La crisi di governo che si è prodotta il 22 febbraio scorso ha fatto un grande rumore e ha scosso molto gli animi della politica italiana, con significative risonanze anche a livello internazionale. Ma cosa è veramente successo e perché è successo. Ed ancora, a chi torna utile questa crisi?
Prima di rispondere a questi quesiti, torniamo un attimo a caratterizzare la situazione che si era creata con l’elezione di questo parlamento e la nomina del governo Prodi. Nel n° 146 del nostro giornale ricordavamo allora come esistesse una difficoltà da parte della borghesia a “orientare il voto delle politiche del 2006 in maniera netta verso una maggioranza di centro-sinistra (…) Ciò si è tradotto in un tragico risultato di quasi parità tra centro-destra e centro-sinistra, che ha consentito, solo grazie al premio di maggioranza alla camera e il “responsabile” voto dei senatori a vita, di formare un governo con un minimo di margini di manovra. Ma questa situazione, come tutti gli osservatori di politica nazionale e internazionale hanno fatto subito notare, taglia le gambe al governo Prodi e lo rende molto più debole nei confronti di centomila ricatti da parte della disunita e variegata compagine partitica di centro sinistra di cui ogni singola componente risulta ugualmente indispensabile alla maggioranza” (1). Rispetto alla politica estera abbiamo poi ricordato come “lo schieramento imperialista dell’Italia per i prossimi anni sarà, rispetto al governo Berlusconi, meno accentuato e appariscente, ma non per questo meno imperialista e guerrafondaio. Basti solo tenere presente che al ministero degli esteri del nuovo esecutivo si trova un D’Alema che ha fatto, come capo di uno scorso governo, direttamente la guerra alla Serbia mandando i propri soldati a bombardare la povera gente di Belgrado” (1). Ed infine aggiungevamo che: “Tutto questo ha un solo grande difetto: nella misura in cui la borghesia ha dovuto impegnare anche Rifondazione Comunista – classico partito di opposizione – all’interno della maggioranza e del governo, significa che nel momento in cui il governo comincerà ad attaccare, non ci sarà uno straccio di forza di sinistra che possa fingere di fare l’opposizione parlamentare e cercare di convogliare lo scontento dei lavoratori su dei falsi obiettivi. Questa è una debolezza molto importante che potrà mettere in difficoltà la borghesia, cosa di cui questa sembra essere cosciente, tanto che ha anche cercato di porvi rimedio” (1).
Date queste premesse, qualunque congettura si possa fare sulla caduta del governo Prodi, che si tratti del colpo gobbo (pardon!) di Andreotti, indispettito - in quanto uomo del Vaticano - per i DICO; che si tratti di Pininfarina indispettito per una politica estera troppo distante dagli USA, che si tratti di una crisi voluta dalle componenti “responsabili” in seno al governo per ricattare la “sinistra radicale” e invogliare la venuta di elementi moderati, quello che è sicuro è che i numeri sono così risicati che anche se avessero votato i due contestatori Turigliatto e Rossi, il risultato della votazione non avrebbe sortito un risultato diverso e il governo sarebbe stato comunque bocciato. Per cui, a monte di qualunque analisi politica sugli orientamenti di questo o di quello, occorre prendere atto che quello che è successo è legato alla fragilità della situazione e poteva succedere in qualunque momento. Ma questa banale realtà è stata completamente sommersa da una campagna di denigrazione contro i due “mostri contestatori” che ha provocato una valanga di mail sul sito di Rifondazione contro i “traditori” e finanche dei messaggi minatori contro la famiglia, per telefono, mail, ecc., che sono culminate con l’aggressione fisica contro lo stesso Rossi in treno attraverso un solenne cazzotto da parte del segretario regionale del PdCI della Toscana Frosini. C’era da pensare che a questo punto un minimo di solidarietà Diliberto gliel’avrebbe potuta dare all’ex senatore fuoriuscito. E invece no: “L’esasperazione alimentata dal comportamento di Rossi e dal tradimento del mandato elettorale se non giustifica aiuta a comprendere l'arrabbiatura dei nostri compagni” Corrieredellasera.it del 23/02/2007. Insomma, dice Diliberto, Rossi si tenga il cazzotto (e le minacce alla famiglia?!) perché se lo merita!!
C’è da chiedersi a questo punto perché tanta drammatizzazione per delle dissidenze annunciate da giorni (Rossi addirittura non faceva più parte del PdCI da tempo). La risposta è che, a cose fatte, si cerca di trarre il massimo profitto possibile e, nel caso specifico, trarre il massimo profitto per le forze parlamentari di centro-sinistra significa colpevolizzare qualcuno per le sue posizioni di “estrema sinistra” e mostrare come proprio un atteggiamento troppo disinvolto a sinistra possa condurre a perdere tutto quanto faticosamente costruito finora con l’alleanza di centro-sinistra e il governo Prodi. Questo segnale di messa in guardia non è neanche tanto e soltanto indirizzato ai due capri espiatori del momento, Rossi e Turigliatto, quanto all’insieme della “popolazione di sinistra”, ai lavoratori, ai compagni, suggerendo in vario modo questa sequenza logica: la manifestazione di Vicenza ha prodotto il voto contrario al senato, questo ha prodotto la caduta del governo Prodi e la caduta del governo Prodi ha messo a rischio tutto quello che “faticosamente si stava facendo”. Il messaggio è dunque chiaro: di fronte allo spettro del ritorno di Berlusconi, teniamoci caro il governo Prodi, nonostante il fatto che abbia fatto una finanziaria bella tosta, che in seguito al decreto Bersani e le riduzioni di spesa da questo imposte migliaia di lavoratori di ditte in appalto abbiano perso il loro posto di lavoro o abbiano visto ridursi il già precario orario di lavoro, che la politica estera, nonostante il ritiro dall’Iraq, continui a somigliare paurosamente a quella precedente, con una presenza di guerra in Afghanistan, in Libano, ecc. ecc.
Non è un caso che, in seguito a questa crisi, Prodi abbia sfoderato i famosi 12 punti che, se da una parte confermano del tutto la politica imperialista del governo Prodi (con la scusa di impegni presi già in precedenza da precedenti governi italiani o con l’idea che l’Italia non può esimersi da compiti che le provengono dall’essere parte dell’Europa o dell’ONU), e specificamente la presenza in Afghanistan, dall’altra non citano più i cosiddetti PACS o DICO che, se erano stati dati in pasto alla cosiddetta sinistra radicale per addomesticarla rispetto a scelte più ardite di politica internazionale, adesso che questa risulta bastonata dalla canea mediatica, si può offrire l’osso succulento del loro oscuramento a personaggi di centro come Follini e altri per attirare qualche voto supplementare al Senato.
Noi non sappiamo quale sarà l’evoluzione di questo governo Prodi e delle sue eventuali espansioni verso il centro. Quello che possiamo dire di sicuro, anche sulla base di quanto viene documentato all’interno del giornale sul piano economico e sul piano della politica imperialista dell’Italia, è che i proletari non hanno veramente nulla da aspettarsi da un “governo amico”, come quello Prodi. La borghesia, oggi come oggi, non ha due alternative da proporci, una di sfruttamento e di oppressione e una di solidarietà e di democrazia, ma un’unica politica di sottomissione ideologica ed economica. I proletari devono rompere le catene di questa oppressione e liberarsi di tutti gli sfruttatori e soprattutto di tutti i falsi amici.
Ezechiele, 27 febbraio 2007
1. “Dopo Berlusconi, che ci riserva il governo Prodi?”, in Rivoluzione Internazionale n. 146.
Sono passati pochi mesi dalla vittoria del centrosinistra e già si sente mormorare che qualcosa non va, che tutta questa differenza con Berlusconi non si vede proprio. Anzi, che va anche peggio. È proprio vero che un nuovo dittatore, presidente del consiglio, governo, padrone, capo, ecc. è sempre peggio di chi lo ha preceduto. Con questo non vogliamo certo richiedere un ritorno del Berlusconi, ma vogliamo far vedere gli effetti reali delle leggi e leggine che, all’interno del quadro della finanziaria, il governo Prodi–D’Alema–Bertinotti sta sfornando e che vengono abilmente nascosti da TV e stampa che portano viceversa in prima pagina argomenti del tutto diversi o che toccano settori particolari di persone e non la massa dei lavoratori. Un esempio vale per tutti: nelle settimane precedenti il varo della finanziaria l’attenzione dei media era sulla questione dell’eutanasia e la sua approvazione è passata quasi sotto silenzio grazie al grande clamore giornalistico che si è creato intorno alla morte di Welby.
Cosa conteneva questa finanziaria da Robin Hood che doveva togliere ai ricchi per dare ai poveri? Per quanto riguarda la parte relativa alla modifica delle aliquote sulle tasse, se sfogliamo i giornali del periodo precedente la finanziaria vediamo che fanno riferimento a soggetti particolari, presi ad esempio, come il capoufficio “single”, gli operai con 3 figli e moglie a carico, etc. Tutto un modo di spezzettare la classe operaia per mettere uno contro l’altro, far dire all’uno che le nuove aliquote sono favorevoli e all’altro che ci si rimette. Il vero bilancio di questa finanziaria (1) lo potremo fare solo l’anno prossimo quando verranno confrontati tutti i salari, le variazioni nell’ambito lavorativo, le ore di lavoro in più, l’aumento della precarizzazione, il peggioramento dei servizi sociali, scolastici, sanitari. La diminuzione delle spese sanitarie significa che i medici ridurranno i tempi di visita, aumenteranno le spese per le visite specialistiche (che sono richieste sempre di più, visto il continuo peggioramento delle condizioni di vita), la sola visita al pronto soccorso ci costerà minimo 25 euro e gli infermieri ti tratteranno peggio di un manufatto in una catena di montaggio, ma non per cattiveria ma per i ritmi a cui sono costretti. I ragazzi a scuola saranno più liberi di picchiarsi o non avere una istruzione adeguata perché diminuirà il personale sia docente sia non docente, diminuiranno le classi perché aumenta il numero degli alunni per classe e aumenteranno le incombenze per i lavoratori. Molti ragazzi portatori di handicap non saranno più riconosciuti come tali e quindi non avranno il sostegno. Le conseguenze di questa politica saranno pagate in seguito da tutta la società perché questi ragazzi non saranno mai più recuperati. La (promessa di) stabilizzazione di 150.000 precari servirà a rimpiazzare l’andata in pensione di altrettanti lavoratori e la riduzione del precariato sarà fatta con la riduzione delle supplenze e delle ore di lezione per gli alunni (istituti professionali). In compenso i giovani potranno sempre arruolarsi per le missioni di “pace” all’estero che sono in costante aumento e con un congruo aumento di spesa, almeno per la strumentazione bellica: navi, aerei, carri armati e missili a volontà per la riaffermazione dell’imperialismo italico.
