Come ogni anno, in autunno il governo celebra il rito della finanziaria, cioè settimane di annunci e smentite su come il governo intende mantenere il deficit di bilancio nei limiti previsti. Ma, sorpresa, quest’anno il governo afferma che i dieci miliardi di euro che servono per raggiungere l’obiettivo non saranno trovati con nuove tasse, ma semplicemente riducendo la spesa corrente della Pubblica Amministrazione. E che, si possono risparmiare dieci miliardi semplicemente riducendo fotocopie, telefonate e qualche viaggetto? E’ evidente che no. E’ evidente che anche se i soldi saranno cercati non mettendo nuove tasse, una cifra di questo genere può essere rispettata solo con tagli pesanti del personale, alla spesa sociale e ai servizi che si offrono ai cittadini, che sono il grosso della spesa statale. Bisogna quindi aspettarsi che anche quest’anno il risultato sarà lo stesso di tutte le finanziarie da almeno venti anni a questa parte: un peggioramento delle condizioni di vita dei lavoratori. E questo a prescindere dal colore con cui il governo in carica si presenta ai cittadini. Se c’è una differenza è che mentre i governi di destra non si preoccupano di mascherare le misure con cui tengono in piedi l’economia nazionale, quelli di sinistra hanno bisogno di presentare le stesse cose o con la scusa di una “emergenza” (crisi finanziaria, debiti pregressi, e così via) o mascherando i tagli con “misure di razionalizzazione”, interventi a favore dei “più deboli” e così via.
Quello che resta quindi da chiedersi è perché cambiano i governi, cambiano i paesi, ma per i lavoratori il risultato è sempre lo stesso?
In altra parte del giornale diamo una risposta più argomentata a questa domanda, risposta che si può riassumere così: se dappertutto nel mondo e nel tempo i lavoratori si impoveriscono sempre più è perché in tutto il mondo vige un sistema economico che è ormai in crisi permanente, che riesce a sopravvivere solo continuando a spremere a più non posso i lavoratori e accumulando una montagna di debiti (su cui sono basate le cosiddette riprese).
Ed in questa situazione, che significa che il mondo va verso una catastrofe le cui conseguenze non si possono nemmeno immaginare, ci sono paesi che hanno un po’ di respiro in più, e altri che invece arrancano di più. L’Italia è uno di questi ultimi.
Se si esaminano i principali indicatori economici l’Italia mostra di essere il fanalino di coda, da diversi anni a questa parte, non solo rispetto ai paesi emergenti, ma anche rispetto ai suoi concorrenti occidentali (che poi sono ancora i maggiori concorrenti):
il principale indice che misura la crescita della ricchezza di un paese, il Prodotto Interno Lordo, dice che mentre il PIL degli USA è cresciuto, tra il 1995 e il 2003, del 3,1%, e quello dell’area euro del 2,2%, quello dell’Italia è cresciuto dell’1,5% (il valore più basso tra i paesi europei, esclusa la Germania, cresciuta dell’1,2%); ed anche gli ultimi valori, in questi due anni di “ripresa”, vedono i valori della crescita del PIL italiano inferiori a quelli dei suoi concorrenti europei ed americano (per il 2007 la previsione è di un +1,9% per l’Italia, contro un +2,9% di media europea). E se andiamo a vedere la variazione del PIL per occupato, che è una misura più indicativa della crescita e soprattutto della produttività, si ha una ulteriore conferma: mentre il PIL per occupato, nel settore privato, è cresciuto, tra il 2001 e il 2004, negli USA del 2,9%, nell’area euro del 0,6%, in Italia c’è stata una diminuzione dello 0,2%, cioè un peggioramento in senso stretto della produttività per lavoratore (1).
E questo nonostante il salasso a cui, negli stessi anni sono stati sottoposti i lavoratori, i cui salari sono cresciuti poco, certamente molto meno della produttività, mentre sono andati peggiorando i servizi e i prezzi reali (quelli che si pagano al mercato, e non quelli che registra l’ISTAT) sono aumentati a dismisura: tutti i lavoratori hanno potuto constatare che, almeno per i generi di prima necessità, quelli che costituiscono il grosso della spesa di una famiglia proletaria, nei fatti i prezzi sono cresciuti, in maniera mascherata, fino ad assumere valori corrispondenti ad un cambio di 1 euro per mille lire, cioè l’equivalente di una inflazione di quasi il 100%! Contemporaneamente negli ultimi quindici anni, c’è stato un aumento inverosimile della precarizzazione del lavoro (contratti a termine, giornalieri, a progetto, ecc., ecc.) che hanno reso l’utilizzazione della mano d’opera estremamente flessibile (2), così da spazzare via un’altra vecchia scusa della borghesia italiana, che sosteneva che la bassa produttività dell’industria italiana era dovuta all’estrema rigidità della forza lavoro (che impediva alle aziende di adeguare la propria produzione alle esigenze del mercato).
La verità è che la diminuzione della crescita e della produttività, oltre ad essere il naturale risultato della crisi mondiale, è anche il frutto di una mancanza di investimenti, la sola che può aumentare la produttività; infatti in Italia gli investimenti fissi lordi sono diminuiti nel 2003 e 2005, rispettivamente dell’1,7% e dello 0,5%, aumentando dell’1,6% nel 2004. E questa scarsa propensione agli investimenti è legata un po’ alla storia dello sviluppo capitalistico in Italia, almeno del dopoguerra, in cui l’industria italiana è cresciuta protetta dallo Stato in maniera maggiore rispetto a quella degli altri paesi (dappertutto è infatti l’aiuto dello Stato che tiene su l’economia), e quindi è stata poco stimolata a crescere in funzione della competizione (non c’è settore di punta in cui l’industria italiana sia capace di mostrare livelli di eccellenza, tranne forse l’aerospaziale).
E’ in definitiva l’aiuto che lo Stato ha dato all’economia italiana, che è la vera ragione dell’enorme indebitamento statale (intorno al 106%) che è un’altra caratteristica che contraddistingue l’Italia rispetto ai suoi concorrenti (che pure sono indebitati, dato che il ricorso al debito, come abbiamo detto, è stato uno degli strumenti con cui il capitalismo mondiale è riuscito ad evitare un crollo verticale), e non, come sempre cerca di sostenere la borghesia per giustificare i suoi tagli al Welfare, le alte prestazioni dei servizi sociali.
E questo enorme indebitamento costituisce un ulteriore intralcio alla crescita sia per il peso degli interessi sul debito (che si mangiano gran parte dell’attivo di bilancio producendo comunque un deficit, 2,5% del PIL quello previsto per il 2007, nonostante questo attivo, 2,3% la previsione per il 2007) che per la difficoltà a ricorrere ulteriormente al credito per continuare a sostenere l’economia.
Questa debolezza organica dell’economia italiana, che ha le sue radici profonde nel ritardo con cui il capitalismo italiano è riuscito a realizzare l’unità del paese, unitamente al fatto che è l’intero sistema capitalista mondiale che è in crisi profonda, spiega come i margini di manovra per la borghesia italiana siano molto pochi e si riducano, in sostanza, alla sola capacità di aumentare lo sfruttamento dei lavoratori. Ecco perché da diversi decenni, e in maniera ancora più accelerata negli ultimi 15 anni (dalla finanziaria di Amato, 1992, 48 miliardi di euro, a quella di Prodi del 2006 sono 306 i miliardi di euro strappati agli italiani) la sola cosa che la borghesia italiana ha fatto è stato attaccare sempre più a fondo la classe operaia, e non possiamo dubitare che continuerà a fare così, visto che la competizione internazionale resta accanita.
