinistra, del solito gioco democratico tra le diverse rappresentanze politiche della borghesia. Si tratta invece dell’emergere di segni vistosi di un empasse in cui tutta la borghesia sembra essere entrata e da cui fa sempre più fatica ad uscire.
In realtà già nello scorso articolo sulla costituzione del Partito Democratico avevamo segnalato il tentativo dei settori più attenti e lucidi della borghesia italiana (che corrispondono in linea di massima a settori del centro-sinistra moderato) di contrapporsi alla deriva attuale, alla frammentazione e al caos in cui sembrano incamminarsi sempre più i vari uomini politici del momento, attraverso la costituzione di un partito che fosse capace di aggregare alcune delle forze di centro sinistra. Ma nello stesso articolo avevamo segnalato anche i limiti di questa operazione: “Il PD non è riuscito, come era nelle intenzioni, a coagulare l’intero schieramento di centro-sinistra ed in particolare non è riuscito a prosciugare quell’area frastagliata e frammentata che esiste. (…) Ma c’è di più perché le stesse componenti che hanno aderito lo hanno fatto in maniera conflittuale”. (Rivoluzione Internazionale n.153).
Oggi che la frittata è fatta e che tutta l’opera di attenta ingegneria politica messa su dalla parte più responsabile della borghesia è stata smontata, Berlusconi si ritrova con l’insperato regalo di avere una mano a proprio vantaggio non per essere riuscito a mettere in minoranza il governo ma perché la maggioranza è riuscita da sola a mettersi in minoranza!!! Infatti, cos’è che ha fatto cadere il governo Prodi? La sua inefficienza? La sua incapacità di dare risposta ai problemi del paese? Vediamo. Certamente la gente comune, i proletari, dopo questa ennesima esperienza faranno sempre più fatica a distinguere un governo Prodi da un governo Berlusconi. Sul piano sociale l’uno forse più che l’altro si è distinto in attacchi indiscriminati contro la classe operaia. Ma sul piano di quelle che sono le esigenze reali del paese, inteso come paese capitalista, il governo Prodi ha largamente superato tutte le prove di esame, e particolarmente quelle sul piano economico, attraverso un sostanzioso risanamento economico operato grazie agli attacchi contro i lavoratori. D’altra parte, nonostante le difficoltà di coerenza della compagine governativa, la destra aveva mostrato ben altre incoerenze già segnalate nello scorso articolo, particolarmente attraverso lo scioglimento della Casa delle libertà, lo scioglimento di Forza Italia e la creazione, dalla sera alla mattina, di un nuovo partito, il Popolo delle libertà. Ma tutto questo non è bastato. Di fronte ad una situazione economica internazionale particolarmente difficile (vedi i recenti e ripetuti crolli in borsa nelle ultime settimane e il summit dei 7 grandi del mondo che si è appena concluso con un comunicato quanto mai gelido e preoccupante sul futuro economico della società), a fronte di una necessità imprescindibile di fare una nuova legge elettorale per permettere a chiunque vinca in futuro di poter governare in maniera stabile, il governo Prodi è caduto non per un’imboscata dell’opposizione ma per delle vicende giudiziarie della famiglia Mastella che, controllando un minuscolo partito, con un seguito elettorale dell’1,5%, è riuscito a travolgere il governo e la legislazione ridando fiato, nella mischia, alle componenti retrive e parassite del centro-destra.
Dunque si va alle elezioni politiche 2008 con la stessa legge elettorale che ha causato la fragilità del governo Prodi e con il rischio di avere tra i principali partiti votati quello delle astensioni. La borghesia lo sa e teme molto questo esito. E’ per questo che prima di sciogliere il Parlamento il presidente Napoletano ha fatto di tutto per creare un governo Marini che riuscisse a dettare almeno delle regole elettorali nuove. E’ ugualmente per questo che non solo il partito democratico, ma un po’ alla volta tutte le varie componenti politiche stanno cercando di dare una risposta concreta al problema della dispersione delle forze politiche presenti nello scenario del paese, anche se questo non si fa sempre per serietà politica ma talvolta perché si capisce che da soli si perde più facilmente. Così, accanto al Partito Democratico, abbiamo assistito alla formazione del nuovo soggetto politico denominato La Sinistra Arcobaleno, fusione politica e elettorale di Rifondazione Comunista, Verdi, PdCI e Sinistra Democratica ed l’Italia dei Valori entrare nel PD. Ma anche sull’altro fronte c’è stata una semplificazione importante con il Partito delle Libertà che ingloba la vecchia Forza Italia, AN e la Lega Nord, anche se qui sembra aver funzionato, nell’accorpamento del cartello elettorale, molto più opportunismo politico di quanto non ce ne sia stato a sinistra.
