Il BIPR (1) ha pubblicato sul suo sito internet in quattro lingue (italiano, francese, inglese, spagnolo) il seguente comunicato intitolato “Ultima risposta agli attacchi della CCI”:
“Si dà avviso a tutti i compagni che seguono le vicende internazionali dei gruppi della sinistra comunista che da un po' di tempo siamo oggetto di attacchi violenti e volgari da parte della CCI, inviperita perchè essa stessa è attraversata da una profonda e irreversibile crisi interna che porta i suoi fuoriusciti a guardare con attenzione critica alle posizioni del Bipr. Abbiamo per un po' sperato pazientemente che questi (ex?) compagni della CCI trovassero un minimo di equilibrio psicologico e in qualche occasione abbiamo anche risposto alle loro folli accuse, ma non è stato così. Le loro manie di persecuzione, i deliri complottardi che animano i loro sogni sono evidentemente il frutto avvelenato di un percorso politico basato su presupposti completamente fuori dal materialismo storico. E' questo che li porta ad accusare tutto e tutti di complotto borghese contro di loro, che è una pratica che ha stancato tutti coloro che fanno seriamente politica rivoluzionari. Si scopre allora tutto d'un colpo che dei militanti con un passato appunto militante di 25 anni e più, anche come membri degli organi dirigenti della CCI, non sarebbero che dei ladri, dei teppisti o dei parassiti.
Dunque inseguire la CCI sui suoi percorsi sarebbe per noi una onerosa perdita di tempo che non possiamo permetterci. Per questa ragione d'ora innanzi non daremo riscontro né seguito a nessuno dei loro volgari attacchi. Chi volesse, invece, approfondire la conoscenza della nostra critica politica alle posizioni della CCI troverà sul numero 10 di Prometeo (2) in uscita la nostra critica alla loro ultima risoluzione congressuale.
Ps: Questo testo rimarrà sul sito 15/20 giorni, dopo di che sarà tolto e la CCI non riceverà più alcuna risposta da noi alle sue polemiche”.
Quanto c’è di “attacchi violenti e volgari da parte della CCI” di cui parla questo comunicato?
Il recente comportamento del BIPR costituisce un elemento negativo che non si può nascondere
Effettivamente noi abbiamo mosso delle critiche molto severe al BIPR per una serie di comportamenti indegni della tradizione della Sinistra comunista, che possono essere riassunti così (3):
- Aver riprodotto sul suo sito, in diverse lingue, carrettate di calunnie contro la CCI emananti da un misterioso Circolo di Comunisti Internazionalisti, senza verificarne la veridicità dei fatti;
- Aver ritardato il più possibile la pubblicazione sul suo sito di una smentita scritta sotto nostra responsabilità e che rinviava ad una spiegazione sviluppata sul nostro sito Internet;
- Aver risposto alla fine a questa richiesta (che qualsiasi giornale borghese avrebbe accettato in simili circostanze) solo in seguito a tre nostre lettere e, soprattutto, in seguito ad un certo numero di fatti che venivano a dimostrare il carattere falso dei propositi dell’avventuriero (il signor B.) che si dissimulava dietro questo misterioso Circolo di Comunisti Internazionalisti;
- Non aver mai pubblicato la presa di posizione, che condannava questo signore, fatta dal NCI (Nucleo Comunista Internazionale), gruppo argentino che simpatizza con le posizioni della CCI e che, per primo, è stato vittima delle manovre del signor B.;
- Aver scelto il metodo più ipocrita per tentare di evitare di essere infangato dalla verità che si stava imponendo a proposito dei raggiri del signor B. e della natura del suo documento, cioè ritirare questo documento dal proprio sito con lo stesso silenzio che aveva accompagnato la sua messa in circolazione, mentre per circa due mesi questo era servito a coprire la nostra organizzazione di carrettate di fango;
- In altre parole aver girato le spalle al solo metodo degno dei rivoluzionari in simili circostanze: condannare energicamente il comportamento dell’impostore in modo da riparare all’errore politico grave commesso cauzionando le sue calunnie contro la nostra organizzazione.
Nei fatti la risposta del BIPR alla nostra critica è molto chiara: si tratta di un “respinto al mittente” giustificato dal pretesto che risponderci costituirebbe una “perdita di tempo che non possiamo permetterci”. E per di più il BIPR pretende che è lui ad essere attaccato! Un tale atteggiamento mostra chiaramente che questa organizzazione non ha nessun elemento concreto, né alcun argomento politico da opporci. Persistendo in questo atteggiamento, lo ripetiamo, il BIPR prova che sta diventando un ostacolo alla presa di coscienza del proletariato, “non tanto per il discredito che potrebbe apportare alla nostra organizzazione, ma per il discredito ed il disonore che questo tipo di comportamento infligge alla memoria della Sinistra comunista d’Italia, e dunque al suo contributo insostituibile” (“Lettera aperta ai militanti del BIPR” del 7 dicembre 2004).
Esaminiamo adesso questo “approfondimento della conoscenza della critica alle posizioni della CCI” da parte di BC promesso dal comunicato del BIPR, vale a dire l’articolo in italiano “Decadenza, decomposizione, prodotti della confusione” del numero 10 di Prometeo.