E’ perciò che c’è poco da credere alle promesse di questo governo su una finanziaria “leggera”. Questo governo si sta specializzando nel “dare” con una mano, e solo in parte, quello che si è preso con l’altra: l’anno scorso, per esempio, la riduzione della tassazione dei redditi più bassi è stata fatta con un aumento di quella dei redditi medi (insomma di una buona parte dei lavoratori dipendenti). Quest’anno si vuole fare la stessa cosa: vedi l’esempio della “incentivazione” agli statali ad andare in pensione , così da poter reintegrare solo un nuovo lavoratore contro tre che se ne vanno (insomma una riduzione di posti del 66%!), o l’altra ipotesi di finanziare la riduzione dell’ICI sulla prima casa con un taglio di 1,3 miliardi di euro sulle spese sociali.
Il risultato di tutto ciò è sotto gli occhi di tutti (tranne che di Rifondazione Comunista): una riduzione drastica del livello di vita e del potere di acquisto; si fa sempre più fatica ad arrivare alla fine del mese, mentre cresce sempre di più l’indebitamento anche delle famiglie (passato dai circa 350 miliardi di euro di fine 2003 ai circa 490 miliardi di fine 2006, con un aumento cioè del 40%).
In questi stessi anni la sinistra dell’apparato politico della borghesia è riuscita a tenere a freno il malcontento dei lavoratori soprattutto con tutta una serie di ricatti (oltre che con il normale lavoro di sabotaggio delle lotte che operano i sindacati), tra cui quello più efficace è stato forse la paura che se non ci si tiene l'austerità dei governi di centrosinistra si rischia di far tornare Berlusconi al governo. E’ arrivata l’ora di sottrarsi a questo ricatto, di prendere coscienza che di destra o di sinistra tutti i partiti sono i difensori del capitalismo nazionale, e che solo la lotta unita di tutti i lavoratori può mettere un freno a questo stillicidio di attacchi alle nostre condizioni di vita.
Helios, 24/09/07
1. Dati presi dai rapporti dell’OCSE e dai quotidiani di queste settimane per i dati più recenti.
2. Nonché di alterare i dati dell’occupazione: è chiaro infatti che anche un lavoratore precario e a tempo ridotto viene conteggiato come occupato, così che il tasso di disoccupazione ufficiale risulta inferiore a quello reale (che invece dovrebbe tener conto anche dei giorni di occupazione e dell’orario di lavoro, perché è chiaro che due lavoratori a part time, per esempio, risultano sì due occupati, ma su un solo posto di lavoro!
A sentire la borghesia tutto andava per il meglio: valori record nelle borse, crescita sostenuta, prezzi sotto controllo. E poi, all’inizio di luglio... patatrac, si scatena una vera e propria tempesta in borsa che smaschera tutta la falsità di questi bei discorsi! In poche settimane, sulla scia del Dow Jones, l’indice newyorchese che ha ripiegato di oltre il 10%, le principali borse del mondo subiscono una caduta brutale.
Per arginare momentaneamente questa crisi, la FED e la BCE1 hanno scaricato più di 330 miliardi di dollari sui mercati! Queste somme colossali iniettate dalle differenti banche centrali bastano a testimoniare l’ampiezza del sisma ed i reali timori di tutte le borghesie. Oggi gli “esperti” ed altri imbonitori tentano nuovamente di illuderci presentandoci dei “conti” che non stanno né in cielo né in terra: questa convulsione estiva sarebbe solamente passeggera o, meglio ancora, una “correzione salutare” degli eccessi speculativi di questi ultimi anni! In realtà queste scosse sono il segno di una nuova fase di accelerazione della crisi, la più grave e più profonda dalla fine degli anni 60. E, come sempre, sarà la classe operaia a subirne le conseguenze.
Il mostro dell’indebitamento rivela il fallimento storico del capitalismoNelle colonne della stampa o nei programmi televisivi di questa estate, quando milioni di dollari sono andati ogni giorno in fumo, cosa hanno detto gli economisti borghesi? “Imprevedibile”. La crisi sarebbe esplosa senza un segno premonitore, come un fulmine a cielo sereno. Menzogne! I record borsistici, la fiammata immobiliare, ed anche la crescita, tutto questo era costruito sulla sabbia e tutti lo sapevano. La nostra organizzazione già nella scorsa primavera affermava che la pretesa buona salute dell’economia mondiale, che si basava sull’indebitamento, stava preparando un oscuro avvenire: “In realtà, si tratta di una vera fuga che lungi dal permettere una soluzione definitiva alle contraddizioni del capitalismo non fa che preparargli giorni futuri più dolorosi ed in particolare dei rallentamenti brutali della sua crescita” 2. Non si trattava di una premonizione ma di un’analisi fondata sulla storia del capitalismo. La crisi finanziaria attuale è una crisi dell’indebitamento e del credito. E questo indebitamento mostruoso non cade del cielo. È il prodotto di quarant’anni di sviluppo lento e contrastato della crisi mondiale.
Dalla fine degli anni 60 il capitalismo sopravvive attraverso il ricorso crescente all’indebitamento. Nel 1967 l’economia mondiale ha cominciato a rallentare. E da allora, decennio dopo decennio, la crescita è sempre stata più debole. La sola risposta della borghesia è stata mantenere il suo sistema sotto perfusione, iniettando somme di denaro sempre più folli sotto forma di credito e di debito. La storia economica di questi quaranta ultimi anni è rappresentata da una spirale infernale: crisi... indebitamento... più crisi... più indebitamento... Dopo gli shock petroliferi del 1973 e del 1979, c’è stata la recessione aperta del 1991-1993, la crisi asiatica del 1997-98 e lo scoppio della bolla Internet del 2000-2002. Ogni volta queste convulsioni sono state più violente e le conseguenze più drammatiche.
Oggi la crisi esplode di nuovo mentre l’indebitamento ha raggiunto livelli inimmaginabili. Il debito totale degli Stati Uniti, prima potenza militare ed economica del mondo, è passato da 630 miliardi di dollari nel 1970 a 36.850 miliardi nel 2003. E da allora la macchina si è totalmente imbizzarrita. Il debito cresce di 1,64 miliardi di dollari al giorno! Queste cifre vertiginose mostrano chiaramente che la crisi finanziaria attuale è ben più profonda di tutte quelle che l’hanno preceduta.
La crisi immobiliare ha scatenato una crisi finanziaria ancora più grandeDa un decennio, la follia speculativa ha invaso tutti i settori di attività. Come mai prima, la schiacciante maggioranza dei capitali non riesce più ad essere investita nell’economia reale (le imprese che producono dei beni e delle merci) per realizzare sufficienti profitti. Pertanto questi vengono orientati verso la pura e semplice speculazione. Banche, istituti di credito, società di speculazione più o meno specializzate negli investimenti a rischio (le famose hedge funds 3), dovunque si è assistito alla corsa verso questo supposto nuovo Eldorado. Il denaro, i crediti si sono messi allora a colare a fiotti. La borghesia sembrava avere un’unica ossessione, indebitarsi ed indebitarsi ancora.