Un ultimo elemento da segnalare, apparentemente in contraddizione con quanto detto sopra, è il fatto che Veltroni abbia deciso di “correre da solo” alle prossime elezioni politiche senza creare cartelli di alleanze né con la sinistra né con altre formazioni del centro. Nonostante le iniziali critiche, anche abbastanza dure, da parte della sinistra che lo ha accusato di consegnare la prossima legislatura nelle mani di Berlusconi nella misura in cui in questo modo quasi sicuramente si viene a perdere il premio di maggioranza, la scelta di Veltroni ancora una volta esprime che il PD rappresenta oggi la forza più responsabile della borghesia. Di fatto è vero che correre da soli alle elezioni comporta perdere il premio di maggioranza, ma la scelta del PD è una scelta strategica e non tattica, cioè per il lungo periodo e non per domani mattina. Di fatto Veltroni sa che il centro-sinistra ha sulle spalle l’eredità del governo Prodi che, nonostante tutto, è stato uno dei governi meno stimati degli ultimi tempi, sia per gli attacchi fatti alla popolazione da un governo “amico”, sia per l’assoluta goffaggine e disunione della maggioranza governativa. Per cui, di fronte ad una legislatura che rischia di essere vinta senza molte difficoltà da Berlusconi e alla prospettiva di un nuovo governo (di destra o di sinistra che sia) che rischia esso stesso di sorgere con la stessa precarietà di quello precedente (in quanto nasce con la stessa legge elettorale), la scelta di Veltroni è quella di puntare soprattutto a caratterizzare l’identità del partito in modo da riuscire a collocarsi in futuro come un’alternativa credibile di gestione della società. Che questa sia stata una scelta seria e importante per la vita politica della borghesia lo si vede sia dai commenti positivi della stampa che dai forti apprezzamenti che vengono dalla stessa destra tentata a sua volta a emulare il comportamento di Veltroni.
Quali sono le conclusioni che possiamo trarre da questo insieme di elementi? Che la borghesia tende a perdere di coerenza, di lucidità. In genere la politica della borghesia è sempre più discreditata; destra e sinistra diventano sempre più sovrapponibili nella sostanza a parte slogan retorici lanciati dagli uni o dagli altri. In realtà i partiti non hanno più grandi carte da giocare ed anche una carta intelligente come quella del Partito Democratico finisce per essere bruciata rapidamente.
Questa situazione di difficoltà della borghesia viene fortemente percepita dalla gente, la credibilità nei confronti della cosiddetta “classe politica” è particolarmente bassa in questo periodo. Ma la sfiducia nella classe dominante in sé non basta, non è un elemento di costruzione di una prospettiva. Occorre ancora che i lavoratori, i proletari passino dal sentimento di sfiducia nella borghesia a quello di fiducia in se stessi, di fiducia in una prospettiva che essi stessi possono costruire. E’ a partire da ciò che sarà possibile costruire una prospettiva nuova per tutta l’umanità.
Ezechiele, 13 febbraio 2008
Il 27 dicembre 2007, Benazir Bhutto è stata assassinata. Il suo ritorno a Dubai in ottobre era già stato oggetto di un attentato che provocò 139 morti. Sicuramente questa musa della “democrazia” ha avuto i rituali omaggi da tutta la stampa borghese internazionale. Il suo “carisma” ed il suo “ straordinario coraggio “, la sua “resistenza all’egemonia militare” sono stati esaltati dai giornali occidentali e dei paesi arabi moderati. Ma le reazioni di tanti articoli giornalistici e di uomini politici è stata segnata anche da una certa inquietudine: “apertura verso l’abisso”, “verso il caos politico”, “l’implosione del Pakistan” …. L’ONU si è riunito d’urgenza, per ripiegarsi nell’impotenza altrettanto il fretta. E gli Stati Uniti, tramite il dipartimento di Stato, hanno condannato “la gente che là giù (...) tentano di interrompere la costruzione di una democrazia” mentre Bush ha esortato “il Pakistan ad onorare la memoria di Benazir Bhutto proseguendo quel processo democratico per il quale ha coraggiosamente dato la vita”. In breve, secondo la borghesia Benazir Bhutto avrebbe incarnato da sola la salvezza di un Pakistan confrontato ad un’instabilità crescente. Il suo ritorno aveva sollevato un’ondata di aspettative sulla possibilità di mettere un freno all’anarchia che incancrenisce uno Stato il cui esercito è sempre più infiltrato dagli islamici radicali e che possiede anche l’arma nucleare.