Lotta politica si, ma non con i metodi della borghesia
La CCI è totalmente favorevole al confronto aperto, senza concessioni, dei punti di vista divergenti difesi dalle diverse correnti all’interno del movimento operaio. In effetti, “Senza dubbio non esiste partito per il quale la critica libera ed infaticabile dei propri errori non sia, come per la social-democrazia, una condizione di esistenza. Così come noi dobbiamo progredire al pari dell’evoluzione sociale, la modifica continua dei nostri metodi di lotta e, di conseguenza, la critica incessante del nostro patrimonio teorico, sono le condizioni della nostra propria crescita” (Rosa Luxemburg, Libertà della critica e della scienza) (4). Non è quindi un caso se, contrariamente alle tendenze opportuniste all’interno del movimento operaio, le correnti costituenti la sinistra marxista all’interno di questo hanno sempre, ad immagine di Lenin, Rosa Luxemburg e Pannekoek, accolto con entusiasmo la polemica, da essi considerata vivificante. La CCI stima di inscriversi totalmente in questa tradizione, come testimoniato dall’esistenza di numerose serie di polemiche apparse sulla sua stampa e la cui onestà non è stata, fino ad oggi, contestata da nessuno.
Rispetto all’articolo di Prometeo dobbiamo dire di non essere stati colpiti dalla “profondità” che era stata promessa, ma questo non è il problema più importante. In effetti, BC sembra ignorare o aver dimenticato che la polemica all’interno del campo proletario non ha niente a che vedere con la “giostra politica” praticata dalla borghesia e la cui finalità è “segnare dei punti” contro l’avversario, considerando questo metodo come uno tra gli altri dei modi di procedere propri di questa classe: colpi bassi, mala fede, raggiri, menzogne, ecc. Così, pur affrontando nell’articolo questioni della massima importanza per la classe operaia, è a questi modi di procedere che BC è ricorsa per tentare di far prevalere “ad ogni costo” il suo punto di vista. E’ per questo che, senza sottovalutare l’importanza di continuare a prendere posizione sulle divergenze importanti che separano le nostre organizzazioni – e lo faremo di nuovo prossimamente (5) – è a questa pratica politica di BC che vogliamo qui dare priorità criticandola profondamente in quanto inaccettabile da parte di una organizzazione che si richiama al marxismo ed alla tradizione della Sinistra comunista.
Non è la prima volta che dobbiamo rilevare problemi di questo tipo nella discussione con questa organizzazione. Per esempio, nel marzo 2001, in un articolo in due parti consacrato alla critica della pratica opportunista nella costruzione del Patito adottata dal BIPR (6), scrivevamo, a proposito di una risposta di questa organizzazione alla prima parte dell’articolo: “[la CCI] viene citata solo quando strettamente necessario. L’insieme dell’articolo è superficiale e sprovvisto di citazioni delle nostre posizioni, le quali sono, al contrario, sintetizzate da BC che ne riproduce alcune in modo chiaramente deformato”. Ma mentre all’epoca volevamo ben credere che “ciò rileva una incomprensione di queste [nostre posizioni] e non una manifestazione di mala fede” oggi, tenuto conto del carattere sistematico della deformazione e dell’enormità di certe menzogne, siamo in dubbio sulle cause di un tale atteggiamento: bisogna metterlo in conto alla senescenza intellettuale e politica o invece attribuirlo ad un cinismo estremo che traduce la perdita totale di ogni morale e di ogni riferimento proletario da parte di questa organizzazione? E perché no le due cose insieme? In ogni caso il lettore potrà giudicare testi alla mano.
La spudorata deformazione delle posizioni della CCI
L’articolo di Prometeo si attacca alla rinfusa alla nostra posizione relativa alla capacità della borghesia e dei suoi sindacati di manovrare contro la classe operaia (come è successo all’epoca degli scioperi in Francia nel dicembre 95) ed alla nostra analisi del parassitismo politico. Senza ritegno, dopo aver appena sfiorato la prima questione, la penna devastante di BC sfigura deliberatamente la nostra analisi del parassitismo per i bisogni meschini della sua bassa polemica. Ecco cosa si dice: “Tutti hanno avuto modo di verificare questa visione, propria della CCI di una borghesia complottarda in varie occasioni, fra le quali (...) le tesi sul “parassitismo” che assegnano alla borghesia tout court la responsabilità di creare i gruppuscoli parassiti, apposta per danneggiare la CCI”. L’autore di questo articolo ha la faccia tosta di presentare ciò che lui chiama evidenze, “tutti hanno avuto modo di verificare questa visione”, e di invocare le nostre “tesi sul parassitismo” come prova di questa evidenza. Di fronte a tale menzogna è necessario citare abbondantemente queste Tesi:
- “il fenomeno del parassitismo politico risulta (...) essenzialmente dalla penetrazione di ideologie estranee all’interno della classe operaia (...)”. (Punto 8 delle “Tesi sul parassitismo” pubblicate nella Rivista Internazionale n 22.);
- esso costituisce una minaccia “in un periodo di immaturità relativa del movimento operaio in cui le organizzazioni del proletariato hanno ancora un debole impatto e poca tradizione” (punto 8);
- “... la nozione di parassitismo politico non è affatto una invenzione della CCI. (...) E’ l’AIT, a cominciare da Marx ed Engels, che caratterizzava già come parassiti questi elementi politicizzati che, pur pretendendo di aderire al programma ed alle organizzazioni del proletariato, concentrano i loro sforzi sulla lotta, non contro la classe dominante, ma contro le organizzazioni della classe rivoluzionaria” (punto 9);
- la vulnerabilità al parassitismo è dovuta oggi più specificamente alla “rottura della continuità organica con le tradizioni delle generazioni passate dei rivoluzionar,i che spiega soprattutto il peso dei riflessi e dei comportamenti anti-organizzativi piccolo-borghesi tra molti elementi che si richiamano al marxismo ed alla Sinistra comunista” (punto 12);
- “il parassitismo non costituisce come tale una frazione della borghesia, non avendo né programma né orientamento specifici per il capitale nazionale, né un posto particolare negli organi statali per controllare la lotta della classe operaia” (punto 18);
- tuttavia, “la penetrazione di agenti dello Stato nell’ambito parassitario è evidentemente facilitato dalla natura stessa di questo, la cui vocazione fondamentale è combattere le vere organizzazioni proletarie” (punto 20).