È in questo contesto totalmente folle che le famiglie negli Stati Uniti ma anche, in misura minore, in Gran Bretagna ed in Spagna, sono state fortemente incoraggiate ad acquistare immobili e case senza averne realmente i mezzi. Le imprese finanziarie si sono messe a prestare denaro alle famiglie operaie a redditi estremamente modesti sull’unica garanzia del loro bene immobiliare. Il principio di base di questi mutui ipotecari (chiamati subprime) è questo: quando il Sig. X vuole acquistare una casa a 100.000 $, un organismo di credito, una banca per esempio, gli presta i fondi senza riserva e senza altra garanzia che l’ipoteca su questa casa. Se il Sig. X. è super indebitato e non riesce più a rimborsare il prestito, l’organismo di credito si riprende la casa, la rivende e recupera i suoi fondi, ossia i 100.000 $. Questa è l’unica garanzia per la banca. E' per tale motivo che sono principalmente gli hedge-funds (specialisti negli investimenti a rischio) a partecipare a questi subprime. I lavoratori salariati, potendo in tal modo ottenere più facilmente dei prestiti, sono stati quelli che più ne hanno usufruito per poter avere una casa propria. Come conseguenza i prezzi degli immobili hanno iniziato a lievitare, in media del 10% l’anno. I lavoratori, dai salari estremamente bassi, per poter acquistare della merce non hanno potuto far altro che ricorrere al debito; hanno dunque continuato ad indebitarsi al di là di ogni ragionevolezza, ipotecando la propria casa che nel frattempo valeva di più. Per esempio, il nostro Sig. X, vedendo aumentare fino a 120.000 $ il valore della sua casa, può nuovamente ricorrere al credito per 20.000 $ corrispondenti al maggior valore ipotecario. Poi il valore arriva a 150.000$. Il Sig. X può ancora ipotecare i nuovi 30.000$! E così via. Ma questa spirale ha un limite. Da un lato, la classe operaia si depaupera (licenziamenti, congelamento dei salari...); dall’altro, essendo i prestiti negli Stati Uniti a tassi variabili, questi crescono e le scadenze sono, mese dopo mese, di un importo sempre più elevato. Il risultato è tanto inesorabile quanto fatidico. Nel momento in cui un numero consistente di lavoratori non riesce più a rimborsare le rate ormai astronomiche, le banche procedono alle requisizioni dei beni ipotecati, la crisi esplode e la bolla immobiliare crolla, come appunto accade attualmente. Il numero delle case in vendita si moltiplica e dunque i prezzi cadono (potrebbero cadere dal 15 al 30%). Effetto perverso, il potere d’acquisto di milioni di famiglie che si basa proprio sul prezzo della loro casa e dunque della loro capacità di indebitarsi, con questa caduta dell’immobiliare crolla e li porta alla bancarotta. Se il valore della casa del Sig. X diminuisce (mettiamo a 110.000$), le banche non recuperano più i loro fondi, il Sig. X, non solo non ha più casa, non solo ha rimborsato gli interessi per parecchi anni, ma deve ancora la differenza alla finanziaria, ossia 40.000$ più gli interessi! Il risultato di tutto ciò non si è fatto attendere: più di tre milioni di famiglie si ritroveranno in mezzo alla strada questo autunno.
Nello stesso tempo, gli hedge-funds, oltre a prestare denaro sotto forma di subprime, si sono a loro volta super indebitate presso le banche ed altri organismi di credito per avere i mezzi necessari per speculare sui beni immobiliari. Il principio è semplice: acquistare un bene e rivenderlo successivamente puntando al rialzo del mercato immobiliare. Così, lo scoppio della bolla immobiliare significa anche il fallimento di tutti questi fondi. Infatti, proprio recuperando i beni ipotecati e gettando milioni di persone sul lastrico, questi organismi ereditano case che non valgono più niente. Per effetto domino anche le banche ed altri organismi di credito vengono coinvolte. Immaginate! Queste istituzioni chiedevano prestiti le une alle altre al punto di non sapere più chi doveva del denaro ed a chi! Ogni giorno che passa apprendiamo che una banca o un istituto di credito è sull’orlo del fallimento o sono già fallite come, ad esempio la banca Countrywide negli Stati Uniti o la Sachen LB e la IKB in Germania. I loro debiti, che corrispondono all’investimento nei settori a rischio, ammontano a più di 10.200 miliardi di dollari! Adesso è tutto il settore speculativo e del credito ad entrare in crisi aperta.
La classe operaia ancora una volta paga i cocci rotti: nel mese di agosto i piccoli risparmiatori negli Stati Uniti ed in Germania sono corsi nelle banche per cercare di salvare i loro risparmi. Sarà certamente la stessa cosa domani in Gran Bretagna, in Spagna, in Giappone o in Cina.
Dietro la crisi finanziaria, la crisi dell'economia “reale”Una crisi finanziaria di tale portata diventa sempre una crisi dell’economia reale. La sola questione da porsi oggi è relativa alla sua ampiezza. Ancora prima della crisi finanziaria di questa estate, gli specialisti della borghesia avevano già iniziato a rivedere al ribasso le previsioni della crescita mondiale. Nel gennaio 2007 le Nazioni Unite annunciavano che questa sarebbe arretrato al 3,2% quest’anno, dopo avere ostentato il 3,8% nel 2006 e 4,5% nel 2005. Ma con lo scoppio della crisi borsistica, tutte queste cifre vanno di nuovo riviste al ribasso.
In effetti, la profonda crisi del credito significa inesorabilmente un abbassamento brutale di attività per tutte le imprese. Più nessuno vuole o può prestare del denaro alle imprese per investire. Ora, i benefici record che queste talvolta ostentano sono in realtà basati in grandissima parte su un indebitamento massiccio. Chiuso il rubinetto del credito, la maggior parte di queste imprese si ritrovano in una brutta posizione. L’esempio più sorprendente è indubbiamente il settore edile. Essendo la bolla immobiliare basata unicamente sui prestiti a rischio, il numero di costruzioni va a cadere; questa attività si riduce molto negli Stati Uniti, ma anche in Gran Bretagna, in Germania, in Spagna ed in altri paesi sviluppati, pertanto viene ad essere colpita l’insieme della crescita. E le ripercussioni vanno ben oltre: “dato che negli Stati Uniti un prestito immobiliare finanzia almeno l’80% dei consumi, è tutta la domanda delle famiglie che è colpita. Il consumo americano va dunque a piegarsi e perde da un punto ad un punto e mezzo, la crescita dell’anno prossimo invece di raggiungere il 3,5%, potrebbe non superare il 2%” (Patrick Artuis La Tribune de l’Economie, del 27/08/07). E siamo ancora in uno scenario ottimista. Certi specialisti sono d’accordo nel dire che la crescita americana dovrà attestarsi al di sotto dell’1%! Questa recessione americana ha naturalmente un’importanza mondiale. L’Europa ha un’economia profondamente legata all’attività d’oltre Atlantico. Inoltre il rallentamento attuale di queste due economie avrà necessariamente forti ripercussioni in Cina e nell’insieme dell’Asia. L’Europa e gli Stati Uniti rappresentano il 40% delle esportazioni cinesi! È dunque tutta la crescita mondiale che rallenterà brutalmente.
Ma manca ancora un fattore aggravante per comprendere bene ciò che sta per accadere: il ritorno dell’inflazione. In Cina, questo paese benedetto dai capitalisti per i suoi tassi di crescita a due cifre, ha un tasso di inflazione del 5,6% annuo (il più alto livello da dieci anni) e che continua ad aumentare di mese in mese. Questo paese è il simbolo di una tendenza che adesso si sviluppa internazionalmente in particolare nel settore delle materie prime e dell’alimentazione. I prezzi degli alimenti di base dovrebbero arrivare vicino al 10%. Effetto palla di neve: il consumo della classe operaia e della grande maggioranza della popolazione subisce un colpo d’arresto, il che aggrava ancora di più la situazione delle imprese.
Dalla fine degli anni 60 si sono avute ripetute cadute della borsa e recessioni. Ogni volta queste sono state più brutali e profonde. Questo nuovo episodio non sfuggirà alla regola, rappresenta un passo qualitativo supplementare, un aggravamento senza precedenti della crisi storica del capitalismo. È la prima volta che tutti gli indicatori economici virano al rosso simultaneamente: crisi del credito e dei consumai, indebitamento faraonico, recessione ed inflazione! Eccoci di fronte alla peggiore recessione da più di quarant'anni. I colpi cadranno sulle spalle della classe operaia; solo la lotta unita e solidale ci permetterà di farvi fronte!
