La crisi finanziaria, che si è manifestata da poco più di un anno nel sud-est asiatico, è attualmente in via di prendere la sua vera dimensione. Essa ha conosciuto una nuova impennata nel corso dell'estate, con il crollo dell'economia russa e con le convulsioni senza precedenti nei “paesi emergenti” dell'America latina. Ma sono ora le principali metropoli del capitalismo, i paesi più sviluppati d'Europa e d'America del nord, che si trovano in prima linea con una caduta continua dei loro indici borsistici e con previsioni di crescita continuamente riviste al ribasso. Siamo lontani dall'euforia che animava le borghesie ancora qualche mese fa, un’euforia che si rifletteva nella montata vertiginosa delle Borse occidentali durante tutti i primi mesi del 1998. Attualmente, gli stessi “specialisti” che si felicitavano della “buona salute” dei paesi anglosassoni e che prevedevano una ripresa in tutti i paesi europei non sono gli ultimi a parlare di recessione, anzi di “depressione”. Ed hanno ragione ad essere pessimisti. Le nuvole che attualmente si accumulano sulle più potenti economie non presagiscono una piccola burrasca. Annunciano, al contrario, una vera tempesta che manifesta l'impasse in cui si trova l'economia capitalista.
Teatro di un nuovo e brutale colpo d'acceleratore, l'estate del 1998 sarebbe stata mortale per la credibilità del sistema capitalista: approfondimento della crisi in Asia dove la recessione s'installa e raggiunge ora direttamente le due “grandi” che sono il Giappone e la Cina, situazione minacciosa in America latina, crollo spettacolare dell'economia russa e cadute che sfiorano i record storici sulle principali piazze borsistiche. In tre settimane, il rublo ha perduto il 70% del suo valore (da giugno del 1991, il PIB russo è caduto del 50% se non dell'80%). Il 31 agosto, il famoso “lunedì blu”, secondo l'espressione di un giornalista che non ha osato chiamarlo “nero”, ha visto l'indice di Wall Street cadere del 6,4% e quello del Nasdaq (l'indice dei valori tecnologici) dell'8,5%. All'indomani, I° settembre, anche le Borse europee erano colpite. Francoforte iniziava la mattinata con una perdita del 2% e Parigi del 3,5%. Nel corso della giornata, Madrid perdeva il 4,23%, Amsterdam 3,56% e Zurigo 2,15%. Per l'Asia, il 31 agosto, la Borsa di Hong Kong cadeva oltre il 7%, quanto a quella di Tokyo, essa precipitava, raggiungendo il livello più basso negli ultimi 12 anni. In seguito, il movimento al ribasso dei mercati borsistici non ha fatto che proseguire al punto tale che il lunedì 21 settembre la maggior parte degli indici erano ritornati ai livelli dell'inizio del 1998: +0,32% a New York, +5,09% a Francoforte ma saldo negativo a Londra, Zurigo, Amsterdam, Stoccolma…
L'accumularsi di tutti questi avvenimenti non è per niente dovuta al caso. Al contrario di quanto hanno voluto farci credere, essa non è per niente la manifestazione di una “crisi di sfiducia passeggera” verso i paesi detti “emergenti” o una “correzione meccanica salutare di un mercato sopravvalutato”, ma si tratta di un nuovo episodio che caratterizza la discesa agli inferi di tutto il capitalismo, una discesa agli inferi di cui il crollo dell'economia russa ci offre una sorta di caricatura.
La crisi in Russia
Per mesi, la borghesia mondiale e i suoi “esperti”, seriamente spaventati con la crisi finanziaria dei paesi del sud-est asiatico, si erano consolati costatando che essa non aveva trascinato nella sua scia gli altri paesi “emergenti”. I media avevano allora esagerato sulle caratteristiche “specifiche” delle difficoltà che assillavano la Tailandia, la Corea, l'Indonesia, ecc. E poi il campanello d'allarme si è fatto sentire di nuovo con il vero caos che si è impadronito dell'economia russa all'inizio dell'estate (1). La “comunità internazionale”, che aveva già fortemente contribuito nei confronti del sud-est asiatico, ha finito per dare un aiuto di 22,6 miliardi di dollari su 18 mesi, accompagnato, come al solito, da condizioni draconiane: riduzione drastica delle spese dello Stato, aumento delle imposte (particolarmente quelle che pesano sui salari, tanto per compensare l'impossibilità accertata dello Stato russo a ricoprire quelli dovuti alle imprese), innalzamento dei prezzi, aumento delle tasse sulle pensioni. Tutto ciò mentre le condizioni d’esistenza dei proletari russi erano già miserabili e quando la maggior parte degli impiegati statali e una buona parte di quelli delle imprese private non vedevano i propri salari da molti mesi. Una miseria che si traduce in maniera drammatica: da giugno 1991 si riconosce che la speranza di vita maschile si è ridotta da 69 a 58 anni; il tasso di natalità da 14,7‰ a 9,5‰.
Un mese più tardi, il risultato era là: i fondi stanziati si erano trasformati in pura perdita. Dopo una settimana nera che ha visto la Borsa di Mosca cadere vertiginosamente e messo centinaia di banche sull'orlo del fallimento, Eltsin ed il suo governo sono stati costretti, il 17 agosto, a mollare su ciò che era l'ultima difesa della loro credibilità: il rublo e la sua parità in rapporto al dollaro. Sulla prima parte di 4,8 miliardi di dollari versati in luglio come aiuto da parte del FMI, 3,8 erano stati inghiottiti, in vano, nella difesa del rublo. Quanto al miliardo restante, non era per niente servito alla messa in opera di misure di risanamento delle finanze dello Stato ed ancor meno a pagare gli arretrati del salario degli operai, per la buona ragione che anche quest'ultimo si era liquefatto nella sola funzione del debito (che divora più del 35% delle risorse del paese), cioè nel semplice pagamento degli interessi venuti a scadenza nello stesso periodo. Senza parlare dei fondi sottratti che vanno direttamente nelle tasche di questa o quella fazione di una borghesia "gangsterizzata". L'insuccesso di questa politica significa per la Russia che, oltre ai fallimenti a catena di banche (circa 1500 banche coinvolte), oltre alla caduta nella recessione e all'esplosione del suo debito estero trasformato in dollari, l'attende il ritorno dell'inflazione galoppante. Fin da ora si stima che questa potrebbe arrivare dal 200 al 300% in questo anno. E non è ancora tutto.
Questo marasma ha immediatamente provocato lo sbandamento del vertice statale russo, provocando una crisi politica. Questo dissesto della sfera dirigente russa, che la fa somigliare sempre di più a quella di una volgare repubblica delle banane, ha allarmato le borghesie occidentali. Ma la borghesia può ben preoccuparsi della sorte di Eltsin e soci, è innanzi tutto la popolazione russa e la classe operaia che pagano e vanno a pagare il prezzo più alto delle conseguenze di questa situazione. La caduta del rublo ha già rincarato di oltre il 50% il prezzo delle derrate alimentari importate che rappresentano più della metà di quelle consumate in Russia. La produzione è appena il 40% di quella che era prima della caduta del muro di Berlino…
Attualmente la realtà conferma in pieno ciò che dicevamo circa nove anni fa nelle “Tesi sulla crisi economica e politica in URSS e nei paesi dell'Est”, redatte nel settembre del 1989: “Di fronte al fallimento totale dell'economia di questi paesi, la sola possibilità che ha quest'ultima non di accedere ad una reale competitività, ma di tenere almeno la testa fuori dall'acqua, sta nell'introduzione di meccanismi che permettano una reale responsabilizzazione dei suoi dirigenti. Questi meccanismi presuppongono una "liberalizzazione” dell'economia, la creazione di un mercato interno che veda una maggiore "autonomia" per le imprese e lo sviluppo di un forte settore "privato"(…) Tuttavia, anche se un tale programma diventa sempre più indispensabile, la sua attuazione comporta degli ostacoli praticamente insormontabili.” (Revue Internationale n°60)
Qualche mese dopo dicemmo: “(…) alcuni settori della borghesia rispondono che ci sarebbe bisogno di un nuovo "Piano Marshal" per consentire la ricostruzione del potenziale economico di questi paesi (…) oggi, un’iniezione massiva di capitali verso i paesi dell'Est che mira a sviluppare il loro potenziale economico, e in particolare industriale, non può essere possibile. Anche supponendo che si rimetta in piedi un tale potenziale produttivo, le merci prodotte non farebbero che ingombrare ancora di più un mercato mondiale già super saturo. E' quello che vediamo nei paesi che oggi escono dallo stalinismo come paesi sottosviluppati: tutta la politica di crediti massivi iniettati in questi ultimi nel corso degli anni 70 ed 80 non ha potuto portare che alla situazione catastrofica che ben si conosce (un debito di 1400 miliardi di dollari e delle economie ancora più devastate rispetto a prima). I paesi dell'Est (la cui economia si avvicina d'altra parte a quella dei paesi sottosviluppati per le evidenti somiglianze) non possono conoscere sorti differenti. (…) La sola cosa che è possibile aspettarsi, è l'invio di crediti o di aiuti urgenti che permettono a questi paesi di evitare una bancarotta finanziaria aperta e una miseria che non farebbe che aggravare le convulsioni che li scuotono.” (“Dopo il crollo del blocco dell'Est, destabilizzazione e caos”, Revue Internationale n°61).
Due anni dopo, scriviamo: “E' ancora per allentare un po’ la strozzatura finanziaria dell'ex URSS che il G7 ha accordato una proroga di un anno per il rimborso degli interessi del debito sovietico, il quale attualmente ammonta ad 80 miliardi di dollari. Ma ciò non sarà che un ulteriore rimedio inutile dato che i crediti assegnati sembrano scomparire in un pozzo senza fondo. Due anni fa era stata propagandata ogni sorte d'illusione sui "nuovi mercati" aperti con il crollo dei regimi stalinisti. Attualmente, nello stesso momento in cui la crisi economica mondiale si traduce, tra l'altro, in una crisi acuta di liquidità, le banche sono sempre più reticenti a piazzare i loro capitali in queste parti del mondo.” (Revue Internationale n° 68)
Così la realtà dei fatti è venuta a confermare, contro tutte le illusioni interessate della borghesia e dei suoi difensori, ciò che la teoria marxista ha permesso ai rivoluzionari di prevedere. L'oggi è una disgregazione totale, che sviluppa una miserie spaventosa e che incomincia a bussare alle stesse porte di ciò che appare ancora come la “fortezza Europa”.
Il tentativo dei media di far passare il messaggio che, caduto l'attuale vento di panico borsistico, le conseguenze per l'economia a livello internazionale sarebbero minime, non ha avuto molto successo. E ciò è normale perché la volontà dei capitalisti di farsi coraggio e soprattutto di nascondere alla classe operaia la gravità della crisi mondiale, si scontra con la dura realtà dei fatti. Innanzitutto, tutti i creditori della Russia sono nuovamente e severamente messi male. Circa 75 miliardi di dollari sono stati prestati a questo paese dalle banche occidentali, i buoni del Tesoro che esse detengono hanno già perduto l'80% del loro valore e la Russia ha sospeso tutto i rimborsi per quelli convertiti in dollari. Inoltre, la borghesia occidentale teme che gli altri paesi dell'Europa dell'Est possano conoscere lo stesso incubo. Ed a ragione: la Polonia, l'Ungheria e la Repubblica Ceca rappresentano insieme 18 volte di più degli investimenti occidentali rispetto alla Russia. Ora, fin dalla fine di agosto, i primi cedimenti si sono fatti sentire nelle Borse di Varsavia (-9,5%) e di Budapest (-5,5%) dimostrando che i capitali cominciavano a disertare queste nuove piazze finanziarie. In più, ed in maniera ancora più pressante, la Russia trascina nel suo crollo i paesi della CEI le cui economie sono molto legate alla sua. Pertanto, anche se la Russia non è che un “piccolo debitore” del mondo in rapporto ad altre regioni, la sua situazione geopolitica, il fatto che essa costituisca, in piena Europa, un campo minato di armi nucleari e la minaccia di uno sprofondamento nel caos provocato dalla crisi economica e politica, tutto ciò conferisce alla situazione in questi paesi una gravità particolare.
D'altra parte, il fatto che il debito della Russia sia relativamente limitato rispetto ai crediti accordati in Asia o in altre regioni del mondo è proprio una ben misera consolazione. In realtà, questa constatazione, deve al contrario attirare l'attenzione su altre minacce che si vanno a delineare, come quella dell’estendersi della crisi finanziaria in America latina che è stata, in questi ultimi anni, la principale destinataria degli investimenti diretti stranieri nei paesi “in via di sviluppo” (45% del totale nel 1997, contro il 20% nel 1980 e del 38% nel 1990). I rischi di svalutazione in Venezuela, la violenta caduta dei prezzi delle materie prime dopo la crisi asiatica che tocca i paesi sudamericani in maniera più forte che in Russia, un debito estero fenomenale, un indebitamento pubblico astronomico (il deficit pubblico del Brasile, il 7° PIL mondiale, è ben superiore a quello della Russia) fanno dell'America latina una bomba ad orologeria che minaccia di aggiungere i suoi effetti devastanti a quelli dei marasmi asiatici e russi. Una bomba ad orologeria che si trova alle porte della prima potenza economica mondiale, gli Stati-Uniti.
Tuttavia, la minaccia principale non proviene dai paesi sottosviluppati o poco sviluppati, ma da un paese altamente sviluppato, la seconda potenza economica del mondo, il Giappone.
La crisi in Giappone
Ancor prima del cataclisma dell'economia russa che ha avuto l'effetto di una doccia fredda sull'ottimismo della borghesia di ogni paese, nel giugno del 1998, un terremoto con epicentro a Tokyo aveva lanciato le sue minacce di destabilizzazione del sistema economico mondiale. Dal 1992, malgrado sette piani di “rilancio” che hanno iniettato l'equivalente del 2-l 3% del PNL per un anno ed una svalutazione dello yen, dimezzato in tre anni che avrebbe dovuto sostenere la competitività dei prodotti giapponesi sul mercato mondiale, l'economia giapponese continua ad affondare nel marasma. Per paura di doversi scontrare con le conseguenze economiche e sociali in un contesto già molto fragile, lo Stato giapponese ha continuato a adottare misure di “risanamento” del suo settore bancario. L'ammontare dei crediti non recuperabili rappresenta una somma equivalente al 15% del PIL…Da qui il crollo dell’economia giapponese, e internazionale per contraccolpo, in una recessione di un’ampiezza senza precedenti dopo la grande crisi del 1929. Di fronte a questo impantanarsi crescente del Giappone nella recessione e ai tentennamenti del potere nel prendere le misure necessarie, lo yen è stato oggetto di un’importante speculazione che ha minacciato tutte le monete dell'Estremo-Oriente di una svalutazione a catena che avrebbe dato il segnale al peggiore scenario deflazionistico. Il 17 giugno del 1998, la Riserva Federale americana finì per portarsi massivamente in aiuto di uno yen che cominciava a precipitare. Tuttavia, la partita non era che rinviata; aiutato dalla comunità internazionale il Giappone ha potuto ritardare la scadenza… ma al prezzo di un indebitamento che aumenta a velocità vertiginosa. Il solo debito pubblico raggiunge già l'equivalente di un anno di produzione (100% del PNL).
E' interessante notare, a questo proposito, che sono gli stessi economisti “liberali”, quelli che mettono alla berlina l'intervento dello Stato nell'economia e che attualmente occupano il primo posto nelle grandi istituzioni finanziarie internazionali proprio come nei governi occidentali, che reclamano ad alta voce una nuova iniezione massiccia di fondi pubblici nei settori bancari al fine di salvarli dal fallimento. Questa è la prova che, al di là di tutte le chiacchiere ideologiche sul “meno Stato”, gli “esperti” borghesi sanno che lo Stato costituisce l'ultima difesa di fronte allo sbandamento economico. Quando parlano di “meno Stato” si riferiscono fondamentalmente allo “Stato previdenziale”, cioè ai dispositivi di protezione sociale dei lavoratori (sussidi di disoccupazione e di malattia, minimo sociale) e i loro discorsi significano che bisogna attaccare ancora e sempre di più le condizioni di vita della classe operaia.
Alla fine, il 18 settembre, governo ed opposizione fanno un compromesso per salvare il sistema finanziario nipponico ma, al posto di rilanciare i mercati borsistici, queste misure sono accolte da una nuova caduta di questi ultimi, prova della sfiducia profonda che i finanzieri hanno ormai per l'economia della seconda potenza mondiale che per decenni ci è stata presentata come un “modello”. L'economista in testa alla Deutsche Bank di Tokio, Kenneth Courtis, personaggio serio quale egli è, vede solo quattro percorsi possibili:
“E’ necessario rovesciare la dinamica alla caduta, la più grave le crisi petrolifere degli inizi degli anni 70 (consumo ed investimenti in caduta libera), perché ormai si è entrati in una fase in cui si stanno creando nuovi crediti incerti. Si parla di quelli bancari, ma poco di quelli familiari. Con la perdita dei valori degli alloggi e la disoccupazione che aumenta, si rischia di vedere delle inadempienze dei rimborsi dei prestiti garantiti su dei beni immobiliari ipotecati da dei privati. Queste ipoteche ammontano alla strabiliante cifra di 7500 miliardi di dollari, il cui valore è precipitato del 60%. Il problema politico e sociale è latente. (…) Non dobbiamo ingannarci è in corso: una purga di grande ampiezza dell'economia… e le imprese che sopravviveranno saranno caratterizzate da una forza incrollabile. E' in Giappone che si può concretizzare il più grande rischio per l'economia mondiale dopo gli anni 30…” (Le Monde, 23 settembre).
Le cose sono chiare, per l'economia del Giappone e per la classe operaia di questo paese, il peggio deve ancora arrivare, i lavoratori giapponesi già duramente colpiti da questi ultimi dieci anni di stagnazione e ora dalla recessione, devono ancora subire molteplici piani di austerità, di licenziamenti massivi e un forte aumento del loro sfruttamento in un contesto in cui la crisi finanziaria s'accompagna fin da ora alla chiusura delle più importanti fabbriche. Ma non è questo che, nell'immediato, nel momento in cui la classe operaia mondiale non ha ancora finito di digerire la sconfitta ideologica che essa ha subito con il crollo del blocco dell'Est, preoccupa la maggior parte dei capitalisti. Ciò che comincia in maniera crescente a roderli, è la distruzione delle loro illusioni e la scoperta crescente delle prospettive catastrofiche della loro economia.
Verso una nuova recessione mondiale
Se ad ogni allarme passato gli “esperti” ci avevano abituato a dichiarazioni consolatrici del tipo “gli scambi commerciali con l'Asia del Sud-Est sono poco importanti”, “la Russia non ha un gran peso sull’economia mondiali”, “l'economia europea è stimolata dalla prospettiva dell'Euro”, “le fondamenta US sono buone”, ecc., attualmente il tono è cambiato! Il mini crac alla fine di agosto in tutte le grandi piazze finanziarie del globo ha ricordato che se a rompersi nella tempesta sono i rami più fragili dell'albero è proprio perché è il tronco che non trova più sufficienti energie dalle proprie radici per alimentare le sue parti più periferiche. Il cuore del problema è proprio nei paesi centrali, i professionisti della Borsa non si sono sbagliati. Dal momento che le proposte rassicuranti sono ogni volta sconfessate dai fatti, non è più possibile nascondere la verità. Fondamentalmente, si tratta ora per la borghesia di preparare poco a poco gli animi alle dolorose conseguenze sociali ed economiche di una recessione internazionale più che certa: “Una recessione su scala mondiale non è scongiurata. Le autorità americane hanno ritenuto opportuno rendere noto che seguivano gli avvenimenti da vicino (…) la probabilità di un rallentamento economico su scala mondiale non è trascurabile. Una gran parte dell'Asia è in recessione. Negli Stati-Uniti la caduta delle quotazioni potrebbe stimolare le famiglie ad aumentare il risparmio a detrimento delle spese di consumo, provocando un rallentamento economico.” (Le Soir, 2 settembre).
La crisi in Asia orientale ha già prodotto una svalutazione massiccia dei capitali attraverso la chiusura di centinaia di luoghi di produzione, attraverso la svalutazione di proprietà, i fallimenti di migliaia di imprese, e la caduta in miseria di decine di milioni di persone: ”il crollo più drammatico di un paese degli ultimi cinquanta anni”, è in questo modo che la Banca mondiale giudica la crisi in Indonesia. D'altra parte, il crollo improvviso delle Borse asiatiche era l'annuncio ufficiale dell'entrata in recessione nel secondo trimestre del 1998 della Corea del sud e della Malesia. Dopo il Giappone, Hong-Kong, l'Indonesia e la Tailandia, è quasi tutto il tanto vantato sud-est asiatico che crolla perché si prevede che anche Singapore entrerà in recessione alla fine dell'anno. Non resta che la Cina continentale e Taiwan che fanno eccezione, ma per quanto tempo ancora? Del resto, a proposito dell'Asia non si parla più di recessione, ma di depressione: “C'è depressione quando la caduta della produzione e quella degli scambi si accumulano ad un punto tale che le basi sociali dell'attività economica sono messe in discussione. A questo stadio, diventa impossibile presupporre un rovesciamento di tendenza e diventa difficile, se non inutile, intraprendere le classiche azioni di rilancio. Questa è la situazione che conoscono attualmente molti paesi dell'Asia, e che costituisce una minaccia per l'intera regione” (Le Monde Diplomatique, settembre 1998).
Se si coniugano le difficoltà economiche dei paesi centrali con la recessione della seconda economia mondiale -il Giappone- e con quella di tutta la regione del Sud-est asiatico, che si sommano agli effetti recessivi indotti dal crac della Russia sugli altri paesi dell'Est e dell'America latina (principalmente con la diminuzione del prezzo delle materie prime, tra cui il petrolio), il risultato è una contrazione del mercato mondiale che sarà alla base di una nuova recessione internazionale. Il FMI d'altra parte non si fa illusioni, ha già integrato l’effetto recessivo nelle sue previsioni e il calo si rivela enorme: la crisi finanziaria costerà il 2% di crescita mondiale in meno nel 1998 in rapporto al 1997 (4,3%), mentre il 1999 dovrebbe sopportare il grosso dello shock, una bazzecola per quello che doveva essere un epifenomeno senza importanza! Il secondo millennio, previsto essere il testimone della vittoria definitiva del capitalismo e del nuovo ordine mondiale comincerà verosimilmente con una crescita zero!
Continuità e limiti dei palliativi
Da più di trenta anni, la fuga in avanti in un indebitamento sempre più grande e uno scaricare gli effetti più devastanti della crisi sulla periferia, hanno permesso alla borghesia internazionale di rimandare le scadenze. Questa politica, ancora largamente usata oggi, produce dei segnali sempre più evidenti di asfissia. Il nuovo ordine finanziario che ha progressivamente rimpiazzato gli accordi di Bretton Woods del dopo guerra “si rivela oggigiorno fortemente costoso. I paesi ricchi (Stati Uniti, Unione europea, Giappone) ne hanno beneficiato, mentre i piccoli sono facilmente sommersi anche da un arrivo modesto di capitali” (John Llewellyn, Global economista capo presso la Lehman Brothers London).Con tale giro di vite, è sempre più difficile contenere gli effetti più devastanti della crisi margini del sistema economico internazionale. Il degrado e gli scossoni economici sono di una tale ampiezza che le ripercussioni si fanno inevitabilmente e direttamente sentire nel cuore stesso delle metropoli più potenti. Dopo il fallimento del terzo mondo, del blocco dell'Est e dell'Asia del sud-est, è ora la seconda potenza economica mondiale -il Giappone- che è in procinto di vacillare. A questo punto non è più il caso di parlare di problemi riguardanti la periferia del sistema, è uno dei tre poli che costituiscono il cuore del sistema che è colpito. Altro segno inequivocabile di questo esaurimento dei palliativi, è l'incapacità crescente delle istituzioni internazionali, come il FMI o la Banca mondiale -a cui si è fatto ricorso per evitare che si ripetessero gli scenari del 1929- a spegnere gli incendi che si moltiplicano ad intervalli sempre più ravvicinati nei quattro angoli del mondo. Questo si traduce concretamente in campo finanziario ne “l'incertezza dell'ultima risorsa creditrice: il FMI”. I mercati mormorano che il FMI non ha più risorse sufficienti per agire da pompiere: “Inoltre, gli ultimi sviluppi della crisi russa hanno mostrato che il Fondo Monetario Internazionale (FMI) non era più disposto -capace dicono alcuni- a giocare sistematicamente da pompiere. La decisione del FMI e del gruppo dei sette paesi più industrializzati di non dare alla Russia un sostegno finanziario supplementare nell'ultima settimana, può essere considerato come fondamentale per l'avvenire della politica d'investimenti nei paesi emergenti (…) Traduzione: niente dice che il FMI interverrebbe finanziariamente per spegnere una crisi possibile in America latina o altrove. Ecco chi non rassicura gli investitori” (secondo AFP, Le Soir, 25 agosto). Sempre più, come la deriva del continente africano, la borghesia non avrà altra scelta che abbandonare pezzi interi della sua economia mondiale per isolare i focolai più incancreniti e preservare un minimo di stabilità su un territorio più ristretto.
Questa è una delle ragioni principali che giustifica l'accelerazione nella creazione di insiemi economici regionali (Unione europea, ALENA, ecc.). Inoltre, mentre, dal 1995, la borghesia dei paesi sviluppati lavora per dare nuova credibilità ai suoi sindacati allo scopo di tentare di inquadrare le lotte operaie che verranno, con l'Euro essa si prepara a tentare di resistere agli scossoni finanziari e monetari, cercando di stabilizzare quello che ancora funziona nell'economia mondiale. E' in questo senso che la borghesia europea parla dell'Euro come scudo. Un calcolo cinico comincia ad elaborarsi: per vedere se salvare o no un paese, il capitalismo internazionale fa il bilancio tra il costo dei mezzi che dovranno essere impiegati per salvare un paese o una regione e le conseguenze della sua bancarotta se nulla viene fatto. E' come dire che in futuro, la certezza che il FMI sarà sempre presente come “prestatore in ultima istanza” non è più data. Questa incertezza prosciuga i detti “paesi emergenti” dei capitali su cui essi avevano basato la loro “prosperità”, ipotecando in tal modo una possibile ripresa economica.
Il fallimento del capitalismo
Non è passato ancora molto tempo da quando il termine di “paesi emergenti faceva fremere di eccitazione i capitalisti del mondo intero che, in un mercato mondiale saturo, ricercavano disperatamente nuovi territori d'accumulazione per i loro capitali. Questi paesi erano la ciliegina sulla torta di tutti gli ideologi prezzolati che li presentavano come la prova stessa dell'eterna giovinezza del capitalismo che era sul punto di trovare in questi territori la nuova “boccata d’aria”. Oggi il termine evoca immediatamente il panico in borsa, e la paura che una nuova “crisi” venga ad abbattersi nei paesi centrali a partire da qualche regione “lontana”.
Ma la crisi non proviene da questa parte del mondo in particolare. Essa non è una crisi dei “paesi giovani”, ma una crisi di senilità, quella di un sistema entrato in decadenza circa 80 anni fa e che si scontra da allora senza sosta con le stesse insolubili contraddizioni: l'impossibilità di trovare sempre più sbocchi solvibili per le merci prodotte al fine di assicurare il proseguimento dell'accumulazione del capitale. Due guerre mondiali, fasi di crisi aperte distruttrici, di cui quella che viviamo da trent’anni, sono il prezzo pagato. Per “reggersi”, il sistema non ha cessato di barare con le sue stesse leggi. E la principale di questa truffa è la fuga in avanti in un indebitamento sempre più esorbitante.
L'assurdità della situazione in Russia, dove le banche e lo Stato “tengono bene” solo al prezzo di un debito esponenziale che li costringe ad indebitarsi sempre di più, e solo per pagare gli interessi di questi debiti accumulati, non è affatto una follia “russa”. E' l'insieme dell'economia mondiale che si mantiene in vita da decenni al prezzo della stessa fuga in avanti delirante, perché è la sola risposta che essa possa dare alle sue contraddizioni, perché è il solo mezzo per creare artificialmente nuovi mercati per i capitali e le merci. E' l'intero sistema mondiale che è basato su un enorme castello di carta che diventa sempre più fragile. I prestiti e gli investimenti massicci verso i paesi “emergenti”, essi stessi finanziati da altri prestiti, non sono stati che un mezzo per spostare la crisi del sistema e le sue contraddizioni esplosive dal centro verso la periferia. I crolli borsistici -1987, 1989, 1997, 1998- che ne sono un prodotto, esprimono la dimensione sempre più enorme del crollo del capitalismo.