Comunque già oggi possiamo fare una sorvolata su ciò che ci aspetta.
In genere, per i salari più bassi, c’è stato, nella busta paga di gennaio, un aumento di una decina di euro che, in verità a prima vista, sembra più alto del reale perché nel mese di gennaio non viene applicata l’addizionale regionale IRPEF. Addizionale che, insieme a quella comunale dove è in vigore, potrà essere aumentata dall’attuale 0,5% fino ad un massimo dello 0,8%. Già questo aumento - prevedibile perché il governo ha diminuito i trasferimenti alle regioni - sarà sufficiente a far scomparire gli spiccioli avuti con le nuove aliquote. È stata inoltre introdotta la “tassa di scopo” sotto forma di addizionale ICI per finanziare i lavori locali. C’è poi il rincaro del bollo auto eccetto per chi ha l’auto nuova (euro 4 o 5) o può acquistarsela. Un modo come un altro per spingere in su i conti della Fiat. Non dobbiamo dimenticare di elencare gli aumenti indotti da questa politica di attacco ai lavoratori nell’elettricità, gas, trasporti locali e nazionali, alimenti, etc…
È previsto inoltre il trasferimento, per le aziende private con più di 50 dipendenti, del TFR, Trattamento di Fine Rapporto, ai fondi pensione o all’INPS per il finanziamento delle grandi opere. E con il fallimento di qualche azienda o dei continui crolli di borsa scompariranno, per magia, anche questi soldi. Dopo la stangata della finanziaria, Prodi dice che “Tutti gli indici stanno migliorando, la disoccupazione sta calando, l'inflazione sta calando, i conti pubblici stanno tornando nei parametri europei; solo la popolarità del mio governo sta calando. Ma questo - ha osservato il premier - è il prezzo che si deve pagare” a fronte di “misure molto forti in termini di liberalizzazioni nel commercio e nelle professioni, con decisioni severe sul debito pubblico e sulla spesa”. (canali.libero.it/affaritaliani/politica/prodiafghanistan1002.html)
Lui paga il prezzo della popolarità e i lavoratori pagano il conto.
In attesa del prossimo grande attacco alle pensioni è necessaria una riflessione sul fatto che i governi di destra o di sinistra non sono altro che due espressioni della stessa classe al potere - la borghesia - e che è necessario che i lavoratori si difendano senza fare affidamento alle forze cosiddette di sinistra, siano essi partiti o sindacati.
Oblomov, 11 febbraio 2007
1. E del precedente decreto Bersani che prevede una riduzione delle ore di appalto esterne nei vari ministeri; ciò porterà ad un incremento dello sfruttamento sui lavoratori precari utilizzati da queste ditte appaltatrici.
Con la caduta del governo Prodi si è infuocata la discussione sulla politica estera, con il governo sottoposto ad attacchi da “destra” e da “sinistra”: dal Polo che lo attacca perché “antiamericano”, dalla sinistra della sua stessa maggioranza che, all’opposto, lo accusa di non distinguersi abbastanza dalla politica degli USA, in Afganistan, per esempio, o non negando a questi l’allargamento della base di Vicenza.
In realtà siamo di fronte all’ennesimo tentativo di mistificazione, da una parte come dall’altra: se infatti sul piano dell’economia le bugie della borghesia hanno le gambe piuttosto corte, perché per i proletari basta vedere quanto più velocemente si consuma il loro salario per capire quale è la realtà della politica economica del governo, sul piano delle avventure imperialiste la realtà è meno immediatamente percettibile e, soprattutto, è coperta da una coltre più spessa di mistificazioni sparse a piene mani dalla destra come dalla sinistra dell’apparato politico della borghesia.
Infatti non ha mistificato solo Berlusconi, quando ha presentato la missione italiana in Iraq come una missione di “pace”, la stessa cosa la fa il governo di centrosinistra che maschera con la stessa scusa tutti gli interventi di truppe italiane in giro per il mondo.
La realtà invece è che sia l’uno che l’altro difendono gli interessi dell’imperialismo italiano, dividendosi solo su quella che ognuno ritiene la maniera più efficace per farlo. Berlusconi pensa che solo l’alleanza con gli USA può far contare un poco l’Italia sullo scacchiere internazionale; il centrosinistra, invece, vuol far valere gli interessi dell’imperialismo italiano in maniera autonoma dagli USA e più inserito in un contesto di politica imperialista europea.
Ma non è certo questo che denunciano i critici dell’estrema sinistra parlamentare, quelli che in questi giorni si sono fatti i paladini del “pacifismo” perché non vogliono il raddoppio della base di Vicenza o il permanere della missione in Afganistan. Da loro non sentiremo affermare che la pretesa dei governanti di centrosinistra di mandare le truppe italiane in giro per il mondo a scopi di “pace” è altrettanto menzognera quanto quella di Berlusconi quando mandò le truppe a Nassirya. Da loro non sentiremo dire che la copertura da parte dell’ONU o di altri organismi internazionali non cambia la natura di queste missioni. Né sentiremo ricordare che la presenza di più di 10.000 militari italiani in 28 missioni nel mondo intero ben poco si concilia con l’idea che è la pace che questi militari, armati di tutto punto e pronti a sparare, come è stato in tanti casi non solo in Iraq, vogliono difendere. Ci dicono, per caso, quanto costano queste missioni? Ci dicono quanti ospedali, scuole, infrastrutture si potrebbero costruire in questi stessi paesi se le centinaia di milioni di euro spesi nelle missioni fossero invece utilizzati per aiutare questi paesi ad uscire dalla loro arretratezza?
Domande retoriche le nostre perché, da che il capitalismo è nato, gli interventi delle nazioni più sviluppate verso le aree economicamente arretrate hanno sempre avuto come primo obiettivo quello di imporre il proprio dominio su di queste: nell’ottocento e all’inizio del novecento questi interventi avevano lo scopo di conquistare mercati e di accaparrarsi le materie prime dei paesi che venivano colonizzati; con l’entrata del capitalismo nella sua fase di decadenza, cioè quella in cui il capitalismo ha esteso il suo modo di produzione in tutto il mondo, la contesa diventa in parte per i mercati, in parte, e soprattutto, per occupare militarmente zone strategicamente importanti, in modo da poter avere un vantaggio militare in vista di futuri scontri tra le grandi potenze. E la maniera in cui questa presenza si impone non è funzione delle diverse intenzioni dei paesi che la impongono, ma della loro taglia e della loro forza. Così gli USA, la prima e indiscutibile prima potenza mondiale, si possono permettere di imporre il loro controllo nel mondo con i bombardamenti e l’impiego massiccio di truppe, gli altri paesi, e soprattutto quelli di scarso calibro militare, come l’Italia, devono giocare su altri piani. Da qui la politica del governo Prodi che, a ben guardare, è anche più imperialista del governo Berlusconi nella misura in cui non si limita a seguire supinamente il brigante americano ma si lancia in una politica di presenza internazionale in cui, attraverso abili giochi diplomatici, riesce anche a sfidare dei concorrenti imperialisti attraverso una mistificatoria politica di sviluppo di missioni di pace. Qualcuno può solo immaginare l’italietta che si mette a sfidare gli USA sul piano dell’esposizione di muscoli? Meglio ricorrere alla diplomazia, alla copertura dell’ONU e soprattutto a tutte le occasioni in cui si può mettere lo sgambetto agli USA senza rischiare la sfida aperta: è quello che il governo Prodi è riuscito a fare sfruttando la tensione creata in Libano dall’invasione israeliana per proporre le sue truppe come forza di “interposizione”, cosa che gli USA non avrebbero potuto fare senza alimentare ancora di più il fuoco (e impantanandosi in un’impresa ancora più pericolosa di quella irachena).
Ma abbiamo per caso sentito gli attuali difensori di una diversa politica estera del governo, i Rossi e i Turigliatto, denunciare la presenza italiana in Libano come un’avventura imperialista allo stesso titolo di quella degli USA in Iraq o in Afganistan? No, anzi tutti i sinistri sono stati d’accordo a sostenere questo intervento e lo contrappongono a quello in Afganistan.