Tino (30 agosto)
(da Revolution Internazionale, settembre 2007)
1. FED = Banca Centrale Americana; BCE = Banca Centrale Europea.
2. Risoluzione sulla situazione internazionale adottata al nostro ultimo congresso e pubblicata nella nostra Revue internationale n°130 e sul nostro sito internet.
3. Gli hedges funds gestiscono ufficialmente circa 1.300 miliardi di dollari.
L’estate del 2007 è stata ancora una volta marcata dal crescente caos militare e dall’orrore nella maggior parte del mondo. Mentre in Libano la situazione si è momentaneamente calmata (con l’eccezione della carneficina nel campo profughi di Nahr el-Bared dopo una lunga tregua tra l’esercito e gli islamici), in Afghanistan si è avuta una netta ascesa nello scontro e negli attacchi terroristici da parte dei Talebani. Nel frattempo il massacro in Iraq è continuato senza tregua. A dozzine muoiono ogni giorno, sia nei conflitti armati che negli attentati suicidi, la maggior parte dei quali diretti sulla popolazione inerme. Questa insana violenza si è diffusa in tutto il paese in modo crescente ed incontrollato. Cinquecento persone della comunità Yazidi¹ sono state uccise con quattro attacchi successivi esplosi in agosto, mentre Curdi, Sunniti e Sciiti erano contemporaneamente sotto attacco. Nel solo mese di luglio 1650 civili iracheni sono morti e i dati di agosto sono probabilmente peggiori.
Dal 2003, centinaia di migliaia di iracheni hanno perso la vita come diretta conseguenza della guerra. La popolazione è affamata, privata di assistenza medica, l’elettricità e l’acqua sono un lusso. Bagdad è trasformata in una serie di ghetti murati, con famiglie divise a metà, e gestiti da ogni tipo di bande rivali tra loro.
Più di due milioni di persone sono fuggite attraverso il paese cercando di sfuggire al massacro, lo stesso numero ha invece lasciato il paese per la stessa ragione.
L’esercito americano ha avuto ufficialmente più di 3.000 perdite; alcune fonti dicono 10.000, senza contare il numero crescente di suicidi (100 solo nel 2006) e tra i ranghi ci sono rumori di rivolta.
Questa è l’immediata eredità della grande guerra al terrorismo dell’amministrazione Bush. Secondo i recenti sondaggi il 58% degli americani adesso pensa che la guerra è stato un errore.
La crociata anti-terrorismo degli Stati Uniti è stata un fallimento totale ed ha lasciato Washington in una vera impasse. Le varie opzioni che può prendere in considerazione oggi le sono tutte sfavorevoli. Bush è stato incapace di insediare un governo iracheno che avesse un minimo di credibilità e che non rappresentasse la semplice espressione del dissenso tra sciiti e sunniti. Le rappresentanze di questo governo si sono spartite le armi concesse alle autorità irachene dal Pentagono negli ultimi tre anni, formando quindi gli arsenali per le rispettive cricche. Per non parlare delle forze di polizia che frequentemente permettono l’accesso dei terroristi-kamikaze nei campi militari americani. Ciò per quanto riguarda l’affidabilità delle istanze e degli uomini messi in piazza dagli Stati Uniti. La loro permanenza in Iraq non cambia la situazione se non aggravarla ancora di più sul posto ed aumentare l’opposizione alla guerra negli Stati Uniti.
D’altra parte abbandonare l’Iraq (operazione che richiede parecchi mesi trattandosi 150.000 uomini) potrebbe essere molto costoso in termini di sicurezza per l’esercito statunitense ed aprire la strada ad esplosioni di violenza ulteriori, con l’Iran che attende ai cancelli. Questo non può essere certo controbilanciato dai 90 uomini che l’ONU ha intenzione di mandare in Iraq, al posto dei 65 già presenti sul posto.
Tuttavia, la prospettiva di un ritiro quanto meno parziale è ormai prevista dall’amministrazione Bush. In questa ottica e per controbilanciare le ambizioni egemoniche di Teheran, gli Stati Uniti stanno cercando di costruire un blocco di paesi arabi pro-americani tra gli stati Arabi offrendosi di rinforzare i loro apparati militari: 20 miliardi di dollari spesi negli ultimi dieci anni in armamenti ultra sofisticati per l’Arabia Saudita, Qatar, Bahrain, Kuwait e Emirati Arabi, e tredici miliardi per l’Egitto nello stesso periodo. Naturalmente Israele ha reclamato la propria parte dato che non ha intenzione di veder sminuire la propria superiorità militare nella regione. La cifra ammonta a 30 miliardi di dollari in armi, vale a dire un aumento del 25% dei rifornimenti militari Usa al governo Israeliano. In altre parole gli Stati Uniti stanno concentrando scorte di armi in una regione già altamente instabile. Nel caso dell’Arabia Saudita è come rimpinzare un paese da sempre sospettato di appoggiare i terroristi sunniti in Iraq, incluso Al Qaeda.
In un mondo dove la regola è “ognuno per sé”, la risposta della potenza alla guida del mondo è esasperare ancora di più il caos.
Dalla fine del 2006 assistiamo ad una febbrile crescita nella corsa agli armamenti. Ottenere armi nucleari è diventato il principale obbiettivo per molti Stati. Questo non può sorprenderci. I test nucleari della Corea del Nord sono iniziati nel 2006, i ripetuti acquisti di tecnologia nucleare e missili russi da parte dell’Iran nell’ultimo anno, le ambizioni di paesi come il Brasile di riattivare i propri programmi nucleari, … questi sono tutti segnali di come tutti i paesi non si accontentano più di stare sotto “ombrello nucleare” di questa o quella grande potenza, ma vogliono avere le proprie armi.
Gli stessi Stati Uniti hanno giocato un ruolo importante in questa corsa. A seguito della collisione tra il satellite meteorologico americano ed il missile cinese avvenuta nel gennaio del 2007 – un evento che ha evidenziato la potenziale debolezza degli USA nel controllare le proprie forze terrestri, aeree e navali a grande distanza – la risposta è stata di rafforzare il proprio scudo anti-missili alle porte della Russia. Quest’ultima ha risposto con la vaga minaccia di puntare verso le città europee e con quella più concreta di installare missili a Kaliningrad sul Baltico, proprio tra Polonia e Lituania, in prossimità dello scudo americano.
Ma la corsa all’armamento nucleare non è una prerogativa delle grandi potenze. Stiamo infatti assistendo allo sviluppo di una cintura nucleare che corre dal medio all’estremo Oriente, da Israele alla Corea del Nord, passando per India, Cina e Pakistan, il tutto sovrastato dall’arsenale russo. In breve, una polveriera atomica, localizzata in regioni che già sono teatro di ogni sorta di tensioni e conflitti aperti. Una spada di Damocle sulle nostre teste che non sarà sollevata dai trattati di non proliferazione che non valgono neanche la carta su cui sono scritti. Solo il massiccio sviluppo della lotta di classe e l’abbattimento del capitalismo porrà fine della minaccia della guerra e darà un futuro all’umanità.
Mulan
(basato su un articolo apparso in Revolution Internationale 382, Settembre 2007).
1. Gli Yazidi sono una comunità religiosa vista come eretica dall’islam sunnita ortodosso. Molti di loro sono Curdi.
Gli articoli che seguono sono solo qualche esempio della risposta che la classe a livello internazionale sta dando contro effetti della crisi mondiale. Dall’inizio dell’anno le lotte si sono susseguite in molti paesi del mondo, dall’Europa all’America Latina, al Sud-Africa, dagli USA alla Cina. Lotte certo ancora sparpagliate e circoscritte, ma significative della tendenza ad uno sviluppo importante dello scontro di classe.