Di fronte a questo sprofondamento brutale che si svolge sotto i nostri occhi, il problema non è sapere perché vi è una tale recessione ora, ma piuttosto perché essa non è arrivata molto prima. La sola risposta è che la borghesia, a livello mondiale, ha fatto di tutto per allontanare nel tempo tali scadenze barando con le leggi del suo stesso sistema. La crisi da sovrapproduzione, iscritta nelle previsioni del marxismo fin dal secolo scorso, non può trovare delle soluzioni reali negli imbrogli. E oggi, è ancora il marxismo che ribatte colpo su colpo questi esperti signori difensori del “liberalismo” e quei partigiani di “un controllo più stretto” degli aspetti finanziari. Né gli uni né gli altri possono salvare un sistema economico le cui contraddizioni esplodono lo stesso nonostante gli imbrogli. Solo il marxismo ha veramente analizzato come inevitabile questo fallimento del capitalismo, facendo di questa comprensione un'arma per la lotta degli sfruttati.
E quando bisogna pagare il conto, quando il fragile sistema finanziario crolla, le contraddizioni di fondo reclamano i loro “diritti”: caduta nella recessione, esplosione della disoccupazione, fallimento in serie di imprese e di settori industriali. In soli pochi mesi, in Indonesia ed in Tailandia, per esempio, la crisi ha spinto decine di milioni di persone nella miseria totale. La stessa borghesia lo riconosce e quando è obbligata a riconoscere tali fatti vuol dire che la situazione è veramente grave. E ciò non è affatto l’appannaggio dei paesi “emergenti”.
L'ora della recessione è suonata anche nei paesi centrali del capitalismo. I paesi più indebitati del mondo non sono d'altra parte né la Russia, né il Brasile, ma appartengono al cuore del capitalismo più sviluppato, a cominciare dagli Stati-Uniti. Il Giappone è ora entrato ufficialmente in recessione dopo due trimestri di crescita negativa, e si prevede che il suo PIL cada di più del l'1,5% per il 1998. La Gran Bretagna, che era presentata fino a poco tempo fa come un modello di “dinamismo” economico al pari degli Stati-Uniti, è oggi costretta, sotto le minacce inflazionistiche, a prevedere un “raffreddamento economico” ed “un aumento rapido della disoccupazione” (Liberation, 13 agosto). Gli annunci di licenziamenti si moltiplicano nell'industria (100 000 soppressioni di impiego su 1,8 milioni sono previsti nelle industrie meccaniche per i prossimi 18 mesi).
La prospettiva per l’economia capitalista mondiale è quella mostrataci dall’Asia. Mentre i piani di salvataggio e di risanamento avrebbero dovuto dare nuovo vigore a questi paesi, la realtà ha visto imporsi la recessione e la formazione di enormi tasche di disoccupazione e di fame.
Il capitalismo non ha soluzioni alla sua crisi e quest'ultima non ha limiti all'interno del sistema. Per questo la sola soluzione alla barbarie e alla miseria che esso impone all'umanità sta nel suo rovesciamento da parte della classe operaia. Per questa prospettiva, il proletariato del cuore del capitalismo, in particolare quello dell'Europa, a causa della sua concentrazione e della sua esperienza storica, ha una responsabilità decisiva verso i suoi fratelli di classe del resto del mondo.
MFP, settembre 1998.
1. Bisogna segnalare che all'assemblea generale annuale dell'ottobre del 1997, il FMI aveva considerato che il prossimo “paese a rischio” avrebbe potuto essere la Turchia. Evviva la lucidità dei più "qualificati" organismi della borghesia!
In più occasioni durante l’inverno dello scorso anno si è avuto modo di assistere nei due più grandi paesi dell’Europa occidentale a delle mobilitazioni sulla questione della disoccupazione. In Francia per parecchi mesi si sono avute sia delle manifestazioni di piazza nelle principali città sia occupazioni di luoghi pubblici (in particolare le sedi degli organismi incaricati di pagare le indennità ai disoccupati). In Germania, il 5 febbraio si sono svolte tutta una serie di manifestazioni indette dalle organizzazioni dei disoccupati e dai sindacati. La mobilitazione non ha avuto la stessa ampiezza di quella francese ma è stata abbondantemente riportata dai mezzi di informazione. La questione della disoccupazione è fondamentale per la classe operaia poiché questa costituisce una delle forme più importanti degli attacchi che essa subisce da parte del capitale in crisi. Nello stesso tempo, l’aumento ed il permanere della disoccupazione costituiscono una delle migliori prove del fallimento del sistema capitalista. Ed è proprio l’importanza di questa questione che si trova sullo sfondo delle manifestazioni cui stiamo assistendo.
La disoccupazione oggi e le sue prospettive
Oggi la disoccupazione investe dei settori enormi della classe operaia nella maggior parte dei paesi della terra. Nel terzo mondo, la percentuale della popolazione senza lavoro varia spesso tra il 30 ed il 50%: ed anche in un paese come la Cina che, nel corso degli ultimi anni era stata presentata dagli “esperti” come uno dei grandi campioni dello sviluppo, ci saranno almeno 200 milioni di disoccupati nel giro di due anni (1). Nei paesi dell’Europa dell’est appartenenti al vec-chio blocco russo, il crollo economico ha gettato in strada milioni di lavoratori e anche se, in qualche raro paese come la Polonia, un tasso di crescita molto sostenuto permette, al prezzo di salari miserevoli, di limitare i danni, nella maggior parte di questi paesi, in particolare in Russia, si assiste ad una vera pauperizzazione di enormi masse di operai costretti per sopravvivere a fare dei “piccoli lavori” squallidi come vendere sacchi di plastica nei sottopassaggi della metropolitana (2).
Nei paesi più sviluppati, anche se la situazione non è tragica come in quelli che si è appena citati, la disoccupazione di massa è divenuta una piaga della società. Per l’insieme della Comunità europea, il tasso ufficiale di “quelli che cercano un lavoro” in rapporto alla popolazione in età di lavoro è dell’ordine dell’11%, mentre era dell’8% nel 1990, cioè nel momento in cui il presidente americano Bush prometteva, con il crollo del blocco russo, una “era di prosperità”.
TASSI DI DISOCCUPAZIONE
Paese |
Fine 1996 |
Fine 1997 |
Germania |
9,3 |
11,6 |
Francia |
12,4 |
12,3 |
Italia |
11,9 |
12,3 |
Regno Unito |
7,5 |
5,0 |
Spagna |
21,6 |
20,5 |
Paesi bassi |
6,4 |
5,3 |
Belgio |
9,5 |
|
Svezia |
10,6 |
8,4 |
Canada |
9,7 |
9,2 |
Stati Uniti |
5,3 |
4,6 |
Fonti: OCSE e ONU
Queste cifre del tasso di disoccupazione danno un’idea dell’importanza attuale di questa calamità. Meritano tuttavia di essere commentate.
In primo luogo, si tratta di cifre ufficiali calcolate secondo dei criteri che nascondono una considerevole proporzione di disoccupazione. Così non tengono conto (tra l’altro):
Ugualmente queste cifre non tengono conto della disoccupazione parziale, cioè di tutti quei lavoratori che non riescono a trovare un lavoro stabile a tempo pieno (per esempio i precari il cui numero è in continuo aumento da più di dieci anni). D’altronde, tutti questi fatti sono ben noti agli “esperti” dell’OCSE che, nella loro rivista per specialisti, sono obbligati a confessare che: “Il tasso classico di disoccupazione… non fornisce una misura totale del sotto impiego.” (3)
In secondo luogo, è importante comprendere il significato delle cifre che riguardano i “primi della classe”, che sono gli Stati Uniti e la Gran Bretagna. Per molti esperti queste cifre sarebbero la prova della superiorità del “modello anglosassone” rispetto agli altri modelli di politica economica. Così ci riempiono le orecchie con il fatto che negli Stati Uniti la disoccupazione raggiunge oggi dei tassi tra i più bassi da un quarto di secolo. E’ vero che l’economia americana conosce attualmente un tasso di crescita della produzione superiore a quello degli altri paesi sviluppati e che nel corso degli ultimi cinque anni ha creato 11 milioni di posti di lavoro, tuttavia è necessario precisare che la maggior parte di questi ultimi sono degli “impieghi Mac Donald”, cioè piccoli lavori precari e molto mal pagati che fanno sì che la miseria si mantenga a dei livelli mai conosciuti dagli anni 30 con il suo seguito di centinaia di migliaia di persone senza risorse e di milioni di poveri privi di ogni assistenza sociale.
Tutto ciò è chiaramente confessato da qualcuno che certo non può essere sospettato di voler denigrare gli Stati Uniti visto che si tratta del ministro del lavoro durante il primo mandato di Bill Clinton di cui è un vecchio amico personale: “Da venti anni una gran parte della popolazione americana conosce una stagnazione o una diminuzione dei salari reali, tenuto conto dell’inflazione. Per la maggioranza dei lavoratori la caduta è continuata malgrado la ripresa. Nel 1996 il salario medio reale si situava al disotto del livello del 1989, cioè prima dell’ultima recessione. Tra la metà del 1996 e la metà del 1997 non è aumentato che dello 0,3% mentre i redditi più bassi hanno continuato a diminuire. La proporzione di Americani considerati poveri, secondo la definizione e le statistiche ufficiali, è oggi superiore a quella del 1989.” (4)
Ciò detto, quello che i fautori del “modello” made in USA dimenticano anche in generale di precisare è che gli 11 milioni di nuovi posti di lavoro creati dall’economia americana corrispondevano ad un aumento di 9 milioni della popolazione in età da lavoro. Così, una gran parte dei risultati “miracolosi” di questa economia nel campo della disoccupazione è il risultato della messa in atto ad alti livelli degli artifizi, descritti più avanti, che permettono di mascherarla. D’altra parte, negli Stati Uniti il fatto è riconosciuto sia dalle più prestigiose riviste economiche che dalle stesse autorità politiche: “Il tasso di disoccupazione ufficiale negli Stati Uniti è divenuto progressivamente sempre meno descrittivo della reale situazione prevalente sul mercato del lavoro” (5). Questo articolo dimostra che “nella popolazione maschile tra i 16 ed i 55 anni, il tasso ufficiale di disoccupazione non riesce a comprendere come ‘disoccupati’ che il 37% dei senza lavoro; il restante 63%, benché essendo nel pieno delle forze è classificato come ‘non impiegato’, ‘al di fuori della popolazione attiva’.” (6)
Analogamente la pubblicazione ufficiale del ministero del Lavoro americano spiegava: “Il tasso ufficiale di disoccupazione è accettabile e ben conosciuto; tuttavia, concentrandoci troppo su questa sola misura, potremmo avere una visione deformata dell’economia degli altri paesi, paragonata a quella degli Stati Uniti (…). Sono necessari altri indicatori se si vuole interpretare in maniera intelligente le rispettive situazioni sui diversi mercati del lavoro.” (7)
In realtà sulla base di studi che non sono stati compiuti da abominevoli “sovversivi”, si può considerare che negli Stati Uniti il tasso di disoccupazione del 13% è molto più vicino alla realtà di quello inferiore al 5% che è sbandierato dappertutto come prova del “miracolo americano”. Non potrebbe essere altrimenti visto che non sono considerati come disoccupati (secondo i criteri del BIT, Ufficio Internazionale del Lavoro) che quelli che:
Così, negli Stati Uniti, dove la maggior parte dei giovani fanno dei piccoli “lavoretti” non verrà considerato come disoccupato colui che, per pochi dollari, ha tagliato l’erba del prato del suo vicino o ha fatto il baby sitter la settimana precedente. Lo stesso varrà per colui che si è scoraggiato dopo mesi o anni di insuccessi nella ricerca del lavoro o della madre nubile che non è “immediatamente disponibile” perché ormai non esistono più degli asili collettivi.
La “success story” della borghesia britannica è ancora più falsa di quella della sua grande sorella di oltre Oceano. L’osservatore ingenuo si trova di fronte ad un paradosso: tra il 1990 ed il 1997 il livello di occupazione è diminuito del 4 % e tuttavia, durante lo stesso periodo, il tasso di disoccupazione ufficiale è passato dal 10% al 5%. Nei fatti come dice timidamente una istituzione finanziaria internazionale tra le più “serie”: “la diminuzione della disoccupazione inglese sembra dovuta complessivamente all’aumento della percentuale degli inattivi.” (8)
E per comprendere il mistero di questa trasformazione dei disoccupati in “inattivi” si può leggere ciò che scrive un giornalista del Guardian, giornale inglese che con difficoltà si classificherebbe nella stampa rivoluzionaria: “Quando Margaret Tatcher vinse la sua prima elezione, nel 1979, il Regno Unito contava 1,3 milioni di disoccupati ufficiali. A parità di metodo di calcolo, oggi ve ne dovrebbero essere un po’ più di 3 milioni. Un rapporto della Midland’s Bank, pubblicato recentemente, faceva una stima a 4 milioni, cioè il 14% della popolazione attiva – più che in Francia o in Germania.”
“… il governo britannico non conta più i senza lavoro, ma solo i beneficiari di una indennità di disoccupazione sempre più ridotta. Dopo aver cambiato 32 volte la maniera di censire i disoccupati, ha deciso di escludere centinaia di migliaia di loro dalle statistiche grazie al nuovo regolamento sulla indennità di disoccupazione, che sopprime il diritto al sussidio dopo sei mesi anziché dopo dodici.”
“La maggioranza degli impieghi creati sono degli impieghi a tempo parziale. Secondo gli ispettori del lavoro il 43% dei posti di lavoro creati tra l’inverno 1992-1993 e l’autunno 1996 erano a tempo parziale. Quasi un quarto dei 28 milioni di lavoratori sono impiegati per un lavoro di questo tipo. La proporzione non è che di un lavoratore su sei in Francia ed in Germania.” (9)
Le enormi menzogne che permettono alla borghesia dei due “campioni dell’occupazione” anglosassoni di inorgoglirsi godono negli altri paesi di un silenzio compiacente da parte dei numerosi “specialisti”, economisti e politici di ogni razza, ed in particolare da parte dei mezzi di informazione di massa (è solo in pubblicazioni molto confidenziali che viene svelato il segreto). La ragione è semplice: bisogna far radicare l’idea che le politiche praticate nel corso di questo ultimo decennio in questi paesi con una brutalità particolare, volte a ridurre i salari e la protezione sociale, a sviluppare la “flessibilità”, sono efficaci per limitare i guai della disoccupazione di massa. In altri termini bisogna convincere gli operai che i sacrifici sono “paganti” e che essi hanno tutto l’interesse ad accettare le imposizioni del capitale.
E poiché la borghesia non mette tutte le sue uova nello stesso paniere, quando comunque vuole, allo scopo di seminare ancora più confusione nella testa degli operai, illuderli affermando che può esistere un “capitalismo dal volto umano”, alcuni dei suoi uomini di fiducia si richiamano oggi all’esempio olandese (10). Anche in questo caso le cifre ufficiali della disoccupazione non vogliono dire nulla. Come in Gran Bretagna la diminuzione del tasso di disoccupazione è andata di pari passo con la diminuzione dell’impiego. Così il tasso di occupati (percentuale della popolazione in età attiva che lavora effettivamente) è passato dal 60% nel 1970 al 50,7% nel 1994.
Il mistero sparisce quando si constata che: “La percentuale dei posti di lavoro a tempo parziale sul numero totale è passata negli ultimi venti anni dal 15% al 36%. Ed il fenomeno si accelera, poiché (…) i nove decimi dei posti di lavoro creati negli ultimi dieci anni totalizzano tra le 12 e le 36 ore per settimana.” (11) D’altra parte una considerevole proporzione della forza lavoro in eccesso è uscita dalle cifre della disoccupazione per entrare in quelle ancora più alte dell’invalidità. E’ ciò che nota l’OCSE quando scrive che: “Le stime di questa componente “disoccupazione nascosta” nelle persone in invalidità varia notevolmente, andando da poco più del 10% a circa il 50%.” (12)
Come dice l’articolo del Monde Diplomatique citato prima:
“A meno di immaginare una debolezza genetica che colpisce le persone di questo paese, e solo loro, come spiegare diversamente che il paese conta più inabili al lavoro che disoccupati?”
Evidentemente un tale metodo che permette ai padroni di “modernizzare” la loro fabbrica sbarazzandosi del loro personale più anziano e poco “malleabile” non ha potuto essere applicato che grazie ad un sistema di assicurazione sociale tra i più “generosi” del mondo. Ma nel momento in cui proprio questo sistema è radicalmente messo in discussione (come in tutti i paesi avanzati) sarà sempre più difficile per la borghesia camuffare in questo modo la disoccupazione. D’altra parte le nuove leggi esigono che siano le imprese che versino per cinque anni la pensione di invalidità il che porta a dissuaderle dal dichiarare “invalidi” i lavoratori di cui esse vogliono sbarazzarsi. Nei fatti, fin da ora, il mito del “paradiso sociale” rappresentato dai Paesi Bassi è seriamente scalfito quando si viene a sapere che, secondo un’inchiesta europea (citata dal The Guardian del 28 aprile 1997), il 16% dei ragazzi olandesi appartengono a famiglie povere, contro il 12% della Francia. Quanto al Regno Unito, paese del “miracolo”, questa cifra è del 32%!
Così non esiste eccezione alla crescita della disoccupazione massiccia nei paesi più sviluppati. Fin da ora in questi paesi, il tasso di disoccupazione reale (che deve in particolare tenere conto di tutti i lavori a tempo parziale non voluti come di tutti coloro che hanno rinunciato a cercare un lavoro) va dal 13% al 30% della popolazione attiva. Sono delle cifre che si avvicinano sempre più a quelle conosciute dai paesi avanzati all’epoca della grande “depressione” degli anni 1930. Nel corso di questo periodo, i tassi raggiunsero i valori del 24% negli Stati Uniti, del 17,5% in Germania e del 15% in Gran Bretagna. A parte il caso degli Stati Uniti, si nota che gli altri paesi non sono molto lontani dal raggiungere questi sinistri “record”. In alcuni paesi, la disoccupazione ha anche superato il livello degli anni 1930. E’ il caso in particolare della Svezia (8% nel 1933), dell’Italia (7% nel 1933) e della Francia (5% nel 1936, che è comunque probabilmente una cifra sottostimata). (13)
Infine non bisogna lasciarsi ingannare dal leggero arretramento dei tassi di disoccupazione del 1997 che è oggi sbandierato dalla borghesia (e che appare nella tabella riportata prima). Come si è visto le cifre ufficiali non significano granché e soprattutto, questa diminuzione, che è imputabile ad una “ripresa” della produzione mondiale nel corso degli ultimi anni, va rapidamente a lasciare il posto ad un nuovo aumento dal momento che l’economia mondiale va di nuovo a confrontarsi con una nuova recessione aperta come quelle che abbiamo conosciuto nel 1974, nel 1978, agli inizi del 1980 e agli inizi degli anni 1990. Una recessione aperta che è inevitabile per il fatto che il modo di produzione capitalista è assolutamente incapace di superare la causa di tutte le convulsioni che conosce da una trentina d’anni: la sovrapproduzione generalizzata, la sua incapacità storica di trovare una quantità sufficiente di mercati per la sua produzione. (14)
D’altronde l’amico di Clinton che abbiamo citato precedentemente è chiaro sull’argomento: “L’espansione è un fenomeno temporaneo. Gli Stati Uniti beneficiano attualmente di una crescita molto elevata, che trascina con sé una buona parte dell’Europa. Ma le perturbazioni sopravvenute in Asia, come l’indebitamento crescente dei consumatori americani lasciano pensare che la vitalità di questa fase del ciclo potrebbe non durare a lungo.”
Effettivamente questo “specialista” mette il dito, senza osare evidentemente andare fino in fondo nel suo ragionamento, sugli elementi fondamentali della situazione attuale dell’economia mondiale:
La disoccupazione di massa che deriva direttamente dalla incapacità del capitalismo a superare le contraddizioni che gli impongono le sue proprie leggi non può sparire, e nemmeno essere superata. Non può che aggravarsi inesorabilmente continuando a gettare masse crescenti di proletari nella miseria e la privazione più insopportabile.
Fabienne
1. “… la mano d’opera in sovrannumero nelle campagne oscilla tra i 100 ed i 150 milioni di persone. In città vi sono dai 30 ai 40 milioni di persone che sono in disoccupazione, totale o parziale. Senza contare, ben inteso, le folle di giovani che si preparano ad entrare nel mondo del lavoro. “ (“Paradossale modernizzazione della Cina”, Le Monde Diplomatique, Marzo 1997)
2. Le statistiche sulla disoccupazione in questo paese non vogliono dire niente di preciso. Così la cifra ufficiale era del 9,3% nel 1996 mentre, tra il 1986 ed il 1996, il PIL della Russia è diminuito di circa il 45%. In realtà una quantità molto elevata di operai passa le sue giornate sul posto di lavoro a non fare niente (a causa della mancanza di commesse per le loro fabbriche) in cambio di salari da miseria (al paragone molto più bassi delle indennità di disoccupazione dei paesi occidentali) che li obbligano a fare al nero un altro lavoro per poter sopravvivere.
3. Perspectives de l’emploi, (Prospettive di impiego), luglio 1993.
4. Robert B. Reich, “Un’economia aperta può preservare la coesione sociale?” in Bilan du Monde (Bilancio del Mondo), edizione del 1998.
5. “Disoccupazione e non-occupazione”, American Economic Review, maggio 1997.
6. “I senza lavoro negli Stati Uniti”, L’etat du monde 1998, Edizioni La Découverte, Parigi.
7. “Confronti internazionali di indicatori della disoccupazione”, Monthly Labor Review, Washington, marzo 1993.
8. Banca dei regolamenti internazionali, Rapporto annuale, giugno 1997.
9. Seumas Milne, “Come Londra manipola le statistiche”, Le Monde Diplomatique, maggio 1997.
10. “La Francia dovrebbe ispirarsi al modello economico olandese” (Jean Claude Trichet, governatore della Banca di Francia, citato da Le Monde Diplomatique del settembre 1997). “L’esempio della Danimarca e quello dei Paesi bassi dimostrano che è possibile ridurre la disoccupazione pur mantenendo dei salari relativi abbastanza stabili.” (Banca dei regolamenti internazionali, Rapporto annuale, giugno 1997)
11. “Miracolo o miraggio nei Paesi Bassi”, Le Monde Diplomatique, luglio 1997.
12. “Paesi Bassi 1995-1996”, Studi economici dell’OCSE, Parigi 1996.
13. Fonti: Encyclopaedia Universalis, articolo su “Le crisi economiche” e Maddison, “Crescita economica in Occidente”, 1981.
14. Vedere Revue Internationale n. 92, “Rapporto sulla crisi economica al 12° Congresso della CCI”.
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Trenta anni fa si svolgeva in Francia un grande movimento di lotta che vide in campo 10 milioni di lavoratori in sciopero per circa un mese. E' ben difficile che i giovani compagni che oggi si avvicinano alle posizioni rivoluzionarie sappiano cosa successe in quel mese di tanti anni fa. E questo non per loro colpa. In realtà la borghesia ha sempre mistificato il significato profondo di quegli avvenimenti e gli storici borghesi (di destra o di sinistra non fa differenza) lo hanno sempre presentato come la ”rivolta studentesca", la più importante di un movimento che si ebbe anche in Italia, negli USA, e un po' in tutti i paesi più industrializzati. Non c'è da meravigliarsi. La borghesia cerca da sempre di nascondere agli occhi del proletariato le proprie lotte passate, e quando non ci riesce fa di tutto per mistificarle, per presentarle come altra cosa rispetto alle manifestazioni dell'antagonismo storico e irriducibile della principale classe sfruttata della nostra epoca e la classe dominante e responsabile di questo sfruttamento. Oggi la borghesia sta addirittura cercando di snaturare il significato della Rivoluzione d'ottobre, presentata come il colpo di Stato dei bolscevichi assetati di sangue e di potere invece che per quello che fu veramente: il più grandioso tentativo di una classe sfruttata di dare “l'assalto al cielo", di prendere il potere politico per cominciare a trasformare la società in senso comunista, cioè verso l'abolizione di ogni sfruttamento dell'uomo sull'uomo. Lo fa per esorcizzare il pericolo che la memoria storica costituisce come arma per il proletariato. E proprio perché per il proletariato la conoscenza delle proprie esperienze passate è indispensabile per preparare le battaglie presenti e future, tocca ai rivoluzionari, all'avanguardia politica di questa classe, ricordarle e riproporle all'insieme del proletariato.
Gli avvenimenti del Maggio '68
Trenta anni fa, il 3 maggio, veniva organizzata all’interno della Sorbona, a Parigi, una assemblea di alcune centinaia di studenti da parte dell’UNEF (un sindacato studentesco) e del “Movimento del 22 marzo” (Formato alla Facoltà di Nanterre, nella periferia parigina, qualche settimana prima).
I discorsi teorici del leader gauchistes non avevano niente di particolarmente esaltante, ma a un certo punto una voce si propaga: “Occidente sta per attaccare”. Questo movimento di estrema destra dà quindi alla polizia il pretesto per “interporsi” tra i due schieramenti. Si trattava in realtà di spezzare l’agitazione studentesca che da qualche settimana si sviluppava a Nanterre, semplice manifestazione della rabbia degli studenti, legata a motivi diversi, dalla contestazione al baronato universitario, alla rivendicazione di una maggiore libertà individuale e sessuale nella vita interna dell’Università.
E tuttavia “l’impossibile si era verificato”; per parecchi giorni l’agitazione prosegue al quartiere latino. Ogni sera essa aumenta di un poco: ogni manifestazione, ogni incontro raccoglierà un po’ più di gente della volta precedente: diecimila, trentamila, cinquantamila persone. Gli scontri con la polizia sono anch’essi sempre più violenti. Nelle piazze i giovani operai si uniscono alla lotta malgrado l’ostilità apertamente dichiarata del PCF, che getta fango sugli “arrabbiati” e sull’”anarchico tedesco” Daniel Cohn-Bendit; la CGT (sindacato di obbedienza stalinista) per non essere completamente scavalcata è costretta a “riconoscere” il movimento di scioperi operai che si sviluppa spontaneamente e che si generalizza rapidamente: 10 milioni di scioperanti scuotono il torpore della 5^ Repubblica e segnano in maniera eclatante il risveglio del proletariato mondiale.
Lo sciopero scoppiato il 14 maggio a Sud-Aviation, che si è esteso spontaneamente, prende da subito un carattere radicale rispetto a quelle che erano state fino ad allora le “azioni” organizzate dai sindacati. Nei settori essenziali della metallurgia e dei trasporti lo sciopero è quasi generale. I sindacati sono scavalcati da un’agitazione che si distacca dalla loro politica tradizionale e da un movimento che prende da subito un carattere esteso e spesso poco preciso, ispirato, com’era, da una inquietudine profonda anche se poco “cosciente”.
Negli scontri che si verificano un ruolo importante è giocato dai disoccupati, quelli che la stampa borghese chiama i “declassati”. Ora, questi “declassati”, questi “deviati” sono proletari a tutti gli effetti. Infatti sono proletari non solo gli operai e i licenziati, ma anche quelli che non hanno ancora potuto lavorare e sono già disoccupati. Essi sono il prodotto tipico della decadenza del capitalismo: nella disoccupazione di massa che colpisce i giovani si mostra uno dei limiti storici del capitalismo che, a causa della sovrapproduzione generalizzata, è diventato incapace di integrare le nuove generazioni nel processo di produzione.
Ma questo movimento sviluppatosi al di fuori dei sindacati, e in una certa misura contro di essi, poiché rompe con i metodi di lotta che essi avevano predicato in ogni occasione, è presto oggetto delle attenzioni dei sindacati che fanno di tutto per riprenderne il controllo.