E, a proposito di questo paese, a guardare più da vicino si può anche spiegare la preoccupazione di questi presunti pacifisti: tutti gli esperti prevedono una accelerazione dello scontro militare per la primavera, vuoi per una prevista controffensiva dei talibani, vuoi per una preventiva azione delle truppe USA (non a caso questi ultimi hanno chiesto agli “alleati” l’invio di altri 4.000 uomini) e “se in primavera i talibani mettessero in difficoltà la prima linea della NATO, eventualità da non escludere, il comando dell’Alleanza atlantica avrebbe diritto a impiegare in battaglia qualsiasi contingente (…) non è immaginabile che gli italiani, chiamati in extremis a soccorrere un altro contingente, si sottraggano ad un dovere elementare. Il loro intervento forse verrebbe taciuto all’opinione pubblica, così come le venne taciuto che i piloti italiani partecipavano agli attacchi della NATO sulle posizioni serbe in Kosovo.” (Repubblica, 7/02/2007). Ecco spiegata la preoccupazione di Rossi e compagni: se ciò avvenisse, come spiegare ai proletari italiani che la sinistra “pacifista” appoggia una guerra vera e propria? Possono fare affidamento sul fatto che la cosa sia effettivamente tenuta nascosta (come non lo è più la partecipazione ai bombardamenti in Kosovo fatti dal governo D’Alema durante quello che cinicamente fu definito “intervento umanitario”)?
Questi signori si limitano a chiedere al governo, in alternativa o in accompagnamento alla missione militare, l’impegno per una “conferenza internazionale di pace”, facendo così una ulteriore mistificazione: chi dovrebbe partecipare a questa conferenza? Forse non quelli che stanno già laggiù con le truppe per difendere i loro interessi imperialisti? E poi, quante conferenze di pace sono state fatte sul Medio Oriente? Si ricordano degli accordi di Camp David, firmati da israeliani e palestinesi, o della Road Map disegnata dagli americani con l’accordo di israeliani e palestinesi? Noi li ricordiamo e oggi possiamo dire che la nostra denuncia di allora di questa mistificazione è stata tragicamente confermata dai fatti, dalla guerra permanente che le popolazioni palestinese e israeliana sono costrette a subire per il solo fatto che la terra in cui vivono è zona di interesse strategico di tutti gli avvoltoi imperialisti.
No, non è da Prodi e nemmeno da Rossi e Turigliatto che i proletari italiani possono sperare di non dovere pagare più con il loro sudore e il loro sangue le ambizioni imperialiste della borghesia italiana. Essi possono solo mettere in conto questa ulteriore barbarie e questa ulteriore mistificazione per riflettere sul fatto che questo sistema non ha più niente da offrire loro e vedere come prepararsi per spazzarlo via.
Helios, 25/02/07
Le borghesie di tutti i paesi più sviluppati, ognuna per la difesa dei propri interessi imperialisti, compresi gli Stati Uniti, hanno salutato il piano Baker sulla politica estera americana, elaborato da un gruppo di studio comprendente alti responsabili politici americani, conservatori e democratici. Dopo la scottante sconfitta del presidente Bush e della sua amministrazione alle ultime elezioni americane per il rinnovo delle camere dei rappresentanti, provocata essenzialmente dall'insuccesso totale della politica imperialista degli Stati Uniti in Afghanistan e ancora più in Iraq, la borghesia americana doveva tentare di reagire. L’impantanarsi crescente del suo esercito in Iraq, l’assenza totale di prospettive, ed un caos crescente sono le manifestazioni dell’indebolimento della prima potenza imperialista. In un vicolo cieco totale, la borghesia americana stava già lavorando da mesi ad un nuovo orientamento che si voleva più credibile e meglio adattato alla difesa dei propri interessi imperialisti. La costituzione della commissione di inchiesta sull’Iraq ed il suo rapporto corrispondono a questa esigenza.
L’imperialismo americano non potrà impedire il suo indebolimento sull’arena mondiale
Questo piano affronta tutta la politica imperialista degli Stati Uniti. Esso parte dalla constatazione, sotto gli occhi di tutti, dell’assenza totale di possibilità di riuscita della politica di guerra americana in Iraq. Ma ancora di più, sottolinea lo sviluppo della politica anti-americana ed anti-israeliana in tutto il Vicino e Medio Oriente. Questo rapporto sembra quindi esprimersi contro la politica portata avanti da anni dagli Stati Uniti in questa parte del mondo. Preconizza un ritiro progressivo delle truppe americane dall’Iraq ed il rafforzamento dell’esercito irakeno che dovrebbe passare sotto la direzione del primo ministro Nuri Kamal Al-Maliki. Mentre gli attentati si succedono tutti i giorni, con un governo totalmente impotente ed un esercito americano rinchiuso nei campi fortificati, una tale proposta appare immediatamente per quello che è: irrealistica ed inapplicabile. Tanto è vero che il piano Baker si guarda bene dal precisare la data limite per il ritiro delle truppe americane dall’Iraq. Ed è così per tutte le altre proposte sostenute da questo rapporto. Colpiscono inoltre, alla lettura del rapporto, le proposte di riannodare un dialogo ufficiale con la Siria e l’Iran. Il rapporto precisa: “L’Iran deve ricevere proposte incentivanti, come il ristabilirsi delle relazioni con gli Stati Uniti, e dissuasive per fermare l’afflusso di armi destinate alle milizie irachene. Il paese deve essere integrato al Gruppo di studio sull’Iraq” (Courrier International del 14 dicembre 2006). Questa proposta del rapporto è talmente irrealistica che mostra chiaramente il vicolo cieco totale degli Stati Uniti in Iraq, e peggio ancora, la loro incapacità crescente a limitare le accresciute esigenze siriane ed iraniane. L’impossibilità per l’esercito americano di risolvere la situazione in Iraq spinge la borghesia americana a considerare di associare l’Iran nel tentativo di gestire il caos iracheno. Questa alternativa politica potrebbe tradursi solo in ulteriori pretese dell’Iran riguardo allo sviluppo della sua arma nucleare, ma anche verso l’insieme del vicino e Medio Oriente. Pretese e passi in avanti dell’imperialismo iraniano che né Israele, né gli stessi Stati Uniti, sarebbero in grado di sopportare. È molto probabile che, nei mesi a venire, il tono dei discorsi americani sulla politica internazionale sia più misurato e faccia più appello ad una “collaborazione internazionale”, su quella che la borghesia chiama la lotta contro il terrorismo internazionale. Nel caso molto improbabile che questa passasse, si determinerebbe una situazione ancora più caotica. Un segnale in tal senso ci viene dalla dichiarazione del re dell’Arabia Saudita Abdallah al vice presidente americano Dick Cheney, in visita qualche settimana fa a Riyad: “L’Arabia Saudita ha fatto sapere all’amministrazione Bush che in caso di ritiro delle truppe americane il regno potrebbe portare un sostegno finanziario ai sunniti in Iraq in qualsiasi conflitto che li opporrebbe agli Sciiti”. (Courrier International del 13 dicembre 2006). Gli Stati Uniti sono totalmente impantanati in Iraq. Nessuna delle opzioni considerate sul piano militare è soddisfacente per l’imperialismo americano. L’accresciuta contestazione alla supremazia americana non solo da parte dell’Iran, ma anche da parte di potenze imperialiste come la Francia, la Germania o la Russia, non può che spingere in futuro gli Stati Uniti, con l’evolvere della loro politica in Iraq, in una fuga in avanti sul piano militare, sempre più omicida e barbara. In questo capitalismo in piena decomposizione, le distruttive ed irrazionali azioni militari sono ancora e più che mai davanti a noi.
Rossi (da Révolution Internationale n.375)
Ogni giorno i media fanno articoli e reportage sulla tragedia che sta vivendo il Libano. Non c’è alcuna preoccupazione per le vite umane. Le preoccupazioni delle borghesie di tutti i paesi sono ben altre. Il Libano è un piccolo paese di quattro milioni di abitanti e, contrariamente ad altri paesi del Medio Oriente, nel suo sottosuolo non c’è alcuna risorsa strategica ed economica particolare: non c’è petrolio, né gas, niente che, apparentemente, possa stuzzicare l’appetito dei predatori imperialisti del mondo. Eppure molti di questi, dal più piccolo al più potente, sono implicati nella peggiore crisi che abbia conosciuto questo paese. Da dove viene tutto questo interesse da parte delle potenze imperialiste? Quale futuro può avere la popolazione libanese presa nella morsa mortale dell’intensificazione delle tensioni inter-imperialiste?
La domenica del 10 dicembre a Beirut, capitale del Libano, ci sono state manifestazioni di massa, con una folla sovraeccitata e pronta a tutto. E’ la prima volta in questo paese, dalla storia già molto tormentata, che si riunisce una tale massa di gente. In un quartiere della città si ritrovano centinaia di migliaia di sciiti, partigiani di Hezbollah pro-siriano, raggiunti dai cristiani fedeli al generale Aun, che a sua volta ha sposato la causa sciita, per manifestare un odio violento verso la comunità sunnita.
Questa folla, inquadrata dalle milizie armate, ha reclamato a viva voce la dimissione del governo. Nello stesso momento a Tripoli una folla altrettanto numerosa ed altrettanto eccitata, formata essenzialmente da sunniti declama il suo sostegno a questo stesso governo. Nel mese di dicembre, Hezbollah, rafforzato politicamente e militarmente dopo l’ultimo scontro armato di agosto, apparso come una vittoria sull’esercito israeliano e indirettamente sul “grande Satana americano”, ha facilmente organizzato l’assedio del Serail, sede del primo ministro Fuad Siniora.
Dozzine di tende sono state messe nel centro di Beirut, bloccando tutti gli accessi al Serail e circondandolo da ogni parte, senza che l’esercito libanese potesse intervenire. Gruppi armati sunniti, da parte loro, minacciano di assediare il parlamento e di prendere in ostaggio il suo presidente sciita Nabih Berri. Le strade che collegano Beirut alla piana di Bekaa ed al Sud-Libano rischiano di essere bloccate.
A questo livello di tensione tra le differenti frazioni, da cui i Drusi stessi non sono esclusi, il minimo soffio provocherebbe un incendio generalizzato a tutto il paese. Durante un incontro televisivo il generale Michel Aun ha proposto: “Un piano dell’opposizione per formare un nuovo governo” e “delle riflessioni del presidente della Repubblica Emile Lahud e del presidente del Parlamento Nabih Berri sulla maniera di far cadere il governo di Fuad Siniora” (citato da Courrier International del 14 dicembre 2006).