Inoltre, se la questione del parassitismo è effettivamente presente nella conclusione della nostra risoluzione criticata da BC, è per dire: “Come per la classe ogni dimissione di fronte alla logica della decomposizione non può che privarla della propria capacità a rispondere alla crisi alla quale l’umanità è confrontata, così la minoranza rivoluzionaria stessa rischia di essere rasa al suolo e distrutta dall’ambiente putrido che la circonda e che penetra nei suoi ranghi sotto la forma del parassitismo, dell’opportunismo, del settarismo e della confusione teorica”. Sfidiamo chiunque a trovare un legame tra quello che scrive BC e quello che scrive la CCI sul parassitismo, incluso all’interno di quello che non abbiamo citato qui. In effetti, alla lettura dei nostri testi, che sono pubblici, anche per il BIPR, emerge che, contrariamente alla visione poliziesca che con l’imbroglio BC ci attribuisce, il parassitismo politico non è una creazione della borghesia, ma il prodotto della pressione dell’ideologia borghese in certe circostanze storiche.
E dalla lettura dell’insieme dell’articolo di Prometeo emerge che BC è un pessimo falsario, ma anche un instancabile calunniatore.
Uno stato d’animo deplorevole
L’esempio che precede è un’espressione caricaturale della disonestà che attraversa tutto l’articolo di Prometeo.
La manipolazione degli scritti de “l’avversario”
L’articolo di BC rimprovera alla nostra risoluzione di contenere, nei punti 6 e 9, “delle frasi prive di senso”, tra le quali la seguente che ne costituirebbe “una perla”: “L’abbandono di queste istituzioni [l’ONU e la Nato] del ‘diritto internazionale’ rappresenta un avanzamento significativo dello sviluppo del caos nei rapporti internazionali”. Il problema non sta nella qualificazione da parte di BC di questa frase, ma piuttosto nel fatto che, isolata dal suo contesto questa può lasciar pensare che noi valutiamo che l’ONU avrebbe un ruolo da arbitro internazionale, al di sopra degli interessi particolari degli uni e degli altri, garantendo un certo ordine mondiale e una sua perdita di influenza sarebbe quindi un fattore di caos. Ora, non è questa la nostra posizione (e BC lo sa perfettamente, così come sa molto bene che la CCI ha sempre considerato l’ONU “un covo di briganti” (7)), come ci si può rendere conto leggendo le due frasi precedenti della nostra risoluzione non citate da BC: “Questa crisi mette in evidenza la fine non solo della NATO (la cui inadeguatezza si è vista attraverso la sua incapacità a mettersi d’accordo sulla ‘difesa’ per la Turchia giusto prima della guerra), ma anche delle Nazioni Unite. Sempre più la borghesia americana considera questa istituzione come uno strumento dei suoi principali rivali e dice apertamente che questa non giocherà alcun ruolo nella ‘ricostruzione’ dell’Iraq”.
L’arte di giocare con le parole per oscurare gli argomenti ed il pensiero de “l’avversario”
La risoluzione della CCI criticata da BC ritorna sul periodo di decomposizione: “... la classe operaia, le cui lotte dal 1968 al 1989 avevano impedito alla borghesia di imporre la sua “soluzione” alla crisi economica, era sempre più confrontate alle conseguenze della propria incapacità ad elevare le lotte ad un livello politico più alto e ad offrire un’alternativa all’umanità. Il periodo di decomposizione , risultante da questo ‘empasse’ tra le due classi principali, non apporta niente di positivo alla classe sfruttata. Benché la combattività della classe non sia stata annientata in questo periodo, e che un processo di maturazione sotterranea della coscienza era ancora sensibile, in particolare sottoforma di ‘elementi in ricerca’ e di piccole minoranze politicizzate, la lotta di classe ha subito dappertutto un riflusso che non è ancora finito. La classe operaia in questo periodo è stata confrontata non solo alle sue debolezze politiche, ma anche al pericolo di perdere la sua identità di classe sotto il peso di un sistema sociale in piena disintegrazione”. Questa analisi della CCI si riduce a questo sotto la penna di BC: “la ‘decomposizione’ (del modo di produzione? della formazione sociale? Mah!) sarebbe dunque il risultato dell’equilibrio stabile che si sarebbe raggiunto fra le classi, proletariato e borghesia” Noi non avremmo sintetizzato così il nostro pensiero ma, tenuto conto del fatto che BC non capisce questa questione, non possiamo fargliene un rimprovero. Per contro, il modo in cui BC continua è significativo del suo metodo che gioca sull’utilizzo del termine “responsabilità” per dare alla nostra analisi un senso completamente diverso da ciò che esprimiamo realmente, in modo da snaturare la nostra argomentazione: “E in particolare per responsabilità della classe proletaria che ... si sarebbe rivelata incapace di elevare le sue lotte ad un livello politico più alto”. Esiste effettivamente una responsabilità storica della classe operaia a rovesciare il capitalismo prima che questo getti la società in uno stato di barbarie irreversibile. E’ compito del proletariato ergersi all’altezza di questa responsabilità. Questa è una cosa che i rivoluzionari affermano dai tempi della prima ondata rivoluzionaria mondiale degli ani 1917-23. Altra cosa è attribuirci l’idea che la classe operaia sia “responsabile” della decomposizione del capitalismo. E’ una calunnia a buon mercato che permette a BC di concludere (in più senza alcuna spiegazione): “Fare apparire la propria inadeguatezza teorica come una debolezza della classe è una furbata di basso profilo e che non paga”.