Fin dal venerdì 17 maggio la CGT diffonde dappertutto un volantino che precisa bene i limiti che essa intende dare alla sua azione: da una parte delle rivendicazioni di tipo tradizionale accoppiate ad accordi tipo quelli di Matignon del giugno 1936 che garantiscono l’esistenza di sezioni sindacali di fabbrica; dall’altra un appello a un cambiamento di governo, cioè elezioni. Diffidenti nei confronti dei sindacati durante lo sciopero, scoppiato al di fuori di questi ed esteso spontaneamente, gli operai hanno tuttavia agito, durante lo sciopero, come se essi trovassero normale che i sindacati si potessero incaricare di porvi fine.
Costretto a seguire il movimento per non perderne il controllo, il sindacato riesce nel suo intento e comincia allora un doppio lavoro, con l'aiuto prezioso del PCF: da un lato comincia i negoziati con il governo, dall'altro invita alla calma, a non turbare il sereno svolgimento delle elezioni, facendo circolare anche, con discrezione, voci di un possibile colpo di Stato, di movimenti di truppe alla periferia delle città. In realtà, benché presa di sorpresa, benché spaventata dalla radicalità del movimento, la borghesia non aveva nessuna intenzione di passare alla repressione militare. Essa sapeva bene che questo avrebbe rilanciato il movimento, mettendo fuori gioco i ”conciliatori" sindacali, costringendola ad un bagno di sangue che sarebbe stato un prezzo troppo alto che avrebbe poi dovuto scontare in seguito. E in realtà le sue forze di repressione la borghesia le aveva già messo in campo, non tanto i CRS che disperdevano ed attaccavano le manifestazioni e le barricate, ma i poliziotti di fabbrica sindacali, ben più abili e pericolosi di quelli in divisa, perché svolgono il loro sporco lavoro di divisione tra le fila stesse degli operai.
La prima operazione di polizia il sindacato la realizza favorendo l'occupazione delle fabbriche, riuscendo cioè a chiudere gli operai sui loro luoghi di lavoro, togliendo loro la possibilità di riunirsi, discutere, confrontarsi nelle piazze.
Il 27 maggio il sindacato annuncia di aver firmato un accordo con il governo (gli accordi di Grenelle).
Alla Renault, prima fabbrica del paese, il segretario generale della CGT è fischiato dagli operai che considerano che la loro lotta è stata svenduta. Dappertutto gli operai assumono lo stesso atteggiamento: il numero di scioperanti aumenta ancora. Molti operai strappano le tessere sindacali.
Perciò sindacati e governo si dividono il lavoro. La CGT, che ha immediatamente sconfessato gli accordi di Grenelle che aveva già sottoscritto, dichiara che bisogna “aprire negoziati settore per settore per avere dei miglioramenti”. Il governo e il padronato accettano il gioco, facendo qualche importante concessione in alcuni settori, il che permette di ottenere una ripresa del lavoro. Allo stesso tempo, il 30 maggio, De Gaulle accetta la richiesta dei partiti di sinistra: scioglie il Parlamento e indice nuove elezioni. Lo stesso giorno centinaia di migliaia di gaullisti sfilano per gli Champs Elisés; raggruppamento eterogeneo di tutti quelli che hanno un odio viscerale per la classe operaia e i “comunisti”: abitanti dei quartieri nobili e militari in pensione, suore e portinaie, piccoli commercianti, tutto questo bel mondo sfila dietro i ministri di De Gaulle, con André Malraux alla testa (lo scrittore antifascista molto noto per il suo impegno nella guerra di Spagna del 1936).
Anche i sindacati si dividono il lavoro al loro interno: alla CFDT (sindacato cristiano) tocca il compito di vestirsi da “radicale”, al fine di conservare il controllo degli operai più combattivi. La CGT si distingue invece nel ruolo di “spezzasciopero”. Nelle assemblee essa propone la fine dello sciopero, sostenendo che gli operai delle fabbriche vicine hanno già ripreso il lavoro, il che è una menzogna.
Il PCF, a sua volta, chiama alla “calma”, a un “atteg-giamento responsabile” (agitando anche lo spettro della guerra civile e della repressione poliziesca) per non turbare le elezioni che si dovevano tenere il 23 e il 30 giugno. Queste si concludono con una schiacciante vittoria della destra, cosa che scoraggia ancora di più gli operai più combattivi che avevano proseguito lo sciopero fino ad allora.
Lo sciopero generale, malgrado i suoi limiti, ha contribuito con il suo immenso slancio alla ripresa generale della lotta di classe. Dopo una serie ininterrotta di passi indietro, dopo il suo schiacciamento alla fine dell’ondata rivoluzionaria degli anni 1917-23, gli avvenimenti di maggio-giugno 1968 costituiscono una svolta decisiva, non solo in Francia, ma nel mondo intero. Gli scioperi hanno scosso non solo il potere dominante, ma anche quelli che costituiscono il suo supporto più efficace e più difficile da abbattere: la sinistra e i sindacati.
Un “movimento degli studenti"?
Passata la sorpresa e il panico iniziali, la borghesia si è impegnata a trovare delle spiegazioni per questi avvenimenti che rimettessero a posto la sua tranquillità. Non ci si deve meravigliare quindi che la sinistra utilizza il movimento degli studenti per esorcizzare il vero spettro che si leva davanti agli occhi della borghesia impaurita, il proletariato, e che limiti gli avvenimenti sociali a una semplice contesa ideologica tra generazioni. Il Maggio 68 è presentato come il risultato del disorientamento della gioventù di fronte alle inadeguatezze del mondo moderno.
E’ più che evidente che il maggio 68 è effettivamente marcato da una decomposizione certa dei valori dell’ideologia dominante, ma questa rivolta “culturale” non è la causa reale del conflitto. In effetti Marx ci ha mostrato, nella Prefazione a Per la critica dell’economia politica che “con il cambiamento della base economica si sconvolge più o meno rapidamente tutta la gigantesca sovrastruttura. Quando si studiano simili sconvolgimenti è indispensabile distinguere sempre fra lo sconvolgimento materiale delle condizioni economiche della produzione, che può essere costatato con la precisione delle scienze naturali, e le forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche o filosofiche, ossia le forme ideologiche che permettono agli uomini di concepire questo conflitto e di combatterlo.”
Tutte le manifestazioni di crisi ideologica trovano le loro radici nella crisi economica, non il contrario. E’ lo stato della crisi che determina il corso delle cose. Il movimento studentesco è certo una espressione della decomposizione generale dell’ideologia borghese. Esso è l’annunciatore di un movimento sociale più fondamentale. Ma per il posto che l’università assume nel sistema di produzione essa ha solo eccezionalmente un legame con la lotta di classe.
Maggio 68 non fu un movimento degli studenti e dei giovani, fu innanzitutto il movimento della classe operaia che risorgeva dopo decenni di controrivoluzione. E lo stesso movimento studentesco fu spinto alla radicalizzazione da questa stessa presenza della classe operaia.
Gli studenti infatti non sono una classe, e meno ancora uno strato sociale rivoluzionario. Anzi, essi sono spesso i veicolatori della peggiore ideologia borghese. Se nel 68 migliaia di giovani furono influenzati dalle idee rivoluzionarie fu proprio perché in campo era scesa l'unica classe rivoluzionaria della nostra epoca, la classe operaia.
Con questa sua discesa in campo, la classe operaia faceva giustizia anche di tutte quelle teorie che ne avevano decretato la “morte" per “imborghesimento", per “integrazione nel sistema capitalista". Come spiegare altrimenti che queste teorie, fino ad allora ampiamente maggioritarie proprio nell’ambiente universitario in cui erano nate grazie ai Marcuse, Adorno e compagnia, svanirono come neve al sole, e gli stessi studenti si rivolgevano alla classe operaia, anche se proponendosi come sue ”mosche cocchiere" ?
E come spiegare ancora che negli anni successivi gli studenti, benché continuando ad agitarsi per gli stessi motivi di allora, hanno smesso di proclamarsi rivoluzionari?
No, il maggio 68 non fu la rivolta della gioventù contro le ”inadeguatezze del mondo moderno", non fu la rivolta delle coscienze, ma il primo sintomo di uno sconvolgimento sociale che aveva radici ben più profonde che non il mondo della sovrastruttura, ma che pescavano nella crisi del modo di produzione capitalista.
Lungi dal costituire il trionfo delle teorie marcusiane, il maggio 68 ne decretò la morte per mancanza di alimento, le seppellì nel mondo fantasioso delle ideologie da cui erano state partorite.
No, l'inizio della ripresa storica della lotta della classe operaia
Lo sciopero generale di 10 milioni di operai in un paese centrale del capitalismo segnava la fine del periodo di controrivoluzione apertosi con la sconfitta dell'ondata rivoluzionaria degli anni venti e proseguito e approfondito dall'azione contemporanea del fascismo e dello stalinismo. La metà degli anni sessanta segnava la fine del periodo di ricostruzione apertosi dopo la Seconda Guerra mondiale e l'inizio di una nuova crisi generalizzata del sistema capitalista.
I primi colpi di questa crisi colpirono una nuova generazione di operai che non aveva conosciuto la demoralizzazione della sconfitta degli anni venti e che era cresciuta nel mito del boom economico. La crisi colpiva allora ancora molto leggermente, ma la classe operaia cominciava a sentire che qualcosa cambiava:
“Un sentimento di insicurezza sul futuro si sviluppa tra gli operai e soprattutto fra i giovani. Questo sentimento è tanto più vivo in quanto era praticamente sconosciuto agli operai francesi dopo la guerra.
(...) Le masse hanno sempre più fortemente la sensazione che la prosperità è finita. L’indifferenza e il menefreghismo, le caratteristiche tanto ricordate degli operai degli ultimi 15 anni, cedono il passo a una inquietudine sorda e crescente.
(...) Bisogna riconoscere che una tale esplosione si basa su una lunga accumulazione di un malcontento reale, legato alla situazione economica e lavorativa, che si riscontra nelle masse anche se un osservatore superficiale non se ne rende conto.” (1)
Ed in effetti non era un osservatore superficiale che poteva capire ciò che avveniva nel profondo del mondo capitalista di allora. Non a caso un gruppo, radicale ma senza solide basi marxiste, come l'Internazionale Situazionista, scriveva, a ridosso degli avvenimenti del maggio 68, che:
“Non si poteva notare nessuna tendenza alla crisi economica... Lo scoppio rivoluzionario non era venuto da una crisi economica... Quello che è stato attaccato di faccia nel Maggio è l’economia capitalista in buona salute” (2)
La realtà era ben diversa e gli operai cominciavano a percepirla sulla loro pelle.
Dopo il 1945 l’aiuto degli Stati Uniti permise il rilancio della produzione in Europa che paga in parte i suoi debiti cedendo le sue imprese alle compagnie americane. Ma dopo il 1955 gli USA cessano il loro aiuto “gratuito”. La bilancia commerciale di questi è in avanzo, mentre quella della maggioranza degli altri paesi è in deficit. I capitali americani continuano a essere investiti rapidamente in Europa più che nel resto del mondo, il che equilibra la bilancia dei pagamenti dei paesi europei, ma squilibra quella americana. Questa situazione porta a un indebitamento crescente del tesoro americano, giacchè i dollari emessi e investiti in Europa o nel resto del mondo costituiscono un debito degli USA rispetto ai detentori di questa moneta. A partire dagli anni sessanta questo debito estero sorpassa le riserve d’oro del tesoro americano, ma questa assenza di copertura del dollaro non basta ancora a mettere gli Stati Uniti in difficoltà finchè gli altri paesi sono ancora indebitati rispetto agli USA. Questi possono allora continuare ad appropriarsi del capitale del resto del mondo pagando con della carta.
La situazione si rovescia con la fine della ricostruzione nei paesi europei. Questa si manifesta con la riacquistata capacità delle economie europee di lanciare sul mercato internazionale dei prodotti concorrenti di quelli americani: verso la metà degli anni sessanta le bilance commerciali della maggioranza dei paesi prima assistiti diventano positive, mentre, dopo il 1964, quella degli Stati Uniti non smette di peggiorare. A partire da allora la ricostruzione dei paesi europei è conclusa, l’apparato produttivo diventa eccedente e trova di fronte a sè un mercato saturo, costringendo le borghesie nazionali ad accrescere le condizioni di sfruttamento del loro proletariato per fare fronte all’aumentare della concorrenza internazionale.
La Francia non sfugge a questa situazione e durante il 1967 la sua situazione economica deve far fronte alla inevitabile ristrutturazione capitalista: razionalizzazione e aumento della produttività non possono che provocare un aumento della disoccupazione. E infatti all’inizio del 1968 il numero dei disoccupati supera i 500.000. La cassa integrazione è applicata in numerose fabbriche e provoca reazioni tra gli operai. Numerosi scioperi scoppiano, scioperi limitati e ancora inquadrati dai sindacati, ma che manifestano un malessere certo. Questo anche perché la diminuzione dei posti di lavoro capita tanto più a sproposito in un momento in sui sul mercato del lavoro si presenta questa generazione frutto della esplosione demografica che ha seguito la fine della seconda guerra mondiale.
In aggiunta alla disoccupazione, il padronato cerca di abbassare il livello di vita degli operai. Un attacco concertato è portato alle condizioni di vita e di lavoro dalla borghesia e dal suo governo. In tutti i paesi industriali la disoccupazione si sviluppa sensibilmente, le prospettive economiche si incupiscono, la concorrenza internazionale si fa più accanita. La Gran Bretagna, alla fine del 1967, procede a una prima svalutazione della sterlina al fine di rendere i suoi prodotti più competitivi. Ma questa misura è annullata dalla successiva svalutazione delle monete di tutta un’altra serie di paesi. La politica di austerità imposta dal governo laburista dell’epoca è particolarmente severa: riduzione massiccia della spesa pubblica, ritiro delle truppe britanniche dall’Asia, blocco dei salari, prime misure protezioniste. Gli Stati Uniti, principale vittima dell’offensiva europea non mancano di reagire con forza: all’inizio del 1968 Johnson annuncia misure economiche e a marzo, in risposta alle svalutazioni delle monete concorrenti, il dollaro cala a sua volta.
E’ questo il quadro economico di fondo che precede il maggio ‘68.
Un movimento rivendicativo ma non solo
E' questa la situazione in cui si svolgono gli avvenimenti del maggio 68. Una situazione economica deteriorata che genera una reazione nella classe operaia.
Certo, altri fattori contribuirono alla radicalizzazione della situazione: la repressione poliziesca contro gli studenti e le manifestazioni operaie, la guerra del Vietnam. Contemporaneamente erano tutti i miti del capitalismo del dopoguerra che venivano messi in crisi: il mito della democrazia, della prosperità economica, della pace. E' una situazione che crea una crisi sociale a cui la classe operaia dà la sua prima risposta.
Una risposta sul piano economico ma non solo. Gli altri elementi della crisi sociale, il discredito dei sindacati e delle forze di sinistra tradizionali spingono migliaia di giovani e di operai a porsi problemi più generali, a ricercare delle risposte alle cause profonde del malcontento e della disillusione.
Si viene così a creare una nuova generazione di militanti che si avvicinano alle posizioni rivoluzionarie. Si torna a rileggere Marx, Lenin, a studiare il movimento operaio del passato. La classe operaia non ritrova solo la sua dimensione di lotta in quanto classe sfruttata ma mostra anche la sua natura di classe rivoluzionaria.
La maggior parte di questi nuovi militanti viene ingabbiata nelle false prospettive dei vari gruppi gauchistes perdendosi poi per la strada. In effetti, se il sindacalismo era stata l'arma con cui la borghesia era riuscita ad ingabbiare il movimento di massa degli operai, il gauchisme è l'arma con cui vengono bruciate molti dei militanti che si erano formati nella lotta.
Ma molti altri riescono a trovare le organizzazioni autenticamente rivoluzionarie, quelle che rappresentavano la continuità storica con il movimento operaio del passato, i gruppi della Sinistra Comunista. Se alcuni di questi non riescono a cogliere in pieno il significato degli avvenimenti, restandone ai margini (e lasciando così il campo libero al gauchisme), altri piccoli nuclei seppero invece raccogliere queste nuove energie rivoluzionarie dando luogo a nuove organizzazioni e a un nuovo lavoro di raggruppamento dei rivoluzionari.
Una ripresa storica lunga e tortuosa
Gli avvenimenti del maggio 68 non costituirono che l'inizio della ripresa storica della lotta di classe, la rottura del periodo di controrivoluzione e l'apertura di un nuovo corso della storia verso lo scontro decisivo tra le classi antagoniste della nostra epoca: il proletariato e la borghesia.
Un inizio clamoroso, che trovò la borghesia momentaneamente impreparata, ma che doveva scontrarsi in seguito con la reazione di questa e con l'inesperienza della nuova generazione operaia che si era affacciata sulla scena della storia.
Questo nuovo corso storico trovò conferma negli avvenimenti internazionali che seguirono al maggio francese.
Non possiamo qui ricordare tutti gli episodi di lotta di classe che si sono succeduti al maggio francese, ci limitiamo a citarne alcuni dei più significativi per mettere in evidenza la dinamica che si era aperta con gli avvenimenti di maggio.
Nel 1969 scoppia il grande movimento di scioperi conosciuti in Italia come "l'autunno caldo", una stagione di lotte che prosegue per qualche anno in cui gli operai scavalcano i sindacati, costruiscono loro organismi per la direzione della lotta, si scontrano con i poliziotti di fabbrica, i sindacati, e quelli di strada, i poliziotti in divisa. Una ondata di lotte che ebbe il limite di restare isolata nelle singole fabbriche, in cui era forte l'illusione che con la lotta "dura" in fabbrica si poteva "piegare il padrone". Con questi limiti, finendo la spinta alla lotta, i sindacati riuscirono a riprendere il loro posto in fabbrica ripresentandosi con la nuova veste degli "organismi di base" costituiti dai Consigli di fabbrica, in cui si affrettarono a confluire tutti quegli elementi gauchistes che durante la fase alta del movimento avevano giocato a fare i rivoluzionari e che ora trovavano la loro sistemazione come bonzi sindacali.
Gli anni 70 vedono altri movimenti di lotta che si realizzano in tutto il mondo industrializzato: in Italia (ferrovieri, ospedalieri), in Francia (LIP, Renault, Longwy e Denain), in Spagna, in Portogallo e altrove, gli operai fanno i conti con un sindacato che nonostante la sua nuova veste, "più vicina alla base", continua a mostrarsi come il difensore degli interessi capitalisti e il sabotatore delle lotte proletarie.
Nel 1980 in Polonia la classe operaia mette a profitto l'esperienza sanguinosa che aveva fatto negli scontri precedenti del 1970 e 1976, organizzando uno sciopero di massa che blocca l'intero paese. Questo formidabile movimento degli operai polacchi, che mostra agli occhi del mondo intero la forza del proletariato, la sua capacità a prendere in mano le lotte, ad organizzarsi autonomamente attraverso le sue assemblee generali (gli MKS) per estendere la lotta in tutto il paese, costituisce un incoraggiamento per la classe operaia di tutti i paesi.
E’ il sindacato Solidarnosc, creato dalla borghesia (con l’aiuto dei sindacati occidentali) per inquadrare, controllare e deviare il movimento, che alla fine consegna gli operai polacchi, piedi e mani legati, alla repressione del governo Jaruzelski. Questa sconfitta provoca un profondo disorientamento nelle fila del proletariato mondiale e ci vorranno due anni per digerirla.
Durante gli anni ottanta i proletari mettono a profitto tutta l'esperienza del decennio precedente del sabotaggio sindacale. Nuove lotte scoppiano ancora in tutti i principali paesi e i lavoratori cominciano a prendere in mano le loro lotte creando organismi specifici. I ferrovieri in Francia, i lavoratori della scuola in Italia, danno vita a lotte che si basano su organismi controllati dal basso, attraverso le assemblee generali degli scioperanti.
Di fronte a questa maturazione della lotta di classe la borghesia è costretta a rinnovare le proprie armi sindacali: è in questi anni che si sviluppa una nuova forma di sindacalismo "di base" (Coordinations in Francia, Cobas in Italia), sindacati mascherati che riprendono le forme degli organismi che i lavoratori si erano dati nelle lotte per ricondurli nell'alveo di contenuti sindacali (delega permanente, negoziati, scioperi dimostrativi, corporativismo, ecc.).
Anche se abbiamo fatto solo uno schizzo di quanto è successo nei due decenni successivi al maggio francese, crediamo che questo basti a dimostrare che il maggio francese non era stato un incidente della storia o francese, ma solo l'inizio di una nuova fase storica in cui la classe operaia rompeva con la controrivoluzione e si riproponeva sulla scena della storia per intraprendere il lungo cammino del confronto con il capitale.
Una ripresa storica della lotta di classe lunga e difficile
Se la nuova classe operaia del dopoguerra era riuscita a rompere il periodo di controrivoluzione grazie al fatto di non aver vissuto direttamente la demoralizzazione della sconfitta degli anni venti essa era tuttavia inesperta e questa ripresa storica della lotta di classe doveva mostrarsi lunga e difficile.
Abbiamo già visto le difficoltà a fare i conti con gli organismi sindacali e con il loro ruolo di difensori del capitale. Tuttavia è stato un avvenimento storico importante ed imprevisto che ha reso ancora più difficile e lunga questa ripresa: il crollo del blocco dell'Est.
Espressione dell'erosione provocata dalla crisi economica, questo crollo ha tuttavia implicato un riflusso nella coscienza proletaria, un riflusso ampiamente sfruttato dalla borghesia per cercare di riguadagnare il terreno perso negli anni precedenti.
Attraverso l'identificazione dello stalinismo con il comunismo, la borghesia ha presentato il crollo di questo come il "fallimento del comunismo", lanciando alla classe operaia un messaggio semplice, ma forte: la lotta operaia non ha prospettive, perchè non esiste alternativa valida al capitalismo. Questo sarà anche un sistema con molti difetti, ma è "l'unico dei mondi possibili".
Questa campagna ha provocato nella coscienza operaia un riflusso molto più profondo e lungo di quello che si era manifestato tra le ondate di lotta precedenti. In effetti questa volta non si era trattato di un movimento finito male, di un sabotaggio sindacale che era riuscito a frenare un movimento di lotta. Era la possibilità stessa di una prospettiva più di lungo termine che veniva messa in discussione.
Tuttavia la crisi, che era stata il detonatore del ripresa storica della lotta di classe, era sempre lì e colpiva il livello di vita egli operai con sempre più violenza.
Perciò nel 1992 la classe operaia è costretta a tornare a lottare, con il movimento di scioperi contro il governo Amato in Italia, seguito da altre lotte in Belgio, Germania, Francia, ecc. Una ripresa della combattività in una classe operaia che tuttavia non aveva superato il riflusso della coscienza. Perciò questa ripresa non riesce a congiungersi con il livello raggiunto alla fine degli anni ottanta: la classe deve un po' riprendere da capo.
E la borghesia non è rimasta a guardare, non ha lasciato che il proletariato sviluppasse le sue lotte da solo e attraverso esse riprendesse fiducia e capacità di ricongiungersi con le esperienze del passato.
Già nell'autunno del 1994,in Italia, profittando di avere al governo una compagine particolarmente discreditata, il governo Berlusconi, la borghesia rivitalizza i suoi sindacati e li mette alla testa della lotta contro la legge finanziaria di lacrime e sangue che Berlusconi voleva far passare.
Con ancora più forza e capacità di manovra la borghesia organizza lo sciopero della funzione pubblica dell'autunno 1995 in Francia: attraverso una grande campagna di stampa a livello internazionale questo sciopero viene additato come la capacità del sindacato di organizzare la lotta operaia e difendere gli interessi del proletariato.
Una manovra simile viene provata ancora in Belgio e Germania, con il risultato di una ricredibilizzazione internazionale dei sindacati che possono così svolgere il loro ruolo di sabotatori della combattività operaia.
Ma non è solo su questo terreno che la borghesia manovra. Essa lancia anche una serie di campagne finalizzate a spingere gli operai sul terreno della difesa della democrazia (e dunque dello Stato borghese): Mani pulite in Italia, l'affare Dutroux in Belgio, campagne antirazziste in Francia, tutti avvenimenti che ricevono un grande risalto sui mezzi di informazione per convincere i lavoratori di tutto il mondo che i problemi sono altri rispetto alle volgari rivendicazioni economiche, che essi devono stringersi intorno ai loro rispettivi Stati per difendere la democrazia, la giustizia pulita e altre fesserie di questo genere.
Infine, in particolare negli ultimi due anni, è la memoria storica della classe che la borghesia ha cercato di distruggere, discreditando la storia della lotta di classe e le organizzazioni che ad essa si rifanno.
Prima si è attaccata la Sinistra Comunista presentandola come la prima ispiratrice del "negazionismo" (il filone storico che nega l’esistenza dei lager nazisti) (3).
Poi si è passati allo snaturamento del vero e profondo significato della Rivoluzione di ottobre, presentata come un colpo di Stato dei bolscevichi, cercando di cancellare così la grandiosa ondata rivoluzionaria degli anni venti, in cui la classe operaia, sebbene sconfitta, dimostrò di essere capace di attaccare il capitalismo come modo di produzione e non solo di difendersi dal suo sfruttamento. In due enormi libri, originariamente scritti in Francia e Gran Bretagna, ma già tradotti in altri paesi, si continua con la mistificazione dell'identificazione dello stalinismo con il comunismo, attribuendo a quest'ultimo tutti i crimini dello stalinismo (4).
Ma l'avvenire appartiene sempre al proletariato
Se la borghesia si preoccupa tanto di deviare la lotta della classe operaia, di snaturare la sua storia, di discreditare le organizzazioni che difendono la prospettiva rivoluzionaria della classe operaia, è perchè essa sa che il proletariato non è sconfitto, che nonostante tutte le difficoltà attuali la strada è ancora aperta verso degli scontri aperti in cui la classe operaia potrà arrivare di nuovo a mettere in discussione il potere borghese. E la borghesia sa anche che l'aggravarsi della crisi e i sacrifici che essa impone ai lavoratori spingerà questi a ingaggiarsi sempre più nella lotta. Ed è in questa lotta che i proletari ritroveranno fiducia in se stessi, che sapranno imparare a riconoscere la natura dei sindacati e attrezzarsi per trovare nuove e autonome forme di organizzazione.
Una nuova fase si sta aprendo, una fase in cui la classe operaia ritroverà la strada aperta trenta anni fa con il grandioso sciopero generale del maggio francese.
Helios
1. Révolution Internationale, vecchia serie, n. 2, 1969
2. "Enragés et Situationnistes dans le mouvement des occupations", Internationale Situationniste, 1969.
3. Vedi Révue Internationale nn. 88 e 89.
4. Vedi Révue Internationale n. 92.
Nel numero 89 del nostro organo internazionale Revue Internationale (di cui pubblichiamo in lingua italiana periodicamente solo una selezione di articoli) abbiamo pubblicato un articolo in risposta a quello di Revolutionary Perspectives N°5 (pubblicazione della Communist Workers’ Organisation – CWO) dal titolo «Sette, menzogne e la prospettiva perduta della CCI». Non potendo, per mancanza di spazio, trattare tutti gli aspetti affrontati dalla CWO, ci siamo limitati a rispondere ad uno solo dei problemi posti: l’idea secondo la quale la prospettiva delineata dalla CCI per l'attuale periodo storico sarebbe completamente fallita. Noi abbiamo messo in evidenza come le affermazioni della CWO si basavano essenzialmente su di una profonda incomprensione delle nostre posizioni e soprattutto su di una totale assenza di un quadro di analisi del periodo attuale. Assenza di quadro che è, d’altra parte, rivendicata con fierezza dalla CWO e dal BIPR (Bureau Internazionale per il Partito Rivoluzionario, a cui questo gruppo è affiliato), nella misura in cui si considera che è impossibile per un'organizzazione rivoluzionaria identificare la tendenza dominante nel rapporto di forza tra proletariato e borghesia, ovvero se ci sia un corso verso scontri di classe crescenti o verso la guerra imperialista. In realtà, il rifiuto del BIPR di prendere in considerazione il fatto che per i rivoluzionari sia possibile -e necessario- identificare la natura del corso storico, trae le sue origini dalle condizioni stesse in cui si è costituita, alla fine della 2a guerra mondiale, l’altra organizzazione del BIPR ed ispiratrice delle sue posizioni politiche: il Partito Comunista Internazionalista (PCInt ). In un altro articolo «Le radici politiche della debolezza organizzativa della CCI», pubblicato sul n. 15 della rivista teorica in lingua inglese del BIPR, Internationalist Communist (IC), questa organizzazione ritorna sul problema delle origini del PCInt e di quelle della CCI. Nel presente articolo parleremo essenzialmente di questo argomento.