In Gran Bretagna questa estate i lavoratori delle poste, della metropolitana di Londra e del settore pubblico sono scesi in lotta contro gli irrisori aumenti salariali e la perdita di posti di lavoro (solo nelle poste negli ultimi anni si sono persi 50.000 posti di lavoro e se ne prevede l’eliminazione di altri 40.000).
In Spagna, ad aprile, 40.000 operai provenienti da tutte le fabbriche della Baia di Cadice sono scesi in piazza per manifestare la loro solidarietà nella lotta con gli operai licenziati a Delfi ed un movimento ancora più ampio si è esteso, in maggio, nelle altre province dell’Andalusia.
In Germania, per sei settimane hanno avuto luogo tutta una serie di scioperi coinvolgendo 50.000 operai della Telecom ed anche i ferrovieri sono scesi in lotta per difendere il salario.
In Belgio, all’inizio di luglio a Oostakker, è scoppiato uno sciopero selvaggio alla Volvo durante il rinnovo contrattuale, con gli operai che manifestavano in piazza mentre i sindacati continuavano le trattative, allo stesso tempo alla Opel di Anversa con una serie di scioperi e proteste (molte non “ufficiali”) i lavoratori lottavano contro la perdita di numerosi posti di lavoro.
E mentre nel Sud-Africa in luglio ed agosto sono continuate le lotte nelle miniere, ma anche nel settore auto ed in una serie di industrie manifatturiere, in America latina alle numerose lotte che da mesi scoppiano in Perù ed in Messico (3715 fabbriche colpite da scioperi nei primi sei mesi dell’anno), si aggiungono quelle dei lavoratori del metrò di Buenos Aires, in Argentina, che nelle assemblee generali hanno organizzato un sciopero contro l’accordo salariale firmato dai propri sindacati. Ed in Brasile, dopo la lotta dei controllori di volo dello scorso marzo, contro il pessimo stato del servizio aereo e soprattutto contro l’arresto di 16 loro compagni di lavoro perché avevano scioperato, in giugno per più settimane, un diffuso movimento di sciopero ha interessato il settore dell’acciaio, il settore pubblico e le università - il più importante movimento di classe in questo paese dal 1986.
Per maggiori informazioni vedi il nostro sito internet: www.internationalism.org [5]Nello scorso giugno, in Sud Africa ha avuto luogo uno sciopero di quattro settimane¹. Tra 600.000 ed un milione di lavoratori hanno interrotto il lavoro provocando la chiusura della maggior parte delle scuole e di numerosi uffici, il blocco di alcuni trasporti pubblici e la sostituzione del personale degli ospedali con personale militare. Questo movimento della classe operaia è il più importante dalla fine dell’apartheid nel 1994. Durante questi scioperi il sindacato COSATU ed il SACP (Partito Comunista del Sud Africa), che fanno parte della coalizione governativa al potere con l’ANC, si sono dati da fare per demolire la forza dello sciopero e fare passare gli attacchi al potere d’acquisto dei salari.
La fine dell’apartheid non ha cambiato niente
Le condizioni di vita e di lavoro in Sud Africa si sono deteriorate terribilmente per la maggioranza della popolazione. La speranza di vita, il grado di alfabetizzazione, l’assistenza sanitaria sono tramontati. Adesso 5,5 milioni di pazienti sono colpiti dall’AIDS, la cifra più alta al mondo.
I sindacati, i commentatori di sinistra e di ultra sinistra accusano regolarmente la politica “pro-business” e particolarmente avida del presidente Thabo Mbeki. Ma non è a causa della cupidigia o di politiche economiche particolari che il governo ANC/SACP/COSATU attacca le condizioni di vita degli operai e degli altri strati non sfruttatori in Sud Africa. Un governo capitalista non può essere altro che “pro-business” e dunque contro la classe operaia. La sola “liberazione” che sia sopraggiunta nel 1994 è stata quella di un piccolo numero di attivisti politici neri per occupare una posizione più importante nell’apparato politico della classe dominante e ingannare meglio la classe operaia. Le elezioni che ci sono state dopo sono servite a rafforzare l’idea che, con l’arrivo di una maggiore democrazia, qualche cosa di fondamentale era cambiato nella società sud-africana. Il Socialist Worker (9 maggio 2007) ha riportato le riflessioni di un operaio in una manifestazione a Pretoria: “pensavamo che il governo ci avrebbe sostenuto come operai perché noi li abbiamo messi al potere, ma è come se ci avesse dimenticato”. Questo tipo di illusioni è sostenuto costantemente dai sindacati e dalle frange più “radicali” della sinistra borghese che sono ben contenti di blaterare sulle concessioni dell’ANC al neo liberismo ma non l’etichettano mai apertamente come parte a pieno titolo della borghesia.
Prospettive per le lotte future
Alcuni commentatori hanno visto il recente sciopero come un segno del ruolo più indipendente che i sindacati stavano giocando e che ciò avrebbe potuto incoraggiare gli operai ad intraprendere azioni future. In realtà, è proprio perché cresce il malcontento tra la classe operaia che i sindacati cercano di prendere le distanze dal governo. In Socialist Workers (23 giugno 2007), un membro dell’organizzazione gauschista South Africa’s Keep avanzava l’idea che il clima in corso “apre la porta ad una rinascita dell’azione autonoma durante gli scioperi”. Ciò che è certo è che tutti i pretesi difensori della classe operaia (sindacati ed altri) si sarebbero opposti con tutte le forze all’emergere di una reale azione autonoma degli operai. Una reale lotta autonoma avrebbe potuto permettere ai lavoratori di prendere in mano le proprie lotte, al di fuori dei sindacati. E ciò non è avvenuto.
Questa lotta, sebbene più significativa, non è affatto un episodio inedito nell’ultimo decennio. Nell’agosto 2005, 100.000 operai delle miniere d’oro hanno scioperato per rivendicazioni salariali. Nel settembre 2004, si è vista la più importante giornata di sciopero come numero di partecipanti della storia del Sud Africa: 800.000 secondo le cifre fornite dai sindacati, 250.000 secondo quelle del governo. Particolarmente inferociti erano gli insegnanti che non ricevevano aumenti salariali dal 1996. Nel luglio 2001, c’era stata un’ondata di scioperi nel settore minerario ed in quello energetico; nell’agosto 2001, uno sciopero di tre settimane che ha coinvolto 20.000 operai del settore automobilistico. Nel maggio 2000, gli scioperi nell’industria delle miniere si sono estesi al settore pubblico. Durante l’estate 1999, ci sono state ondate di scioperi che hanno incluso i lavoratori delle poste, delle miniere e del settore pubblico (insegnanti, ospedalieri, ed altri).
Implicitamente tutte queste lotte hanno portato oggi gli operai ad insorgere contro l’ANC ed il governo sud-africano. Ma l’ultima ondata di scioperi ha mostrato anche la necessità per la classe operaia di sviluppare una presa di coscienza sulla natura borghese di questi falsi amici (partiti di sinistra e sindacati) e del significato globale delle sue lotte.
Da World Revolution, sezione della CCI in Gran Bretagna
1. Una versione più dettagliata di questo articolo è disponibile sul nostro sito: www.internationalism.org [5]
Un compagno di Lima, che è in corrispondenza e discute regolarmente con la nostra organizzazione, ci ha inviato recentemente un articolo sullo sciopero dei minato in Perù dell’aprile scorso (vedere Acción Proletaria n° 195) e degli elementi su un movimento di insegnanti che si stava sviluppando quando i focolai della prima lotta non erano ancora spenti. Salutiamo calorosamente questo sforzo del compagno perché è di primaria importanza che circolino velocemente le esperienze, le lezioni, le notizie sulle lotte operaie che sorgono nel mondo. Il contributo del compagno è un esempio che incoraggiamo a seguire. L’articolo che segue è ripreso interamente dai testi e dagli elementi informativi che il compagno ci ha inviato.