Nel 2007 si sono contati 800 morti, principalmente dovuti ad attentati suicidi. I Talebani fanno regolari irruzioni in territorio pachistano, in particolare nel nord-ovest dove i soldati vengono uccisi o portati via a centinaia. Né i 90.000 soldati ammassati al confine, né i dieci miliardi di dollari stanziati allo Stato pachistano hanno permesso un controllo della situazione. I conflitti religiosi tra Sciiti e Sunniti, che da soli hanno provocato 4.000 morti in 15 anni, sono sempre più apertamente una fonte di violenza, conflitti che, alimentati dalle tensioni sempre più esacerbate tra i gruppi etnici, tendono a fare del Pakistan un nuova polveriera. L’assassinio di Benazir Bhutto riversa una nuova dose di odio sul fuoco dei dissensi tra Sindes (gruppo etnico della famiglia Bhutto) e Pendjabis (il cui territorio è stato il teatro dell’attentato contro l’ex-Primo ministro).
Inoltre, milioni di afgani si sono rifugiati in Pakistan, cosa che aumenta l’instabilità del paese, ed anche se circa 2,3 milioni di questi sono stati rimpatriati nel 2005, ne restano ancora più di un milione.
Il clima di sospetto e di guerra larvata attraversa tutta la classe politica, esprimendo in modo acuto il comportamento da gangster della borghesia: ad esempio, subito dopo l’assassinio vi è stata vista la mano di Al Qaida, ma al tempo stesso gli stessi militari vicino al potere sono stati additati come potenziali promotori dell’attentato.
Un nuovo fallimento degli Stati Uniti
Il Pakistan è chiaramente un paese al limite di un’esplosione politica, militare e socio-etnica. Il regime di Musharraf ha la sua parte di responsabilità: corruzione generalizzata, contatti con i Talebani, doppio gioco con gli Stati Uniti. D’altra parte esso non piace a nessuno: sempre meno agli islamici, fin dal massacro della Moschea rossa l’anno scorso; a settori sempre più grandi dell’esercito, diviso tra i partigiani islamici ed i clan anti-americani; agli occidentali, dopo l’attuazione dello stato d’emergenza nell’autunno 2006, servita a preparare la sua rielezione presidenziale. Musharraf non piace neanche agli stessi Stati Uniti per i quali è completamente inaffidabile come “alleato”. Eppure, oggi, è solo su quest’uomo politico che possono appoggiarsi nel conflitto in Afghanistan.
Quando gli Stati Uniti invasero l’Afghanistan nel 2003, servendosi dell’attentato alle Torri gemelle e della “lotta al terrorismo” come pretesto, l’appoggio del Pakistan fu per loro necessario. L’America promise all’epoca di sostenere le tribù ostili all’Alleanza del Nord, nemica tradizionale e ostacolo all’influenza pachistana in Afghanistan, ma questa promessa è stata vanificata dall’influenza guadagnata dall’Alleanza del Nord nella situazione venutasi a creare dopo la sconfitta dei Talebani. Tuttavia l’aiuto del Pakistan agli Stati Uniti inizialmente era stato ottenuto solo con la minaccia di Bush di bersagliare il paese tanto da riportarlo “all’età della pietra”! se non gli avesse dato “volontariamente” il suo appoggio per la guerra in Afghanistan. Del resto questa minaccia è stata recentemente ricordata dal democratico Barack Obama nella campagna presidenziale attuale, facendo intendere che gli Stati Uniti possono in qualsiasi momento bersagliare i bastioni di Al Qaida in Pakistan senza alcun permesso; al che il presidente Musharraf ha risposto che avrebbe considerato tali attacchi come attacchi nemici!