La grande debolezza dei due testi (della CWO e del BIPR) sta nel fatto che non si menziona mai l’analisi sviluppata dalla CCI sulle difficoltà organizzative da essa affrontate in quest'ultimo periodo (1): agli occhi del BIPR queste non possono che sorgere da debolezze di ordine programmatico o da una errata valutazione della situazione mondiale attuale. Incontestabilmente, tali questioni possono essere fonti di difficoltà per una organizzazione comunista. Ma tutta la storia del movimento operaio ci dimostra che i problemi legati alla struttura ed al funzionamento dell’organizzazione sono questioni politiche in senso stretto e che debolezze in questo campo, più ancora che su punti programmatici o di analisi, hanno delle conseguenze di primo piano, spesso drammatiche, sulla vita delle formazioni rivoluzionarie. Bisogna forse ricordare ai compagni del BIPR, che peraltro si richiamano alle posizioni di Lenin, l’esempio del 2° congresso del Partito Operaio Socialdemocratico di Russia , nel 1903, dove è proprio sul problema dell’organizzazione (e non su punti programmatici o di analisi del periodo) che si è determinata la scissione tra bolscevichi e menscevichi? Di fatto, l’incapacità attuale del BIPR di fornire un'analisi sulla natura del corso storico trae le sue origini in larga misura dagli errori politici che riguardano la questione dell’organizzazione, e più particolarmente la questione del rapporto tra frazione e partito. E’ quanto risulta ancora una volta dall’articolo di I.C. Per evitare di essere accusati dai compagni del BIPR di falsificare le loro posizioni, riportiamo una lunga citazione del loro articolo:
«La CCI è stata costituita nel 1975 ma la sua storia risale alla Sinistra Comunista di Francia (GCF), un minuscolo gruppo che si era formato nel corso della 2a guerra mondiale ad opera dello stesso elemento ("Marc") che negli anni '70 avrebbe poi fondato la CCI. La GCF si basava essenzialmente sul rigetto della formazione del Partito Comunista Internazionalista in Italia dopo il 1942 da parte degli antenati del BIPR.
La GCF affermava che il Partito Comunista Internazionalista non costituiva un avanzamento in rapporto alla vecchia Frazione della Sinistra Comunista che era andata in esilio in Francia durante la dittatura di Mussolini. La GCF si era appellata ai membri della Frazione affinché non raggiungessero il nuovo Partito che era stato costituito da rivoluzionari come Onorato Damen , scarcerato con il crollo del regime di Mussolini. Si argomentava ciò con il fatto che la controrivoluzione che si era abbattuta sugli operai dopo la loro sconfitta negli anni '20 continuava ancora e che, perciò, non vi era la possibilità di creare un partito rivoluzionario negli anni '40. Con il crollo del fascismo in Italia e la trasformazione dello Stato italiano in un campo di battaglia tra i due fronti imperialisti, la grande maggioranza della Frazione italiana in esilio raggiunse il Partito Comunista Internazionalista (PCInt) puntando sul fatto che la combattività operaia non sarebbe rimasta limitata al Nord Italia via via che la guerra si avvicinava alla sua fine. L’opposizione della GCF non ebbe alcun impatto in questa epoca ma costituì il primo esempio delle conseguenze dei ragionamenti astratti che costituiscono oggi uno dei tratti metodologici della CCI. Oggi la CCI afferma che dalla 2a guerra mondiale non scaturì alcuna rivoluzione e che ciò costituisce la prova che la GCF aveva ragione. Ma questa ignora il fatto che il PCInt era la creazione più riuscita della classe operaia rivoluzionaria dopo la Rivoluzione russa e che, malgrado un mezzo secolo di dominazione capitalista che ne è seguito, essa continua ad esistere e ad accrescersi oggi.
La GCF, d’altra parte, ha spinto le sue astrazioni "logiche" un poco più avanti. Essa ha considerato che, poiché la controrivoluzione era sempre dominante, la rivoluzione proletaria non era all’ordine del giorno. E se ciò era vero doveva scoppiare una nuova guerra imperialista! Il risultato fu che la direzione si trasferì in America del Sud e la GCF scomparve durante la guerra di Corea. La CCI è sempre stata un pò imbarazzata dalla rivelazione delle capacità di comprensione del "corso storico" dei suoi antesignani. Tuttavia la sua risposta è stata sempre quella di prendere la questione alla larga. Quando la vecchia GCF, durante gli anni '60, è ritornata in una Europa notevolmente preservata, invece di riconoscere che il PCInt. aveva sempre avuto ragione in rapporto alle sue prospettive e alla sua concezione dell’organizzazione, ha cercato di denigrare il PCInt. affermando che esso era "sclerotico" ed "opportunista" ed affermando pubblicamente che esso era "bordighista" (…Un’accusa che è stata poi costretta a ritirare). Tuttavia, anche dopo essere stata costretta a questa ritrattazione, la sua politica di denigrazione dei possibili "rivali" (per riprendere i termini della stessa CCI) non è finita e adesso la CCI tenta di sostenere che il PCInt. ha "lavorato tra i partigiani" (ovvero che aveva appoggiato le forze borghesi che tentavano di ristabilire uno Stato democratico italiano). Questa è una calunnia vile e nauseante. In realtà dei militanti del PCInt. erano stati assassinati per ordine diretto di Palmiro Togliatti (Segretario generale del Partito Comunista Italiano) per aver tentato di combattere il controllo degli stalinisti sulla classe operaia guadagnandosi un credito presso dei partigiani».
Questo passaggio, che affronta le storie rispettive della CCI e del BIPR, merita una risposta di fondo, apportando anche degli elementi storici. Tuttavia, per la chiarezza del dibattito, è opportuno cominciare a rettificare alcuni argomenti che denotano o malafede o una ignoranza penosa da parte del redattore dell’articolo.
Qualche rettifica e qualche precisazione
Cominciamo dalla questione dei partigiani, che provoca una così forte indignazione nei compagni del BIPR da spingerli a considerarci dei "calunniatori" e dei "vigliacchi". Effettivamente noi abbiamo detto che il PCInt. aveva "lavorato tra i partigiani". Ma ciò non è affatto una calunnia, è la pura verità. E’ vero o non è vero che il PCInt. ha inviato alcuni dei suoi militanti e dei suoi quadri nei ranghi dei partigiani? Questo è un fatto che non si può nascondere. Inoltre, il PCInt. rivendica questa politica, a meno che esso non abbia cambiato posizione dopo che il compagno Damen scriveva, a nome dell’Esecutivo del PCInt. nell’autunno del 1976, che il suo partito poteva "presentarsi con tutte le carte in regola" evocando "questi militanti rivoluzionari che facevano un lavoro di penetrazione nei ranghi partigiani per diffondervi i principi e le tattiche del movimento rivoluzionario e che, per questo impegno, sono anche andati a pagare con la propria vita" (2). Al contrario, noi non abbiamo mai affermato che questa politica consisteva "nell’appoggiare le forze che cercavano di ristabilire uno Stato democratico italiano". Noi abbiamo trattato più volte questa questione sulla nostra stampa (3) - e ci ritorneremo ancora nella seconda parte di questo articolo - ma se abbiamo criticato impietosamente gli errori commessi dal PCInt. in occasione della sua costituzione, non lo abbiamo però mai confuso con le organizzazioni trotzkiste, ed ancor meno con quelle staliniste. Piuttosto che protestare, i compagni del BIPR avrebbero fatto meglio a fornire le citazioni che provocano la loro collera. In attesa che lo facciano, noi pensiamo che sia preferibile che essi lascino perdere la loro indignazione e con essa i loro insulti.
Un altro punto su cui è necessario apportare una rettifica ed una precisione riguarda l’analisi del periodo storico fatta dalla GCF all’inizio degli anni '50 e che ha motivato la partenza dall’Europa di un certo numero dei suoi membri. Il BIPR si sbaglia quando pretende che la CCI sia imbarazzata da questa questione e che risponda "prendendola alla larga". Così, nell’articolo dedicato alla memoria del nostro compagno Marc (Revue Internationale n° 66) scriviamo:
«Questa analisi, la si trova principalmente nell’articolo "L’evoluzione del capitalismo e la nuova prospettiva" pubblicato da Internationalisme n° 46 (…). Questo testo, redatto nel maggio del 1952 da Marc, costituisce in qualche modo il testamento politico della GCF. In effetti, Marc lascia la Francia per il Venezuela nel giugno del 1952. Questa partenza corrisponde ad una decisione collettiva della GCF che, di fronte alla guerra di Corea, reputa che una 3a guerra mondiale tra il blocco americano ed il blocco russo sia ormai inevitabile a breve scadenza (come viene detto nel testo in questione). Una tale guerra, che devasterebbe principalmente l’Europa, rischierebbe di distruggere completamente i pochi gruppi comunisti esistenti -e principalmente la GCF- che sono sopravvissuti alla precedente guerra mondiale. La "messa al riparo" fuori dall’Europa di un certo numero di militanti non corrisponde dunque alla preoccupazione della loro sicurezza personale (…) ma alla preoccupazione di preservare la sopravvivenza della stessa organizzazione. Tuttavia, la partenza per un altro continente dell'elemento più esperto e maturo infliggerà alla GCF un colpo fatale i cui elementi rimasti in Francia, malgrado la corrispondenza che Marc intrattiene con loro, non riescono, in un periodo di profonda controrivoluzione, a mantenere in vita l’organiz-zazione. Per delle ragioni che non possiamo qui riportare, la 3a guerra mondiale non è scoppiata. E’ chiaro che questo errore di analisi è costato la vita della GCF (e questo è probabilmente l’errore, tra quelli commessi dal nostro compagno durante il corso della sua vita di militante, che ha avuto le più gravi conseguenze)».
D’altronde, quando abbiamo ripubblicato il testo su citato (fin dal 1974 nel n° 8 del Bollettino di studio e di discussione di RI, antesignano della Revue Internationale), noi abbiamo ben precisato:
«Internationalisme aveva ragione ad analizzare il periodo che è seguito alla 2a guerra mondiale come una continuazione del periodo di reazione e di riflusso della lotta di classe del proletariato (…). Aveva ancora ragione ad affermare che, con la fine della guerra, il capitalismo non sarebbe uscito dal suo periodo di decadenza, che tutte le contraddizioni che hanno condotto il capitalismo alla guerra sarebbero rimaste ed avrebbero inesorabilmente spinto il mondo verso nuove guerre. Ma Internationalisme non ha colto o non ha messo sufficientemente in evidenza la fase di "ricostruzione" possibile nel ciclo: crisi-guerra-ricostruzione-crisi. E’ per questa ragione e nel contesto della pesante atmosfera della guerra fredda USA-URSS dell’epoca che Internationalisme non vedeva la possibilità di rinascita del proletariato che all'interno ed in seguito ad una 3a guerra».
Come si può vedere, la CCI non ha mai "preso alla larga" questi problemi e non si è mai "imbarazzata" nell’evocare gli errori della GCF (anche in un periodo in cui il BIPR non stava ancora là a ricordarglieli). Detto ciò, il BIPR ancora una volta ci da prova di non aver capito la nostra analisi sul corso storico. L’errore della GCF non consiste in una valutazione sbagliata del rapporto di forza tra le classi, ma nel fatto di aver sottovalutato la tregua che la ricostruzione aveva dato all’economia capitalista, permettendole di sfuggire alla crisi aperta per più di venti anni e dunque d’attenuare alquanto l’ampiezza delle contraddizioni imperialiste tra i blocchi. Queste ultime potevano allora restare contenute nel quadro di guerre locali (Corea, Medio Oriente, Vietnam, ecc.). Se in questa epoca la guerra mondiale non ha potuto avere luogo non è stato grazie al proletariato (il quale rimaneva paralizzato ed imbrigliato dalle forze di sinistra del capitale) ma solo perché essa non si imponeva ancora al capitalismo.
Dopo aver fatto queste precisazioni, è necessario ritornare su di un "argomento" che sembra stare a cuore al BIPR (poiché lo impiega già nell’articolo di polemica di RP n°5): quello che riguarda la taglia "minuscola" della GCF. In realtà, il riferimento al carattere "minuscolo" della GCF viene posto in contrapposizione alla "creazione della classe operaia rivoluzionaria più riuscita dopo la rivoluzione russa", e cioè al PCInt, che all’epoca contava parecchie migliaia di membri. Il BIPR vuole così forse dimostrare che la ragione della "più grande riuscita" del PCInt stava nel fatto che le sue posizioni erano più corrette di quelle della GCF?
Se questa è la prova, è piuttosto inconsistente. Tuttavia, al di là della povertà di tale argomento, l'analisi del BIPR tocca delle questioni di fondo dove si situano alcune delle divergenze fondamentali tra le nostre due organizzazioni. Per affrontare queste questioni di fondo, bisogna ritornare sulla storia della Sinistra Comunista d’Italia. Perché se era vero che la GCF era un gruppo "minuscolo", era altrettanto vero che essa era la vera continuatrice di questa corrente storica a cui si rifanno il PCInt. ed il BIPR.
Qualche elemento di storia della Sinistra italiana
La CCI ha pubblicato un libro, La Sinistra comunista d’Italia, che presenta la storia di questa corrente. Ci soffermiamo qui solo per sottolineare qualche aspetto importante di questa storia.
La corrente della Sinistra italiana, che si era costituita attorno ad Amadeo Bordiga ed alla Federazione di Napoli come Frazione «astensionista» all’interno del PSI, è stata all’origine della fondazione del Partito Comunista d’Italia nel 1921 al Congresso di Livorno ed ha assunto la direzione di questo partito fino al 1925. Come altre correnti di sinistra all'interno dell’Internazionale Comunista (come la Sinistra tedesca o la Sinistra olandese), essa ha reagito, molto prima dell’Opposizione di sinistra di Trotsky, contro la deriva opportunista dell’Internazionale. In particolare, contrariamente al trotzkismo che si richiamava integralmente ai primi 4 congressi dell’Internazionale, la Sinistra italiana rigettava alcune posizioni adottate dal 3°e dal 4° Congresso, ed in particolare la tattica del «Fronte Unito». Su molti aspetti, ed in particolare sulla natura capitalista dell’URSS o sulla natura definitivamente borghese dei sindacati, le posizioni della Sinistra tedesco-olandese erano all’inizio molto più giuste di quelle della Sinistra italiana. Tuttavia, il contributo al movimento operaio della Sinistra comunista d’Italia si è rivelato più fecondo di quello di altre correnti della Sinistra Comunista nella misura in cui questa era stata capace di comprendere meglio due questioni essenziali:
· il riflusso e la sconfitta dell’ondata rivoluzionaria;
· la natura dei compiti delle organizzazioni rivoluzionarie in una tale situazione.
In particolare, essendo cosciente della necessità di una rimessa in discussione delle posizioni politiche che erano state invalidate dall’esperienza storica, la Sinistra italiana aveva la preoccupazione di avanzare con molta prudenza, cosa che le ha evitato di «gettare il bambino con l’acqua sporca» contrariamente a quanto fatto dalla Sinistra olandese che ha finito per considerare «l’ottobre del 1917» come una rivoluzione borghese ed a rigettare la necessità di un partito rivoluzionario. Ciò non ha impedito alla Sinistra italiana di far proprie alcune posizioni che erano state elaborate precedentemente dalla Sinistra tedesco-olandese.
La repressione crescente del regime mussoliniano, soprattutto a partire dalle leggi speciali del 1926, costrinse la maggior parte dei militanti della Sinistra comunista d’Italia all’esilio. E’ dunque all’estero, principalmente in Francia ed in Belgio, che questa corrente ha proseguito una attività organizzata. Nel febbraio del 1928 è stata fondata a Pantin, nelle vicinanze di Parigi, la Frazione di Sinistra del Partito comunista d’Italia. Quest’ultima ha tentato di partecipare allo sforzo di discussione e di raggruppamento delle differenti correnti di Sinistra che erano state espulse dalla Internazionale in degenerazione, tra cui la figura più conosciuta era quella di Trotsky. In particolare, la Frazione aveva come obiettivo la pubblicazione di una rivista di discussione comune a queste differenti correnti. Tuttavia, essendo stata esclusa dall’Opposizione della Sinistra internazionale, nel 1933 essa decise di pubblicare una propria rivista, Bilan, in lingua francese, pur continuando a pubblicare Prometeo in lingua italiana.
Non passeremo in rivista le posizioni della Frazione né l'evoluzione di questa. Ci limiteremo a ricordare una delle sue posizioni essenziali su cui fondava la sua esistenza: quella sul rapporto tra partito e frazione.
Questa posizione è stata progressivamente elaborata dalla Frazione alla fine degli anni '20 ed all’inizio degli anni '30 quando si trattava di definire quale politica conveniva portare avanti nei confronti dei partiti comunisti in via di degenerazione.
A grandi tratti, si può così riassumere tale posizione. La Frazione di Sinistra si forma in un momento in cui il partito del proletariato tende a degenerare, vittima dell’opportunismo, cioè della penetrazione dell’ideologia borghese al suo interno. E’ responsabilità della minoranza che mantiene il programma rivoluzionario di lottare in maniera organizzata per far trionfare tale programma all’interno del partito. O la Frazione riesce a far trionfare i suoi principi ed a salvare il partito, o quest’ultimo prosegue il suo corso degenerativo e finisce per passare, armi e bagagli, nel campo della borghesia. Il momento del passaggio del partito proletario nel campo borghese non è facile da determinare. Tuttavia, uno degli indici più significativi di tale passaggio è il fatto che non possa più apparire vita politica proletaria al suo interno. La Frazione di Sinistra ha la responsabilità di condurre la lotta all’interno del partito finché esiste una speranza che questo possa essere raddrizzato: e perciò che negli anni 1920 e all'inizio degli anni 1930, non sono le correnti di sinistra che si sono separate dai partiti dell’Internazionale Comunista ma sono stati questi ultimi ad espellerle, spesso con manovre sordide. Detto ciò, una volta che un partito del proletariato è passato nel campo della borghesia, non c’è possibilità che esso possa tornare indietro. Necessariamente, il proletariato dovrà far sorgere un nuovo partito per riprendere il suo cammino verso la rivoluzione e il ruolo della Frazione è proprio quello di costituire un «ponte» tra il vecchio partito passato al nemico ed il futuro partito del quale essa dovrà elaborare le basi programmatiche e costituire l’ossatura. Il fatto che, dopo il passaggio del partito nel campo borghese, non possa esistere vita proletaria al suo interno significa anche che è completamente inutile, e pericoloso, per i rivoluzionari praticare «l’entrismo» che costituiva una delle «tattiche» del trotzkismo e che la Frazione ha sempre rigettato. Voler mantenere una vita proletaria in un partito borghese - dunque sterile per le posizioni di classe - non ha mai avuto altro risultato che quello di accelerare la degenerazione opportunista delle organizzazioni che vi hanno provato e non di raddrizzare in nessun modo tale partito. Quanto al "reclutamento" che questi metodi hanno prodotto, esso è stato sempre particolarmente confuso, corrotto dall’opportunismo e non ha mai potuto condurre ad una avanguardia per la classe operaia.
Di fatto, una delle differenze fondamentali tra la Frazione italiana ed il trotzkismo sta nel fatto che la Frazione, nella politica di raggruppamento delle forze rivoluzionarie, anteponeva sempre la necessità della più grande chiarezza, del più grande rigore programmatico, anche se essa rimaneva aperta alla discussione con tutte le altre correnti che avevano ingaggiato la lotta contro la degenerazione della Internazionale Comunista. Al contrario la corrente trotzkista ha cercato di costituire delle organizzazioni in maniera precipitosa, senza una discussione seria ed una decantazione preliminare delle posizioni politiche, puntando essenzialmente su accordi tra "personalità" e sull’autorità acquisita da Trotsky come uno dei principali dirigenti della rivoluzione del 1917 e dell’IC alla sua origine.
Un’altra questione che ha contrapposto il trotzkismo alla Frazione italiana era quella del momento in cui bisognava formare un nuovo partito. Per Trotsky ed i suoi compagni, la questione della fondazione del nuovo partito era posta immediatamente all’ordine del giorno da quando il vecchio partito era perso per il proletariato. Per la Frazione, la questione era molto chiara:
“La trasformazione della Frazione in partito è condizionata da due elementi intimamente legati (4):
1. L’elaborazione, da parte della frazione, di nuove posizioni politiche capaci di dare un quadro solido alle lotte del proletariato per la Rivoluzione in una nuova fase più avanzata (…).
2. Il rovesciamento dei rapporti di classe del sistema attuale (…) con lo scoppio di movimenti rivoluzionari che potranno permettere alla Frazione di riprendere la direzione delle lotte nella prospettiva dell'insurrezione” (“Verso l’Internazionale 2 e ¾?”, Bilan n°1, 1933).
Perché i rivoluzionari siano capaci di stabilire in maniera corretta quale è la loro responsabilità in un certo momento, è necessario che essi identifichino in maniera chiara il rapporto di forze tra le classi e il senso dell’evoluzione di tale rapporto. Uno dei grandi meriti della Frazione è giustamente quello di aver saputo identificare la natura del corso storico durante gli anni '30: dalla crisi generale del capitalismo, con il peso della controrivoluzione operante sulla classe operaia, non poteva venire fuori che una nuova guerra mondiale.
Questa analisi ha dimostrato tutta la sua importanza al momento della guerra di Spagna. Mentre la maggior parte delle organizzazioni che si richiamavano alla sinistra dei partiti comunisti vedono negli avvenimenti di Spagna una ripresa rivoluzionaria del proletariato mondiale, la Frazione capisce che, malgrado il coraggio e l’alta combattività espressa dal proletariato spagnolo, questo era caduto nella trappola dell’ideologia antifascista portata avanti da tutte le organizzazioni che avevano una certa influenza su di esso (la CNT anarchica, l’UGT socialista, come i partiti comunisti, socialisti ed il POUM, un partito socialista di sinistra che partecipava al governo borghese della «Generalitat»). La Frazione comprende che i proletari sono destinati a servire da carne da cannone in uno scontro tra settori della borghesia (quello «democratico» contro quello «fascista»), che rappresenta il preludio della guerra mondiale che di lì a poco sarebbe inevitabilmente scoppiata. In questa occasione, nella Frazione si forma una minoranza che pensa che in Spagna la situazione restava «obiettivamente rivoluzionaria» e che, a disprezzo di ogni disciplina organizzativa e rifiutando il dibattito che gli proponeva la maggioranza, si arruola nelle brigate antifasciste del POUM (5) e si esprime anche nelle colonne del giornale dell’organizzazione. La Frazione è obbligata a prendere atto della scissione della minoranza che alla fine del 1936, al suo ritorno dalla Spagna (6), va ad integrare i ranghi dell’Union Communiste, un gruppo che aveva rotto a sinistra, all’inizio degli anni 1930, con il trotzkismo ma che raggiunse questa corrente qualificando come «rivoluzionari» gli avvenimenti di Spagna e promuovendo un «antifascismo critico».
Così, in compagnia di un certo numero di comunisti di sinistra olandesi, la Frazione italiana è la sola organizzazione che abbia mantenuto una posizione di classe intransigente di fronte alla guerra imperialista che si sviluppava in Spagna (7). Malauguratamente, alla del 1937, Vercesi che è il principale teorico ed animatore della Frazione comincia ad elaborare una teoria secondo la quale i diversi scontri militari che si erano prodotti nella seconda metà degli anni ‘30 non costituivano i preparativi di un nuovo macello imperialista generalizzato ma delle «guerre locali» destinate a prevenire, attraverso i massacri operai, la minaccia proletaria impellente. Secondo questa «teoria» il mondo si trovava dunque alla vigilia di una nuova ondata rivoluzionaria e la guerra mondiale non era più all’ordine del giorno nella misura in cui l’economia di guerra era in grado, da sola, di superare la crisi capitalista. Solo una minoranza della Frazione, a cui apparteneva il nostro compagno Marc, fu allora capace di non lasciarsi trascinare in questa deriva che rappresentava una sorte di rivalsa postuma della minoranza del 1936. La maggioranza decide di interrompere la pubblicazione della rivista Bilan e di sostituirla con Octobre (il cui nome è conforme alla «nuova prospettiva»), organo del Bureau Internazionale delle Frazioni di Sinistra (italiana e belga), che intende pubblicare in tre lingue. In effetti, anziché «fare di più» come la supposta «nuova prospettiva» lo esigeva, la Frazione è incapace di mantenere il suo lavoro dall’inizio: Octobre, contrariamente a Bilan, apparve in maniera irregolare ed unicamente in francese; numerosi militanti, disorientati da questa rimessa in causa delle posizioni della Frazione, cadono nella demoralizzazione o dimissionano.
La Sinistra italiana durante la seconda guerra mondiale e la formazione della GCF
Quando scoppia la seconda guerra mondiale, la Frazione è disarticolata. Più ancora che la repressione da parte della polizia «democratica» prima e della Gestapo poi (parecchi militanti, tra i quali Mitchell - principale animatore della Frazione belga - vengono deportati ed uccisi), è il disorientamento politico e l’impreparazione di fronte ad una guerra mondiale non prevista che stanno alla base di tale sbandata. Da parte sua, Vercesi proclama che con la guerra il proletariato è diventato «socialmente inesistente», che ogni lavoro di frazione è divenuto inutile e che conviene quindi sciogliere le frazioni (decisione che è presa dal Bureau Internazionale delle frazioni), cosa che contribuisce ulteriormente a paralizzare la Frazione. Tuttavia, il nucleo di Marsiglia, costituito da militanti che si erano opposti alle concezioni revisioniste di Vercesi prima della guerra, prosegue un lavoro paziente per ricostituire la frazione, un lavoro particolarmente difficile per la repressione e per la mancanza di mezzi materiali. Delle sezioni sono ricostituite a Lione, Tolone ed a Parigi. Dei contatti sono presi in Belgio. A partire dal 1941 la Frazione italiana «ricostituita» tiene delle conferenze annuali, nomina una Commissione Esecutiva e pubblica un Bollettino internazionale di discussione. Parallelamente si costituisce nel 1942, sulle posizioni della Frazione italiana, il Nucleo francese della Sinistra Comunista , a cui partecipa Marc, membro della CE della FI e che si dà come prospettiva la costituzione della Frazione francese.
Quando nel 1942-43 si sviluppano, nel Nord dell’Italia, grandi scioperi operai che determinano la caduta di Mussolini ed il rimpiazzo di quest’ultimo con l’ammiraglio filo-alleati Badoglio (scioperi che si ripercuotono in Germania tra gli operai italiani sostenuti da scioperi di operai tedeschi), la Frazione reputa che, coerentemente con la sua posizione di sempre, «il corso della trasformazione della frazione in partito in Italia è aperto». La sua conferenza dell’agosto 1943 decide di riprendere il contatto con l’Italia e chiede ai militanti di prepararsi a farvi ritorno appena possibile. Tuttavia questo ritorno non fu possibile, in parte per delle ragioni materiali e in parte per ragioni politiche dovute al fatto che Vercesi e una parte della Frazione belga erano contrari considerando che gli avvenimenti italiani non avrebbero rimesso in causa «l’inesistenza sociale del proletariato». Alla conferenza di maggio del 1944, la Frazione condanna le teorie di Vercesi (8). Tuttavia quest’ultimo non termina qui la sua deriva. Nel settembre del 1944 egli partecipa, a nome della Frazione (ed in compagnia di un altro membro di quest’ultima, Pieri) alla costituzione della «Coalizione antifascista» di Bruxelles a fianco dei partiti democratico cristiano, «comunista», repubblicano, socialista e liberale e che pubblica il giornale L’Italia di Domani sulle cui colonne si trovano appelli alla sottoscrizione finanziaria per sostenere lo sforzo di guerra degli alleati. Presa conoscenza di questi fatti, la Frazione escluse Vercesi il 20 gennaio del 1945. Ciò non ha impedito a quest’ultimo di proseguire ancora per parecchi mesi la sua attività nella «Coalizione» e come presidente della «Croce Rossa» (9).