La situazione sociale nel Sud America è sempre più contrassegnata dallo sviluppo di lotte operaie. In Cile, dall’anno scorso, hanno luogo scioperi a ripetizione nelle miniere di rame il cui sfruttamento rappresenta il 40% della produzione mondiale. Il che evidenzia l’importanza del settore minerario in questo paese dove la classe operaia conosce una brutale degradazione delle condizioni di vita e di lavoro. È difficile ottenere notizie precise su questi movimenti. I media organizzano il blackout. Sappiamo solamente che i sindacati hanno organizzato una forte divisione tra gli operai dell’impresa statale CODELCO e quelli delle imprese subappaltate, dando a questi ultimi un terzo di stipendio in meno per lo stesso lavoro, come pure tra gli scioperanti e gli operai al lavoro. Lo sciopero è durato trentotto giorni, fino a luglio, concludendosi con promesse di miglioramenti contrattuali per gli operai in subappalto, senza per questo modificarne lo statuto che era invece la loro principale rivendicazione.
Sciopero nelle miniere in Perù
In aprile, lo sciopero partito dall’impresa cinese Shougang si è esteso in tutti i centri minerari del paese. I sindacati hanno giocato pienamente il loro ruolo reazionario, in particolare nella più importante miniera del paese, Yanacocha (miniera di oro che si trova a Cajamarca, nel nord del paese, e fattura tra gli ottocento ed i mille milioni di dollari annui) dove hanno intavolato trattative private con la direzione e non si sono uniti allo sciopero. Addirittura, i sindacalisti del bacino di Oroya sono stati fustigati dalla stampa perché continuavano a lavorare.
A Chimbote, dove c’è stata anche una forte lotta dei contadini e dei disoccupati, l’impresa Sider Perù è stata totalmente paralizzata. Le donne dei minatori e gran parte della popolazione di questa città hanno manifestato al fianco degli operai. Ad Ilo, così come a Cerro di Pasco, le strade sono state bloccate e 15 minatori sono stati arrestati con l’imputazione di avere lanciato delle pietre contro la sede del Governo regionale. La stampa si è affrettata a proclamare che lo sciopero era stato un insuccesso parlando di 5.700 minatori in sciopero mentre erano 120.000.
Nelle montagne di Lima i minatori di Casapalca hanno sequestrato gli ingegneri della miniera che minacciavano di licenziarli se avessero abbandonato il posto di lavoro. Il ministro del settore, Pinella, ha dichiarato che lo sciopero era illegale perché il preavviso era stato solamente di quattro giorni invece dei cinque richiesti dalla legge. Il padronato ha assunto del personale con contratto a tempo determinato ed il ministro ha minacciato di licenziamento i minatori che continuavano lo sciopero.
Alcuni studenti dell’università di San Marcos di Lima hanno solidarizzato con i minatori e hanno portato loro del cibo per la “mensa comune”, pratica corrente in tutti gli scioperi in Perù, sia che si tratti degli insegnanti, degli infermieri o degli operai delle miniere, che serve anche a scambiare esperienze ed ad analizzare collettivamente la lotta giorno dopo giorno.
È significativo che questo sciopero nazionale illimitato abbia avuto luogo dopo 20 anni di calma sociale in questo settore.
Lotte degli insegnanti in Perù
Il 19 giugno, il dirigente sindacalista degli insegnati, Huaynalaya, ha proclamato uno sciopero nazionale, ed il suo appello ha trovato un’eco in tutto il paese. Huaynalaya è considerato dalla stampa un oppositore alla maggioranza del sindacato degli insegnanti (SUTEP), e uno che assume un orientamento pro-cinese all’interno del partito Patria rossa.
Il sindacato si è alla fine unito allo sciopero il 5 luglio. Nei giorni precedenti i giornalisti, i cui programmi politici hanno un alto indice di ascolto, hanno dedicato ampi spazi alla denigrazione del movimento.
La posizione della stampa è stata chiarissima: gli insegnanti sono responsabili della propria incapacità intellettuale e si fanno portatori di una “cultura dello sciopero” che priva i bambini e gli adolescenti della nazione di preziose ore di lezione. Argomentazione alquanto contraddittoria: come possono essere preziose delle ore di lezione tenute da incapaci?
In realtà quello che si teme è che gli studenti scendano in piazza per sostenere gli insegnanti come accadde nel 1977, esperienza che fece nascere all’epoca una nuova generazione di militanti di diversi partiti che si orientarono verso la lotta armata.
Lo stesso ministro dell’Educazione ha affermato che gli scioperanti erano solo 5.000 su 250.000 insegnanti impiegati nel suo ministero. Ha dovuto poi riconoscere il suo “errore”. La mobilitazione si è estesa in tutto il paese: a Juliaca, Puno, Ucayali, Ayacucho e Huanuco. In più gli insegnanti sono stati sostenuti da tutta la popolazione, come era capitato due mesi prima quando gli scioperi dei minatori mobilitavano quasi tutto il paese. Un lavoro di coordinamento e presenza di settori più combattivi capaci di fare un bilancio di questa esperienza restano ancora molto limitati. I sindacati sono ancora in primo piano e diventano un freno al movimento di rivendicazioni operaie.
Riflessioni sulle lotte attuali
Le lotte attuali in Perù e che coprono tutto il territorio sono il frutto di una confluenza di avvenimenti che trovano le loro origini in due focolai di malcontento. Da una parte, le rivendicazioni a carattere regionale, in particolare a Pucallpa dove la città è stata presa ed isolata per più di 15 giorni e, dall’altra, lo sciopero del sindacato degli insegnanti SUTEP, cominciato il 19 giugno nella provincia dagli insegnanti che si opponevano agli orientamenti del partito Patria rossa (partito di sinistra della borghesia) e raggiunto in seguito dall’insieme del sindacato, con l’adesione della maggioranza dei 320.000 insegnati in Perù a partire dal 5 luglio.
Questa mobilitazione unita alle rivendicazioni regionali (eteroclite e necessariamente molto localiste) ha suscitato una gigantesca reazione di massa in tutto il paese. Il numero di feriti e di arresti resta sconosciuto, e le occupazioni di locali, incendiati e distrutti durante gli scontri con la polizia, si sono estese in tutti i dipartimenti in lotta. Il ministero ha confessato, il 9 luglio, che rimanevano 75 conflitti non risolti, il che indica che in realtà il loro numero è ben più alto.
Le lotte attuali, nonostante la violenza che scatenano, non contengono una prospettiva di autonomia del proletariato che gli permetta di lottare per i propri obiettivi ed il proprio programma. Il proletariato in questo momento è sottomesso agli interessi della borghesia locale ed ai suoi alleati piccoli borghesi di ogni risma (intellettuali, giornalisti…), ma i proletari che intervengono in questi movimenti devono costituire i nuclei che permettano di trarne le lezioni e favorire l’autonomia della lotta, unico percorso dell’unica classe capace di farla finita con la disperazione del sistema capitalista ed il suo corteo di miseria, di morte e di distruzione, la classe operaia.
Lima, 9 luglio 2007.
Da Révolution Internationale, organo della CCI in Francia
L’articolo di Programma comincia con una serie di falsità inventate di sana pianta. “Gli organizzatori e i convenuti facevano parte di un’area composita che intendeva valutare la possibilità di organizzare un lavoro comune “di lungo respiro” nei prossimi appuntamenti contro la guerra. Tra i partecipanti, anche Battaglia comunista (BC) la Corrente Comunista Internazionale (CCI) (…) i quali evidentemente pensano che a questi convegni vada dato un apporto programmatico (scritto o verbale) per giungere così a un minimo di omogeneità politica, in vista di un intervento comune”.