Un’enorme menzogna
Abbiamo visto in cosa consiste il persistente metodo di BC di deformare, talvolta in maniera molto grossolana gli argomenti della CCI, per ridicolizzarli, togliere loro valore, squalificarli. Per ognuna delle falsificazioni evocate prima è tuttavia sempre possibile invocare, affianco ad una evidente cattiva fede di BC, la sua ignoranza profonda delle posizioni criticate ed il suo disinteresse manifesto per queste, insieme alla superficialità della sua pratica politica. Ma ciò non è possibile per l’esempio che segue, degno dei metodi di propaganda di Goebbels per il quale “una menzogna enorme porta in se una forza che elimina il dubbio”.
L’articolo di Prometeo ritorna sull’analisi che ha fatto la CCI prima della scomparsa dei blocchi sulla posta in gioco storica. Durante tutto il periodo della guerra fredda, mentre l’esistenza di due blocchi imperialisti rivali che si dividevano il mondo e si fronteggiavano era una condizione per lo scoppio di una terza guerra mondiale, il solo ostacolo ad una tale uscita fatale per l’umanità era costituita dall’esistenza di una classe operaia non imbrigliata dalla borghesia, contrariamente alla situazione che aveva prevalso alla vigilia dei primi due conflitti mondiali. Durante tutto questo periodo la CCI ha sempre combattuto le illusioni, alcune delle quali emananti da gruppi rivoluzionai quali BC, che alimentavano una sottovalutazione della gravità della posta in gioco partecipando a propagande del tipo, “poiché la borghesia non è suicida, non farà mai scoppiare una guerra nucleare”, che nei fatti dava credito alla tesi della borghesia de “l’equilibrio del terrore”. Oggi BC non rinnega quello che diceva al riguardo: “Beninteso il pericolo nucleare restava uno dei fattori di raffreddamento delle tensioni, ovvero una spinta forte sui centri di comando dell’imperialismo a cercare soluzioni alternative” (“Decadenza, decomposizione, prodotti della confusione”). In più BC constata giustamente che con la scomparsa dei blocchi, la CCI ha cambiato la sua formulazione circa l’alternativa storica: “guerra o rivoluzione” è diventata “distruzione dell’umanità o rivoluzione”, la distruzione dell’umanità potendo risultare sia da una guerra mondiale (8) in caso di ricostruzione di due nuovi blocchi e di disfatta della classe operaia, sia dalla moltiplicazione di guerre locali sempre più devastanti e dallo sprofondamento del capitalismo nel caos e la decomposizione fino ad un punto di non ritorno. Mentre su questa questione l’articolo di BC riproduce fin qui quasi fedelmente le nostre posizioni, ecco che a questo punto BC sferra il suo “colpo segreto”, l’invenzione, non del secolo, ma quella che supera tutte le deformazioni all’attivo del suo triste primato: “Ora, improvvisamente, la CCI ci informa che la sola ragione della mancata guerra, sostanzialmente, era ed è il fatto che una guerra nucleare avrebbe annientato l’umanità”. Non credendo ai nostri occhi, abbiamo letto e riletto questo passaggio. Non solo non c’è scritto questo nella risoluzione della CCI, ma non c’è niente che potrebbe essere interpretato in questo modo in nessuno dei nostri testi precedenti e successivi a questa risoluzione. Ma soprattutto, nessun quiproquo era possibile nella misura in cui, al momento della riunione pubblica del BIPR del 2 ottobre a Parigi, la CCI le ha posto questa domanda pubblicamente: “Il BIPR difende ancora oggi la sua analisi secondo la quale se una terza guerra mondiale non è scoppiata prima del crollo del blocco dell’Est è a causa della bomba atomica e de ‘l’equilibrio del terrore’?”. Nel resoconto di questa riunione che abbiamo pubblicato (“Il vuoto politico e l’assenza di metodo del BIPR”, in Rivoluzione Internazionale n.138), riportiamo i seguenti fatti: “sulle prime nessun militante del BIPR ha voluto rispondere alla nostra domanda. Solo quando abbiamo ripetuto questa domanda per la terza volta, uno di loro si è degnato di risponderci, in modo molto conciso (e senza nessuna argomentazione):’ l'equilibrio del terrore è UNO dei fattori che spiega perché la borghesia non ha potuto scatenare una terza guerra mondiale’ ”. Era quindi impossibile per BC ignorare che al momento di questa riunione pubblica, cioè circa due mesi prima la pubblicazione in Prometeo dell’articolo in questione, noi eravamo in profondo disaccordo con lei su questa questione. Morale: oltre ad adottare delle pratiche della borghesia rispetto alla CCI, BC prende apertamente in giro il lettore.