Da parte sua, la Frazione proseguiva un difficile lavoro di propaganda contro l’isteria antifascista e di denuncia della guerra imperialista. Essa aveva adesso al suo fianco il Nucleo francese della Sinistra Comunista che si era costituito in Frazione francese della Sinistra Comunista e che aveva tenuto il suo primo congresso nel dicembre del 1944. Le due Frazioni distribuiscono dei volantini e attaccano dei manifesti che chiamano alla «fraternizzazione» i proletari in divisa dei due campi imperialisti. Tuttavia, alla conferenza di maggio del 1945, avendo preso notizia della costituzione in Italia del Partito comunista internazionalista con le figure prestigiose di Onorato Damen e di Amadeo Bordiga, la maggioranza della Frazione decide lo scioglimento di quest’ultima e l’entrata individuale dei suoi membri nel PCInt. Era questa una rimessa in discussione radicale di tutto il cammino politico della Frazione a partire dalla sua costituzione nel 1928. Marc, membro della CE della Frazione e principale animatore del suo lavoro durante la guerra, si oppose a questa decisione. Non si trattava di un presa di posizione formale ma politica: egli riteneva che la Frazione doveva continuare ad esistere finché questa non si fosse assicurata delle posizioni del nuovo partito, che non erano ben conosciute, e verificare se esse erano conformi a quelle della frazione (10). Per non essere complice del suicidio della Frazione, egli dimissionò dalla sua CE e lasciò la conferenza dopo aver fatto una dichiarazione con la quale spiegava il suo atteggiamento. La Frazione, che peraltro non aveva più motivo di esistere, lo escluse per «indegnità politica» e rifiutò di riconoscere la FFGC della quale egli era il principale animatore. Qualche mese dopo, due membri della FFGC che avevano incontrato Vercesi, il quale si era espresso per la costituzione del PCInt, dettero luogo ad una scissione e costituirono una FFGC-bis con il sostegno del PCInt. Per evitare ogni confusione, la FFGC prende allora il nome di Sinistra Comunista di Francia (Gauche Communiste de France, GCF) che si richiama completamente alla continuità politica della Frazione. Da parte sua ,la FFGC-bis si trova «rafforzata» dall’entrata nelle sue fila dei membri della minoranza espulsa dalla Frazione nel 1936 e del principale animatore dell’Union Communiste, Chazé. Ciò non impedisce al PCInt e alla Frazione belga di riconoscerla come «la sola rappresentante in Francia della Sinistra comunista».
La «minuscola» GCF terminò nel 1946 la pubblicazione del suo giornale d’agitazione, l’Etincelle, (la Scintilla), ritenendo che la prospettiva di una ripresa storica della lotta di classe, come essa era stata prevista nel 1943, non si era verificata. Al contrario, essa pubblicò tra il 1945 ed il 1952 46 numeri della sua rivista teorica Internationalisme, che affrontava l’insieme dei problemi che si ponevano al movimento operaio all’indomani della seconda guerra mondiale e precisando le basi programmatiche sulle quali andava a costituirsi Internacionalismo nel 1964 in Venezuela, Révolution Internationale nel 1968 in Francia e la Corrente Comunista Internazionale nel 1975.
Fabienne.
1.Vedere l’articolo sul 12° Congresso della CCI sulla Revue Internationale n° 90.
2. Lettera pubblicata su Rivoluzione Internazionale n°7 con la nostra risposta: «Le ambiguità sui "partigiani" nella costituzione del Partito Comunista Internazionalista in Italia».
3. Vedere articolo della Rivoluzione Internazionale n°7.
4. Noi abbiamo spesso affrontato nella nostra stampa ciò che, conformemente alla concezione elaborata dalla Sinistra italiana, distingue la forma partito dalla forma frazione (vedere in particolare il nostro studio «Il rapporto Frazione-Partito nella tradizione marxista» nella Revue Internationale n° 59, 61, 64 e 64. Possiamo ricordare i seguenti elementi per chiarire il problema. La minoranza comunista esiste in permanenza come espressione del divenire rivoluzionario del proletariato. Tuttavia l’impatto che essa può avere sulle lotte immediate della classe è fortemente condizionato dal livello di queste ultime e dal grado di coscienza delle masse operaie. Non è che nei periodi di lotte aperte e sempre più coscienti del proletariato che questa minoranza può sperare di avere un impatto su queste lotte. Solo in queste circostanze si può parlare di questa minoranza come di un partito. Al contrario, nei periodi di riflusso storico del proletariato, di trionfo della controrivoluzione, è vano sperare che le posizioni rivoluzionarie possano avere un impatto significativo e determinante sull’insieme della classe. In tali periodi, il solo lavoro possibile - ed indispensabile - è quello di frazione: preparare le condizioni politiche della formazione del futuro partito quando i rapporti di forza tra le classi permetterà nuovamente che le posizioni comuniste abbiano un impatto sull’insieme del proletariato.
5. Un membro della minoranza, Candiani, prende anche il comando della colonna «Lenin» del POUM sul fronte aragonese.
6. La maggioranza della Frazione, contrariamente alla legenda alimentata dalla minoranza come da altri gruppi, non si è limitata ad osservare da lontano gli avvenimenti di Spagna. I suoi rappresentanti sono rimasti in Spagna fino a maggio del 1937, non per arruolarsi sul fronte antifascista ma per proseguire, nella clandestinità di fronte ai sicari stalinisti, il cui compito era proprio quello di assassinarli, un lavoro di propaganda per tentare di sottrarre qualche militante dalla spirale della guerra imperialista.
7. Bisogna notare che gli avvenimenti di Spagna hanno provocato delle scissioni in altre organizzazioni (l’Union Communiste in Francia, la Ligue des Communistes in Belgio, la Revolutionary Workers’ League negli Stati Uniti, la Liga Comunista in Messico) che si ritrovano sulle posizioni della Frazione italiana raggiungendo le sue fila o costituendo, come in Belgio, una nuova frazione della Sinistra Comunista Internazionale. E’ in quest’epoca che il compagno Marc lascia l’Union Communiste e raggiunge la Frazione con la quale egli era in contatto da parecchi anni.
8. Durante questo periodo, la Frazione ha pubblicato parecchi numeri del suo bollettino di discussione, cosa che le ha permesso di sviluppare tutta una serie di analisi, principalmente sulla natura dell’URSS, sulla degenerazione della rivoluzione russa e sulla questione dello Stato nel periodo di transizione, sulla teoria dell’economia di guerra sviluppata da Vercesi e sulle basi economiche della guerra imperialista.
9. A questo titolo, Vercesi ha ricevuto i ringraziamenti di “sua eccellenza il nunzio apostolico” per il suo “appoggio a questa opera di solidarietà e di umanità” dichiarandosi certo “che nessuno italiano si coprirebbe dell’onta di restare sordo al nostro pressante appello” (L’Italia di Domani n°11, marzo 1945).
10. In questo senso, la ragione per la quale Marc si oppose alla decisione della Frazione, nel marzo del 1945, non è quella data da IC: «che la controrivoluzione che si era abbattuta sugli operai dopo la sconfitta degli anni ‘20 continuava ancora e che, per questo, non vi era la possibilità di creare un partito rivoluzionario durante gli anni ‘40» poiché in quel momento, pur sottolineando tutte le difficoltà crescenti incontrate dal proletariato per la politica sistematica degli Alleati che mirava a deviare la sua combattività su di un terreno borghese, Marc non aveva ancora messo in discussione esplicitamente la posizione adottata nel 1943 sulla possibilità di formare il Partito.
RETTIFICA
Il BIPR ci ha chiesto di rettificare la frase seguente del nostro articolo «Una politica di raggruppamento senza bussola» (Revue Internationale n° 87, p. 22): «Alla quarta conferenza (dei gruppi della Sinistra Comunista), la CWO e BC hanno allentato i criteri allo scopo di permettere che il posto della CCI fosse preso dal SUCM.» Il BIPR ci ha detto che in realtà la quarta conferenza si è svolta secondo i criteri che erano stati adottati alla fine della terza, e che il SUCM aveva affermato di essere d’accordo con tali criteri. Noi prendiamo atto di questo fatto. Siamo interessati al fatto che le polemiche tra la CCI e il BIPR, come ogni dibattito tra rivoluzionari, si basino su questioni di fondo e non su dei malintesi o su dettagli erronei.
Per i comunisti lo studio della storia del movimento operaio e delle sue organizzazioni non corrisponde affatto ad una curiosità di tipo accademico. E' al contrario un mezzo indispensabile per permettere loro di fondare su solide basi il loro programma, di orientarsi nella situazione presente e stabilire in modo chiaro le prospettive per l'avvenire. In particolare, l'esame delle esperienze passate della classe operaia deve permettere di verificare la validità delle posizioni che sono state allora difese dalle organizzazioni politiche e tirarne le lezioni. I rivoluzionari di un'epoca non si pongono come giudici dei loro antenati. Ma devono essere in grado di mettere in evidenza le posizioni giuste come gli errori delle organizzazioni del passato, e devono saper riconoscere il momento in cui una posizione corretta in un certo contesto storico diviene caduca quando le condizioni storiche cambiano. In mancanza di ciò, incontrano grandi difficoltà ad assumere le loro responsabilità, condannati a ripetere gli errori del passato oppure a mantenere una posizione anacronistica.
Un tale approccio è l'ABC per una organizzazione rivoluzionaria. Se ci rapportiamo al suo articolo, il BIPR condivide questo approccio e noi consideriamo molto positivo che questa organizzazione abbia abbordato, insieme ad altri aspetti, la questione delle proprie origini storiche (o piuttosto le origini del PCInt) come di quelle della CCI. Ci sembra che la comprensione dei disaccordi tra le nostre organizzazioni debba partire dall'esame delle nostre rispettive storie. E' perciò che la nostra risposta alla polemica del BIPR si concentra su questo aspetto. Abbiamo cominciato a farlo nella prima parte di questo articolo per ciò che concerne la Frazione italiana e la GCF. Si tratta ora di ritornare sulla storia del PCInt.
Infatti, uno dei punti importanti che qui si tratta di stabilire è il seguente: possiamo considerare, come dice il BIPR, che il «il PCInt era la creazione della classe operaia che ha avuto la miglior riuscita dalla rivoluzione russa» (1). Se tale è il caso, allora è necessario considerare l'azione del PCInt come esemplare e fonte d'ispirazione per le organizzazioni comuniste di oggi e di domani. La domanda che si pone è la seguente: come possiamo misurare il successo d'una organizzazione rivoluzionaria? La risposta s'impone da sola: se adempie correttamente ai compiti che sono suoi nel periodo storico in cui agisce. In questo senso, i criteri di «riuscita» che saranno scelti sono di per sé significativi del modo in cui si concepisce il ruolo e la responsabilità dell'organizzazione d'avanguardia del proletariato.
I criteri di "riuscita" di una organizzazione rivoluzionaria
Una organizzazione rivoluzionaria è l'espressione, e anche un fattore attivo, del processo di presa di coscienza che deve condurre il proletariato ad assumere il suo compito storico di rovesciamento del capitalismo e di instaurazione del comunismo. Una tale organizzazione è uno strumento indispensabile del proletariato nel momento del salto storico che rappresenta la sua rivoluzione comunista. Quando una organizzazione rivoluzionaria è confrontata a questa situazione particolare, come fu il caso dei partiti comunisti a partire dal 1917 e all'inizio degli anni '20, il criterio decisivo sul quale deve essere apprezzata la sua azione è la capacità di richiamare attorno a sé, e al programma comunista che difende, le grandi masse operaie che costituiscono il soggetto della rivoluzione. In questo senso, si può considerare che il partito bolscevico ha pienamente compiuto il suo compito nel 1917 (non solo, d'altronde, di fronte alla rivoluzione in Russia, ma di fronte alla rivoluzione mondiale poiché è stato ugualmente esso ad essere il principale ispiratore della costituzione e del programma rivoluzionario dell'Internazionale Comunista fondata nel 1919). Da febbraio ad ottobre 1917, la sua capacità di legarsi alle masse in piena effervescenza rivoluzionaria, a mettere davanti, in ogni momento del processo di maturazione della rivoluzione, le parole d'ordine le più adatte dando prova della più grande intransigenza di fronte alle sirene dell'opportunismo, ha costituito un fattore incontestabile del suo «successo».
Ciò detto, il ruolo delle organizzazioni comuniste non si limita ai periodi rivoluzionari. Se così fosse, allora tali organizzazioni non sarebbero esistite che nel periodo che va dal 1917 al 1923 e ci si potrebbe chiedere quale sia oggi il significato dell'esistenza del BIPR e della CCI. E' chiaro che, al di fuori di periodi direttamente rivoluzionari, le organizzazioni comuniste hanno il ruolo di preparare la rivoluzione, cioè contribuire nel miglior modo possibile allo sviluppo della condizione essenziale di questa: la presa di coscienza da parte dell'insieme del proletariato dei suoi fini storici e dei mezzi da usare per arrivarci. Ciò significa, in primo luogo, che la funzione permanente delle organizzazioni comuniste (che vale dunque anche nei periodi rivoluzionari) è di definire nel modo più chiaro e coerente possibile il programma del proletariato. Ciò significa, in secondo luogo e in diretto legame con la prima funzione, preparare politicamente e organizzativamente il partito che dovrà trovarsi alla testa del proletariato nel momento della rivoluzione. Infine, ciò passa soprattutto attraverso un intervento continuo nella classe, in funzione dei mezzi dell'organizzazione, allo scopo di guadagnare alle posizioni comuniste gli elementi che tentano di rompere con l’influenza ideologica della borghesia e dei suoi partiti.
Per ritornare a « la creazione della classe operaia che ha avuto la miglior riuscita dopo la rivoluzione russa», cioè il PCInt (secondo l'affermazione del BIPR), ci si deve porre la domanda: di quale «riuscita» si tratta?
Ha forse giocato un ruolo decisivo nell'azione del proletariato nel corso di un periodo rivoluzionario o di attività intensa del proletariato?
Ha apportato dei contributi di primo piano all'elaborazione del programma comunista, seguendo l’esempio, tra l'altro, della Frazione italiana della Sinistra comunista, organizzazione a cui si richiama?
Ha gettato delle basi organizzative significative e solide sulle quali potrà poggiare la fondazione del futuro partito comunista mondiale, avanguardia della futura rivoluzione mondiale?
Cominceremo col rispondere a quest'ultima domanda. In una lettera del 9 giugno 1980 indirizzata dalla CCI al PCInt all’indomani del fallimento della terza conferenza dei gruppi della Sinistra comunista, scrivevamo:
«Come spiegate (..) che la vostra organizzazione, che era già sviluppata nel momento della ripresa di classe nel 1968, non abbia potuto mettere a profitto questa ripresa per estendersi a livello internazionale mentre la nostra, praticamente inesistente nel 1968, a partire da questa data ha decuplicato le sue forze e si è impiantata in dieci paesi?»
La questione che ponevamo allora resta perfettamente valida ancora oggi. Da quel periodo, il PCint è riuscito ad allargare la sua estensione internazionale costituendo il BIPR assieme alla CWO (che ha ripreso, per l'essenziale, le sue posizioni e analisi politiche) (2). Ma occorre riconoscere che il bilancio del PCint, dopo più di mezzo secolo di esistenza, è piuttosto modesto. La CCI ha sempre messo in evidenza e deplorato l'estrema debolezza numerica e l'impatto molto ridotto delle organizzazioni comuniste, tra cui la nostra, nel periodo presente. Noi non siamo del genere che pratica i bluff o si attribuisce i galloni per farsi riconoscere come il «vero stato maggiore del proletariato». Lasciamo ad altri gruppi la mania di prendersi come il «vero Napoleone» e di proclamarlo. Ciò detto, appoggiandosi sul criterio di «riuscita» che si esamina qui, quello della «minuscola GCF», benché essa abbia cessato di esistere dal 1952, è incomparabilmente più soddisfacente di quello del PCInt. Con sezioni e nuclei in 13 paesi, 11 pubblicazioni territoriali regolari in 7 lingue diverse (tra cui quelle più diffuse nei paesi industrializzati: inglese, tedesco, spagnolo e francese), una rivista teorica trimestrale in tre lingue, la CCI, che si è costituita attorno alle posizioni e analisi politiche della GCF, è oggi l'organizzazione della Sinistra comunista non solo la più importante ed estesa, ma anche e soprattutto quella che ha conosciuto la dinamica di sviluppo più positiva nel corso dell'ultimo quarto di secolo. Il BIPR può sicuramente considerare che la «riuscita» attuale degli eredi della GCF, se la si paragona a quella del PCInt, è giustamente la prova della debolezza della classe operaia. Quando questa avrà sviluppato molto di più le sue lotte e la sua coscienza, essa riconoscerà la validità delle posizioni e delle parole d'ordine del BIPR e si raggrupperà più numerosa di oggi attorno ad esso. Ognuno si consola come può.
Dunque, quando il BIPR evoca con il superlativo assoluto la «riuscita» del PCInt, non può trattarsi della sua capacità di gettare le future basi organizzative del partito mondiale, a meno che non si rifugga in delle speculazioni su ciò che sarà il BIPR nel futuro. Passiamo allora ad esaminare un altro criterio: il PCInt del 1945-46 (cioè quando adotta la sua prima piattaforma) ha apportato dei contributi di primo piano all'elaborazione del programma comunista?
Noi non passeremo in rivista l'insieme delle posizioni contenute in questa piattaforma che contiene effettivamente delle cose eccellenti. Ci limiteremo ad evocare soltanto alcuni punti programmatici, estremamente importanti già in quell’epoca, sui quali non c’è nella piattaforma una grande chiarezza. Si tratta della natura dell'URSS, della natura delle lotte dette di «liberazione nazionale e coloniale» e della questione sindacale.
La piattaforma attuale del BIPR è chiara sulla natura capitalista della società che è esistita in Russia fino al 1990, sul ruolo dei sindacati come strumento della conservazione dell'ordine borghese che il proletariato non può in alcun modo «riconquistare» e sulla natura controrivoluzionaria delle lotte nazionali. Tuttavia, questa chiarezza non esisteva nella piattaforma del 1945 dove l'URSS era ancora considerata come uno «Stato proletario», dove la classe operaia era chiamata a sostenere certe lotte nazionali e coloniali e dove i sindacati erano ancora considerati come delle organizzazioni che il proletariato poteva «riconquistare», soprattutto grazie alla creazione, sotto l'egida del PCInt, di minoranze candidate alla loro direzione (3). Nella stessa epoca, la GCF aveva già rimesso in discussione la vecchia analisi della Sinistra italiana sulla natura proletaria dei sindacati e compreso che la classe operaia non poteva più, in alcun modo, riconquistare questi organi. Anche l'analisi sulla natura capitalista dell'URSS era stata già elaborata nel corso della guerra dalla Frazione italiana ricostituita attorno al nucleo di Marsiglia. Infine, la natura controrivoluzionaria delle lotte nazionali, il fatto che esse costituivano semplici momenti di scontri imperialisti tra grandi potenze, era stata già stabilita dalla Frazione nel corso degli anni '30. E' perciò che noi manteniamo oggi ciò che la GCF diceva già del PCInt nel 1946 e che irrita il BIPR quando si lamenta che «la GCF affermava che il PCInt non costituiva un avanzamento rispetto alla vecchia Frazione della Sinistra comunista che era andata in esilio in Francia durante la dittatura di Mussolini». Sul piano della chiarezza programmatica, i fatti parlano da soli (4).
Così non si può considerare che le posizioni programmatiche che erano quelle del PCInt nel 1945 facciano parte della «riuscita» poiché una buona parte di esse ha dovuto essere rivista in seguito, soprattutto nel 1952, durante il congresso che ha visto la scissione della tendenza di Bordiga e ancora dopo. Se il BIPR ci permette di fare un po’ d'ironia, potremo dire che alcune delle attuali posizioni sono più ispirate a quelle della GCF che a quelle del PCInt del 1945. Allora dove si trova il «grande successo» di questa organizzazione?
Non resta altro che la forza numerica e l'impatto che essa ha avuto in un certo momento della storia.
Effettivamente, il PCInt contava, tra il 1945 e 1947, circa 3000 membri e un numero significativo di operai si riconosceva in esso. Si può dire che questa organizzazione ha potuto giocare un ruolo significativo nel corso degli avvenimenti storici indirizzandoli nel senso della rivoluzione proletaria, anche se questa infine non ha avuto luogo? Evidentemente, sarebbe fuori luogo qualunque rimprovero fatto al PCInt di aver fallito nella sua responsabilità di fronte ad una situazione rivoluzionaria poiché una tale situazione non esisteva nel 1945. Ma è giustamente lì che si pone il problema. Come afferma l'articolo del BIPR, il PCInt puntava «sul fatto che la combattività operaia non restasse limitata al nord dell'Italia allorché la guerra si avvicinava alla fine». Infatti, il PCInt si era costituito nel 1943 sulla base della ripresa di scontri di classe nel nord dell'Italia puntando sul fatto che questi scontri fossero i primi di una nuova ondata rivoluzionaria che sarebbe sorta dalla guerra come avvenne nel corso del primo conflitto mondiale. La storia si è incaricata di smentire in seguito una tale prospettiva. Ma nel 1943, era legittimo metterla davanti (5). Dopo tutto, l'Internazionale Comunista e la maggior parte dei partiti comunisti, tra cui il partito italiano, si erano formati quando l'ondata rivoluzionaria iniziata nel 1917 era già in declino dopo il tragico massacro del proletariato tedesco del gennaio 1919. Ma i rivoluzionari dell'epoca non ne erano ancora consapevoli (ed è giustamente uno dei grandi meriti della Sinistra italiana d'esser stata una delle prime correnti a costatare questa inversione del rapporto di forza tra borghesia e proletariato). Tuttavia, quando si è tenuta la conferenza alla fine del 1945-inizio 1946, la guerra era già finita e le reazioni proletarie che aveva prodotto a partire dal '43 erano già state soffocate sul nascere grazie a una sistematica politica preventiva da parte della borghesia (6). Malgrado ciò, il PCInt non ha rimesso in causa la sua politica precedente (anche se un certo numero di voci si sono alzate nella conferenza per constatare il rafforzamento della presa borghese sulla classe operaia). Ciò che era un errore del tutto normale nel 1943, lo era già molto meno alla fine del 1945. Tuttavia, il PCInt ha continuato sullo slancio e non rimetterà più in causa la validità della formazione del partito nel 1943.
Ma la cosa più grave per il PCInt non è l'errore di valutazione del periodo storico e la difficoltà a riconoscere questo errore. Ben più catastrofico è stato il modo in cui il PCInt si è sviluppato e le posizioni che è stato portato a prendere in conseguenza di ciò, soprattutto il fatto che ha cercato di «adattarsi» alle illusioni crescenti di una classe operaia in riflusso.
La costituzione del PCInt
Alla sua nascita nel 1943, il PCInt si richiamava alle posizioni politiche elaborate dalla Frazione italiana della Sinistra comunista. D'altronde, se il suo principale animatore, Onorato Damen, uno dei dirigenti della Sinistra negli anni '20, era rimasto in Italia dal 1924 (la maggior parte del tempo nelle prigioni mussoliniane da dove i rivolgimenti del 1942-43 lo tirarono fuori) (7), esso contava nei suoi ranghi un certo numero di militanti della Frazione che erano rientrati in Italia all'inizio della guerra. Effettivamente, nei primi numeri di Prometeo clandestino (che riprende il nome tradizionale del giornale della Sinistra, quello degli anni '20 e quello della Frazione italiana negli anni '30) pubblicati a partire da novembre '43, si trovano denunce molto chiare della guerra imperialista, dell'antifascismo e dei movimenti «partigiani» (8). Tuttavia, a partire dal 1944, il PCInt si orienta verso un lavoro d'agitazione in direzione dei gruppi di partigiani e diffonde, in giugno, un manifesto che incita alla «trasformazione delle formazioni partigiane là dove esse sono composte da elementi proletari di sana coscienza di classe, in organi d'autodifesa proletaria, pronti a intervenire nella lotta rivoluzionaria per il potere". Nell'agosto 1944, Prometeo n° 15 va più lontano nei compromessi: «Gli elementi comunisti credono sinceramente alla necessità della lotta contro il nazi-fascismo e pensano che, una volta abbattuto questo ostacolo, potranno marciare verso la conquista del potere, abbattendo il capitalismo». E' la rimessa in piedi dell'idea sulla quale si sono appoggiati tutti quelli che, nel corso della guerra di Spagna, come gli anarchici e i trotzkisti, avevano chiamato i proletari a «riportare prima una vittoria sul fascismo, poi a fare la rivoluzione». E' l'argomento di quelli che tradiscono la causa del proletariato per schierarsi dietro la bandiera d'uno dei campi imperialisti. Questo non era il caso del PCInt poiché esso restava fortemente impregnato della tradizione della Sinistra del partito comunista d'Italia che si era distinto, di fronte all'ascesa del fascismo all'inizio degli anni '20, per la sua intransigenza di classe. Ciò detto, tali argomenti nella stampa del PCInt permettono di misurare l'ampiezza delle sbandate. D'altronde, seguendo l'esempio della minoranza della Frazione che nel 1936 aveva raggiunto le unità antifasciste del POUM in Spagna, un certo numero di militanti e quadri del PCInt si arruola nei gruppi partigiani. Ma se la minoranza aveva rotto la disciplina d'organizzazione, non è lo stesso per questi militanti del PCInt: essi non fanno che applicare le consegne del Partito (9).
Evidentemente, la volontà di raggruppare il maggior numero di operai nei suoi ranghi e attorno ad esso, in un momento in cui questi ultimi soccombono in gran parte alle sirene dei «partigiani», conduce il PCInt a prendere le distanze dall'intransigenza che aveva mostrato all'inizio contro l'antifascismo e le «bande partigiane». Questa non è una «calunnia» della CCI in continuità con le «calunnie» della GCF. Questa propensione a reclutare nuovi militanti senza troppo preoccuparsi della fermezza delle loro convinzioni internazionaliste è stata rilevata dal compagno Danielis, responsabile della federazione di Torino nel 1945 e anziano membro della Frazione:
«Una cosa deve essere chiara per tutti, cioè che il Partito ha subito l'esperienza grave del facile allargamento della sua influenza politica, non in profondità, perché questo non è facile, ma in superficie. Debbo citare un'esperienza personale che servirà da messa in guardia contro il pericolo di una facile influenza del Partito su certi strati, su certe masse, conseguenza automatica di una altrettanto facile formazione teorica di quadri… Si doveva dunque pensare che nessun iscritto avrebbe accettato le direttive del “Comitato di Liberazione Nazionale”. Ebbene, la mattina del 25 aprile [data della "liberazione" di Torino] tutta la tutta la federazione di Torino era in armi per partecipare al coronamento di quel massacro che durò sei anni, e alcuni compagni della provincia, inquadrati militarmente e disciplinati, entrarono in Torino per partecipare alla caccia all'uomo… Il Partito non esisteva: era sfumato». (Processo verbale del congresso di Firenze del PCInt, 6-9 maggio 1948). Evidentemente anche Danielis era un «calunniatore»!