La CCI, che ha partecipato al convegno, si è battuta contro l’idea che il tutto si riducesse a organizzare l’ennesima manifestazione assieme e mettendo al centro la questione della chiarificazione e del confronto su cosa significasse realmente essere internazionalisti. Programma avrebbe per lo meno dovuto documentarsi prima di dire tali eresie. Per il resto l’articolo di Programma fa tutta una serie di critiche a posizioni presenti al convegno che noi condividiamo perfettamente. E’ vero che diverse formazioni presenti al convegno difendevano posizioni decisamente borghesi, ma altre erano piuttosto l’espressione di una ricerca di una prospettiva proletaria, anche se contaminata dall’influenza di visioni borghesi, come era chiaro dallo stesso documento di convocazione del convegno.
Che fare dunque? Stare alla larga da tale “contaminazione” o intervenire, come ha fatto la CCI?
Programma è per la prima ipotesi, non impelagarsi in alcun modo in discussioni con altre forze politiche. La posizione di Programma è cioè ancora una volta quella che espresse nel lontano 1976 a proposito della prima delle tre Conferenze della Sinistra Comunista, tenute dal 1976 al 1980, quando parlò di “fottenti e fottuti”, ritenendo cioè che qualunque discussione tra gruppi - ed allora si trattava di gruppi rivoluzionari - avesse dietro un inganno degli uni contro gli altri3. Chi sa mai poi perché, negli stessi anni ’70, Programma è andata rincorrendo, a destra e a manca, i vari gruppetti di “autonomi”, di stalinisti e altro ancora per riempire i comitati contro questo e quello, che facevano all’epoca tanto “azione di partito” e su cui è poi naufragata miseramente4.
Programma considera ancora che un ulteriore segno dell’opportunismo del convegno sia stato quello di non aver parlato “mai della necessità del partito comunista su scala internazionale (è l’ultima delle loro preoccupazioni)”. Ma ci chiediamo a questo punto cosa intenda Programma per partito, qual è il ruolo che gli attribuisce? Noi pensiamo che sia quello di portare avanti un’analisi e un programma tra i proletari, di cercare gli argomenti per permettere loro di arrivare ad una chiarezza politica, di dare loro la forza per superare le loro esitazioni, per lottare, per aggregarsi, per osare pensare che un mondo diverso, comunista, si possa realmente realizzare. Ma per fare questo un partito (o un gruppo che voglia mettersi sulla strada per costruire il partito di domani) deve lottare sin da oggi, deve svolgere il suo intervento di chiarezza soprattutto in circostanze come quelle del suddetto “convegno internazionalista”, dove la circolazione di posizioni chiaramente borghesi ammantate da sinistrismo possono avere qualche attrattiva su dei proletari ed in genere sugli elementi che ricercano questa chiarezza. Da questo punto di vista non ci sembra che l’atteggiamento di chiusura su sé stesso di Programma, al di là delle grandi proclamazioni sulla necessità del partito, risponda alle necessità del caso.
Notiamo piuttosto in Programma un accumulo di contraddizioni da cui questo gruppo fa, in tutta evidenza, fatica a liberarsi. Per dimostrarlo torniamo un attimo alle critiche che Programma muove ad alcune delle posizioni emerse al convegno. Del tutto correttamente Programma critica: il “richiamo a un «supplemento di rivoluzione borghese»”, il fatto che “l’autodeterminazione palestinese è al centro della scena, leva necessaria e insostituibile per un cambiamento rivoluzionario con fine immediato la «distruzione dello Stato sionista»”, o ancora contro l’idea dell’“islamismo «bandiera degli oppressi», etc. etc.”.
Come già detto le critiche, ammesso che rispondano sempre alle posizioni realmente difese dai singoli gruppi, esprimono una posizione corretta contro delle posizioni sbagliate. Ma come si fa a vantarsi di avere le vere posizioni marxiste e non provare a difenderle là dove ce n’è il bisogno, là dove si produce la battaglia teorica e politica tra le visioni borghesi e piccolo-borghesi e quelle rivoluzionarie?
Ma vorremmo anche sottoporre a Programma “di oggi” queste altre posizioni e capire se si sente di criticarle con lo stesso fervore. E’ criticabile si o no:
· dire che: “… si tratterà dunque di integrare nel movimento rivoluzionario delle masse operaie e proletarizzate del Medio Oriente contro tutto l’ordine borghese, la loro storica battaglia per l’autodeterminazione nazionale rivoluzionaria, il che implica la distruzione dello Stato di Israele fondato sul privilegio ebraico e la fondazione in Palestina di uno Stato laico basato sul riconoscimento di una completa uguaglianza giuridica, razziale e religiosa…” (Programma Comunista n. 17, 1982);
· o ancora sviluppare, come fa Le Proletaire (all’epoca organo di Programma in Francia) nel suo n°363 dedicato in gran parte alla guerra del Libano degli anni XXX, un’analisi e un atteggiamento degni del più abbietto nazionalismo, del tipo: “a ciascuno il suo israeliano”, chiamando i proletari “arabi” a partecipare alla guerra “fino all’ultima goccia di sangue”, contro lo “Stato colonialista di Israele” ed offrendo il suo appoggio, appena appena critico, ai capi militari dell’OLP.
Come si vede Programma si fa del tutto impropriamente maestro di marxismo, quando proprio su queste tematiche ha preso tanti scivoloni da rompersi letteralmente il collo. La disgregazione del vecchio gruppo Programma, avvenuta negli anni 80-82, fu proprio l’espressione delle forti tare nazionaliste che portava con sé questo gruppo a causa dell’incomprensione profonda della fase storica in cui si trovava a lavorare (vedi Revue Internazionale n° 32). Incomprensione che continua tuttora visto che nel n° 4 di quest’anno, nell’articolo “Esiste ancora una ‘questione nazionale palestinese’?” si dice:
“La rivendicazione dell’“autodeterminazione palestinese” si può porre ancora utilmente (cioè dal punto di vista dello sviluppo della lotta di classe nell’area) solo ed esclusivamente per ciò che riguarda il proletariato israeliano (che deve così dimostrare, nei fatti, ai proletari palestinesi, di voler lottare contro la propria borghesia anche su questo terreno): non certo per dare così “nuovo slancio” e “vigore” al movimento nazionale del proletariato palestinese, ma solo come atteggiamento tattico disfattista contro la propria borghesia, per accrescere la fiducia del proletariato palestinese nei confronti di quello israeliano, considerato altrimenti complice dei misfatti della propria borghesia. Solo così si potrà cominciare a uscire dal drammatico vicolo cieco dei massacri anti-proletari, di marca israeliana o arabo-palestinese.”
Cosa propone in sostanza Programma ai proletari israeliani? Di lottare contro i licenziamenti, contro l’aumento dei prezzi, ma portando in giro le bandiere palestinesi per attirare i proletari che vengono massacrati sotto queste stesse bandiere! Non esiste più il vecchio motto “Proletari di tutti i paesi, unitevi!”? È solo la lotta contro i rispettivi sfruttatori, la lotta per la difesa dei propri interessi di classe che porta i proletari all’unificazione. I proletari israeliani non hanno nulla da farsi perdonare da chicchessia, così come i proletari occidentali che vengono accusati di collaborazionismo con le proprie borghesie dai vari gruppi gauchiste. Seguendo questa logica i proletari americani, per poter lottare, dovrebbero rivendicare l’autodeterminazione di quasi tutti i popoli oppressi del mondo!