La fuga di fronte alla necessità di chiarezza che si impone
Il BIPR, confuso dal carattere menzognero delle calunnie contro la CCI che lui ha ospitato con compiacenza sul sito, a cominciato a cancellare surrettiziamente le tracce del suo colpo basso (9), in modo da affossare la cosa. Quando la CCI gli chiede conto della sua azione, il BIPR strilla che è attaccato: “d’ora innanzi non daremo riscontro né seguito a nessuno dei loro volgari attacchi” (in “Ultima risposta alle accuse della CCI”) (10)! Per distogliere dal problema enorme che pone il suo comportamento politico, il BIPR “spara a zero” sui disaccordi tra le nostre due organizzazioni rispetto a delle questioni programmatiche e di analisi generale pubblicando in Prometeo l’articolo “Decadenza, decomposizione, prodotti della confusione”. Ma anche qui, incapace di affrontare onestamente le vere divergenze, è costretto ad escogitare giochetti da prestigiatore per non rispondere ai reali argomenti politici della CCI. Infine, per premunirsi dal dover render conto sulle sue nuove mancanze decreta un “respinto al mittente” che giustifica con una boria che non ha eguali se non la sua inanità politica: “Se queste sono – come sono – le basi teorico-politiche della CCI dovrebbero essere chiare le ragioni per le quali abbiamo deciso di non perdere più tempo, carta ed inchiostro per discutere o anche polemizzare con essa” (11).
Il BIPR riesce ancora a imbrogliare se stesso ed i suoi incondizionati sostenitori? A questi dovrebbe quanto meno spiegare perché è inutile discutere con la CCI a causa delle sue basi teoriche, mentre è invece possibile farlo con la FICCI ed avere con questa anche dei contatti che “esistono e persistono” (12), visto che quest’ultima pretende di rappresentare la vera CCI con le stesse “basi teoriche!”. La differenza più importante tra la CCI e la FICCI, ed è certamente questa che la deve rendere più attraente agli occhi del BIPR (13), è che la FICCI si è data alla denigrazione della nostra organizzazione, ha insinuato il sospetto riguardo all’esistenza di agenti dello Stato al nostro interno (il che è tipico del lavoro della provocazione poliziesca), ha commesso furti a nostro danno, si è data alla delazione rendendo pubblici degli elementi sensibili della nostra vita interna (14) e recentemente ha minacciato addirittura di “tagliare la gola” ad uno dei nostri militanti (15).
La paura congenita del confronto politico
Ecco il triste stato nel quale si trova oggi una componente uscita dalla Sinistra comunista d’Italia, corrente che negli anni 30, in pieno periodo di controrivoluzione, ha saputo mantenere l’onore del proletariato rivoluzionario contro il tradimento dei PC e di fronte alla degenerazione del trotskismo. E’ vero che questa componente politica che è all’origine della fondazione del PCInt nel 1943 in Italia si era già caratterizzata da subito, appunto in questa occasione, per un’apertura opportunista di fronte a gruppi di provenienza dal PSI (Partito socialista italiano) e dal PCI (Partito comunista italiano) o elementi che avevano rotto precedentemente con il quadro programmatico della Sinistra italiana per lanciarsi in avventure contro-rivoluzionarie (16). La Frazione francese della Sinistra comunista (FFGC, che pubblicava Internationalisme), a cui si rivendica la CCI, criticò all’epoca questa pratica che voltava le spalle all’intransigenza programmatica e organizzativa della Sinistra comunista d’Italia negli anni 1930 (17). Nel novembre 1946 la FFGC scrisse una lettera (pubblicata in Internationalisme n°16 del dicembre 1946) dove faceva l’elenco di tutte le questioni da discutere riguardanti le divergenze all’interno della SCI (18). E quello che successe è che, così come la SCI era stata esclusa in modo burocratico dall’IC dopo il 1926 ed esclusa di nuovo dall’Opposizione di sinistra nel 1933, fu poi la SCI ad escludere la Frazione francese dalla discussione politica al suo interno per evitare il confronto politico. La “giustificazione” allora invocata per una tale misura ricorda la mala fede congenita del BIPR: “Poichè (...) la vostra lettera dimostra una volta ancora la costante deformazione dei fatti e delle posizioni politiche prese sia dal PCI d’Italia, sia dalle frazioni francese e belga (...),[e] la vostra attività si limita a gettare confusione e fango sui nostri compagni, noi abbiamo escluso all’unanimità la possibilità di accettare la vostra domanda di partecipazione alla riunione internazionale delle organizzazioni della SCI”. Questo estratto della lettera del PCInt è citato nell’articolo “La disciplina ... forza principale” apparso in Internationalisne n° 25, agosto 1947 (19). Lo stesso articolo di Intenationalisme n° 25 fa il seguente commento: Si penserà ciò che si vuole dello spirito con il quale è stata fatta questa risposta, ma bisogna constatare che in mancanza di argomenti politici essa non manca di energia e di decisione ... burocratica”.
Il metodo utilizzato attualmente da BC nei nostri confronti non è dunque nuovo da parte di questa organizzazione anche se, date le diverse circostanze, si esprime sotto una forma diversa. In effetti, non si pone qui la questione di una nostra esclusione dato che non apparteniamo ad un’organizzazione comune, quanto piuttosto un tentativo di “discredito” della nostra “squalifica” verso tutto l’ambiente che simpatizza con le posizioni della Sinistra comunista, che costituisce attualmente un obiettivo per BC, data la sua visione concorrenziale e settaria delle relazioni tra gruppi comunisti. Ma di fronte agli argomenti dell’avversario per raggiungere i suoi fini, respingendo il confronto franco e leale, BC ricorre alla disonestà, alla calunnia ed allo schivare le questioni con degli sdegnosi “respinto al mittente”.