E’ per questo che l’America ha puntato su Benazir Bhutto, per tentare di trovare un appoggio più affidabile all’interno dello Stato, dando una vernice più “democratica” all’alleanza con il Pakistan, e tentare di rallentare le forze centrifughe che fanno danno. Appartenente ad una famiglia di politici pakistani di lunga data, persona navigata della politica (due volte primo ministro) e che si avvale di una aura internazionale di difensore patentato della “democrazia”, la dirigente del Partito del Popolo Pakistano era inoltre nota come una “fedele degli Stati Uniti”1.
L’amministrazione americana ha quindi organizzato e strappato a Musharraf il suo ritorno nel paese con l’obiettivo di costituire una coalizione che includesse dei “moderati”, meglio in grado di sostenere la politica americana in Afghanistan ed in Pakistan.
Chiunque siano i mandanti di questo assassinio, la scomparsa di Benazir Bhutto è perciò un fallimento per la Casa Bianca nella sua crociata contro il terrorismo. Già impantanata nel caos iracheno e lungi dal venire fuori dalla melma afgana, gli Stati Uniti subiscono un ulteriore indebolimento sulla scena internazionale.
Pakistan, il “pezzo forte” dell’imperialismo americano
Che l’America si trova esposta ad una difficoltà supplementare rispetto al Pakistan non significa però che quest’ultimo possa approfittare di qualcosa da una tale situazione. Questa infatti non può che peggiorare. D’altra parte, il problema di fondo non è Musharraf in sé. Si tratta di una questione ben più ampia che riguarda le origini stesse della fondazione dello Stato di pachistano nel 1947, uno Stato conteso da varie parti, preda di molteplici tensioni di guerra e di pesanti pressioni interne ed esterne.
Il conflitto congenito tra il Pakistan e l’India è al primo posto. È questo conflitto che ha spinto lo Stato pachistano a dotarsi (sotto l’impulso di Bhutto padre) dell’arma nucleare. Ricordiamo che i dissensi indo-pachistani sul Cachemire e la corsa all’armamento nucleare tra questi due paesi sono stati al centro della minaccia di guerra nel 2002, con il rischio reale dell’uso dell’arma atomica. È stato solo sotto la forte pressione degli Stati Uniti che il pericolo di guerra è stato allontanato, perché quest’ultimi temevano che un tale conflitto avrebbe contrastato la propria prospettiva militare. Ma nessuno dei problemi tra Islamabad e Nuova Delhi è stato risolto. La corsa agli armamenti tra i due Stati ha preso tali proporzioni che, nel 2006, essi sono diventati i due canali principali di trasferimento di armi verso il terzo mondo, mentre continuano ad alimentare ogn’uno per proprio conto attacchi terroristi e ciechi attentati, fomentando il più ripugnante nazionalismo, con un disprezzo totale per le popolazioni che fingono di “liberare” dal giogo dell’avversario.
Il Pakistan ha giocato un ruolo importante anche nella guerra imperialista, nel quadro del confronto tra i blocchi dell’Est e dell’Ovest ai tempi della Guerra fredda. Durante gli anni 1980, il Pakistan è stato strategicamente importante per l’aiuto accordato dal blocco occidentale ai Mudjahidin che lottavano contro l’URSS in Afghanistan. All’epoca questi islamici non avevano al loro fianco solo Dio ma anche i missili Stinger americani della CIA.
Globalmente, la situazione strategica del Pakistan non è a suo vantaggio e rende la sua posizione molto complessa. Questo paese ha in effetti delle frontiere molto importanti con l’Afghanistan, l’Iran, la Cina e l’India.
Costretto con la forza a sostenere gli Stati Uniti nella loro “guerra contro il terrorismo”, non può però guadagnare niente da questa lealtà perché si trova alla convergenza degli interessi tra l’India, il suo nemico storico, e gli Stati Uniti, il Grande Boss che gli impone il suo diktat. D’altra parte l’altro suo “protettore”, la Cina, ha a sua volta appetiti imperialistici che lo spingono al conflitto con l’India ma anche con l’America, il che lo mette in un rapporto falso di fronte a Washington. Il tutto sullo sfondo di una guerra con l’Afghanistan che erode letteralmente il paese da tutte le parti ed una guerra mascherata ma permanente con l’India.
Qualunque sia il risultato elettorale di febbraio, il Pakistan non può scappare ad un’instabilità e ad un caos crescente che fanno aleggiare una minaccia supplementare sull’equilibrio di tutta questa regione del mondo.