Per Hezbollah e gli sciiti, così come per i loro alleati, si tratta di formare un governo provvisorio, chiaramente pro-siriano. E tutto ciò con la benedizione della parte sciita dell’esercito libanese.
Si accelera così il braccio di ferro in Libano tra le differenti comunità, ciascuna infeudata a degli squali imperialisti più potenti di loro.
Sarebbe sbagliato pensare che quando centinaia di migliaia di persone assediano il governo di Fuad Siniora la posta in gioco è solamente la caduta del governo. Questa è ben più alta ed implica direttamente numerosi Stati della regione, dietro i quali si nascondono i più potenti paesi imperialisti del pianeta. Quello che in realtà vogliono gli sciiti ed i sostenitori del generale Aun è un ritorno in forza della Siria in Libano.Per Damasco che, come l’Iran, sostiene politicamente e militarmente Hezbollah, si tratta di approfittare al massimo dell’indebolimento dello Stato israeliano e del suo alleato americano per far valere i propri appetiti sul Libano ed indirettamente sulla regione del Golan, occupata dallo Stato ebreo. Dal ritiro forzato delle sue truppe dal Libano nel 2005, la Siria non si è mai ritrovata in una situazione tanto favorevole. Ma l’Iran, che è ora un alleato di circostanza della Siria in Libano, non ha affatto rinunciato a rafforzare la sua presenza e la sua influenza politica in questo paese. Per lo Stato iraniano pesare sul Libano, attraverso la comunità sciita, significa rafforzare la propria influenza su questa stessa comunità in Iraq ed affermarsi sempre più come attore inevitabile in tutta la regione, di fronte ad Israele ed agli Stati Uniti.
D’altra parte, visibilmente inquieti circa un rafforzamento nella regione del ruolo dell’Iran sciita che finanzia Hezbollah, l’Egitto, l’Arabia Saudita e la Giordania, dirette dai sunniti e particolarmente influenzati dalla politica imperialista americana, hanno dato il loro sostegno al governo Siniora.
Quello che si profila, dunque, è una frattura irrimediabile all’interno del mondo mussulmano. E questa crescita delle tensioni nel mondo arabo non prospetta niente di buono per l’avvenire di questa regione.
Inoltre, questa breccia aperta è un’opportunità per delle potenze come la Germania e la Francia, quest’ultima già presente militarmente sul terreno. Il 5 dicembre questi due paesi hanno fatto sapere, con una comunicazione comune, che auspicavano non ci fosse alcuna ingerenza esterna al Libano, precisando che era necessario che la Siria “si astenga dal dare il suo sostegno a forze che cercano la destabilizzazione del Libano e della regione, e stabilisca con il Libano una relazione paritaria e rispettosa della sovranità di ciascuno” (Libération del 15 dicembre 2006). Per ogni squalo imperialista che si rispetti, il nemico del mio alleato del momento è mio nemico. In particolare la Francia non fa altro che criticare la Siria perché per ora, in Libano, può appoggiarsi solo alla maggioranza cristiana nemica appunto della Siria.
Lo sviluppo delle tensioni e degli scontri in tutta la regione, di cui la crisi libanese è una tragica espressione, si esprime direttamente ed in modo spettacolare in quello che la stampa borghese ha ipocritamente chiamato “l’autentico falso lapsus nucleare” del primo ministri israeliano Ehud Olmert. Mantenere l’ambiguità sul proprio arsenale nucleare era una regola d’oro della politica internazionale dello Stato d’Israele. Tuttavia in una intervista del 12 dicembre ad un canale televisivo tedesco, questo stesso primo ministro, criticando i tentativi di giustificazione dell’Iran in materia di ricerca e sviluppo nucleare, ha lasciato direttamente intendere che Israele possedeva l’arma nucleare, allo stesso titolo della Francia, la Russia o gli Stati Uniti. Questa affermazione acquista tutto il suo significato quando la si collega al fatto che qualche giorno prima. Robert Gates, nuovo ministro della Difesa americana, ha citato Israele, davanti al Congresso, tra quei paesi che possiedono la bomba nucleare. A questo livello non c’è alcun errore o lapsus. E’ un avvertimento chiaro e netto all’Iran che pone al giusto posto il piano Baker ed il rapporto del Gruppo di studio sull’Iraq di cui ci parla la borghesia. Secondo il quotidiano pan-arabo Al-Quds-Arabi questo sarebbe anche “una preparazione per un eventuale ricorso al nucleare, se mai Israele si decide ad attaccare i siti nucleari iraniani” (citato da Courrier International del 13 dicembre 2006). Disgraziatamente questa eventualità non è da scartare. Marx, circa centocinquanta anni fa, constatava che il capitalismo è nato nel fango e nel sangue. Oggi l’agonia di questo sistema si prepara a trascinare l’umanità in un inferno ancora peggiore.
Tino, 15 dicembre 2007, (da Révolution Intérnationale n.375)
Malgrado la spirale di odio nazionalista che paralizza normalmente la lotta di classe in Israele e in Palestina, le gravi privazioni economiche causate dallo stato di guerra permanente hanno spinto gli operai di entrambi i campi opposti a battersi per i loro propri interessi di classe. A settembre, impiegati della West Bank nella Striscia di Gaza hanno fatto scioperi e manifestazioni per esigere che il governo di Hamas pagasse parecchi mesi di salari rimasti arretrati a causa del blocco dei fondi internazionali da parte dello Stato israeliano, con il coinvolgimento negli scioperi di una buona parte dei 170.000 impiegati. Ancora, gli insegnanti si sono messi in sciopero a partire dal 4 settembre, con una percentuale di scioperanti che è andata dall’80 al 95% da Rafah (sud della Striscia di Gaza) a Jenin (nord della Cisgiordania).
Questo movimento si è propagato fino alla polizia palestinese e, soprattutto all’inizio di ottobre, nel settore della sanità dove la situazione sanitaria è drammatica, compreso nella Cisgiordania. Gli impiegati del ministero della salute hanno avuto solo tre pagamenti parziali in sette mesi e hanno deciso uno sciopero a tempo indeterminato per ottenere il pagamento di quanto dovuto loro.
Parallelamente, il 29 novembre, il sito di informazione Libcom.org dava notizia di uno sciopero generale scoppiato nel settore pubblico israeliano, comprendendo aeroporti, porti, e con gli uffici postali tutti chiusi. 12.000 impiegati comunali e i pompieri sono scesi in sciopero sulla chiamata della centrale sindacale Histradrout (la Federazione Generale del Lavoro) in risposta alla violazione degli accordi tra i sindacati e le autorità locali e religiose.
Histadrout ha così dichiarato che questi accordi riguardavano salari che dovevano essere pagati e che il denaro che doveva essere versato nei fondi pensione erano spariti.
La guerra imperialista amplifica la rovina economica e la miseria dei proletari nella regione. La borghesia dei due campi è sempre più incapace di pagare i suoi schiavi salariati.
Queste due lotte sono state oggetto di ogni sorta di manipolazione politica. Nella West Bank e a Gaza la frazione nazionalista di opposizione, Al Fatah, ha cercato di servirsi degli scioperi come di un mezzo per fare pressione sui suoi rivali di Hamas.
In Israele Histadrout ha una lunga tradizione di proclamazioni di “scioperi generali” supercontrollati per incanalare la collera degli operai sul terreno borghese e a profitto di questa o quella frazione borghese. Ma quello che è significativo è che in Israele lo sciopero di Histadrout (che è stato interrotto nel giro di 24 ore) è stato preceduto da un’ondata di scioperi molto meno controllati, tra i facchini, gli insegnanti, i professori universitari, gli impiegati di banca e quelli del pubblico impiego.
La disillusione di fronte al fiasco militare di Israele in Libano ha senza dubbio alimentato questo crescente malcontento.
Durante lo sciopero di settembre nei territori palestinesi, il governo di Hamas denunciava l’azione degli impiegati pubblici come contrario all’interesse nazionale e tentava di dissuadere gli insegnanti scioperanti: “Se voi volete manifestare, manifestate contro Israele, gli Americani e l’Europa!”.
In effetti, la lotta di classe si afferma come contraria all’interesse nazionale e per questo si oppone nei fatti alla guerra imperialista
Amos (2/12/2007)
(Tradotto da Révolution Internationale n.376)
Tuttavia, al di là della necessità per la classe operaia in Guinea, come dappertutto nel mondo, di saper opporsi a questi falsi amici che sono i sindacati ed a lottare al di fuori e contro essi, è certo che l’isolamento degli operai ed il bombardamento ideologico al quale sono sottoposti, rendono difficile lo sviluppo della lotta sul proprio terreno. Per questo è necessario che il proletariato dei paesi sviluppati del capitalismo, là dove esso è più concentrato e forte, faccia da catalizzatore della coscienza e delle espressioni autonome della lotta operaia.
Mulan, 24-2-2007 (Da Révolution Intenrationale n. 377)
Nel settembre scorso, la CCI ha presentato, davanti ad un uditorio di 170 studenti di un'università brasiliana, la propria analisi sulla situazione mondiale e sull’alternativa storica che si pone. I punti centrali della nostra relazione introduttiva1 sono stati: la guerra, la lotta di classe ed il ruolo delle elezioni. Qui di seguito facciamo un breve resoconto del dibattito sviluppatosi nella riunione2.