Il BIPR malato delle sue concezioni e pratiche organizzative
Il disprezzo e lo spregio con il quale la SCI aveva all’epoca trattato questa piccola minoranza costituita dalla FFGC che aveva criticato la costituzione opportunista del PCInt, trovava una falsa legittimazione nella sproporzione allora esistente tra, da una parte, la SCI con le sue componenti in Italia (un partito che aveva contato alla sua formazione varie migliaia di membri), in Belgio ed in Francia e, dall’altra, la piccola FFGC molto ridotta numericamente ed esistente solo in Francia. E’ con la stessa arroganza che il BIPR tratta oggi la CCI, ma in più in maniera ridicola. In effetti, se è ben cosciente che, malgrado la sua esistenza in 13 paesi, la CCI è ancora una piccola organizzazione rivoluzionaria, il BIPR visibilmente non ha ancora realizzato che è lui stesso una minuscola organizzazione. BC può ben cercare di consolarsi prendendo i sogni ed i pettegolezzi della FICCI per realtà e rassicurarsi ripetendo a sazietà che la CCI è “attraversata da una profonda ed irreversibile crisi interna”, ciò non cambia la realtà attuale della CCI. Questa fa fronte alle sue responsabilità di analisi della situazione, di intervento nella classe operaia, fa uscire regolarmente la sua stampa, è capace di andare incontro alla richiesta di politica rivoluzionaria che emerge all’interno delle giovani generazioni e ... trova anche il tempo di difendersi di fronte agli attacchi di cui è oggetto da parte dell’alleanza del BIPR con il parassitismo. E’ vero che si parla di più delle crisi della CCI che di quelle del BIPR. E non a caso! Non solo la CCI non le nasconde, ma ne espone pubblicamente le cause e gli insegnamenti di fronte alla classe operaia. Del resto, come abbiamo già sottolineato nella risposta al BIPR (vedi il nostro articolo “Il furto e la calunnia non sono metodi della classe operaia”, pubblicato sul nostro sito Intenet), tutte le organizzazioni vive del movimento operaio (in particolare l’AIT ed il POSDR) hanno dovuto portare avanti delle lotte al proprio interno per difendersi da concezioni e comportamenti politici estranei al proletariato (20). E’ vero che il BIPR non parla dei problemi di questo tipo che possono toccare la sua vita politica. Scopriamo non di meno, all’interno di una frase, le concezioni aberranti in vigore in questa organizzazione. In effetti, per giustificare il furto degli indirizzi dei nostri abbonati da parte di un militante che parteciperà alla fondazione della FICCI, il BIPR si esprime in questi termini: “se dei compagni dirigenti della CCI - che come tali disponevano del file di indirizzi dell'organizzazione - rompono con l’organizzazione stessa, dichiarando per di più di voler recuperare i compagni alla “retta via”, e si tengono il file di indirizzi, non si tratta di furto. Il falso moralismo della CCI odora dunque di ipocrisia, quando è la stessa CCI a lanciare accuse di ogni genere a chi la abbandona” (“Risposta alle stupide accuse di una organizzazione in via di disintegrazione”, pubblicato sul sito Internet del BIPR). Abbiamo già mostrato (“Il furto e la calunnia non sono metodi della classe operaia”) perchè è nulla questa giustificazione del furto di uno strumento dell’organizzazione che appartiene a questa come insieme e non agli individui che la compongono. In quella occasione abbiamo segnalato che parlare di una “organizzazione con alla sua testa dei dirigenti” rimanda ad un concetto dell’organizzazione che noi non condividiamo. E’ esistito ed esiste ancora nel movimento operaio una visione dell’organizzazione, teorizzata in particolare dalla corrente bordighista (cugino carnale del BIPR) che opera esplicitamente una distinzione all’interno dell’organizzazione, tra i dirigenti e la base dei militanti (21). Tali visioni costituiscono delle concessioni alla visione gerarchica e borghese di una organizzazione. All’opposto di questa visione, il partito, come ogni organizzazione rivoluzionaria, non può svolgere la sua funzione se non è un luogo di elaborazione collettiva, con tutti suoi membri, degli orientamenti politici. Ciò implica necessariamente la discussione più aperta ed ampia possibile, all’immagine della classe operaia la cui emancipazione ha per condizione l’azione cosciente collettiva.
Non avevamo ancora commentato questa concezione del BIPR che attribuisce delle prerogative ai “membri dirigenti”, in questo caso rubare senza che ciò sia condannabile, e che rileva anch’essa una visione gerarchica dell’organizzazione. Ma si sarebbe tentati di farla derivare, non tanto dall’influenza dell’ideologia borghese, quanto piuttosto dell’ideologia ...feudale. In effetti questa illuminazione del BIPR ci trasporta direttamente al Medio Evo, con i nobili che hanno il privilegio, per i loro bisogni di cassa o di guerra, di poter saccheggiare i raccolti dei contadini e che, per loro proprio piacere, dispongono anche del ius primae noctis.
Se è vero che, nei fatti, assistiamo oggi ad una ripetizione della storia da parte di BC, sarebbe nondimeno sbagliato dedurne che questa organizzazione resta invariabilmente uguale a se stessa. In effetti, la ripetizione di pratiche opportuniste non è senza conseguenze sulla dinamica di un’organizzazione, in particolare quando questa è impermeabile alla critica e chiusa ad ogni rimessa in causa. I flirt ripetuti del BIPR con gruppi estranei alle posizioni o ai metodi del proletariato e in particolare, ultimo in data, con la marmaglia della FICCI, l’hanno portata ad inspirarsi ai loro metodi borghesi.
In questo testo ed in quelli precedenti ai quali abbiamo fatto riferimento, abbiamo dimostrato che le nostre critiche al BIPR sono assolutamente fondate e che le accuse di questa organizzazione nei nostri confronti si basano sulla sabbia. Noi continuiamo ad aspettare (e non demorderemo certo) che il BIPR dimostri quello che afferma, il mantenere un atteggiamento di silenzio da parte sua può significare solo una cosa, che nei fatti non ha niente da dire.