Wilma (gennaio 21)
(da Révolution Internationale n°386)
1. Dimessa per due volte dalle sue funzioni per corruzione, coinvolta nell’assassino del fratello divenuto nel 1992 un potenziale rivale, per non citare che due esempi, non c’è dubbio che la sua carriera politica ha dimostrato che non aveva niente da invidiare, in quanto a colpi bassi, ai vari Nawaz Sharif e Pervez Musharraf.A metà gennaio, ci sono state violente tempeste in tutti i principali mercati azionari del mondo, dagli USA, all’Europa e all’Asia. Nello spazio di un solo giorno i valori sono caduti fra il 4 ed il 7%. La stampa ha parlato esplicitamente di perdite tra le più spettacolari dal 11 settembre 2001; dei timori crescenti per una recessione negli Stati Uniti con i relativi effetti devastanti sul commercio mondiale; del drastico taglio dei tassi di interesse della Federal Reserve, il più forte da 25 anni ad oggi.
Perché questa caduta nei mercati azionari?
Una dopo l’altra, le banche pubblicano dei risultati giudicati “mediocri” per il 2007. Le perdite legate alla crisi dei subprime continuano a stupire per la loro ampiezza. Le banche americane sono ovviamente molto toccate: ad esempio, gli utili della Bank of America sono caduti del 29% nel 2007, quelli di Walchovia del 98% nel quarto trimestre! Ma tutti i continenti sono toccati. Dopo le banche tedesche WestLB e Commerzbank, tocca oggi alla seconda banca cinese, Bank of China, annunciare perdite per parecchi miliardi di dollari. Il governo britannico è dovuto intervenire direttamente per salvare la Northernrock dal fallimento.
In Francia, dove fino ad oggi le autorità ed i mass media assicuravano che le banche francesi erano più responsabili, che non avevano le mani in pasta nella speculazione selvaggia, ecco un altro patatrac …AXA, BNP Paribas, Crédit Agricole, Richelieu Finance pubblicano a loro volta risultati terribili. Ma il massimo del ridicolo e del grottesco si è avuto quando la Société Generale ed il suo direttore Daniel Bouton hanno spiegato la perdita di 7 miliardi di euro ed il conseguente fallimento con lo “straordinario talento di dissimulazione” di Jérome Kerviel, un trader di 31 anni, sottolineando “l’incredibile intelligenza di questo operatore di base” le cui “motivazioni sono totalmente incomprensibili”. Conoscendo le procedure di controllo a menadito, questi avrebbe creato una “impresa dissimulata nelle sale contrattazioni” della SG, accusando lui da solo 4,9 miliardi di euro di perdita contro “soltanto” 2 miliardi di svalutazione degli utili legati alla profonda crisi dei subprimes! La menzogna è enorme e tutti gli specialisti hanno ovviamente emesso dei “dubbi” sulla validità di questa storia. Ma Bouton, Sarkozy ed il governo non mollano ed anche il segretario generale dell’OCSE, Angel Gurria, dà il suo contributo alla grossa bugia “Quello che succede alla Société Generale è diverso e non è sintomatico di una crisi del sistema”. Ecco lo scopo della manovra! Negare la realtà della crisi, fare credere che si tratti soltanto di un incidente di percorso, di una semplice frode.
Ma questa crisi c’è, eccome!. Non ha nulla di virtuale e la classe operaia inizia già a sentirne le conseguenze. Una dopo l’altra le banche annunciano delle “necessarie ristrutturazioni”, cioè ondate di licenziamenti: 4.000 posti in meno alle Casse di risparmio, 2.400 alla Indymac Bancorp (società di credito americana), 1.000 alla Morgan Stanley (banca americana); da 17.000 a 24.000 alla Citygroup (prima banca mondiale); dal 5 al 10% di effettivi in meno alla Merrill Lynch (banca d’investimento) ed alla Moody's (società di rating finanziario). E si tratta soltanto dei primi avvisi di un’ondata di licenziamenti che toccherà nei prossimi mesi tutto il settore bancario.
Dietro la crisi finanziaria, la crisi dell’economia reale
“Questa deriva borsistica è (...) piuttosto una buona notizia per alcuni. Ciò permette di risanare il mercato” (La Tribune, 22 gennaio). I media ci bombardano la testa con discorsi di questo tipo. Le convulsioni borsistiche e le difficoltà delle banche avrebbero anche un aspetto morale: gli speculatori che hanno commesso qualche eccesso vengono adesso puniti dal mercato e tutto starebbe semplicemente ritornando alla normalità. E’ falso! Dietro la crisi finanziaria attuale si nasconde una crisi profonda dell’economia reale.