Prima ancora vogliamo però sottolineare il modo con cui i partecipanti si sono posti rispetto alla nostra presentazione il cui contenuto non era per loro "consueto" poiché denunciava le elezioni come strumenti della borghesia e metteva in evidenza la prospettiva dello sviluppo della lotta di classe internazionale. Malgrado ciò, lungi dal provocare ostilità o scetticismo, le nostre analisi hanno suscitato al contrario un grande interesse e spesso anche un sostegno esplicito.
La natura dei sindacati e della sinistra borghese
La presentazione non sviluppava molto l’aspetto del ruolo e della natura dei sindacati pertanto è stato accolto molto volentieri un intervento che ha messo in evidenza come i sindacati siano delle appendici dei partiti borghesi e costituiscano un trampolino per quelli che vogliono fare parte dell'alta burocrazia dello Stato.
Ci è stato chiesto se riteniamo il governo di Lula di sinistra o di destra. Abbiamo risposto, “di sinistra, senza alcun dubbio”. Il fatto che il governo di Lula si sia comportato come un nemico del proletariato non cambia in niente questa realtà, visto che la sinistra viene eletta per portare avanti lo stesso compito della destra: difendere gli interessi del capitale nazionale, cosa che può essere realizzata solo a scapito del proletariato.
Quale che sia il discorso, più o meno radicale, di Bachelet in Cile, di Kirchner in Argentina, di Chàvez in Venezuela o Morales in Bolivia, il succo è sempre lo stesso. Il più “radicale” tra loro, Chàvez, che non esita a scontrarsi con i settori della borghesia nazionale che hanno governato fino al 1988 e che non si fa scappare nessuna occasione per denunciare pubblicamente l'imperialismo degli Stati Uniti – mentre cerca di rafforzare la propria zona di influenza nei Caraibi - non esita ad organizzare, con lo stesso vigore, lo sfruttamento dei proletari venezuelani.
Se diciamo che la sinistra e la destra difendono tutte e due gli interessi del capitale nazionale contro il proletariato, non vogliamo fare una identità tra queste due forze borghesi. In effetti, in genere, i proletari non si fanno illusioni sulle intenzioni della destra, perché questa difende apertamente gli interessi della borghesia. Purtroppo però il proletariato, nel suo insieme, non giunge alla stessa chiarezza per quanto riguarda il ruolo della sinistra. Ciò significa che la sinistra, ed ancora più l'estrema sinistra, hanno una maggiore capacità di mistificare il proletariato. E’ per questo che le frazioni di sinistra dell'apparato politico della borghesia costituiscono il nemico più pericoloso per il proletariato.
Il ruolo delle elezioni
Alcuni interventi sono ritornati sulle elezioni il cui ruolo era stato sviluppato ampiamente nella presentazione. “È veramente impossibile utilizzarle in favore di una trasformazione sociale?” Su questa questione, la nostra posizione non ha niente di dogmatico, ma riflette una realtà mondiale che esiste dall'inizio del ventesimo secolo. A partire da questo momento, non solo “Il centro di gravità della vita politica lasciava definitivamente il parlamento”, come affermava l'Internazionale Comunista, ma in più il circo elettorale può essere solamente un'arma ideologica tra le mani della borghesia contro il proletariato.
Come si svilupperà la lotta di classe?
“Se le elezioni non sono uno strumento della lotta di classe, come farà il proletariato a lottare?”
Le lotte che il proletariato ha sviluppato dal 1968 non sono state “lotte elettorali”. Sebbene non siano state capaci di tracciare esplicitamente una prospettiva rivoluzionaria, esse sono state tuttavia sufficientemente forti da impedire una guerra mondiale all’epoca della Guerra fredda e -dopo – degli scontri frontali tra le grandi potenze. Il proletariato continua ad essere un freno allo scatenamento della guerra. Il proletariato, ed in generale la popolazione sfruttata, non sono mobilitati dietro le bandiere delle differenti borghesie nazionali. L'impossibilità attuale degli Stati Uniti a reclutare soldati per farne carne da cannone nei conflitti in Iraq ed in Afghanistan, ne è una dimostrazione.
Rifiutando di sottomettersi alla legge del deterioramento costante delle sue condizioni di vita determinate dall'aggravamento della crisi, il proletariato mondiale tende necessariamente ad amplificare le sue lotte. In particolare, da due anni a questa parte le lotte proletarie, che si sviluppano a livello a mondiale, presentano in modo crescente delle caratteristiche che costituiscono gli ingredienti necessari allo sviluppo futuro di un processo rivoluzionario:
- il carattere di massa della lotta, come abbiamo recentemente visto con lo sciopero di due milioni di operai in Bangladesh; - la solidarietà dimostrata dai proletari dell'aeroporto di Heathrow a Londra e dei trasporti a New York nel 2005; - la capacità di far nascere, in seno alla sua lotta, assemblee di massa aperte a tutti gli operai, come nello sciopero dei metallurgici a Vigo in Spagna durante la primavera scorsa; - la capacità della lotta degli studenti in Francia, sempre in primavera, di dotarsi di assemblee generali sovrane, capaci di preservare l'autonomia della lotta rispetto ai sindacati ed ai partiti della borghesia che tentavano di controllarla per indebolirla.
A proposito di quest’ultimo movimento è stata espressa un'insistenza affinché se ne parlasse più estesamente, cosa che abbiamo fatto brevemente sottolineando che questo movimento non ha mobilitato dei salariati, eppure quelli che erano in lotta già facevano parte del proletariato poiché la maggioranza degli studenti è costretta a lavorare per sopravvivere e un numero elevato tra loro andrà ad integrarsi, alla fine degli studi, nei ranghi del proletariato. Gli studenti si sono messi in lotta per la revoca di una legge che, poiché avrebbe aggravato la precarietà, costituiva un attacco contro tutto il proletariato. È sulla base di questa coscienza che la maggioranza del movimento ha ricercato la solidarietà dell'insieme del proletariato e ha tentato di mobilitarlo nella lotta. A varie riprese ci sono state grosse manifestazioni che hanno mobilitato 3 milioni di persone, lo stesso giorno in differenti città della Francia. Nella maggior parte delle università in sciopero, si sono tenute regolarmente assemblee generali sovrane che hanno costituito il polmone della lotta. La solidarietà è stata al centro della mobilitazione mentre, contemporaneamente, un'enorme corrente di simpatia in favore di questa lotta ha attraversato anche la popolazione, ed in particolare il proletariato. Tutto ciò ha obbligato il governo ad indietreggiare davanti alla mobilitazione per evitare che non si estendesse oltre.
Alcuni interventi hanno espresso delle preoccupazioni riguardanti le difficoltà obiettive nello sviluppo della lotta di classe: “Lo smantellamento delle grosse unità produttive non porrà un ostacolo a questo sviluppo?” In generale, assistiamo ad una diminuzione del proletariato industriale come risultato sia delle mutazioni nel processo di produzione (che comporta anche un aumento del numero di proletari nel settore terziario), sia della crisi economica e del decentramento di settori di produzione verso i paesi in cui la mano d'opera è meno cara, come in Cina che ha visto uno sviluppo importante in questi ultimi anni. Questo fenomeno costituisce una certamente difficoltà per il proletariato ma quest'ultimo ha già mostrato che è capace di superarla. In effetti, il proletariato non si limita alla classe operaia industriale. Il proletariato include tutti quelli che, in quanto sfruttati, hanno solamente la loro forza lavoro da vendere come fonte della loro sopravvivenza. Il proletariato esiste dovunque ed il luogo privilegiato per raggrupparsi ed unirsi è la strada, come ha dimostrato di nuovo il movimento degli studenti in Francia contro la precarietà.
Il decentramento di settori di attività verso i paesi come la Cina ha creato una divisione tra i proletariati cinesi, super sfruttati con condizioni di vita terribili, ed il proletariato dei paesi centrali che, a causa della scomparsa di settori importanti di produzione, soffre delle conseguenze di una disoccupazione accentuata. Ma questa non è una situazione eccezionale. Sin dall'inizio della sua esistenza il capitalismo ha messo i proletari in concorrenza gli uni contro gli altri. E, fin dall'inizio, la necessità di resistere collettivamente a questa concorrenza ha costretto gli operai a superarla attraverso la lotta collettiva. In particolare va ricordato che la fondazione della Prima Internazionale ha corrisposto alla necessità di impedire alla borghesia inglese di utilizzare operai francesi, belgi o tedeschi per sabotare gli scioperi degli operai inglesi. Oggi, malgrado le sue lotte importanti, il proletariato cinese non è in grado da solo di rompere il suo isolamento. Ciò mette in evidenza la responsabilità del proletariato dei paesi più potenti per spingere, attraverso le sue lotte, alla solidarietà internazionale.
Lo sviluppo della lotta di classe sarà caratterizzato dalla capacità crescente del proletariato a controllare le proprie lotte ed a farsi carico in prima persona della loro organizzazione. Ecco perché tenderà a diffondersi la pratica delle assemblee generali sovrane, che eleggono dei delegati revocabili da loro stesse. Questa pratica precede l'apparizione dei consigli operai, futuri organi dell'esercizio del potere proletario. Questo tipo di organizzazione è il solo che permette ai proletari di assumere collettivamente un controllo crescente sulla società, sulla loro esistenza e sul futuro.
Un tale obiettivo non può essere raggiunto attraverso forme organizzative che non rompono con il quadro dell'organizzazione della società borghese, come, per esempio, la “democrazia partecipativa” che, secondo i suoi sostenitori, correggerebbe i difetti della democrazia rappresentativa classica.
Un intervento ci ha chiesto di spiegare meglio la nostra posizione su questo argomento. Per noi, la democrazia partecipativa non è niente di più che uno strumento attraverso il quale gli stessi sfruttati e gli esclusi sono chiamati ad auto-gestire la propria miseria, e che mira ad ingannarli sui poteri che così sarebbero realmente loro conferiti in seno alla società. In fin dei conti, la democrazia partecipativa non è niente di più di una pura mistificazione.