Tutto questo dovrebbe far capire quanto sia forte il peso dell’ideologia borghese - da cui non sono immuni neanche le stesse organizzazioni rivoluzionarie - e soprattutto quanto sia necessario combatterla là dove questa cerca di imporsi di fronte a dei tentativi, parziali, confusi ed errati quanto si vuole, di riappropriarsi delle posizioni di classe.
Dall’insieme degli elementi sviluppati si può vedere come Programma sia ben lontana non solo dall’aver superato le confusioni del passato, ma anche dall’aver assimilato l’insegnamento del marxismo che ci ricorda come:
“La dottrina materialistica, secondo la quale gli uomini sono prodotti delle circostanze e dell’educazione, dimentica che sono proprio gli uomini che modificano le circostanze e che l’educatore stesso deve essere educato. Essa è perciò costretta a separare la società in due parti, una delle quali sta al di sopra dell’altra. La coincidenza nel variare delle circostanze dell’attività umana, o autotrasformazione, può essere concepita o compresa razionalmente solo come prassi rivoluzionaria”. (K. Marx, Tesi su Feuerbach).
Oblomov, 30 settembre 2007
1. Vedi l’articolo: “Sul Convegno internazionalista di Milano del 14 aprile 2007. La discussione non è un lusso ma un’arma di lotta per la classe operaia” Rivoluzione Internazionale n°151.
2. Programma Comunista n° 3, maggio-giugno 2007.
3. Vedi “La II Conferenza Internazionale dei gruppi della Sinistra Comunista” su Rivoluzione Internazionale 15/16 e 17.
4. Vedi, ad esempio, l’articolo “A proposito del … Comitato di difesa proletaria” su Rivoluzione Internazionale n° 24.Abbiamo già ricordato come la nostra apertura sia determinata dalla convinzione dell’esistenza di una nuova generazione di proletari alla ricerca di una chiarificazione politica. Ma se noi siamo del tutto aperti alla discussione, non per questo facciamo concessioni sulle nostre posizioni politiche che difendiamo con determinazione. E lo percepiscono bene proprio quelle forze come Red Link che, per spingere sulle proprie posizioni borghesi la discussione del convegno, ci hanno continuamente “marcato ad uomo”, continuando la loro opera di maldicenze sul blog “no-war” che, come detto, ha mantenuto la discussione tra alcuni dei partecipanti al convegno. Da un messaggio mail di un militante di questo gruppo leggiamo quanto segue in risposta al su citato articolo di Programma: “Dobbiamo spezzare una lancia a favore della Corrente Comunista Internazionale. L’articolista di “Programma” sospetta che anche essa si sia arruolata alla lotta armata resistenziale. E’ vero invece che essa ha fatto un intervento altrettanto pacifista e bertinottiano, del tutto simile a quello di “Programma”. E’ arrivata a dire che sparare contro i soldati (cioè i mercenari pagati profumatamente) di Nassirya significa sparare contro i fratelli di classe. Doveva forse anche aggiungere che un giorno gli operai italiani che dovessero sparare contro la nostrana polizia sparerebbero contro altri fratelli di classe, per non essere sospettata di “nazionalismo”?”
La prima cosa che ci viene da chiederci è perché mai, in una corrispondenza mail in cui si discute dell’articolo di Programma, a Red Link salti in testa di attaccare la CCI? Evidentemente perché per Red Link la discussione sull’articolo di Programma è solo l’espediente per procedere ad un attacco più generalizzato contro la Sinistra Comunista, per discreditarla il più possibile presentandola come una setta capace solo di pontificare standosene al sicuro a casa propria, e contrapponendo una cosiddetta “azione concreta” come l’unica valida azione rivoluzionaria.
In secondo luogo Red Link si sbaglia di indirizzo: la CCI non è una setta e non ha nulla da nascondere a proposito delle proprie posizioni o della propria attività. Veniamo dunque ai fatti. Quale sarebbe il nostro pacifismo, il rifiuto di riconoscerci nella parola d’ordine di “10, 100, 1000 Nassirya”? E’ vero, non lo condividiamo affatto. Ma qual è la questione? Dovremmo noi aizzare i proletari a combattere anche militarmente quelli che tra di loro fanno delle scelte suicide, come quella di andare a “servire la patria”, piuttosto che cercare di comprendere i motivi che sono alla base di certe scelte? E’ ovvio che l’azione dei rivoluzionari mira ad una trasformazione rivoluzionaria della società, trasformazione necessariamente violenta, portata avanti da un proletariato armato contro l’esercito borghese. Ma il raggiungimento delle condizioni adeguate a produrre un processo rivoluzionario di questo tipo richiede tutta una fase di maturazione da parte del proletariato in cui, poco per volta, i primi nuclei coscienti conquistano alla causa rivoluzionaria strati sempre più estesi della classe. L’azione del partito (e delle formazioni che, oggi come oggi, agendo sul piano di classe, operano in vista della costruzione del partito) è proprio quella di favorire, lavorando all’interno delle situazioni di lotta e tra le formazioni emergenti, il più possibile la comprensione della realtà in cui si vive e della prospettiva che ci sta davanti. I rivoluzionari non sono dei pacifisti, ma non sono neanche degli assetati di sangue. La rivoluzione di ottobre, di cui ricorre adesso il 90° anniversario, è stato uno degli eventi che ha inciso più profondamente nella storia dell’umanità pur avendo comportato una perdita di vite veramente irrisorio.
Ma torniamo a Red Link. Questo gruppo, come l’OCI da cui deriva e da cui si è amichevolmente separato, ci accusa di pacifismo perché sono loro che si sono fatti i sostenitori delle varie borghesie mediorientali, da quella di Saddam a quella di Bin Laden. Red Link accusa la CCI di pacifismo per spingere i proletari ad attribuire la responsabilità dei vari morti operai sotto le macerie o sotto le bombe del terrorismo islamico agli stessi operai perché non avrebbero reagito a tempo contro le ingiustizie della società. Non si tratta dunque solo dei soldati di Nassirya: gli stessi proletari morti sotto le Torri Gemelle a New York sarebbero morti giustamente perché corresponsabili con la borghesia mondiale per non aver sostenuto il proletariato arabo. Che limpida posizione di classe. Ma di classe borghese contro la classe operaia, naturalmente1.
Come si vede tra le posizioni di Red Link ed altre posizioni presenti al Convegno quali la nostra esiste un baratro, una frontiera di classe. Non è un caso che i difensori delle posizioni borghesi si identificassero quasi sempre tra quelli che sollecitavano il momento dell’azione, che fremevano per l’eccessivo indugiare sulla discussione. Posizioni come quelle di Red Link hanno bisogno, per affermarsi, di poggiare solo sull’emotività e poco sulla riflessione. Ma la prospettiva rivoluzionaria è un mix di cuore e di cervello e solo se si coniugano l’uno e l’altro assieme si riesce ad andare lontano. Noi non siamo pantofolai e lo dimostriamo tutti i giorni con la nostra presenza ai quattro angoli del mondo. Ma siamo consapevoli che l’azione non sorretta da una profonda riflessione può portare solo verso cocenti delusioni. E i gruppi alla Red Link sono sempre pronti ad aiutarci in questo senso.
Ezechiele, 30 settembre 2007
1. Vedi “Il disprezzo dell’OCI per la classe operaia”, pubblicato su Rivoluzione Internazionale n° 12
Links
[1] https://it.internationalism.org/en/tag/3/47/economia
[2] https://it.internationalism.org/en/tag/4/85/iraq
[3] https://it.internationalism.org/en/tag/3/48/guerra
[4] https://it.internationalism.org/en/tag/3/49/imperialismo
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[6] https://it.internationalism.org/en/tag/2/29/lotta-proletaria
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[11] https://it.internationalism.org/en/tag/vita-della-cci/interventi
[12] https://it.internationalism.org/en/tag/correnti-politiche-e-riferimenti/gauchismo