La folle speculazione di questi ultimi dieci anni nasce dalle difficoltà delle imprese a vendere le loro merci. Il capitalismo è corroso da una malattia congenita e mortale per la quale non esiste alcun rimedio: la sovrapproduzione1. La sola soluzione del capitalismo è creare artificialmente degli sbocchi con un ricorso massiccio all’indebitamento ed al credito. Per fare fronte alla crisi asiatica del 1997, poi alla recessione del 2001, la borghesia ha aperto al massimo le valvole del credito. Mai i tassi sono stati così bassi, le banche non hanno neanche più verificano la solvibilità di chi chiedeva un prestito! Quest’estate, il reddito delle famiglie povere americane era per l’80% legato al credito, cioè compravano il televisione, il cibo, gli abiti... indebitandosi! I prestiti a rischio, chiamati subprimes hanno rappresentato, nel luglio 2007, 1.500 miliardi di dollari di debiti! Una montagna... ma una montagna che ha iniziato ad erodersi quindi a franare. Tutte queste famiglie indebitate sono state incapaci di rimborsare i loro debiti in scadenza. L’economia reale, fatta per gli operai di ondate di licenziamenti, di aumento della disoccupazione e d’impoverimento, ha riportato l’economia virtuale alla triste realtà. Effetto domino, le banche hanno accumulato le perdite che dichiarano oggi a colpi di miliardi di dollari. Inoltre, approfittando dei bassi tassi d’interesse, le banche, i magnati della finanza ed anche le imprese si sono a loro volta indebitati per poter speculare vendendo e rivendendo tra loro i subprimes contratti dalle famiglie operaie. Non sono quindi solo 1.500 miliardi, ma decine di migliaia di miliardi di dollari che non verranno mai rimborsati!2
È quindi la crisi dell’economia reale la causa delle frenesie speculative di questi ultimi dieci anni e degli scossoni finanziari attuali. Ma oggi, come un boomerang, le difficoltà delle banche si ripercuoteranno a loro volta su tutta la vita economica: “Gli storici lo sanno bene: le crisi bancarie sono le più gravi, perché toccano il centro nevralgico delle economie, in questo caso il finanziamento delle attività e delle imprese” (La Tribune, 22 gennaio). Prese nella tempesta, le banche non potranno più continuare a rischiare di fare prestiti a vuoto, senza essere sicure della solvibilità dei debitori. Le imprese e le famiglie avranno quindi più difficoltà ad indebitarsi, il che comporterà però un rallentano l’attività economica. Come ha scritto La Tribune: “Nella zona euro, dove le piccole e medie imprese dipendono per più del 70% dai finanziamenti delle banche, l’impatto della recessione è certo” (ibidem). È quello che gli specialisti chiamano “credit crunch” (contrazione del credito). Quest’impatto sull’economia reale inizia del resto già a farsi seriamente sentire. In particolare nell’ultimo trimestre 2007 l’economia mondiale ha fortemente rallentato, lasciando intravedere cosa ci riservano il 2008 ed il 2009. Un giornale come Le Monde, solitamente “riservato”, oggi non nasconde più la realtà di questa tendenza alla recessione: “L’indice Baltic Dry Index (BDI), che misura il prezzo del trasporto marittimo delle materie prime, è un buon indicatore del livello di attività del commercio... e dell’economia mondiale. Esso ha appena battuto quattro record al ribasso in un giorno (...) Se le previsioni dell’indice Baltic Dry si avverano, il rallentamento mondiale è già cominciato e sarà doloroso” (Le Monde, 21 gennaio).
Le prime vittime saranno ovviamente i lavoratori. La Ford, ad esempio, ha già annunciato la soppressione di 13.000 posti di lavoro (che si aggiungono ai 44.000 già eliminati nel 2006).
La borghesia non ha alcuna soluzione reale alla sua crisi storica
Di fronte a questa nuova crisi, la borghesia risponde con la sua eterna ed unica “soluzione”: ancora più crediti, ancora più debito. Il presidente americano, George Bush, ha così annunciato un piano eccezionale di 140 miliardi di dollari e la FED (banca centrale americana) un ribasso di 75 punti dei suoi tassi guida. Misure che non potranno affatto fermare lo sviluppo della crisi, al massimo frenarlo un po’.