Corrente Comunista Internazionale
1. Il Bureau Internazionale per il Partito Rivoluzionario (BIPR – www.leftcom.org [1]), fondato dal Partito Comunista Internazionalista – Battaglia Comunista (BC) e dalla Communist Workers’ Organisation (CWO) in Inghilterra, si rivendica alla tradizione della Sinistra Comunista d’Italia.
2. Prometeo è la rivista teorica di Battaglia Comunista
3. Invitiamo i lettori a consultare sul nostro sito Internet i documenti inerenti a questa questione, in particolare l’ultimo: la “Lettera aperta ai militanti del BIPR” del 7 dicembre 2004.
4. Ciò che era vero per la Social Democrazia quando era ancora un’organizzazione della classe operaia, vale per tutte le organizzazioni del movimento operaio, quale che sia la loro influenza all’interno della classe, e si applica dunque pienamente ancora oggi alle piccole organizzazioni che sono restate fedeli, sul piano delle posizioni programmatiche, alla lotta del proletariato per la sua emancipazione.
5. L’articolo di BC è relativo ad un documento della CCI che data ormai due anni. Noi non rinneghiamo in niente il suo contenuto, ma è opportuno segnalare che, più recentemente e comunque prima della comparsa di questo articolo di BC, abbiamo pubblicato dei testi di polemica diretta con il BIPR, proprio sulle questioni centrali in oggetto. Si tratta delle due parti dell’articolo “L’abbandono da parte di BC del concetto marxista di decadenza di un modo di produzione” apparso nei numeri 119 e 120 della Rivista Internazionale (in francese, inglese e spagnolo) e dell’articolo “Il vuoto politico e l’assenza di metodo del BIPR”, pubblicato in Rivoluzione Internazionale n° 138, che costituisce il resoconto della riunione pubblica del BIPR del 2 ottobre 2004 a Parigi. Questi testi sono restati fino ad oggi senza risposta. Può darsi che fra due anni riceveranno una risposta da parte del BIPR, se questo riuscirà a liberare un pò del suo prezioso tempo.
6. “La visione marxista e la visione opportunista della costruzione del partito” nei numeri 103 e 105 della Rivista Internazionale (in francese, inglese e spagnolo).
7. Come del resto Lenin qualificava la Società delle Nazioni, antenata dell’ONU.
8. La CCI non ha tuttavia aspettato il crollo del blocco dell’Est per mettere in evidenza che una terza guerra mondiale avrebbe significato la scomparsa dell’umanità o, come minimo, un ritorno indietro della civiltà di migliaia di anni.
9. Nel caso in cui il BIPR dovesse diventare completamente smemorato rispetto a certi episodi del passato, noi abbiamo conservato delle copie dei testi che ha fatto sparire dal suo sito.
10. Il BIPR si lamenta della nostra volgarità nei suoi confronti. E’ vero che noi critichiamo con durezza, a volte con ironia, certi suoi comportamenti. Se lo merita, e delle volte è difficile non chiamare le cose con il proprio nome. Ma il BIPR ha ben poco da lamentarsi, tanto più che è molto meno pignolo e sensibile quando, galvanizzata dalle accuse dell’avventuriero B. contro di noi, la FICCI ci chiama stronzi nel suo “bollettino giallo”.
11. Notiamo quanto meno che il BIPR è stato molto meno avaro nel spendere il suo tempo quando, dovendo dare la massima diffusione alle calunnie del signor B. contro la CCI, ha trovato il modo di tradurre i testi di questo in più lingue per metterli sul sito.
12. “Risposta alle stupide accuse di una organizzazione in via di disintegrazione”, testo del BIPR pubblicato sul suo sito Internet.
13. La FICCI costituisce un’attrattiva per il BIPR che vede in essa un mezzo per rafforzarsi numericamente in Francia e, chi lo sa, per impiantarsi in Messico. In altri termini, nella sua valutazione intervengono fortemente delle considerazioni di “abboccamento” rispetto a quelli che, mentre pretendono di rappresentare la vera CCI, guardano “con attenzione critica alle posizioni del Bipr” (“Ultima risposta agli attacchi della CCI”). Se il BIPR ha deciso di non essere pignolo riguardo alla natura del “pesce” pescato, non tocca a noi metterlo in guardia ancora una volta.
14. A tale proposito vedi il nostro articolo “I metodi polizieschi della FICCI” in Révolution Internationale n° 330.
15. Vedi l’articolo “Minacce di morte contro i militanti della CCI”, in Rivoluzione Internazionale n° 140.
16. Vedi i nostri articoli “Battaglia Comunista: a proposito delle origini del Partito Comunista Internazionalista” nella Révue Internationale n° 34 e “Il Partito Comunista Internazionale (Programma Comunista) alle sue origini, quale pretende si essere, quale non è” nella Révue Internationale n° 32.
17. Leggi il nostro libro La Sinistra comunista d’Italia.
18. Per rendersi conto della serietà con la quale furono esplicitate queste divergenze e critiche, consigliamo ai nostri lettori di consultare la lista in questione pubblicata nel nostro opuscolo La Gauche communiste de France.
19. Articolo pubblicato sotto lo stesso titolo nella Révue Internationale n° 34.
20. E allo stesso modo, in queste lotte, hanno perso degli elementi dal lungo e talvolta prestigioso passato militante che, in una forma o nell’altra, avevano tradito la causa proletaria.