La prospettiva rivoluzionaria
È necessario basare le prospettive dello sviluppo della lotta di classe sull'esperienza storica del proletariato. A questo proposito ci sono state poste le seguenti questioni: “Perché la Comune di Parigi e la Rivoluzione russa sono state sconfitte? E perché la Rivoluzione russa è degenerata?”
La Comune di Parigi non era ancora una “vera rivoluzione”, era un'insurrezione vittoriosa del proletariato limitata ad una città. I suoi limiti sono stati essenzialmente il risultato dell'immaturità delle condizioni oggettive. A quell'epoca, da un lato, il proletariato non era ancora sufficientemente sviluppato da potersi scontrare, nei principali paesi industrializzati, con il capitalismo per rovesciarlo. Dall’altro, il capitalismo era ancora un sistema progressivo, capace di sviluppare le forze produttive senza che le sue contraddizioni si manifestassero in un modo cronico e ancora più brutale. Questa situazione è cambiata all’inizio del ventesimo secolo con l’apparizione in Russia nel 1905 dei primi consigli operai, organi di potere della classe rivoluzionaria. Poco dopo, lo scoppio della Prima Guerra mondiale avrebbe costituito la prima manifestazione brutale dell'entrata del sistema nella sua fase di decadenza, nella sua “fase di guerra e di rivoluzioni”, come la caratterizzava l’Internazionale Comunista. In reazione allo scoppio della barbarie ad un livello sconosciuto fino ad allora, un’ondata rivoluzionaria si sviluppò a livello mondiale nella quale i consigli operai fecero di nuovo la loro apparizione. Il proletariato riuscì a prendere il potere politico in Russia, ma un tentativo rivoluzionario in Germania nel 1919 fu sconfitto grazie alla capacità della socialdemocrazia di ingannare i proletari. Questo insuccesso indebolì considerevolmente la dinamica rivoluzionaria mondiale che, nel 1923, era già quasi spenta. Isolato, il potere del proletariato in Russia non poteva che degenerare. La controrivoluzione si manifestò attraverso l’affermazione dello stalinismo e la formazione di una nuova classe borghese personificata con la burocrazia statale. Ma, contrariamente alla Comune di Parigi che non si era potuta estendere a causa dell’immaturità delle condizioni materiali, l’ondata rivoluzionaria mondiale fu sconfitta a causa della insufficiente coscienza, in seno alla classe operaia, della posta in gioco storica e della natura di classe della socialdemocrazia che aveva tradito definitivamente l’internazionalismo proletario ed il proletariato al momento della Guerra Mondiale. Le illusioni persistenti nei ranghi proletari nei confronti di questo nemico di classe non gli hanno permesso di smascherare le sue manovre che miravano a sconfiggere la rivoluzione.
A meno di un anno dall’altra nostra riunione pubblica, all’università di Vitòria da Conquista, davanti a più di 250 studenti, sul tema “La Sinistra comunista e la continuità del marxismo”, questa riunione ci ha permesso di verificare con molta soddisfazione che, insieme ad un rigetto crescente della miseria materiale, morale ed intellettuale di questo mondo in decomposizione, esiste un interesse crescente da parte delle nuove generazioni per il divenire della lotta di classe. Invitiamo tutti quelli che erano presenti a questa riunione o che hanno l’opportunità di leggere questo articolo a continuare il dibattito cominciato ed intervenire per iscritto sulle questioni che sono state presentate.
CCI, 12 ottobre 2006
1. Questa presentazione dal titolo, “La situazione mondiale e le elezioni”, è disponibile sulle pagine in portoghese del nostro sito internet.
2. Il resoconto completo si trova sul nostro sito sulle stesse pagine della presentazione in portoghese.
Nello scorso mese di gennaio la nostra organizzazione ha tenuto in Italia delle riunioni pubbliche sulle lotte operaie di Oaxaca, intitolate significativamente: “Rivolte a Oaxaca: esiste una situazione rivoluzionaria in Messico?”
Come abbiamo precisato nella nostra lettera di invito a compagni e lettori, il quesito si poneva con tanta più forza nella misura in cui intorno alla questione Oaxaca è fiorita una vasta propaganda di ambienti di una certa sinistra, particolarmente trotskista, che ha teso a presentare la situazione messicana come una situazione pre-insurrezionale. Noi invece riteniamo che, nonostante il carattere inizialmente spontaneo della lotta dei lavoratori messicani e una certa solidarietà che questa ha ricevuto in una prima fase, non sia questa la caratterizzazione che le si può attribuire per il semplice fatto che le rivendicazioni degli insegnanti e degli altri lavoratori della zona sono state strumentalizzate e svendute dalla cosiddetta APPO (Assemblea Popolare del Popolo di Oaxaca), organizzazione che ha utilizzato la lotta di questi lavoratori per esigere la destituzione di Ulises Ruiz e appoggiare la frazione politica che aspira a prendere il suo posto (1).
A partire da questo primo elemento una compagna, presente alla nostra riunione di Napoli, ha posto la questione se lo stesso si potesse dire per il movimento zapatista del Chiapas. Al che abbiamo risposto che in questo caso non si trattava neanche più di una lotta proletaria e che la controprova stava nel fatto che, nonostante la vicinanza geografica tra i due stati messicani di Oaxaca e del Chiapas, il cosiddetto movimento guerrigliero zapatista non aveva mosso un dito in solidarietà dei lavoratori di Oaxaca.
Al che la compagna ha ribattuto che non si poteva fare il confronto tra Oaxaca e il Chiapas, che non era possibile attendersi chissà che dal movimento zapatista visto che si trattava di un movimento di indigeni e di contadini.
A partire da questa affermazione il dibattito – di cui questo articolo vuole essere una testimonianza e un contributo - si è quindi sviluppato su quale sia il soggetto sociale capace di dare risposta ai problemi del momento, ovvero di operare i cambiamenti sociali e strutturali di cui tutti indistintamente avvertono la necessità. E naturalmente quale sia oggi la posta in gioco.
In realtà, in un mondo che vive la contraddizione storica più ridicola e assurda di tutti i tempi - ovvero una povertà assoluta di una fetta consistente dell’umanità (circa un quarto della popolazione mondiale che vive al di sotto dei livelli di povertà, con meno di 1 dollaro al giorno per vivere) a fronte di una sovrapproduzione di merci in tutti i campi che costringe i capitalisti a chiudere le fabbriche in tutto il mondo e a portare alla fame sempre più gente, riducendo ulteriormente la possibilità di vendere le merci che quegli operai hanno prodotto - è evidente che c’è da fare un’unica cosa: liberarsi di questo meccanismo perverso che vuole che un bene, per essere goduto, deve essere acquistato e per essere distribuito deve essere venduto.
Di fronte a questa contraddizione, che è al cuore delle contraddizioni del sistema capitalista, solo una classe come il proletariato, che è essa stessa nel cuore della società capitalista perché ne costituisce il motore economico e produttivo pur essendo la classe sfruttata di questa epoca, può diventare l’elemento di impulso di un cambiamento radicale.
Questa aspirazione ad essere la classe generatrice di una nuova società senza classi, il proletariato la deriva non da fantasticherie di qualche ciarlatano ma dal fatto di essere, oltre alla borghesia, l’unica altra classe storica del momento, la classe che ha, attraverso la sua lotta contro la borghesia e i suoi tentativi insurrezionali, particolarmente attraverso l’ondata rivoluzionaria degli anni ’20, dimostrato materialmente di essere la classe rivoluzionaria della nostra epoca storica. E il fatto di non essere essa stessa una classe sfruttatrice, di non avere alcun interesse specifico di classe da preservare all’interno di questa società, fa sì che il proletariato sia l’ultima classe rivoluzionaria della storia, la classe capace di instaurare una società comunista, una società senza classi.
Certamente, oltre al proletariato, esistono altri strati sociali che soffrono e che vanno in miseria, esistono tante altre contraddizioni e sofferenze. Come abbiamo già affermato nella discussione sviluppata nella nostra riunione pubblica e parafrasando Marx, possiamo dire che non c’è problema che non riguardi la classe operaia, che il proletariato è sensibile alle sofferenze di tutta l’umanità. Il problema però non è riconoscere o negare l’esistenza di queste contraddizioni, quanto comprendere da quale punto di vista collocarsi per rispondere a queste contraddizioni. Tornando alla questione del Chiapas e della lotta degli indios del Messico, qualunque persona dotata di un minimo di onestà è pronto a riconoscere che le popolazioni indigene precolombiane sono state massacrate e sfruttate in seguito alla conquista coloniale fatta dai paesi europei e che tuttora tali popolazioni sono sottoposte ad una discriminazione e a uno sfruttamento indicibili. Ma la risposta che dà lo zapatismo è una risposta che non porta da nessuna parte perché lo zapatismo, come ha ricordato la stessa compagna intervenuta nella discussione a Napoli, è un movimento che fa appello al popolo e non a una classe, il che significa che fa appello a dei sentimenti di nazione piuttosto che a degli interessi di classe per promuovere la lotta. Questa differenza è cruciale per capire come caratterizzare una lotta. Infatti quella degli zapatisti, ammesso che si voglia riconoscere tutta la buona fede ai suoi promotori, è una lotta che presenta le seguenti caratteristiche:
- nasce e rimane ancorata al quadro nazionale, il che spiega giustamente il fatto che non c’è stato alcun sostegno materiale da parte degli zapatisti verso il movimento di Oaxaca perché mancano i presupposti materiali per proiettarsi al di fuori del loro contesto, per esprimere un’azione solidale con altre lotte;
- si pone su un terreno di diritti di minoranze etniche che non pone in discussione il sistema di sfruttamento e di oppressione del capitalismo nei confronti dell’intera umanità;
- anche il riconoscimento di una autonomia politica fino alla costituzione di un nuovo stato, come nel caso del popolo palestinese, non fa che garantire ad una nuova borghesia dei privilegi che prima erano di un’altra borghesia (la creazione di uno stato in Palestina ad esempio garantirebbe alla borghesia palestinese un pezzo di potere ceduto dalla borghesia israeliana) senza nulla cambiare nelle condizioni materiali di sfruttamento dei proletari che passano da uno sfruttatore (israeliano) a un altro (palestinese);
- peraltro la costituzione di questo nuovo Stato non servirebbe neanche più, come una volta, a garantire un più veloce sviluppo delle forze produttive nella misura in cui il declino storico del sistema capitalista non permette più, e da tempo, che questo avvenga (2).