Nel 1997, iniettando quasi 120 miliardi di dollari, la borghesia riuscì a circoscrivere la crisi in Asia. Nel 2001, lo scoppio della bolla Internet fu compensato dalla creazione di una nuova bolla, la bolla immobiliare. Ma oggi, non si tratta di una crisi di una regione della periferia (la crisi asiatica) o di un problema che può essere limitato ad un settore secondario (la bolla Internet). È il cuore del capitalismo ad essere toccato: l’America, l’Europa, e le banche. La crisi è dunque ben più grave, le sue conseguenze sulle nostre condizioni di vita saranno ben più drammatiche. Tutti gli economisti, al soldo della classe dominante, ci dicono che fortunatamente l’Asia ed i suoi fantastici tassi di crescita sosterranno, nonostante tutto, la crescita mondiale. Ma anche qui, la realtà è tutt’altra. Dinanzi all’evidenza dei fatti alcuni esperti iniziano a riconoscerlo: “Ma occorre constatare che la Tailandia ha annunciato ieri un rallentamento delle sue esportazioni in dicembre, così come Singapore o ancora Taiwan. La Banca mondiale ammette che dei canali di contagio della crisi ai paesi emergenti esistono: l’esposizione delle banche ai subprimes, (...) e (...) l’impatto sull’economia di una recessione negli Stati Uniti” (La Tribune, 22 gennaio). La Cina soffrirà in modo particolare per da diminuzione delle sue esportazioni a causa alla recessione americana. In breve, l’Asia, come tutti i continenti, sarà toccata da questa nuova accelerazione della crisi economica mondiale che qui si tradurrà in un aumento considerevole della povertà e della carestia.
Nei mesi e gli anni a venire, su tutto il pianeta, il proletariato sarà confrontato ad un deterioramento considerevole delle sue condizioni d’esistenza. La borghesia non avrà tregua nell’attaccare ed attaccare ancora. Ma i proletari stanno dimostrando la capacità di sviluppare le loro lotte. Di fronte a questo nuovo peggioramento della crisi ed al deterioramento delle loro condizioni di vita, possono solo continuare ad ampliare le lotte e forgiare la loro solidarietà di classe.
Pawel (26 gennaio)
1. Per una spiegazione più dettagliata dell’economia capitalista, leggi il nostro articolo “Cosa è la decadenza?” su www.internationalism.org [9].
2. Dopo i subprimes, altri tipi di credito arrivano poco a poco a scadenza ed anche qui si rischia una doccia fredda. Ad esempio, per il Credit Default Swap (CDS, tipo di credito a metà strada tra il prestito classico e l’assicurazione) “il totale del portafoglio commerciale mondiale in CDS si è sviluppato molto rapidamente a partire dall’inizio degli anni 2000 per raggiungere 45.000 miliardi di dollari nel 2007 (più di 3 volte il PIL americano). Si considera che questi profitti hanno grandi similitudini con il mercato dei subprimes. Se le imprese fallissero, le stesse cause produrrebbero gli stessi effetti, su scala molto più ampia” (Commissione per la liberazione della crescita francese, detta Commissione Attali).
Links
[1] https://it.internationalism.org/en/tag/4/75/italia
[2] https://it.internationalism.org/en/tag/situazione-italiana/lotte-italia
[3] https://it.internationalism.org/en/tag/2/29/lotta-proletaria
[4] https://it.internationalism.org/en/tag/4/71/germania
[5] http://www.lemaroc.org/
[6] https://it.internationalism.org/en/tag/4/83/medio-oriente
[7] https://it.internationalism.org/en/tag/vita-della-cci/riunioni-pubbliche
[8] https://it.internationalism.org/en/tag/4/94/sud-e-centro-america
[9] https://world.internationalism.org
[10] https://it.internationalism.org/en/tag/3/42/ambiente
[11] https://it.internationalism.org/en/tag/situazione-italiana/politica-della-borghesia-italia
[12] https://it.internationalism.org/en/tag/4/64/pakistan
[13] https://it.internationalism.org/en/tag/3/49/imperialismo
[14] https://it.internationalism.org/en/tag/3/47/economia