Seriamente, se le parole hanno un senso, la politica del PCInt che gli ha permesso i suoi «grandi successi» del 1945, non era altro che una politica opportunista. Occorrono altri esempi? Si potrebbe citare questa lettera del 10 febbraio 1945 indirizzata dal «Comitato d'agitazione» del PCInt «ai comitati d'agitazione dei partiti a direzione proletaria e dei movimenti sindacali d'azienda per dare alla lotta rivoluzionaria del proletariato una unità di direttive e d'organizzazione… A questo fine, viene proposto un raggruppamento di questi diversi comitati per mettere a punto un piano unitario.» (Prometeo, aprile 1945) (10). I «partiti a direzione proletaria» di cui si tratta sono soprattutto il partito socialista e il partito stalinista. Per quanto sorprendente questo possa apparire oggi, è la stretta verità. Quando abbiamo ricordato questi fatti nella Revue Internationale n° 32, il PCInt ci rispose: «Il documento "Appello del Comitato di agitazione del PCInt" contenuto nel numero di aprile '45 fu un errore? D'accordo. Questo fu l'ultimo tentativo della Sinistra italiana d'applicare la tattica del "fronte unico alla base" raccomandata vivamente dal PC d'Italia nella sua polemica con l'IC negli anni 21-23. In quanto tale, noi lo cataloghiamo tra i "peccati veniali" perché i nostri compagni hanno saputo eliminarlo tanto sul piano politico che teorico, con una chiarezza che oggi ci rende sicuri di fronte a chiunque.» (Battaglia Comunista n°3, febbraio 1983) A cui noi replicammo: «Non si può che restare ammirati davanti la delicatezza e l'abilità con la quale BC tratta il suo amor proprio. Se una proposta di fronte unico con i macellai staliniani e socialdemocratici non è che un semplice 'peccato veniale', che cosa avrebbe dovuto fare il PCInt affinché si potesse parlare d'errore… Entrare nel governo?» (Revue Internationale n°34) (11) In ogni caso è chiaro che nel 1944, la politica del PCInt rappresentava bene un passo indietro in rapporto a quella della «vecchia frazione». E che passo! La Frazione aveva da molto tempo fatto una critica profonda della tattica del fronte unico e non si sarebbe azzardata, a partire dal 1935, a qualificare il partito stalinista di «partito a direzione proletaria»; senza parlare della socialdemocrazia la cui natura borghese era riconosciuta dagli anni '20.
Questa politica opportunista del PCInt la ritroviamo «nell'apertura» e la mancanza di rigore di cui fa prova alla fine della guerra allo scopo di allargarsi. Le ambiguità del PCInt formato nel Nord del paese non sono ancora che poca cosa di fronte a quelle dei gruppi del Sud che vengono ammessi nel Partito alla fine della guerra, come la «Frazione di sinistra dei comunisti e socialisti» costituita a Napoli, attorno a Bordiga e Pistone che, fino all'inizio del 1945 pratica l'entrismo nel PCI stalinista nella speranza di raddrizzarlo e che è particolarmente vago sulla questione dell'URSS. Il PCInt apre ugualmente le sue porte a degli elementi del POC (Partito Operaio Comunista) che aveva costituito per un certo tempo la sezione italiana della 4a internazionale trotzkista.
E' anche necessario ricordare che Vercesi, che durante la guerra riteneva che non ci fosse niente da fare e che, alla fine di questa, aveva partecipato alla «Coalizione Antifascista» di Bruxelles (12), s'integrò anch’egli nel nuovo partito senza che questo gli chiedesse di condannare la sua deriva antifascista. Su questo episodio, O. Damen, per il PCInt, aveva scritto alla CCI nell'autunno 1976: «Il Comitato antifascista di Bruxelles nella persona di Vercesi, che nel momento della costituzione del PCInt pensa di dovervi aderire, mantiene le sue posizioni bastarde fino al momento in cui il partito, rendendo il necessario tributo alla chiarezza, si separa dai rami morti del bordighismo». A cui noi rispondevamo: «Che parole galanti per dire queste cose! Lui, Vercesi, pensa di dover aderire?! E il Partito, che cosa ne pensa? Oppure il Partito è una società di bridge dove chiunque può aderirvi?» (Revue Internationale n° 8). Occorre notare che in questa lettera O. Damen aveva la franchezza di riconoscere che nel 1945 il partito non aveva ancora «reso il tributo necessario alla chiarezza» poiché fu più tardi, (nel 1952) che lo fece. Si può prendere atto di questa affermazione che contraddice tutte le favole sulla pretesa «grande chiarezza» che ci sarebbe stata alla fondazione del PCInt e che avrebbe rappresentato, secondo il BIPR, «un passo avanti» rispetto a quella della Frazione (13).
Il PCInt non è stato più scrupoloso nei confronti dei membri della minoranza della Frazione che, nel 1936, si erano arruolati nelle milizie antifasciste in Spagna e che avevano raggiunto l'Union Communiste (14). Questi elementi poterono integrarsi nel Partito senza fare la minima critica dei loro errori passati. Su questa questione, O. Damen ci scriveva nella stessa lettera: «Per quanto riguarda i compagni che, durante il periodo della guerra di Spagna, decisero di abbandonare la Frazione della Sinistra italiana per lanciarsi in una avventura al di fuori di ogni posizione di classe, ricordiamo che gli avvenimenti di Spagna, che non facevano che confermare le posizioni della Sinistra, servirono loro da lezione per farli rientrare di nuovo nel solco della sinistra rivoluzionaria.» (Ibid.). A cui noi rispondevamo: «Non si è mai posto il problema del ritorno di questi militanti alla Sinistra Comunista, fino al momento della dissoluzione della Frazione e l'integrazione dei suoi militanti nel PCInt (alla fine del '45). Nei confronti di questi compagni non è mai stato posto un problema di "lezione", né di rigetto di posizioni, né di condanna della loro partecipazione alla guerra antifascista di Spagna.» Se il BIPR stima che si tratti di una nuova «calunnia» della CCI, ci indichi i documenti che la provano. E proseguivamo: «E' semplicemente l'euforia e la confusione della costituzione del Partito "con Bordiga" che hanno spinto questi compagni … a raggiungerlo.. Il Partito in Italia non ha chiesto loro di rendere conto del passato, non per ignoranza... ma perché non era il momento delle "vecchie querelle"; la ricostituzione del Partito cancellava tutto. Questo partito che non si preoccupava tanto dei maneggi dei partigiani presenti tra i suoi militanti non poteva mostrarsi rigoroso verso questa minoranza per la sua attività verso un passato già lontano e gli apriva "naturalmente" le sue porte..».
Infatti, la sola organizzazione che il PCInt non vede di buon occhio e con la quale non vuole aver rapporti è la GCF, giustamente perché questa continua ad appoggiarsi sullo stesso rigore e la stessa intransigenza che avevano caratterizzato la Frazione negli anni '30. Ed è vero che la Frazione di questo periodo non avrebbe potuto che condannare la politica da rigattieri sulla quale si costituì il PCInt, una politica del tutto simile a quella praticata allora dal trotzkismo e contro la quale la Frazione non trovava mai parole abbastanza dure.
Negli anni '20, la Sinistra comunista si era opposta all'orientazione opportunista assunta dall'Internazionale Comunista a partire dal suo terzo congresso e consistente soprattutto nel voler «andare alle masse» in un momento in cui l'ondata rivoluzionaria rifluiva, facendo entrare nei suoi ranghi le correnti centriste provenienti dai partiti socialisti (gli Indipendenti in Germania, i «Terzini» in Italia, Cachin-Frossard in Francia, ecc.) e lanciando la politica del «Fronte unico» con i PS. Al metodo del «raggruppamento largo» utilizzato dall'IC per costituire i partiti comunisti, Bordiga e la Sinistra opponevano il metodo della «selezione» basato sul rigore e l'intransigenza nella difesa dei principi. Questa politica dell'IC aveva avuto delle conseguenze tragiche con l'isolamento, e perfino l'esclusione, della Sinistra e l'invasione del partito da parte di elementi opportunisti che avrebbero costituito i migliori vettori della degenerazione dell'IC e dei suoi partiti.
All'inizio degli anni 30, la Sinistra italiana, fedele alla sua politica degli anni '20, aveva lottato all’interno dell'Opposizione di Sinistra internazionale per imporre questo stesso rigore di fronte alla politica opportunista di Trotsky per il quale l'accettazione dei primi quattro congressi dell'IC - e soprattutto della sua politica manovriera - erano dei criteri ben più importanti di raggruppamento che le lotte portate avanti nell'IC contro la sua degenerazione. Con questa politica di Trotsky, gli elementi più sani che tentavano di costruire una corrente internazionale della Sinistra comunista o venivano corrotti, o scoraggiati o ancora condannati all'isolamento. Costruita su fondamenta così fragili, la corrente trotzkista conobbe crisi su crisi prima di passare armi e bagagli nel campo borghese nel corso della seconda guerra mondiale. Al contrario la politica intransigente della Frazione le era costata l’esclusione dall'Opposizione internazionale nel 1933 allorché Trotsky colse il pretesto di una fantomatica «Nuova Opposizione Italiana» costituita da elementi che, alla testa del PCI ancora nel 1930, avevano votato a favore dell’esclusione di Bordiga da questo partito.
Nel 1945, preoccupato di radunare il massimo di effettivi, il PCInt - che si richiama alla Sinistra - riprende non la politica di quest'ultima di fronte all'IC e al trotzkismo ma la politica che la Sinistra aveva giustamente combattuto: adesione «larga» basata sulle ambiguità programmatiche, raggruppamento - senza chiedere spiegazioni- di militanti e di «personalità» (15) che avevano combattuto le posizioni della Frazione durante la guerra di Spagna o nel corso della guerra mondiale, politica opportunista che favoriva le illusioni degli operai sui partigiani e sui partiti passati al nemico, ecc. E perché il parallelo sia il più completo possibile c’è l’esclusione dalla Sinistra comunista internazionale della GCF, la corrente che rivendicava maggiormente la propria fedeltà alla lotta della Frazione, mentre si riconosceva come solo gruppo rappresentante la Sinistra comunista in Francia la FFGC-bis. Occorre ricordare che quest’ultima era costituita da tre giovani elementi che si erano scissi dalla GCF nel maggio 45, da membri dell'ex minoranza della Frazione esclusa durante la guerra di Spagna e da membri dell'ex Union Communiste che si era lasciata andare all'antifascismo nello stesso periodo (16)? Non c'è una certa similitudine con la politica di Trotsky verso la Frazione e la Nuova Opposizione Italiana?
Marx ha scritto che «se la storia si ripete, la prima volta è come tragedia e la seconda volta come farsa». C'è un po' di ciò nell'episodio poco glorioso della formazione del PCInt. Sfortunatamente, gli avvenimenti che seguirono mostrarono che la ripetizione da parte del PCInt nel 1945 della politica contro cui aveva combattuto la Sinistra negli anni '20 e '30 ha avuto conseguenze molto drammatiche.
Le conseguenze dell'approccio opportunista del PCInt
Quando si legge il processo verbale della conferenza del PCInt di fine '45-inizio '46, si è colpiti dall'eterogeneità che vi regna.
Sull'analisi del periodo storico, che costituisce una questione essenziale, i principali dirigenti si oppongono. Damen continua a difendere la «posizione ufficiale»: «Si sta per aprire il nuovo corso della storia della lotta del proletariato. Tocca al nostro partito il compito di indirizzare questa lotta in modo tale che, alla prossima e inevitabile crisi, la guerra e i suoi artefici siano distrutti in tempo e definitivamente dalla rivoluzione proletaria.» («Rapporto sulla situazione generale e le prospettive», pag. 12).
Ma alcune voci constatano, senza dirlo apertamente, che le condizioni non sono propizie alla formazione del partito:
«… quello che domina oggi è l'ideologia guerrafondaia del CNL e del movimento partigiano, ed è per ciò stesso che non esistono le condizioni per l'affermazione vittoriosa della classe proletaria. Ne consegue che non si può altrimenti qualificare il momento attuale che come un momento reazionario.» (Vercesi, «Il partito e i problemi internazionali», pag. 14)
«Concludendo questo bilancio politico, è necessario chiedersi se si debba continuare in una politica di allargamento della nostra influenza, o se la situazione ci imponga anzitutto (in una atmosfera ancora avvelenata) di salvaguardare le basi fondamentali della nostra differenziazione politica e ideologica, di rafforzare ideologicamente i quadri, di immunizzarli dai bacilli patogeni che si respirano nell'ambiente attuale e di prepararli così alle nuove posizioni politiche che si presenteranno domani. E' in questa direzione, a mio avviso, che l'attività del Partito deve essere orientata in tutti i campi.» (Maffi, «Relazione politico-organizzativa per l'Italia settentrionale», pag. 7).
In altri termini, Maffi raccomanda vivamente lo sviluppo d'un lavoro classico di frazione.
Sulla questione parlamentare, si constata la stessa eterogeneità:
«Perciò noi utilizzeremo, in regime democratico, tutte le concessioni che ci verranno fatte, sempre che questa utilizzazione non leda gli interessi della lotta rivoluzionaria. Noi restiamo irriducibilmente antiparlamentari; ma il senso del concreto che anima la nostra politica ci farà rifuggire da ogni posizione astensionista a priori.» (O. Damen, ibidem pag. 12).
«Maffi, riprendendo le conclusioni a cui è giunto il Partito, si chiede se il problema dell'astensionismo elettorale debba essere posto nella sua vecchia forma (partecipare o no alle elezioni a seconda che la situazione evolva o meno verso lo sbocco rivoluzionario) o se invece, in un ambiente corrotto dalle illusioni elettorali, non convenga assumere una posizione nettamente anti-elettorale, anche a prezzo dell’isolamento. Non abbarbicarsi alle concessioni che ci fa la borghesia (concessioni che non sono un atto di debolezza, ma di forza da parte sua), ma al processo reale della lotta di classe ed alla nostra tradizione di sinistra». (ibid. pag. 12)
Occorre ricordare qui che la Sinistra di Bordiga nel partito socialista italiano si era fatta conoscere nel corso della prima guerra mondiale come «Frazione astensionista»?
Ancora, Luciano Stefanini, relatore sulla questione sindacale, afferma contro la posizione che sarà poi adottata:
«La linea politica del partito, nei confronti del problema sindacale, non è ancora sufficientemente chiara. Da una parte si riconosce la dipendenza dei sindacati dallo stato capitalista; dall'altra s'invitano gli operai a lottare al loro interno e a conquistarli dall'interno per riportarli su una posizione di classe. Ma questa possibilità è esclusa dalla evoluzione del capitalismo che abbiamo menzionato prima… il sindacato attuale non potrà cambiare la sua fisionomia di organo dello Stato... La parola d'ordine di nuove organizzazioni di massa non è attuale, ma il Partito ha il dovere di prevedere quale sarà il corso degli avvenimenti e di indicare fin da oggi ai lavoratori quali saranno gli organismi che, scaturendo dall'evoluzione delle situazioni, si imporranno come la guida unitaria del proletariato sotto la direzione del Partito. La pretesa di conquistare delle posizioni di comando negli attuali organismi sindacali allo scopo di trasformarli deve essere definitivamente liquidata.» (pagg 18-19)
All’indomani di questa conferenza, la GCF poteva scrivere:
«Il nuovo partito non è una unità politica ma un conglomerato, una somma di correnti e di tendenze che non mancheranno di manifestarsi e di scontrarsi. L'armistizio attuale non può essere che del tutto provvisorio. L'eliminazione dell'una o dell'altra corrente è inevitabile. Presto o tardi la definizione politica e organizzativa s'imporrà.» (Internationalisme n° 7, febbraio '46).
Dopo un periodo di intenso reclutamento questa delimitazione comincia a prodursi. Dalla fine del 1946, lo smarrimento che provoca nel PCInt la sua partecipazione alle elezioni (molti militanti hanno in testa la tradizione astensionista della Sinistra) conduce la direzione del Partito a fare nella stampa una messa a punto intitolata «La nostra forza» e che chiama alla disciplina. Dopo l'euforia della conferenza di Torino, molti militanti scoraggiati lasciano il Partito in punta di piedi. Un certo numero di elementi rompe per partecipare alla formazione del POI trotzkista, il che prova che essi non avevano il loro posto in una organizzazione della Sinistra comunista. Molti militanti sono esclusi senza che le divergenze appaiano chiaramente, almeno nella stampa pubblica del Partito. Una delle principali federazioni si scinde per costituire la «Federazione autonoma di Torino». Nel 1948, durante il Congresso di Firenze, il Partito ha già perduto la metà dei suoi membri e la sua stampa la metà dei suoi lettori. Quanto «all'armistizio» del 1946, questo si è trasformato in «pace armata» che i dirigenti cercano di non turbare evitando le principali divergenze. E' così che Maffi afferma che si è «astenuto nel trattare tale problema» perché «sapevo che questa discussione avrebbe potuto avvelenare il Partito». Ciò non impedisce, tuttavia, al Congresso di mettere radicalmente in causa la posizione sui sindacati adottata due anni e mezzo prima (la posizione del 1945, che si supponeva rappresentasse la massima chiarezza!). Questa pace armata sfocia infine sullo scontro (soprattutto dopo l'entrata di Bordiga nel Partito nel 1949) che condurrà alla scissione del 1952 tra la tendenza animata da Damen e quella animata da Bordiga e Maffi che darà origine alla corrente «Programma Comunista».
Quanto alle «organizzazioni sorelle» sulle quali il PCInt contava per costituire un Bureau internazionale della Sinistra comunista, la loro sorte è ancora meno invidiabile: la Frazione belga cessa la pubblicazione de L'Internationaliste nel 1949 e scompare poco dopo; la Frazione francese-bis conosce nello stesso periodo un’eclisse di due anni, con l’uscita della maggior parte dei suoi membri, prima di riapparire come Gruppo francese della Sinistra comunista internazionale che si riunirà alla corrente «bordighista» (17)
La «migliore riuscita dopo la rivoluzione russa» è stata dunque di corta durata. E quando il BIPR, per appoggiare la sua argomentazione su questa «riuscita», ci dice che il PCInt «malgrado un mezzo secolo di dominazione capitalista in seguito, continua ad esistere e crescere», dimentica di precisare che il PCInt attuale, in termini di effettivi e audience nella classe operaia , non ha niente a che vedere con ciò che era alla fine dell'ultima guerra. Senza insistere sui paragoni, si può considerare che l'importanza attuale di questa organizzazione è sensibilmente la stessa dell'erede diretta della «minuscola GCF», la sezione in Francia della CCI. E vogliamo ben credere che il PCInt «s'accresce oggi». Anche la CCI ha constatato nel corso dell'ultimo periodo un maggiore interesse per le posizioni della Sinistra comunista che si è tradotto in un certo numero di adesioni. Ciò detto, non crediamo che la crescita attuale delle forze del PCInt gli permetterà di ritrovare così presto i suoi effettivi del 1945-46.
Così questa grande «riuscita» è finita in modo assai poco glorioso in una organizzazione che, continuando a denominarsi «partito», è costretta a giocare il ruolo d'una frazione. Ciò che è più grave, è che il BIPR oggi non tira gli insegnamenti di questa esperienza e soprattutto non rimette in causa il metodo opportunista che era una delle ragioni dei «gloriosi successi» del 1945 e che prefiguravano gli «insuccessi» che sarebbero seguiti (18).
Questo atteggiamento non critico verso gli ondeggiamenti opportunisti del PCInt alle sue origini, ci fa temere che il BIPR, quando il movimento di classe sarà più sviluppato di oggi, sia tentato di ricorrere agli stessi espedienti opportunisti che abbiamo segnalato. Fin da ora, il fatto che il BIPR ritenga come principale «criterio di riuscita» di una organizzazione proletaria il numero dei membri e l'impatto che ha potuto avere in un certo momento, lasciando da parte il suo rigore programmatico e la sua capacità di gettare le basi per un lavoro a lungo termine, mette in evidenza l'approccio immediatista che gli è proprio sulla questione dell’organizzazione. E noi sappiamo che l'immediatismo costituisce l'anticamera dell'opportunismo. Si possono segnalare altre conseguenze incresciose, più immediate ancora, dell'incapacità del PCInt di fare la critica delle sue origini.
In primo luogo, il fatto che il PCInt dopo il 1945-46 (quando è evidente che la controrivoluzione continua ad imporre la sua cappa di piombo) ha mantenuto la tesi della validità della fondazione del partito, l'ha condotto poi a rivedere radicalmente tutta la concezione della Frazione italiana sui rapporti tra Partito e Frazione. Per il PCInt, ormai, la formazione del Partito può avvenire in qualsiasi momento, indipendentemente dal rapporto di forza tra proletariato e borghesia (19). Questa è la posizione dei trotzkisti, non della Sinistra italiana che, al contrario, ha sempre considerato che il Partito può formarsi solo al momento di una ripresa storica degli scontri di classe. Ma nello stesso tempo, questa rimessa in causa si accompagna alla rimessa in causa dell’esistenza di corsi storici determinati e antagonisti: corso verso scontri di classe decisivi o corso verso la guerra mondiale. Per il BIPR questi due corsi possono essere paralleli, non escludersi a vicenda e ciò l'ha condotto ad una incapacità notoria ad analizzare il periodo storico presente, come abbiamo visto nel nostro articolo «La CWO e il corso storico, un accumulo di contraddizioni» apparso nella Revue Internationale n° 89. Per questo abbiamo scritto nella prima parte di questo articolo (in questo stesso numero ): « a guardare da vicino, l'incapacità attuale del BIPR a fornire un’analisi sul corso storico trova una buona parte delle sue origini negli errori politici che riguardano la questione organizzativa, e in particolare sulla questione dei rapporti tra frazione e partito.»
Alla domanda del perché gli eredi della «minuscola GCF» sono riusciti là dove quelli del glorioso partito del 1943-45 hanno fallito, cioè costituire una vera organizzazione internazionale, noi proponiamo alla riflessione del BIPR la seguente risposta: perché la GCF, e la CCI successivamente, sono rimaste fedeli al percorso che aveva permesso alla frazione di costituire nel momento del crollo dell'IC la principale corrente, e la più feconda, della Sinistra comunista:
Il successo più grande dopo la morte dell'IC (e non dopo la rivoluzione russa) non è stato ottenuto dal PCInt, ma dalla Frazione. Non in termini numerici ma in termini di capacità a preparare, al di là della propria scomparsa, le basi sulle quali potrà domani costituirsi il Partito mondiale.
In linea di principio il PCInt (e di conseguenza il BIPR) si presenta come erede politico della frazione italiana. Abbiamo messo in evidenza in questo articolo come, durante la sua costituzione, questa organizzazione si fosse allontanata dalla tradizione e dalle posizioni della Frazione. Dopo, il PCInt ha chiarificato una serie di questioni programmatiche, ciò che noi consideriamo estremamente positivo. Tuttavia ci sembra che il PCInt non potrà apportare il suo pieno contributo alla costituzione del futuro partito mondiale se non mette in accordo le sue dichiarazioni e i suoi atti, cioè se non si riappropria veramente della tradizione e del percorso politico della Frazione italiana. E ciò presuppone in primo luogo che esso sia capace di fare una seria critica dell'esperienza della costituzione del PCInt nel 1943-45 al posto di farne il panegirico e di prenderla come esempio.
Fabienne
1. Noi supponiamo che l'autore dell'articolo, trasportato dal suo entusiasmo, sia stato vittima d'un errore di penna e che volesse dire «dalla fine dell'ondata rivoluzionaria del primo dopoguerra e dell'Internazionale Comunista». Invece, se ciò che è scritto corrisponde al suo pensiero, ci si può porre delle domande sulla sua conoscenza della storia e sul suo senso di realtà: non ha mai sentito parlare, tra l'altro, del Partito Comunista d'Italia che, all'inizio degli anni '20, aveva un impatto ben più importante di quello del PCInt nel 1945 trovandosi tra l’altro all'avanguardia dell'insieme dell'Internazionale su tutta una serie di questioni politiche? In ogni caso, per il seguito del nostro articolo, preferiamo basarci sulla prima ipotesi: fare polemica contro le assurdità non è di alcun interesse.
2. Facciamo notare che nel corso di questo periodo, la CCI si è estesa con tre nuove sezioni territoriali: in Svizzera e in due paesi della periferia del capitalismo, il Messico e l'India, che sono oggetto di un particolare interesse da parte del BIPR (vedi in particolare l'adozione da parte del 6° congresso del PCInt, nell'aprile '97, delle «Tesi sulla tattica comunista nei paesi della periferia capitalista»).
3. Ecco come era formulata la politica del PCInt verso i sindacati: «Il contenuto sostanziale del punto 12 della piattaforma del partito può essere concretizzato nei seguenti punti:
1) Il partito aspira alla ricostruzione della CGL attraverso il metodo della lotta diretta del proletariato contro il padronato nei movimenti parziali e generali di classe
2) La lotta del partito non può mirare direttamente alla scissione delle masse organizzate nel sindacato.
3) Il processo di ricostruzione del sindacato di classe, se non può che realizzarsi attraverso la conquista degli organi dirigenti del sindacato, scaturisce da un programma di inquadramento delle lotte di classe sotto la guida del partito.»
4. Il PCInt di oggi è proprio imbarazzato da questa piattaforma del 1945. Infatti quando ha ripubblicata, nel 1974, questo documento assieme allo «Schema di Programma» redatto nel 1944 dal gruppo di Damen, si è preso la cura di farne una critica a regola d’arte opponendolo allo «Schema di programma» per il quale non ha parole d'elogio. Nella presentazione si può leggere: «Nel 1945, il Comitato Centrale riceve un progetto di Piattaforma politica del compagno Bordiga che, lo sottolineiamo, non era iscritto al partito. Il documento la cui accettazione fu richiesta in termini di ultimatum, è riconosciuto come incompatibile con le ferme prese di posizione adottate ormai dal Partito sui problemi più importanti e, malgrado le modifiche apportate, il documento è stato sempre considerato come un contributo al dibattito e non come una piattaforma di fatto (..) Il CC non poteva, come lo si è visto, accettare il documento che come un contributo del tutto personale per il dibattito del congresso futuro che, riportato nel 1948, metterà in evidenza posizioni molto differenti.» Sarebbe stato necessario precisare DA PARTE DI CHI questo documento fosse considerato «un contributo al dibattito». Probabilmente dal compagno Damen e qualche altro militante. Ma essi hanno conservato per sé le loro impressioni poiché la conferenza del 1945-46 cioè la rappresentazione dell'insieme del Partito, ha preso tutt'altra posizione. Questo documento è stato adottato all'unanimità come piattaforma del PCInt, servendo come base di adesione e di costituzione di un Bureau Internazionale della Sinistra comunista. Invece, è lo «Schema di Programma» che è stato rinviato alla discussione per il congresso successivo. E se i compagni del BIPR pensano ancora una volta che noi «mentiamo» e «calunniamo» che si rapportino allora al processo verbale della Conferenza di Torino della fine del 1945. Se c'è menzogna questa è nel modo in cui il PCInt presentò nel 1974 la sua «versione» delle cose. Nei fatti, il PCInt è talmente poco fiero di certi aspetti della sua storia che prova il bisogno di abbellirla un po'. Ciò detto, ci si può domandare perché il PCInt ha accettato di sottomettersi a un «ultimatum» di chicchessia, e particolarmente di qualcuno che non era neanche membro del Partito.
5. Come si è visto nella prima parte di questo articolo, la Frazione italiana aveva considerato, nella sua conferenza dell'agosto '43, che «con il nuovo corso che si è aperto con gli avvenimenti di agosto in Italia, si è aperto il corso della trasformazione della Frazione in partito». La GCF, all’atto della sua fondazione nel 1944, aveva ripreso la stessa analisi.
6. Noi abbiamo a più riprese messo in evidenza nella nostra stampa in che cosa consisteva questa politica sistematica della borghesia, cioè come questa classe, avendo tirato le lezioni della prima guerra mondiale, aveva imparato a ripartire il lavoro, lasciando ai paesi vinti la responsabilità di fare il «lavoro sporco» (repressione antioperaia nel Nord dell'Italia, annientamento dell'insurrezione di Varsavia, ecc.) mentre i vincitori bombardavano sistematicamente le concentrazioni operaie in Germania, incaricandosi in seguito di fare da polizia nei paesi vinti occupando tutto il territorio e trattenendo per più anni i prigionieri di guerra.
7. La GCF e la CCI hanno spesso criticato le posizioni programmatiche difese da Damen così come il suo percorso politico. Ciò non cambia nulla alla stima che si può avere per la profondità delle sue convinzioni comuniste, la sua energia militante e il suo grande coraggio.
8. «Operai! Alla parola d'ordine della guerra nazionale, che arma i proletari italiani contro i proletari tedeschi e inglesi, opponete la parola d'ordine della rivoluzione comunista, che unisce al di là delle frontiere gli operai del mondo intero contro il loro nemico comune: il capitalismo.» (Prometeo, n°1, 1°novembre 1943) «All'appello del centrismo [è così che la Sinistra italiana qualificava lo stalinismo] di raggiungere le bande partigiane , si deve rispondere con la presenza nelle officine da dove uscirà la violenza di classe che distruggerà i centri vitali dello Stato capitalista» (Prometeo del 4 marzo 1944).
9. Per maggiori elementi sulla questione dell'atteggiamento del PCInt verso i partigiani vedere «Le ambiguità sui "partigiani" nella costituzione del Partito Comunista Internazionalista in Italia» su Rivoluzione Internazionale n° 8.