A questo punto ci si è posti il problema di come si può riconoscere una lotta proletaria, una lotta che vada nel senso della difesa degli interessi della classe. A tale proposito si è preso ad esempio la “battaglia contro la privatizzazione dell’acqua”, su cui si è sviluppato tutto un movimento di raccolta di firme e di sensibilizzazione, portato avanti da associazioni varie, preti e partiti di sinistra. Ancora una volta – e di proposito – non vogliamo mettere in discussione la buona o cattiva fede dei vari leader di questi movimenti, ma cercare di mostrare come il problema in sé, con i migliori e più onesti leader che si vogliano scegliere, non potrà che portare a una sconfitta se condotto dal punto di vista di un “movimento popolare” piuttosto che dal punto di vista della classe operaia.
Che significa limitarsi a vedere il problema dal punto di vista di un “movimento popolare”? Significa che, al di là del riconoscimento di questo o quell’abuso, si accetta di partire dai valori che l’attuale sistema sociale ci trasmette: ad esempio è proprio il modo di pensare corrente - che è quello della società borghese - che ci suggerisce che una azienda pubblica, proprio perché tale, dovrebbe fare di più gli interessi della popolazione mentre invece il privato per definizione dovrebbe essere l’incarnazione del profitto. Ma questi stereotipi sono completamente sbagliati. L’economia dei paesi dell’Europa dell’est per decenni è stata amministrata da regimi “comunisti” a parole, ma in realtà a capitalismo di Stato, dove in apparenza la proprietà era collettiva ma dove di fatto vigeva una situazione di schiavitù salariale completa e dove la qualità della vita era pessima. Ugualmente, se guardiamo le aziende “pubbliche” nostrane, anche qui possiamo scoprire come spesso, proprio per il fatto di avere la copertura dello Stato, i dirigenti di queste aziende profittano, a livello economico e di gestione della stessa azienda, molto più di quanto potrebbe fare un dirigente della stessa azienda privatizzata. Per esempio è noto che, mentre le aziende private sono, almeno nominalmente, sottoposte ai vari controlli, quelle pubbliche spesso usufruiscono di un occhio di riguardo da parte degli stessi organi di controllo nella misura in cui si tratta di… strutture pubbliche. Ma da dove viene e su che cosa poggia questa idea che “pubblico” è meglio che “privato”? In realtà una base materiale questa idea ce l’ha, e corrisponde al fatto che, soprattutto nel secondo dopoguerra, per fare ripartire l’economia dei vari paesi e dell’Italia tra questi, lo Stato è dovuto intervenire pesantemente per garantire questo rilancio e assumendo spesso in prima persona la gestione di settori produttivi e di servizi. All’interno di questa logica il capitale statale, proprio in quanto tale, ha potuto in più occasioni garantire condizioni di favore e tariffe particolarmente basse all’utenza pur di garantire dei servizi utili all’economia complessiva. Ad esempio per tutto un periodo l’iscrizione a scuola, l’assistenza sanitaria, i mezzi pubblici sono costati alla popolazione molto poco perché era necessario garantire un minimo di istruzione alla classe lavoratrice, un suo stato di salute decente per poterla sfruttare e una sua capacità di raggiungere i luoghi di lavoro senza problemi. E’ naturale che al confronto delle tariffe statali e comunali, quelle di qualche azienda privata risultava subito abnorme. Ma ormai con la crisi attuale anche questo è finito, e ce ne accorgiamo dai ticket ospedalieri, dalle tasse universitarie, dai biglietti del metrò, che sono tutti ormai prezzi di mercato. Più in generale possiamo dire che non esiste nessuna differenza di qualità tra pubblico e privato, che esiste anzi spesso una forte connivenza tra le due gestioni che è spesso funzionale a illudere “il popolo” e particolarmente la classe operaia della bontà di una certa soluzione adottata.
Qual è invece il punto di vista proletario sull’acqua? Quello di rivendicare un’erogazione sufficiente di acqua per tutti, e che sia pulita, pagandola il meno possibile. Questo è quanto importa ai lavoratori, indipendentemente che l’azienda sia pubblica o privata. Viceversa la “battaglia contro la privatizzazione dell’acqua” comporta tutta una serie di elementi che vanno contro gli interessi proletari che sono i seguenti: a) anzitutto si alimenta l’illusione sul fatto che possiamo essere noi a decidere sulla gestione di questa società; b) ci si pone una falsa alternativa: essere sfruttati da un ente pubblico o da un ente privato; c) inoltre una lotta condotta su questo piano ci porta a mescolare i proletari con tutti gli altri strati sociali “del popolo” i cui interessi materiali non sono omogenei ai nostri (ad esempio un albergatore o un proprietario di azienda agricola, se sono interessati anch’essi ad avere acqua a buon prezzo e pulita, possono risolvere il loro problema anche in maniera alternativa, poniamo attraverso la concessione a scavare un pozzo per emungere acqua di falda).
In conclusione, se è vero che esistono tantissime contraddizioni e sofferenze nella società in cui viviamo, la soluzione all’insieme di queste contraddizioni non potrà venire da una serie di lotte parcellari e specifiche e/o da una iniziativa popolare, ma dalla risposta dell’unica classe che ha in mano le sorti dell’umanità, la classe operaia. E’ per questo che è della più grande importanza saper riconoscere e distinguere le lotte che si pongono da un punto di vista genuinamente di classe da quelle che viceversa, nonostante la buona fede di chi le promuove, si pongono sul piano dell’interclassismo e partono dall’accettazione dello status quo.
Ezechiele, 25 febbraio 2007
1. Sul tema si possono leggere gli articoli pubblicati sul nostro sito web it.internationalism.org [10].
2. Vedi il nostro opuscolo sulla Decadenza del capitalismo e i nostri articoli “Nazione o classe: i comunisti e la questione nazionale” su Rivoluzione Internazionale n: 7 e 8.
Dopo 90 anni, lo scoppio della Rivoluzione russa del 1917 resta il movimento più gigantesco, più cosciente, più ricco di esperienze, di iniziative e di creatività delle masse sfruttate che la storia abbia mai conosciuto. Milioni di proletari riuscirono a rompere la loro atomizzazione, ad unificarsi consapevolmente, a darsi i mezzi per agire collettivamente, come una sola forza imponendo gli strumenti del capovolgimento dello Stato borghese per la presa del potere: i consigli operai (soviet). Al di là del rovesciamento del secolare regime zarista, questo movimento di massa cosciente, annunciava niente di meno che l'inizio della rivoluzione proletaria mondiale nel contesto internazionale di un’ondata di rivolte della classe operaia contro la guerra ed il sistema capitalista.
Gli storici borghesi continuano a sostenere una delle più ribattute leggende che consiste nel presentare la Rivoluzione del febbraio 1917 come un movimento per la “democrazia”, violata dal colpo di Stato bolscevico. Febbraio 1917 sarebbe un’autentica “festa democratica”, Ottobre 1917 un volgare “colpo di Stato”, una manipolazione delle masse arretrate della Russia zarista da parte del partito bolscevico. Questa spudorata falsificazione è il prodotto della paura e della rabbia provata dalla borghesia mondiale davanti ad un’opera collettiva e solidale, un’azione cosciente della classe sfruttata, che ha osato rialzare la testa e mettere in questione l’ordine delle cose esistente.
Nel Febbraio 1917 il sollevamento degli operai di San Pietroburgo (Pietrogrado) in Russia, non sopraggiunge come un fulmine a ciel sereno, ma in continuità degli scioperi economici duramente repressi, lanciati dagli operai russi dal 1915 in reazione alla ferocia della carneficina mondiale, contro la fame, la miseria nera, lo sfruttamento ad oltranza ed il terrore permanente dello stato di guerra. Questi scioperi e queste rivolte non sono in nessuno modo una specificità del proletariato russo, ma una parte integrante delle lotte e manifestazioni del proletariato internazionale dell’epoca. Una stessa ondata di agitazione operaia si sviluppa in Germania, in Austria, in Grande Bretagna... Al fronte, soprattutto negli eserciti russo e tedesco, si verificano degli ammutinamenti, delle diserzioni collettive, fraternizzazioni tra i soldati dei campi opposti. In realtà, dopo essersi lasciato trascinare dai veleni patriottici e gli inganni “democratici” dei governi, avallati dal tradimento della maggioranza dei partiti socialdemocratici e dei sindacati, il proletariato internazionale rialzava la testa e cominciava ad uscire dalle nebbie dell’ebbrezza sciovinista. Alla testa del movimento si trovavano gli internazionalisti - i bolscevichi, gli spartachisti, tutta la sinistra della 2a Internazionale - che, sin dall’agosto del 1914, avevano denunciato con forza la guerra come una rapina imperialista, come una manifestazione del fallimento del capitalismo mondiale, come il segnale affinché il proletariato compisse la sua missione storica: la rivoluzione socialista internazionale. Questa sfida storica fu fatta propria, a livello internazionale, dalla classe operaia a partire dal 1917 fino al 1923. All’avanguardia di questo movimento proletario che fermerà la guerra e che aprirà la possibilità della rivoluzione mondiale, si trovò il proletariato russo in questo mese di febbraio del 1917. Lo scoppio della Rivoluzione Russa non fu dunque un affare nazionale o un fenomeno isolato - e cioè una rivoluzione borghese ritardata, limitata al rovesciamento dell'assolutismo feudale - ma costituì il più alto momento della risposta del proletariato mondiale alla guerra e più profondamente all’entrata del sistema capitalista nella sua fase di decadenza.