10. Nella Revue Internationale n° 32 abbiamo pubblicato il testo completo di questo appello con i nostri commenti.
11. Occorre precisare che nella lettera inviata dal PCInt al PS in risposta a quella di quest'ultimo in seguito all'appello, il PCInt s'indirizzava alle canaglie socialdemocratiche chiamandole «cari compagni». Questo non era il modo migliore per smascherare, agli occhi degli operai, i crimini commessi contro il proletariato da questi partiti a partire dalla prima guerra mondiale e durante l’ondata rivoluzionaria che la seguì. Era al contrario un mezzo eccellente per incoraggiare le illusioni degli operai che li seguivano ancora.
12. Vedere a questo proposito la prima parte di questo articolo.
13. Su questo argomento vale la pena di fare altre citazioni del PCInt: «Le posizioni espresse dal compagno Perrone (Vercesi) alla Conferenza di Torino (1946) (…) erano delle libere manifestazioni di una esperienza del tutto personale e con una prospettiva politica fantasiosa alla quale non è lecito riferirsi per formulare critiche alla formazione del PCInt» (Prometeo n° 18, 1972). La preoccupazione è che queste posizioni erano espresse nel rapporto su «Il Partito e i problemi internazionali» presentato alla Conferenza dal Comitato centrale, di cui Vercesi faceva parte. Il giudizio dei militanti del 1972 è veramente molto severo nei riguardi del loro Partito del 1945-46, un Partito il cui Organo centrale presenta un rapporto in cui si può dire qualunque cosa. Noi supponiamo che dopo questo articolo del 1972 il suo autore sia stato seriamente rimproverato per aver così «calunniato» il PCInt del 1945 anziché riprendere la conclusione che O. Damen aveva apportato alla discussione su questo rapporto: «Non vi sono divergenze ma sensibilità particolari che permettono una chiarificazione organica dei problemi» (Processo verbale, pag. 16). E' vero che lo stesso Damen ha scoperto più tardi che le «sensibilità particolari» erano di fatto delle «posizioni bastarde» e che la «chiarificazione organica» consisteva nel «separarsi dai rami morti». In ogni caso, viva la chiarezza del 1945!
14. Sulla minoranza del 1936 nella Frazione, vedere la prima parte di questo articolo.
15. E' chiaro che se il PCInt del 1945 accetta l'integrazione di Vercesi senza chiedergli spiegazioni e si fa «forzare la mano» da Bordiga sulla questione della piattaforma è perché conta sul prestigio di questi due dirigenti «storici» per attrarre a sé un gran numero di operai e militanti. L'ostilità di Bordiga avrebbe privato il PCInt dei gruppi ed elementi del Sud dell'Italia; quella di Vercesi l'avrebbe tagliato dalla Frazione belga e dalla FFGC-bis.
16. Su questo episodio, vedere la prima parte del nostro articolo.
17. Si può dunque costatare che la «minuscola GCF», che era stata trattata con disprezzo e tenuta con cura in disparte dagli altri gruppi, è sopravvissuta malgrado tutto più a lungo della Frazione belga e della FFGC-bis. Fino alla sua scomparsa nel 1952, pubblicherà 46 numeri di Internationalisme che costituiscono un patrimonio inestimabile sul quale è stata costruita la CCI.
18. E' vero che il metodo opportunista non è l'unico a spiegare l'impatto che ha potuto avere il PCInt nel 1945. Infatti l'impatto è determinato da due cause fondamentali:
Al contrario, una delle cause della debolezza numerica della GCF è proprio il fatto che non c'era in Francia la tradizione della Sinistra comunista nella classe operaia e che quest’ultima era stata incapace di risorgere nel corso della guerra mondiale. C'è anche il fatto che la GCF ha evitato ogni atteggiamento opportunista nei confronti delle illusioni degli operai verso la «Liberazione» e i «partigiani». Facendo ciò essa ha seguito l'esempio della Frazione nel 1936 di fronte alla guerra di Spagna, cosa che ha condotto la Frazione all'isolamento come essa constatava in Bilan n° 36.
19. Su questa questione, vedere in particolare i nostri articoli «Il rapporto Frazione-Partito nella tradizione marxista», Rivista Internazionale nn. 14 e 15.
1. Lungo tutta la sua storia, il movimento operaio ha dovuto fare fronte alla penetrazione nei suoi ranghi di ideologie provenienti sia dalla classe dominante che dalla piccola borghesia. Questa penetrazione si è manifestata all'interno delle organizzazioni operaie sotto svariate forme. Fra le più frequenti si possono citare in particolare:
2. Il settarismo è una manifestazione tipica di una visione piccolo borghese dell'organizzazione. E' collegabile allo stato d'animo del piccolo bottegaio, de "l'artigiano padrone a casa sua" e si esprime nella tendenza a fare predominare gli interessi e le concezioni proprie dell'organizzazione sugli interessi del movimento nel suo insieme. Nella visione settaria, l'organizzazione è "sola al mondo" e manifesta un disprezzo sovrano per tutte le altre organizzazioni appartenenti al campo del proletariato, viste come "concorrenti", per non dire "nemiche". Preferisce rifugiarsi in uno "splendido isolamento", facendo finta che le altre non esistano, oppure si ostina a sottolineare quello che la divide dalle altre, senza tener conto di quanto la unisce alle altre.
3. L'individualismo può provenire tanto dalle influenze piccolo borghesi che direttamente borghesi. Dalla classe dominante, riprende l'ideologia ufficiale che fa degli individui i soggetti della storia, che valorizza il "self-made man", che giustifica la "lotta di tutti contro tutti". Tuttavia, è soprattutto attraverso il tramite fisico della piccola borghesia che l'individualismo penetra nelle organizzazioni operaie, in particolare tramite elementi provenienti da strati recentemente proletarizzati, come l'artigianato ed i contadini ( ed era il caso più frequente nel secolo scorso ) o come l'ambiente intellettuale e studentesco (ed è il caso più frequente dopo la ripresa storica della classe operaia alla fine degli anni '60 ). L'individualismo si manifesta principalmente attraverso la tendenza a:
4. L'opportunismo, che ha storicamente costituito il pericolo più grave per le organizzazioni proletarie, è un'altra espressione di penetrazione di ideologie estranee e soprattutto piccolo borghesi. In particolare, una delle sue radici è l'impazienza, che esprime la visione di uno strato condannato all'impotenza sociale e che non ha alcun avvenire nella storia. L'altra sua radice è la tendenza a voler conciliare gli interessi e le posizioni delle due principali classi della società, il proletariato e la borghesia, fra cui la piccola borghesia è schiacciata. Da questo punto di vista, l'opportunismo si distingue per il fatto che tende a sacrificare gli interessi generali e storici del proletariato a favore di illusori "successi" particolaristici ed immediati. Ma dato che per la classe operaia non esiste contrapposizione fra la sua lotta quotidiana all'interno del capitalismo e la sua lotta storica per la sua abolizione, la politica dell'opportunismo alla fine sacrifica gli stessi interessi immediati del proletariato, spingendolo a scendere a compromessi continui con gli interessi e le posizioni della borghesia. Come conclusione ultima, nei momenti cruciali della storia, come la guerra imperialista e la rivoluzione proletaria, le correnti opportuniste sono spinte a raggiungere direttamente il campo borghese, come avvenne per la maggioranza dei partiti socialisti durante la prima guerra mondiale e per i partiti comunisti all'avvicinarsi della seconda.
5. Il putschismo (altrimenti detto avventurismo) (1), si presenta come il contrario dell'opportunismo. Sotto la facciata della "intransigenza" e del "radicalismo" si dichiara pronto in permanenza a lanciarsi all'assalto della borghesia per la lotta "finale", mentre le condizioni di una simile lotta per il proletariato non esistono ancora. Nel caso, non manca di qualificare di opportunista, di conciliatrice, se non direttamente di "traditrice" la corrente autenticamente proletaria e marxista che si preoccupa di evitare che la classe si lanci in una battaglia perduta in anticipo. In realtà, provenendo dalla stessa fonte dell'opportunismo, l'impazienza piccolo borghese, non è infrequente che l'avventurismo si trovi a convergere con quest'ultimo. La storia del movimento operaio non manca di esempi di correnti opportuniste che hanno sostenuto correnti putschiste o si sono convertite al radicalismo putschista. E' così che agli inizi del secolo, la destra della socialdemocrazia tedesca apportava, contro l'opposizione di sinistra rappresentata in particolare da Rosa Luxemburg, il suo sostegno ai socialisti-rivoluzionari russi, adepti del terrorismo. Analogamente, nel Gennaio 1919, mentre la stessa Rosa Luxemburg si pronuncia contro l'insurrezione degli operai berlinesi, innescata dalla provocazione del governo socialdemocratico, gli Indipendenti, che sono appena usciti da quel governo, si precipitano a testa bassa nell'insurrezione, che porta al massacro di migliaia di operai, oltre che dei principali dirigenti comunisti.
6. La lotta contro la penetrazione dell'ideologia borghese e piccolo borghese, in tutte le sue manifestazioni, nell'organizzazione di classe, è un dovere permanente dei rivoluzionari. In effetti, si tratta della principale lotta che la corrente autenticamente proletaria e rivoluzionaria ha dovuto condurre all'interno delle organizzazioni della classe, proprio perché era ben più difficile della lotta diretta contro le forze ufficiali e dichiarate della borghesia. La lotta contro le sette ed il settarismo è stato una delle prime che Marx ed Engels hanno dovuto affrontare, in particolare all'interno dell'AIT. Analogamente, la lotta contro l'individualismo, in particolare nella sua forma anarchica, è stato affrontato sia da questi ultimi che dai marxisti della 2° Internazionale (in particolare Lenin e Rosa Luxemburg ). La lotta contro l'opportunismo è certamente la più costante e la più sistematica svolta dalla corrente rivoluzionaria dalla sua nascita:
La lotta contro l'avventurismo-putschismo, infine, non è stato all'ordine del giorno con la stessa regolarità della precedente. Ciononostante, è stata presente fin dai primi passi del movimento operaio ( contro la tendenza immediatista Willich-Schapper nella Lega dei Comunisti, contro le avventure bakuniniste durante la "Comune" di Lione nel 1870 e la guerra civile in Spagna nel 1873 ). Ancora, prende una particolare importanza nel corso dell'ondata rivoluzionaria del 1917-23; è proprio grazie alla capacità dei bolscevichi di portare avanti questa lotta nel Luglio 17 che la rivoluzione di Ottobre ha potuto avere luogo.
7. Gli esempi precedenti mettono in evidenza che l'impatto delle diverse manifestazioni della penetrazione di ideologie nemiche dipende strettamente da:
Per esempio, una delle espressioni più importanti ed esplicitamente combattute della penetrazione di ideologie estranee al proletariato, l'opportunismo, anche se si è manifestata lungo tutta la storia del movimento operaio, ha trovato il suo massimo impatto nei partiti della 2° Internazionale, durante un periodo:
Per contro, la penetrazione dell'opportunismo all'interno dei partiti della 3° Internazionale è largamente determinato dal riflusso dell'ondata rivoluzionaria degli anni 20, che dà spazio all'idea che sia possibile guadagnare un seguito fra le masse operaie facendo concessioni alle illusioni che pesano su di esse in campi come il parlamentarismo, il sindacalismo o la natura dei partiti socialisti.
L'importanza del momento storico sui differenti tipi di manifestazioni della penetrazione di ideologie estranee alla classe si manifesta ancora più chiaramente per quanto riguarda il settarismo. In effetti quest'ultimo si presenta fin dall'inizio del movimento operaio, quando i proletari provengono ancora di recente dall'artigianato e dalle società di apprendisti (con i loro rituali ed i loro segreti di mestiere). Conosce poi un nuovo sviluppo nella fase più profonda della contro-rivoluzione, con la corrente bordighista cui il ripiegamento su se stessa sembra (a torto, evidentemente ) un mezzo per proteggersi dalla minaccia dell'opportunismo.
8. Il fenomeno del parassitismo politico, anche esso risultante dalla penetrazione di ideologie estranee all'interno della classe operaia, non è stato analizzato, nel corso della storia del movimento operaio, con la stessa accuratezza di altri fenomeni, come ad esempio l'opportunismo. Questo accade perché il parassitismo aggredisce in modo significativo le organizzazioni proletarie solo in momenti storici molto particolari. L'opportunismo, per esempio, costituisce una minaccia costante per le organizzazioni proletarie e si esprime particolarmente nei momenti in cui queste organizzazioni conoscono il massimo sviluppo. Per contro, il parassitismo non si sviluppa nei momenti più importanti della lotta di classe. Anzi, è nei momenti di immaturità relativa del movimento, in cui le organizzazioni hanno ancora un impatto limitato ed una tradizione insufficiente che il parassitismo trova il suo terreno più propizio. Ciò è dovuto alla natura stessa del parassitismo che, per risultare efficace, deve agire su elementi alla ricerca di una coerenza di classe, ma che non siano ancora capaci di distinguere chiaramente fra le vere organizzazioni rivoluzionarie e le correnti la cui sola ragione d'essere è di vivere a spese delle prime, sabotarne l'azione, se possibile distruggerle. Allo stesso tempo, il fenomeno del parassitismo, sempre per sua natura intrinseca, non appare all'inizio della formazione delle organizzazioni di classe, ma quando queste si sono già costituite ed hanno provato nella pratica di difendere gli interessi proletari.
Tutti questi elementi si ritrovano nella prima manifestazione storica del parassitismo, l'Alleanza della Democrazia Socialista che ha tentato di sabotare la lotta dell'AIT e di distruggerla dall'interno.
9. E' merito di Marx ed Engels di avere per primi identificato la minaccia costituita dal parassitismo per le organizzazioni proletarie:
"E' ormai tempo, una volta per tutte, di mettere fine alle quotidiane lotte interne provocate dalla presenza di questo corpo parassita nella nostra Associazione. Queste polemiche non servono che a disperdere l'energia che dovrebbe essere utilizzata per combattere il regime borghese. Paralizzando l'attività dell'Internazionale contro i nemici della classe operaia, l'Alleanza fa mirabilmente il gioco della borghesia e dei governi." (Engels, "Il Consiglio Generale a tutti i membri dell'Internazionale - messa in guardia contro l'Alleanza di Bakunin").
Come si può vedere, la nozione di parassitismo non è in nessun modo "una invenzione della CCI". E' l'AIT che per prima nel movimento operaio si è trovata di fronte a questa minaccia e per prima l'ha denunciata e combattuta. E' stata l'AIT, Marx ed Engels per primi, a caratterizzare già come parassiti questi elementi politicizzati che, pur facendo mostra di aderire al programma ed alle organizzazioni del proletariato, concentrano poi i loro sforzi, non contro la classe dominante, ma contro le organizzazioni della classe rivoluzionaria. L'essenza della loro attività è quella di denigrare e di manovrare contro il campo comunista, anche se pretendono di appartenervi e di difenderlo (2).
"Per la prima volta nella storia della lotta di classe, ci troviamo di fronte ad una cospirazione segreta all'interno della classe operaia, destinata a sabotare non il regime di sfruttamento esistente, ma l'Associazione stessa che rappresenta il nemico più indefettibile di questo regime." ( Engels: "Rapporto al Congresso dell'Aja sull'Alleanza" ).
10. Nella misura in cui il movimento operaio dispone con l'AIT di una ricca esperienza di lotta contro il parassitismo, è fondamentale, per poter fare fronte alle attuali offensive parassite ed esservi ben preparati, tenere bene a mente i principali insegnamenti di questa lotta storica.
Questi insegnamenti concernono tutta una serie di aspetti:
Nei fatti, come vedremo, esiste in tutti questi aspetti una somiglianza sorprendente fra la situazione attuale e quella affrontata a suo tempo dall'AIT.
11. Anche se colpisce una classe operaia ancora priva di esperienza, il parassitismo, come abbiamo visto, non è apparso come nemico del movimento operaio finché questo non ha raggiunto un certo grado di maturità, superando la sua fase infantile di settarismo.
"La prima fase nella lotta proletaria contro la borghesia è caratterizzata dal movimento delle sette. Questo è giustificato in un momento in cui il proletariato non è ancora sufficientemente sviluppato in quanto classe." (Marx/Engels).
E' l'apparizione del marxismo, la maturazione della coscienza della classe proletaria e la capacità della classe e della sua avanguardia di organizzare la lotta che assestano il movimento operaio su basi solide.
" A partire da questo momento, in cui il movimento della classe operaia è diventato una realtà, le utopie fantastiche sono scomparse (...) perché una comprensione reale delle condizioni storiche di questo movimento aveva preso il posto di queste utopie, e perché le forze di un'organizzazione di combattimento della classe operaia cominciavano a raccogliersi." ( Marx, "La guerra civile in Francia", primo progetto ).
Nei fatti il parassitismo è storicamente apparso in risposta alla fondazione della prima Internazionale, che Engels descriveva come " lo strumento per dissolvere progressivamente ed assorbire tutte le differenti piccole sette". ( Engels, Lettera a Kelly/Vischnevetsky).
In altri termini, l'Internazionale era lo strumento che obbligava le differenti componenti del movimento operaio ad impegnarsi in un processo collettivo e pubblico di chiarificazione, ed a sottomettersi ad una disciplina unificata, impersonale, proletaria, organizzativa. E' stato in primo luogo resistendo contro questa "dissoluzione ed assorbimento" di tutte le particolarità ed autonomie programmatiche ed organizzative non proletarie che il parassitismo ha dichiarato la sua guerra al movimento rivoluzionario.
"Le sette, all'inizio un volano per il movimento, diventano un impedimento nel momento in cui non sono più all'ordine del giorno; diventano dunque reazionarie. La prova di ciò, sono le sette in Francia ed in Gran Bretagna, e recentemente i Lassalliani in Germania, i quali, dopo anni di sostegno all'organizzazione del proletariato, sono semplicemente divenuti delle armi della polizia." (Marx/Engels, "Le pretese scissioni nell'Internazionale").
12. E' questo quadro dinamico di analisi sviluppata dalla Prima Internazionale che ci permette di comprendere perché il periodo attuale, quello degli anni 80 e soprattutto 90 sia stato testimone di un sviluppo del parassitismo senza precedenti, dopo l'epoca dell'Alleanza e del Lassallismo. In effetti, abbiamo oggi a che fare con un insieme di raggruppamenti informali, spesso agenti nell'ombra, che pretendono di appartenere al campo della Sinistra Comunista, ma che dedicano le loro energie a combattere le organizzazioni marxiste esistenti piuttosto che il regime borghese.
Come all'epoca di Marx ed Engels, la funzione di quest'ondata parassitaria è di sabotare lo sviluppo del dibattito aperto e della chiarificazione proletaria, e di impedire lo stabilirsi di regole di condotta impegnative per tutti i membri del campo proletario. L'esistenza di:
sono tra gli elementi più importanti che spiegano l'odio e l'offensiva del parassitismo politico. Come si è visto con l'esperienza dell'AIT, non è che nei periodi in cui il movimento operaio sta passando da uno stato di immaturità di base ad un livello qualitativamente superiore, specificamente comunista, che il parassitismo diviene il suo principale nemico interno. Nella fase attuale, questa immaturità non più è il prodotto della giovinezza del movimento operaio nel suo insieme, ma soprattutto il risultato dei 50 anni di controrivoluzione che hanno seguito la disfatta dell'ondata rivoluzionaria del 1917-23. Oggi, è in primo luogo questa rottura della continuità organica con le tradizioni delle generazioni passate dei rivoluzionari che spiega il peso dei riflessi e dei comportamenti antiorganizzativi piccolo-borghesi tra molti elementi che si richiamano al marxismo ed alla Sinistra Comunista.
13. Insieme a tutta una serie di similitudini esistenti fra le condizioni e le caratteristiche di sviluppo del parassitismo all'epoca dell'AIT ed oggi, va tuttavia segnalata una differenza: nel secolo scorso, il parassitismo aveva preso essenzialmente la forma di un'organizzazione strutturata e centralizzata all'interno dell'organizzazione della classe, mentre oggi prende essenzialmente la forma di piccoli gruppi, o anche di elementi "non organizzati" (anche se lavorano spesso in contatto fra di loro). Questa differenza, che non rimette in causa la natura fondamentalmente identica del fenomeno parassitario nei due periodi, si spiega con le seguenti ragioni:
Da questo punto di vista è importante affermare chiaramente che l'attuale dispersione dell'ambiente politico proletario, e tutti gli atteggiamenti settari che impediscono o ritardano lo sforzo verso il raggruppamento o verso il dibattito fraterno tra le sue diverse componenti, non fanno altro che il gioco del parassitismo.
14. Il marxismo, in seguito all'esperienza dell'AIT, ha messo in evidenza le differenze tra il parassitismo e le altre manifestazioni della penetrazione di ideologie estranee nelle organizzazioni della classe. Per esempio, l'opportunismo, anche se può in certi momenti manifestarsi sul terreno organizzativo (come fu il caso per i menscevichi nel 1903), aggredisce fondamentalmente il programma dell'organizzazione proletaria. Da parte sua, il parassitismo, proprio per poter svolgere il suo ruolo, non parte a testa bassa contro questo programma. E' essenzialmente sul terreno organizzativo che svolge la sua azione, anche se per poter meglio "reclutare" è spesso condotto a rimettere in causa questo o quell'aspetto del programma. Così, si è potuto vedere Bakunin cavalcare la proposta della "abolizione del diritto ereditario" al Congresso di Basilea del 1869, perché sapeva che all'interno dell'AIT circolavano molte illusioni in proposito. Ma quello che in realtà voleva era rovesciare il Consiglio Generale influenzato da Marx per poterlo sostituire con un Consiglio Generale che gli fosse devoto (4).
Il parassitismo, proprio per il fatto che attacca direttamente la struttura organizzativa delle formazioni proletarie, rappresenta, quando le condizioni storiche ne permettono la nascita, un pericolo molto più immediato dell'opportunismo. Queste due manifestazioni della penetrazione delle ideologie estranee costituiscono un pericolo mortale per le organizzazioni proletarie. L'opportunismo le uccide come strumenti della classe operaia attraverso un lento passaggio al servizio della borghesia, ma, nella misura in cui attacca prima di tutto il programma, non può arrivare a questo risultato che attraverso tutto un processo in cui la corrente rivoluzionaria, la Sinistra, potrà dal canto suo sviluppare all'interno dell'organizzazione la lotta per la difesa di questo programma (5). Al contrario, poiché è l'organizzazione stessa in quanto struttura che è presa di mira dal parassitismo, i tempi in cui la corrente proletaria deve organizzare la difesa sono brevissimi. L'esempio dell'AIT è significativo: l'insieme della lotta al suo interno contro l'Alleanza non dura più di quattro anni, tra il 1868 in cui Bakunin entra nell'Internazionale ed il 1872 in cui ne è escluso dal Congresso dell'Aia. Questo non fa che sottolineare una cosa: la corrente proletaria deve reagire immediatamente al parassitismo, senza attendere che abbia già colpito a fondo prima di iniziare a combatterlo.
15. Come abbiamo visto, è importante distinguere il parassitismo dalle altre manifestazioni della penetrazione di ideologie estranee all’interno della classe. Va d’altra parte ricordato che una delle caratteristiche del parassitismo è quella di poter utilizzare queste altre manifestazioni. Questo dipende dall’origine del parassitismo, che è a sua volta il risultato della penetrazione di influenze estranee, ma dipende anche dalla sua dinamica, che mira in ultima analisi a distruggere le organizzazioni proletarie, senza preoccuparsi né dei principi né di eventuali scrupoli. Così, all’interno dell’AIT e del movimento operaio dell’epoca, l’Alleanza si è distinta, come già ricordato, per la sua capacità di appoggiarsi alle vestigia del settarismo, di prendere atteggiamenti opportunisti ( sulla questione del diritto ereditario, per esempio ) o a lanciarsi in movimenti totalmente avventuristi (la “Comune” di Lione, per esempio e la guerra civile in Spagna del 1873). Analogamente, si è servita delle tendenze all’individualismo di un proletariato che usciva appena dall’artigianato o dal contadiname ( in particolar modo in Spagna e nel Giura svizzero ). Le stesse caratteristiche si possono ritrovare nel parassitismo attuale. Il ruolo giocato dalle tendenze individualistiche nella costituzione dell’ambiente parassitario attuale è già stato sottolineato, ma vale ancora la pena di ricordare che tutte le scissioni della CCI che hanno dato luogo in seguito a gruppi parassiti (GCI, CBG, FECCI ) si sono basate su un atteggiamento settario consistente nel rompere prematuramente e nel rifiutarsi di discutere fino in fondo le divergenze. Analogamente, l'opportunismo è stata una delle caratteristiche del GCI che, dopo aver accusato la CCI, quando era una “tendenza” al suo interno, di non imporre sufficienti discriminanti ai nuovi candidati, si è convertita all’ammucchiata senza principi, modificando il suo programma nel senso delle suggestioni extraparlamentari alla moda (come il terzo-mondismo). Questo stesso opportunismo è stato messo in pratica dal CBG e dalla FECCI che, all’inizio degli anni '90, si sono dedicati ad un mercanteggiare incredibile per cercare di iniziare una dinamica verso il raggruppamento. Infine, per quanto concerne l’avventurismo-putschismo, è interessante notare che, anche lasciando da parte i flirt del GCI con il terrorismo, tutti questi gruppi siano sistematicamente caduti nelle trappole che la borghesia tendeva alla classe, chiamandola a estendere le sue lotte quando il terreno era già stato sterilizzato dalla classe dominante e dai sindacati, come fu il caso, in particolare, nell’Autunno 95 in Francia.
16. L’esperienza dell’AIT ha messo in evidenza la differenza che può esistere tra il parassitismo e la palude (anche se all’epoca, quest’ultimo termine non era ancora in uso). Il marxismo definisce la palude come una area politica oscillante fra le posizioni politiche della classe operaia e quelle della borghesia o della piccola borghesia. Correnti di questo tipo possono sorgere come una prima tappa nel processo di presa di coscienza di settori del proletariato o di rottura con le posizioni borghesi. Possono anche rappresentare residuati di correnti che, in un dato momento storico hanno espresso uno sforzo reale di presa di coscienza da parte della classe, ma che si sono dimostrati incapaci di evolvere in funzione delle nuove condizioni della lotta proletaria e dell’esperienza di quest’ultima. In linea di massima, correnti di questo tipo non possono mantenersi stabilmente in quanto tali. La continua oscillazione fra le posizioni borghesi e quelle proletarie le conducono a schierarsi completamente sul fronte borghese o su quello rivoluzionario, o anche a spaccarsi su queste due tendenze. Un simile processo di decantazione viene normalmente stimolato ed accelerato da grandi avvenimenti che riguardano la classe operaia (nel XX secolo, si tratta in genere della guerra imperialista e della rivoluzione proletaria) ed il senso generale in cui la decantazione avviene dipende in buona parte dall’evoluzione generale dei rapporti di forza fra la borghesia ed il proletariato. Di fronte a simili correnti, la Sinistra del movimento operaio ha sempre avuto come atteggiamento quello di non considerarle perdute in blocco per la lotta proletaria ma di stimolare al loro interno una chiarificazione che permettesse agli elementi più sani di integrarsi pienamente in questa lotta, denunciando allo stesso tempo con la massima fermezza quelli che prendevano la via del nemico di classe.
17. All’interno dell’AIT, a fianco della corrente marxista che ne costituiva l’avanguardia, esistevano delle correnti che si potrebbero definire come appartenenti alla palude. Era il caso, ad esempio, delle correnti blanquiste e proudhoniane che, nella prima meta del 19° secolo avevano costituito una reale avanguardia del proletariato in Francia. Al momento della lotta contro il parassitismo dell’Alleanza, queste correnti avevano ormai cessato di rappresentare una avanguardia. Ciononostante, e malgrado tutte le loro confusioni, furono capaci di partecipare alla lotta in difesa dell’Internazionale, in particolare al Congresso dell'Aia. Nei loro confronti la corrente marxista aveva un atteggiamento completamente diverso da quello verso l’Alleanza. Non si parlava assolutamente di escluderle. Al contrario, era importante associarle alla lotta dell’AIT contro i suoi nemici, non solamente per il peso che esse ancora avevano all’interno dell’Internazionale, ma soprattutto perché questa lotta permetteva un processo di chiarificazione all’interno di queste correnti. Nei fatti, questa lotta ha permesso di verificare che esisteva una differenza fondamentale fra la palude ed il parassitismo: mentre la prima è attraversata dalla vita proletaria, il che può permettere a sue componenti o ai suoi migliori elementi di raggiungere la corrente rivoluzionaria, il secondo, la cui vocazione profonda è quella di distruggere l’organizzazione rivoluzionaria, non può per definizione evolvere nella stessa direzione, anche se possono riuscirci singoli elementi che siano stati per un certo tempo ingannati dal parassitismo.