Del 22 al 27 febbraio, gli operai di San Pietroburgo scatenano un'insurrezione in risposta al problema storico rappresentato dalla guerra mondiale, espressione della decadenza del capitalismo. A partire dagli operai tessili - superando le esitazioni delle organizzazioni rivoluzionarie - lo sciopero guadagna in 3 giorni la quasi totalità delle fabbriche della capitale. Il 25, sono più di 240.000 gli operai che hanno smesso di lavorare e che, lungi dal restare passivi nelle loro fabbriche, moltiplicano le riunioni e le manifestazioni di strada, dove le parole d'ordine delle prime ore per richiedere "pane" si trovano presto rafforzato da quelle di "abbasso la guerra", "abbasso l'autocrazia".
La sera del 27 febbraio, l'insurrezione, condotta dal proletariato in armi, regna padrona sulla capitale, mentre scioperi e manifestazioni operaie hanno inizio a Mosca, estendendosi i giorni seguenti alle altre città di provincia, Samara, Saratov, Kharkov... Isolato, incapace di utilizzare contro il movimento rivoluzionario un esercito profondamente provato dalla guerra, il regime zarista è costretto ad abdicare.
Rotte le prime catene, gli operai non vogliono più arretrare e, per non avanzare alla cieca, riprendono l'esperienza del 1905 creando i soviet che erano apparsi spontaneamente durante questo grande sciopero di massa. Questi consigli operai erano l'emanazione diretta delle migliaia di assemblee di lavoratori nelle fabbriche e nei quartieri, e rispettavano la sovranità delle assemblee e la centralizzazione con delegati eleggibili e revocabili in qualsiasi momento. Questo processo sociale oggi sembra utopico a molti operai, ma è quello della trasformazione dei lavoratori da una massa sottomessa e divisa, in una classe unita che agisce come un solo uomo e diventa capace di lanciarsi nella lotta rivoluzionaria. Trotsky aveva fin dal 1905 mostrato cosa era un consiglio: "Che cos'è il soviet? Il consiglio dei deputati operai fu formato per rispondere ad un bisogno pratico suscitato dalla congiuntura di allora: bisognava avere un'organizzazione che godesse di un'autorità indiscutibile, libera da ogni tradizione che potesse raggruppare immediatamente le moltitudini disseminate e prive di collegamento; quest' organizzazione doveva essere capace di iniziativa e controllare sé stessa automaticamente..." (Trotsky, 1905) Questa "forma infine ritrovata della dittatura del proletariato", come diceva Lenin, rendeva antiquata l'organizzazione permanente in sindacati. Nel periodo in cui la rivoluzione è storicamente all'ordine del giorno, le lotte esplodono spontaneamente e tendono a diffondersi a tutti i settori della produzione. Così il carattere spontaneo dell'apparizione dei consigli operai deriva direttamente dal carattere esplosivo e non programmato della lotta rivoluzionaria.
I consigli operai durante la rivoluzione russa non furono il semplice prodotto passivo di condizioni obiettive eccezionali, ma anche il risultato di una presa di coscienza collettiva. Il movimento dei consigli ha portato lui stesso i materiali per l'auto-educazione delle masse. I consigli operai mischiarono in modo permanente gli aspetti economici e politici della lotta contro l'ordine stabilito. Come scrive Trotsky: "Là è la sua forza. Ogni settimana portava alle masse qualche cosa di nuovo. Due mesi facevano un'epoca. A fine febbraio, insurrezione. A fine aprile, manifestazione degli operai e dei soldati armati a Pietrogrado. All'inizio di luglio, nuova manifestazione con molto più ampiezza e parole d'ordine più risolute. A fine agosto, il tentativo di colpo di stato di Kornilov, respinto dalle masse. A fine ottobre, conquista del potere da parte dei bolscevichi. Sotto questo ritmo di avvenimenti di una regolarità sorprendente si compivano profondi processi molecolari che saldavano in un tutto politico gli elementi eterogenei della classe operaia". “(...) Si tenevano riunioni nelle trincee, sulle piazze dei villaggi, nelle fabbriche... Per mesi, a Pietrogrado ed in tutta la Russia, ogni angolo di strada fu una tribuna pubblica..." (Trotsky, Storia della Rivoluzione Russa).
Se il proletariato russo si diede i mezzi della sua lotta imponendo i consigli operai, è anche vero che fin da febbraio incontrò una situazione estremamente pericolosa. Infatti, le forze della borghesia internazionale tentarono molto presto di ribaltare la situazione a loro vantaggio. Non avendo la forza di schiacciare nel sangue il movimento, tentarono di orientarlo verso obiettivi borghesi "democratici". Da una parte formarono un governo provvisorio, ufficiale il cui scopo era di proseguire la guerra. Dall'altra parte, subito, i soviet furono invasi dai menscevichi e dai socialisti rivoluzionari. Questi ultimi, la cui maggioranza era passata nel campo borghese al momento della guerra, godevano all'inizio della rivoluzione di febbraio di un'immensa fiducia tra gli operai. Furono naturalmente portati all'esecutivo del Soviet. Da questa posizione strategica, provarono con tutti i mezzi di sabotare i soviet, di distruggerli. Da una situazione di "doppio potere" in febbraio, si arrivò ad una situazione di "doppia impotenza" in maggio e giugno 1917 nella misura in cui l'esecutivo dei soviet serviva da maschera alla borghesia per realizzare i suoi obiettivi, in primo luogo ristabilire ordine nel retroterra ed al fronte per poter proseguire la carneficina imperialista. Questi demagoghi menscevichi o socialdemocratici facevano ancora e sempre promesse sulla pace,"la soluzione del problema agrario", l'applicazione della giornata di 8 ore, eccetera, senza metterle mai in atto. Anche se gli operai, almeno quelli di Pietrogrado, erano convinti che solo il potere dei soviet era in grado di rispondere alle loro aspirazioni e se vedevano bene che le loro rivendicazioni ed esigenze non erano prese in considerazione, altrove, nelle province e tra i soldati, si credeva ancora ai "conciliatori", ai sostenitori della pretesa rivoluzione borghese. Spetterà a Lenin, con le sue Tesi di aprile, due mesi dopo scatenamento del movimento, svelare la sua audace piattaforma per riarmare il partito bolscevico, che tendeva a conciliarsi con il governo provvisorio. Le sue Tesi chiarivano chiaramente in anticipo dove andava il proletariato e formularono le prospettive del partito: “Nessuna concessione, fosse anche minima, potrebbe essere tollerata nel nostro atteggiamento verso la guerra”.
“Nessuno sostegno al governo provvisorio, dimostrare il carattere interamente menzognero di tutte le sue promesse... Smascherarlo al posto di 'esigere' - ciò che è inammissibile perché significherebbe seminare delle illusioni - che questo governo, governo di capitalisti, smetti di essere imperialista”.
"Non una repubblica parlamentare - ritornarvi dopo i Soviet dei deputati operai sarebbe un passo indietro - ma una repubblica dei Soviet di deputati operai, salariati agricoli e contadini in tutto il paese, dalla base alla cima". Armato di questa solida bussola, il partito bolscevico poté fare delle proposte di marcia che corrispondevano ai bisogni ed alle possibilità di ciascuno dei momenti del processo rivoluzionario puntando sulla prospettiva della presa del potere, e ciò, attraverso un "lavoro di spiegazione paziente ed ostinata" (Lenin). Ed in questa lotta delle masse per prendere il controllo delle loro organizzazioni contro il sabotaggio borghese, dopo parecchie crisi politiche, in aprile, in giugno e soprattutto a luglio, diventò possibile rinnovare i Soviet, all'interno dei quali i bolscevichi divennero maggioritari. L'attività decisiva dei bolscevichi ha dunque avuto per asse centrale lo sviluppo della coscienza di classe, avendo fiducia nella capacità di critica e di analisi delle masse e nella loro capacità di unità e di auto-organizzazione. I bolscevichi non hanno mai preteso sottomettere le masse ad "un piano di azione" precostituito, arruolando le masse come si arruola un esercito. "La principale forza di Lenin consisteva nel fatto che lui comprendeva la logica interna del movimento e regolava su questa la sua politica. Non imponeva il suo piano alle masse. Aiutava le masse a concepire ed a realizzare i propri piani". (Trotsky, Storia del Rivoluzione Russa, capitolo "Il riarmo del partito"). E' così che fin da settembre, i bolscevichi posero con chiarezza chiaramente la questione dell'insurrezione nelle assemblee di operai e di soldati. "L'insurrezione fu decisa, per così dire, ad una data fissata: il 25 ottobre. Non fu fissata da una riunione segreta, ma apertamente e pubblicamente, e la rivoluzione trionfante ebbe luogo precisamente il 25 ottobre...." (ibid) Essa provocò un entusiasmo senza pari tra gli operai del mondo intero, diventando il "faro" che avrebbe illuminato l'avvenire di tutto gli sfruttati. Ancora oggi, la distruzione del potere politico ed economico delle classi dominanti è una necessità di sopravvivenza imperiosa. La dittatura del proletariato, organizzato in Consigli sovrani, resta l'unica via realista per gettare veramente le basi di una nuova società comunista. I proletari devono riappropriarsene alla luce dell'esperienza del 1917.
SB (da Révolution Internationale n. 376)
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