Anche oggi è importante fare una simile differenza fra le correnti della palude (6) ed il parassitismo. Come i gruppi dell’ambiente politico proletario debbono tentare di fare evolvere le prime verso le posizioni marxiste, favorendo la chiarificazione politica al loro interno, così debbono mostrare la massima fermezza nei confronti del parassitismo, denunciando il ruolo sordido che gioca a favore della borghesia. E questo è particolarmente importante proprio di fronte alle correnti della palude che, a causa delle loro confusioni ( in particolare a causa delle loro reticenze verso l’organizzazione, come è il caso dei consiliaristi ) sono particolarmente vulnerabili agli attacchi del parassitismo.
18. Tutte le manifestazioni della penetrazione di ideologie estranee all’interno delle organizzazioni proletarie fanno il gioco della classe nemica. Questo è particolarmente evidente per il parassitismo il cui scopo è la distruzione di queste organizzazioni (che lo si dichiari apertamente o no). Su questo punto, l’AIT è stata particolarmente chiara affermando che, pur non essendo un agente dello Stato capitalista, Bakunin serviva i suoi interessi molto meglio di quanto un tale agente avrebbe mai potuto fare. Questo non significa che il parassitismo rappresenti in sè un settore dell’apparato politico del capitale, come ad esempio certe correnti borghesi dell’ultrasinistra, vedi l’attuale trotzkismo. Nei fatti, Marx ed Engels non hanno mai considerato come dei rappresentanti politici della borghesia neppure i parassiti più celebri della loro epoca, come Bakunin o Lassalle. Questa analisi si basa sulla comprensione del fatto che il parassitismo non costituisce in sé una frazione della borghesia, non avendo né un programma o un orientamento specifico per i capitale nazionale, né un posto particolare negli apparati dello Stato incaricati di controllare la lotta della classe operaia. Ciò detto, in ragione dei servizi che il parassitismo rende alla classe capitalista, può beneficiare di un occhio di riguardo da parte sua. Questa benevolenza si manifesta essenzialmente in tre modi:
Bisogna a questo proposito notare che, anche se la maggior parte delle organizzazioni parassitarie si richiama a parole ad un programma proletario, quest’ultimo non è indispensabile perché un’organizzazione possa svolgere la sua funzione di parassitismo politico che non si contraddistingue per le posizioni che difende ma per la sua attività distruttrice contro le vere organizzazioni della classe operaia.
19. Nel periodo attuale, dato che le organizzazioni proletarie non hanno la notorietà che poteva avere l’AIT ai suoi tempi, la propaganda ufficiale borghese in linea di massima non si preoccupa di sostenere i gruppi e gli elementi parassitari (tanto più che questo li screditerebbe agli occhi degli elementi che si avvicinano alle posizioni comuniste). Va però notato che nelle campagne borghesi specificamente dirette contro la Sinistra Comunista, in particolare quelle riguardanti il “negazionismo” dell’Olocausto, si è dato uno spazio enorme a gruppi come l’ex-Mouvement Communiste, la Banquise, etc. che venivano presentati come rappresentanti della Sinistra Comunista, mentre avevano forti connotazioni parassitarie.
Per contro, è stato proprio un agente dell’apparato statale, Chenier (7), a giocare il ruolo centrale nella formazione nel 1981 all’interno della CCI di una “tendenza segreta” che, dopo aver provocato la perdita di metà della sezione inglese, ha dato vita ad uno dei gruppi parassitari più caratteristici, il CBG.
Infine, i tentativi delle correnti borghesi di infiltrarsi nell’ambiente proletario per assumervi una funzione parassitaria sono chiaramente presenti attraverso l’azione di gruppi extraparlamentari come lo spagnolo Hilo Rojo ( che ha tentato per anni di ingraziarsi il milieu proletario, prima di attaccarlo frontalmente ) o come l’OCI ( gruppo extraparlamentare italiano, alcuni dei cui membri sono passati per il bordighismo, e che oggi si presenta come il “vero erede” di questa corrente ).
20. La penetrazione di agenti dello Stato nell’area parassitaria è evidentemente facilitata dalla natura stessa di questa area la cui vocazione di fondo è quella di combattere le vere organizzazioni proletarie. Nei fatti, è il reclutamento stesso del parassitismo fra gli elementi che rigettano la disciplina di un’organizzazione di classe, che non hanno che disprezzo per il suo funzionamento statutario, che si compiacciono dell’informalità e dei legami personali, piuttosto che fortificarsi nella lealtà verso l’organizzazione, che rende facilissima l’infiltrazione in quest’ambiente. Altrettanto facile è l’adesione di quegli ausiliari involontari dello Stato che sono gli avventurieri, questi elementi declassati che tentano di mettere il movimento operaio al servizio delle loro ambizioni di notorietà e di potere che gli vengono rifiutati dalla società borghese. Nell’AIT, l’esempio di Bakunin è chiaramente il più conosciuto. Marx ed i suoi compagni non hanno mai sostenuto che si trattasse di un agente diretto dello Stato. Per contro, sono stati capaci non solo di identificare e denunciare i servizi che egli rendeva involontariamente alla classe dominante, ma anche l’atteggiamento e l’origine di classe degli avventurieri all’interno delle organizzazioni proletarie ed il ruolo da loro giocato come dirigenti del parassitismo. Così, a proposito dell’attività dell’Alleanza segreta di Bakunin nell’AIT, scrivevano che gli “elementi declassati” erano stati capaci di “infiltrarvisi (nell’AIT, N.d.R.) e radicarvi, nel suo centro stesso, delle organizzazioni segrete”. Questo stesso giudizio è ripreso da Bebel a proposito di Schweitzer, leader della corrente lassalliana (che, oltre che opportunista, aveva anche forti connotazioni parassitarie): “Si è unito al movimento quando ha visto che nella borghesia per lui non c’era avvenire, che per lui, declassato rapidamente dal suo stile di vita, la sola speranza stava nel giocare un ruolo nel movimento operaio, cui lo predestinavano le sue capacità e le sue ambizioni.” (A. Bebel , Autobiografia ).
21. Ciò detto, anche se le tendenze parassitarie sono spesso dirette da avventurieri declassati ( quando non si tratta direttamente di agenti dello Stato ), non è solo in questa categoria che pescano per il reclutamento. Sono anche capaci di attirare elementi inizialmente animati da volontà rivoluzionaria e che non pensano a distruggere l'organizzazione, ma che:
arrivano alla fine a sviluppare una ostilità di fondo contro l'organizzazione proletaria, anche se questa ostilità si ammanta di pretese "militanti".
Nell'AIT si è assistito ad un fenomeno simile da parte di un certo numero di membri del Consiglio Generale come Eccarius, Jung ed Hales.
Peraltro, il parassitismo è capace di reclutare elementi sinceri e militanti, che - per non essersi liberati degli influssi piccolo-borghesi o per mancanza di esperienza - si lasciano trascinare, ingannare, manipolare da elementi chiaramente anti-proletari. Nell'AIT, questo è tipicamente il caso della maggioranza degli operai che hanno fatto parte dell'Alleanza in Spagna.
22. Per quello che concerne la CCI, la maggior parte delle scissioni che hanno portato alla formazione di gruppi parassitari erano chiaramente costituite da elementi animati dall'atteggiamento piccolo-borghese sopra descritto. L'impulso dato da intellettuali smaniosi di "riconoscimento" e che erano frustrati per non ottenerlo, l'impazienza di fronte al fatto che non riuscivano a convincere gli altri militanti della "giustezza" delle loro posizioni o di fronte alla lentezza del processo di sviluppo della lotta di classe, le suscettibilità ferite dalla critica delle loro posizioni o dei loro comportamenti, il rifiuto di una centralizzazione che vivevano come "stalinismo" sono stati i motori della costituzione di "tendenze" che hanno portato alla formazione di gruppi parassitari più o meno effimeri ed alle diserzioni individuali che vanno ad alimentare l'area informale del parassitismo. Nel tempo, la "tendenza" del 1979 che portò alla formazione del Gruppo Comunista Internazionalista, la tendenza Chenier, uno dei cui frutti fu il defunto Communist Bulletin Group, la "tendenza" McIntosh-ML-JA ( costituita in gran parte di membri dell'organo centrale della CCI ) che ha dato vita alla FECCI ( divenuta in seguito Perspectives Internationalistes ) hanno costituito delle tipiche illustrazioni di questo fenomeno. In questi episodi è egualmente successo che elementi dalle intenzioni proletarie indiscutibili si siano fatti trascinare dalla fedeltà personale verso i capi di queste "tendenze", che non erano tendenze vere e proprie ma piuttosto dei "clan", nel senso più volte già definito dalla nostra organizzazione. Il fatto che tutte le scissioni parassitarie della nostra organizzazione siano apparse inizialmente sotto forma di clan interni non può evidentemente essere dovuto al caso. In realtà, esiste una grande similitudine tra i comportamenti organizzativi che sono alla base della formazione dei clan e quelli di cui si alimenta il parassitismo: individualismo, quadro statutario vissuto come una costrizione, frustrazione verso l'attività militante, lealtà verso singole persone a discapito della lealtà verso l'organizzazione, influenza dei "guru" ( personaggi alla ricerca di un'influenza personale verso altri militanti ). Nei fatti, quello che è già insito nella formazione di clan interni all'organizzazione, e cioé la distruzione del suo tessuto organizzativo, trova nel parassitismo la sua espressione più completa: la volontà di distruggere le organizzazioni proletarie stesse (8).
23. L'eterogeneità, che è una caratteristica del parassitismo, poiché nei suoi ranghi si trovano sia elementi relativamente sinceri, sia elementi animati dall'odio per le organizzazioni rivoluzionarie, o addirittura avventurieri politici e agenti dello Stato, fa di quest'ambiente il luogo privilegiato di politiche segrete che permettono agli elementi più ostili alle motivazioni proletarie di trascinare con se gli altri. La presenza di questi ultimi, degli elementi "sinceri", specie se si tratta di elementi che hanno effettivamente contribuito all'organizzazione, costituisce una delle condizioni del successo del parassitismo, perchè gli permette di mascherarsi e di accreditare la sua facciata "proletaria" (proprio come il sindacalismo ha bisogno di attivisti "sinceri e devoti" per mantenere il controllo della base). D'altra parte il parassitismo, ed i suoi elementi trainanti, non potrebbero mantenere il controllo su buona parte dei loro adepti se non nascondessero, dissimulassero i loro scopi reali. Cosi, l'Alleanza nell'AIT comprendeva diversi livelli attorno al "cittadino B.", nonché statuti segreti riservati agli "iniziati". "L'Alleanza divide i suoi membri in due caste, iniziati e non iniziati, aristocratici e plebei, con i secondi condannati ad essere diretti dai primi, attraverso un'organizzazione di cui ignorano l'esistenza." ( Engels, Rapporto sull'Alleanza ). Oggi, il parassitismo agisce allo stesso modo ed è raro che dei gruppi parassiti, ed in particolare gli avventurieri e gli intellettuali frustrati che li animano, mostrino chiaramente il loro programma. Da questo punto di vista, il Mouvement Communiste (9), che afferma a chiare lettere che bisogna distruggere l'ambiente della Sinistra Comunista, è contemporaneamente la caricatura ed il portavoce più chiaro della natura profonda del parassitismo.
24. I metodi utilizzati dalla Prima Internazionale e dagli Eisenachiani contro il parassitismo della loro epoca corrispondono perfettamente a quelli utilizzati oggi dalla CCI. Nei documenti pubblici dei Congressi, nella stampa, nelle riunioni operaie e perfino -allora- nel Parlamento, le manovre dei parassiti furono denunciate. Più e più volte fu dimostrato che dietro questi attacchi si celavano le classi dominanti e che il loro scopo era la distruzione del marxismo. I lavori del Congresso dell'Aja ed i celebri discorsi in cui Bebel denunciava la politica segreta di Bismarck e Schweitzer mostrano la capacità del movimento operaio di dare una spiegazione di tipo globale, pur denunciando le varie manovre in modo estremamente concreto. Tra le ragioni più importanti date dalla Prima Internazionale per la pubblicazione delle rivelazioni su Bakunin, troviamo in primo luogo le seguenti:
Infine, al centro di questa politica si trovava la necessità di smascherare gli avventurieri politici, come Bakunin e Schweitzer. Non si potrà mai sottolineare abbastanza il fatto che questo atteggiamento ha caratterizzato tutta la vita politica di Marx, come si vede dalla sua denuncia degli accoliti di Lord Palmerston o del Signor Vogt. Marx capiva perfettamente che mettere a tacere queste storie significava solo fare un favore alla classe dominante.
25. E' questa grande tradizione del movimento operaio che la CCI continua con gli articoli che relazionano sulla sua lotta interna, le sue polemiche contro il parassitismo, l'annuncio pubblico dell'esclusione unanime di uno dei suoi membri da parte dell'11° Congresso Internazionale, la pubblicazione di articoli sulla massoneria, ecc. In particolare, la difesa da parte della CCI dello strumento del Giurì d'Onore nel caso di elementi che abbiano perso la fiducia delle organizzazioni rivoluzionarie, in modo da difendere l'insieme dell'ambiente proletario, si iscrive nello stesso spirito del Congresso dell'Aja, e delle commissioni di inchiesta dei partiti operai russi su elementi che erano sospettati di essere dei provocatori.
La tempesta di proteste ed accuse della borghesia alla pubblicazione dei principali risultati dell'inchiesta sull'Alleanza dimostra che questo metodo rigoroso di denuncia pubblica è proprio quello che la borghesia non riesce a sopportare. Per contro, il modo in cui le direzioni opportuniste della II° Internazionale hanno sistematicamente ignorato, negli anni pre-1914, il famoso capitolo "Marx-Bakunin" nella storia del movimento operaio, mostra la paura per questo argomento da parte di tutti i difensori delle concezioni organizzative piccolo-borghesi.
26. La politica del movimento operaio verso l'infantilismo piccolo-borghese del parassitismo è stata sempre quella di spazzarlo via dalla scena politica. In questo, la denuncia delle assurdità delle posizioni e dell'attività politica dei parassiti gioca un ruolo importante. Così, Engels, nel suo celebre articolo "I bakunisti all'opera" ( durante la guerra civile in Spagna ) , ha continuato e completato le rivelazioni sul comportamento organizzativo dell'Alleanza.
Oggi la CCI adotta la stessa politica combattendo contro gli adepti dei differenti centri organizzati e "informali" dell’ambiente parassita.
Per quanto riguarda invece gli elementi più o meno proletari che si fanno più o meno ingannare dal parassitismo, la politica del marxismo è sempre stata quella di piantare un cuneo fra questi elementi e la direzione parassitaria ispirata o incoraggiata dalla borghesia, dimostrando che i primi vengono manipolati da quest'ultima. Lo scopo di questa politica è sempre quello di isolare la direzione parassitaria, allontanando le sue vittime dalla sua zona di influenza. Verso queste "vittime" l'impostazione marxista è sempre stata quella di denunciare con fermezza il loro atteggiamento e le loro attività, ed allo stesso tempo lottare per rianimare la loro fiducia verso l'organizzazione e l'insieme del milieu proletario. Il lavoro portato avanti da Lafargue ed Engels verso la sezione spagnola della Prima Internazionale è una perfetta concretizzazione di questo atteggiamento. La CCI si iscrive in questa grande tradizione organizzando confronti pubblici per recuperare gli elementi ingannati. L'intervento di Bebel e Liebknecht per denunciare Schweitzer come agente di Bismarck di fronte ad un meeting di massa del partito lassalliano a Wuppertal, è un esempio ben noto di questo atteggiamento.
27. La tradizione di lotta contro il parassitismo si è largamente perduta nel movimento operaio, dopo le grandi lotte nell'AIT, a causa:
Questo rappresenta un elemento di debolezza molto grave per il milieu proletario di fronte all'attuale offensiva del parassitismo. Questo pericolo è tanto più grave in quanto la pressione ideologica della decomposizione del capitalismo - pressione che facilita, come la CCI ha messo in evidenza, la penetrazione dell'ideologia piccolo borghese nelle sue caratterizzazioni più estreme (10) - crea in permanenza un terreno propizio allo sviluppo del parassitismo. Dunque il movimento rivoluzionario ha la grave responsabilità di impegnare una lotta a fondo contro questo flagello. In un certo senso, la capacità delle correnti rivoluzionarie nell'identificare e combattere il parassitismo sarà un indice della loro capacità nel combattere le altre minacce che pesano sulle organizzazioni del proletariato, ed in particolare la minaccia più permanente, quella dell'opportunismo.
Nei fatti, nella misura in cui opportunismo e parassitismo provengono entrambi dalla stessa fonte ( la penetrazione dell'ideologia piccolo borghese ) e rappresentano un attacco contro i principi dell'organizzazione proletaria ( principi programmatici nel caso del primo, organizzativi nel secondo ), è del tutto spontaneamente che finiscono per tollerarsi a vicenda e convergere. Così, non è assolutamente un paradosso se nell'AIT si siano ritrovati fianco a fianco i bakunisti "antistatalisti" ed i lassalliani "statalisti" ( che rappresentavano una variante dell'opportunismo ). Ne consegue che è toccato sempre alle correnti di sinistra all'interno delle organizzazioni proletarie farsi carico dell'essenziale della lotta contro il parassitismo. Nell'AIT, sono direttamente Marx, Engels e la loro tendenza che portano avanti la lotta contro l'Alleanza. Non è assolutamente un caso se i principali documenti redatti nel corso di questa lotta portino la loro firma ( la circolare del 5 Marzo 1872 "Le pretese scissioni nell'Internazionale" è redatta da Marx ed Engels, il rapporto del 1873 su "L'Alleanza della Democrazia Socialista e l'Associazione Internazionale dei lavoratori" è dovuto a Marx, Engels, Lafargue e Utin ).
Quello che era valido ai tempi dell'AIT, resta valido ancora oggi. La lotta contro il parassitismo costituisce una delle responsabilità essenziali della Sinistra Comunista, che si collega strettamente alla tradizione delle grandi lotte contro l'opportunismo. In questo momento, uno dei fronti fondamentali per la preparazione del partito di domani e, per questo stesso fatto, ha il suo peso nel determinare sia il momento in cui il partito sorgerà, sia la sua capacità di svolgere il suo ruolo nelle lotte decisive del proletariato.
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1. E' opportuno distinguere i due diversi sensi che la parola avventurismo può avere. Da un lato, esiste l'avventurismo di certi elementi declassati, gli avventurieri politici che, non potendo giocare un ruolo all'interno della classe dominante, ed avendo compreso che il proletariato è chiamato a occupare un posto di primo piano all'interno della vita sociale della storia, cercano di guadagnarsi, all'interno delle sue organizzazioni, un riconoscimento che gli permetta di giocare quel ruolo personale negatogli dalla borghesia. Avvicinandosi alla lotta della classe operaia, questi elementi non hanno l'intenzione di mettersi al suo servizio, bensì di metterla al servizio delle proprie ambizioni. Cercano la notorietà "andando al proletariato", come altri la cercano facendo il giro del mondo. D'altra parte, l'avventurismo indica anche l'atteggiamento politico consistente a lanciarsi in azioni sconsiderate, mentre le condizioni minime per il loro successo, la necessaria maturità della classe, non esistono. Un tale atteggiamento può essere proprio di avventurieri politici alla ricerca di emozioni forti, ma può perfettamente essere fatto proprio da operai e militanti totalmente sinceri, devoti e disinteressati, ma che mancano di capacità di giudizio politico o sono attanagliati dall'impazienza.
2. Marx ed Engels non furono i soli ad identificare ed a caratterizzare il parassitismo politico. Così, alla fine del 19° secolo, un grande teorico marxista, Antonio Labriola, riprendeva la stessa analisi del parassitismo: " Nel primo tipo dei nostri attuali partiti (si tratta della Lega dei Comunisti, ndr) in questa cellula primaria, per così dire, del nostro organismo complesso c’era non solo la coscienza della missione da compiere come precursore, ma c’era anche la forma e il metodo di associazione che erano adatti solo ai primi iniziatori della rivoluzione proletaria. Non si trattava più di una setta; questa forma era nei fatti superata. La dominazione immediata e fantastica dell’individuo era eliminata. Quello che predominava era una disciplina che aveva la sua fonte nell’esperienza della necessità, e nella dottrina che deve essere precisamente la coscienza riflessa di questa necessità. La stessa cosa fu per l’Internazionale, che poteva sembrare autoritaria solo a quelli che non potettero sottometterla alla loro propria autorità. Deve essere lo stesso e sarà così in tutti i partiti operai: e là dove questo carattere non sarà marcato o non potrà esserlo ancora, l’agitazione proletaria, ancora elementare e confusa, genererà solamente delle illusioni, e non sarà che un pretesto per degli intrighi. E quando non è così, allora si tratta di un cenacolo, in cui l’illuminato sta gomito a gomito con il pazzo e lo spione; sarà per esempio la Società dei Fratelli Internazionali che si attacca come un parassita all’Internazionale e la discredita; (…) o infine un raggruppamento di scontenti per lo più declassati e piccolo borghesi che si dedicano a speculare sul socialismo come su una qualsiasi altra moda politica" (Saggio sulla concezione materialistica della storia)
3. Questo fenomeno è evidentemente rinforzato dal peso del consiliarismo che costituisce, come la CCI ha sottolineato, uno dei prezzi che il movimento operaio rinascente ha pagato e pagherà a causa della dominazione stalinista durante tutta la fase controrivoluzionaria.
4. E' in base a questa speranza che durante il Congresso di Basilea gli amici di Bakunin avevano appoggiato la decisione di rafforzare al massimo i poteri del Consiglio Generale, mentre dopo il Congresso arriveranno ad esigere che il Consiglio venisse ridotto ad una semplice "cassetta per le lettere".
5. La storia del movimento operaio è ricca di lotte portate avanti dalla Sinistra. Fra le più importanti ricordiamo:
6. Ai giorni nostri, possono far parte della palude in particolare le correnti consiliariste (come quelle fatte sorgere dalla ripresa storica della lotta di classe alla fine degli anni 60 e che probabilmente riappariranno durante i futuri movimenti di classe); residuati del passato come i De Leonisti presenti nell’area anglosassone o elementi appena usciti dalle organizzazioni extraparlamentari.
7. Non ci sono prove certe del fatto che Chenier fosse un agente dei servizi di sicurezza dello Stato. In cambio, la sua rapida carriera, subito dopo la sua esclusione dalla CCI, all'interno dell'amministrazione e soprattutto all'interno dell'apparato del Partito Socialista (all'epoca al governo) dimostra che doveva già lavorare per questa parte dello Stato quando si presentava ancora come un 'rivoluzionario".
8. Alle analisi e preoccupazione della CCI concernenti il parassitismo si è spesso risposto che questo fenomeno riguarderebbe solo la nostra organizzazione, sia come suo bersaglio, sia come suo "disseminatore" attraverso le nostre varie scissioni.. E' vero che oggi la CCI è il principale bersaglio del parassitismo, il che si spiega facilmente per il fatto che è l'organizzazione più importante ed estesa dell'ambiente proletario. Per questo stesso fatto è quella che suscita più odio nei nemici di quest'ambiente, che non perdono occasione di tentare di suscitare contro di essa l'ostilità delle altre organizzazioni proletarie. Un'altra causa di questo "privilegio" da parte del parassitismo è per l’appunto il fatto che la CCI è l'organizzazione in cui si sono avute il maggior numero di scissioni che hanno portato alla nascita di gruppi parassiti.
A questo fenomeno si possono dare varie spiegazioni.
In primo luogo, fra le organizzazioni dell'ambiente politico proletario che si sono mantenute nei trent'anni che ci separano dal 1968, la CCI è l'unica di nuova fondazione, mentre le altre esistevano già all'epoca. Questo spiega il fatto che vi fosse nella nostra organizzazione un peso più forte di quello che Lenin chiama lo spirito di circolo e che è il terreno di coltura per il clan ed il parassitismo. Bisogna anche considerare che nelle altre organizzazioni c'era già stata - prima ancora della ripresa storica della lotta di classe - una "selezione naturale" che aveva eliminato gli elementi avventurieri e semi-avventurieri oltre che gli intellettuali alla ricerca di un pubblico che non avevano avuto la pazienza di portare avanti un lavoro oscuro in piccole organizzazioni in un momento in cui avevano un impatto trascurabile sulla classe, a causa del periodo controrivoluzionario. Al momento della ripresa proletaria, questo tipo di elementi può aver pensato che sarebbe stato più facile "accedere a dei posti" in un'organizzazione nuova, in via di costituzione, piuttosto che in un'organizzazione esistente da lungo tempo, dove "i posti erano già occupati".
In secondo luogo esiste una differenza fondamentale fra le scissioni, ugualmente numerose, che hanno colpito la corrente bordighista ( che negli anni '70 era la più sviluppata internazionalmente ) e quelle che hanno colpito la CCI. Nelle organizzazioni bordighiste, che rivendicano ufficialmente il monolitismo, le scissioni sono essenzialmente il risultato dell'impossibilità di discutere al loro interno le divergenze e dunque non sono necessariamente il frutto di una dinamica parassitaria. Per contro, le scissioni avvenute nella CCI non sono il risultato del monolitismo o del settarismo, poiché la nostra organizzazione ha sempre permesso, ed incoraggiato, i dibattiti ed i confronti al suo interno: le dimissioni collettive facevano necessariamente seguito ad un'impazienza, a delle frustrazioni individualiste, alla formazione di clan ed a una dinamica parassitaria.
Ciò detto, bisogna sottolineare che la CCI non è certamente il solo bersaglio del parassitismo. Per esempio, gli insulti di Hilo Rojo, come quelli del Mouvement Communiste, sono indirizzati a tutta la Sinistra Comunista. Analogamente, il bersaglio privilegiato dell'OCI è la corrente bordighista. Infine, anche quando i gruppi parassitari concentrano i loro attacchi contro la CCI, risparmiando o perfino adulando gli altri gruppi dell'ambiente proletario ( come era il caso per il Communist Bulletin Group o come fa sistematicamente Echanges et Mouvement) lo fanno in genere con l'obiettivo di accrescere le divisioni e la dispersione fra questi gruppi, debolezze che la CCI è sempre stata pronta a combattere.
9. Gruppo animato da ex-membri della CCI, appartenuti in seguito al GCI, e da vecchi transfughi della sinistra extraparlamentare. Non va confuso con il Mouvement communiste degli anni '70 che fu uno dei precursori della tendenza "modernista".
10. Vedi Rivista Internazionale n. 14: "La decomposizione, fase ultima della decadenza del capitalismo", paragrafo 13.
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[7] https://it.internationalism.org/en/tag/storia-del-movimento-operaio/1968-maggio-francese
[8] https://it.internationalism.org/en/tag/3/44/corso-storico
[9] https://it.internationalism.org/en/tag/7/109/sinistra-comunista
[10] https://it.internationalism.org/en/tag/sviluppo-della-coscienza-e-dell-organizzazione-proletaria/sinistra-italiana
[11] https://it.internationalism.org/en/tag/sviluppo-della-coscienza-e-dell-organizzazione-proletaria/sinistra-comunista-francese
[12] https://it.internationalism.org/en/tag/vita-della-cci/corrispondenza-con-altri-gruppi
[13] https://it.internationalism.org/en/tag/2/39/organizzazione-rivoluzionaria
[14] https://it.internationalism.org/en/tag/7/111/bureau-internazionale-per-il-partito-rivoluzionario
[15] https://it.internationalism.org/en/tag/3/51/partito-e-frazione
[16] https://it.internationalism.org/en/tag/correnti-politiche-e-riferimenti/parassitismo