21. Tali visioni sono già state combattute dalla FFGC nella rivista Internationalisme n° 25. In particolare nella sua critica de “la concezione del capo geniale” (secondo la quale solo delle individualità particolari – i capi geniali – hanno la capacità di approfondire la teoria rivoluzionaria per distillarla e trasmetterla, in un certo senso “bell’è fatta”, ai membri dell’organizzazione) e de “la disciplina ... forza principale” (che concepisce i militanti dell’organizzazione come dei semplici esecutori che non hanno da discutere gli orientamenti politici dell’organizzazione). Queste visioni erano state combattute anche da Lenin quando scriveva “è dovere dei militanti comunisti verificare in prima persona le risoluzioni delle istanze superiori del partito. Chi, in politica, crede sulla parola è un incorreggibile idiota” (citato da Internationalisme n° 25).
In risposta alla minaccia di riduzioni massicce di posti di lavoro e di chiusure di fabbriche da parte della General Motors, ha avuto luogo alla Opel di Bochum uno sciopero di sei giorni. Questo sciopero spontaneo, non ufficiale, è stato il più lungo e significativo in Germania dai grandi scioperi selvaggi della fine degli anni 60 - inizio anni 70.
Per quasi un’intera settimana la popolazione operaia, non solo in Germania, ha seguito con attenzione e grande simpatia gli avvenimenti di Bochum. Nelle altre fabbriche della General Motors (GM) in Europa gli operai hanno espresso apertamente la loro ammirazione identificandosi con i proletari di Bochum per il loro coraggio e la loro combattività. Ad esempio, durante la "giornata d'azione" organizzata dai sindacati il 19 ottobre ci sono state varie interruzioni di lavoro. L'importanza di germi di solidarietà che sono stati attivati da questa lotta operaia può misurarsi col fatto che i padroni, finché si sviluppava lo sciopero, non hanno osato prendere misure legali contro gli scioperanti, sebbene normalmente - proprio nella Germania democratica - ci sia una repressione particolarmente rigorosa contro ogni lotta che si svolge al di fuori del quadro sindacale dei negoziati ufficiali. Naturalmente, i padroni hanno utilizzato le minacce abituali, denigrato i "sobillatori", diffondendo voci su automobili e macchine rotte e hanno minacciato di chiamare la polizia se lo sciopero non fosse cessato immediatamente.
Il significato ed il contesto della lotta alla Opel
Sebbene il sindacato IG Metal ed il consiglio di fabbrica (1) della Opel-Bochum abbiano giustificato la fine dello sciopero con il fatto che gli operai avrebbero obbligato i datori di lavoro a ritornare al tavolo dei negoziati ed ad offrire delle garanzie di non chiusura delle fabbriche, la principale rivendicazione degli scioperanti - che non ci fossero licenziamenti - non è stata soddisfatta. Tuttavia l'aspetto significativo di questo sciopero risiede innanzitutto nel fatto che esso ha dimostrato la capacità della classe operaia di agire in quanto forza indipendente della società attuale. Non è un caso che il conflitto alla Opel abbia provocato un dibattito nei media della borghesia tra, da un lato, i sociologi che parlano di un “ritorno della lotta di classe, nel senso marxista del termine" e, dall'altro, gli ideologi dei movimenti di “mondializzazione alternativa" e di "lotta contro il lavoro" che già da molto tempo hanno dichiarato morta e sepolta la lotta operaia. Tali discussioni servono a seminare la confusione tra gli operai, quando dei teorici piccolo-borghesi come Robert Kurz del gruppo “Krisis", dichiarano in televisione che la lotta alla Opel è la conferma che la lotta operaia è stata sostituita da una lotta interclassista per il “diritto alla pigrizia". Ma servono anche a preparare la classe dominante nel suo insieme a rendersi conto che è finita l'epoca (soprattutto dopo 1989) in cui era possibile, in modo più o meno credibile, negare la realtà della lotta di classe. L'antagonismo che si acuisce tra i ricchi ed i poveri, tra il capitale ed il lavoro salariato ma, soprattutto, la resistenza dei lavoratori hanno messo in moto il processo di riconquista della sua identità di classe da parte del proletariato che, a sua volta, va a costituire una delle principali condizioni di una lotta difensiva più potente e più cosciente.
Opel: un segno del risveglio più generale della lotta operaia
Come ogni sciopero operaio significativo, lo sciopero di Bochum non è stato un fulmine a cielo sereno. Oggi, il proletariato ha già iniziato a lottare contro gli attacchi alle sue condizioni di vita derivanti dal peggioramento della crisi economica. Questo riemergere delle lotte difensive ha trovato la sua prima espressione nella primavera 2003 con gli scioperi e le manifestazioni nel settore pubblico in Francia ed in Austria contro la “riforma delle pensioni", che hanno visto il loro prolungamento in Italia nelle manifestazioni contro l'abbassamento delle pensioni, contro i licenziamenti alla Fiat e negli scioperi nei trasporti pubblici; in Grande Bretagna tra i vigili del fuoco e gli operai delle poste durante l'inverno 2003; negli Stati Uniti, contro le riduzioni massicce nella sanità e sulle pensioni, ecc. I lavoratori di tutti i paesi sono sempre più confrontati all'allungamento del tempo di lavoro, che comporta un deterioramento della forza lavoro e della salute degli operai insieme alla diminuzione drammatica degli stipendi ed a una povertà sempre più nera per disoccupati e pensionati.
Ciò che caratterizza la situazione attuale è il ruolo centrale giocato dalla disoccupazione. I licenziamenti massicci e la chiusura di fabbriche si moltiplicano, mentre continuano gli attacchi contro i disoccupati. Il ricatto aperto, mediante la minaccia di chiusura o dislocazione delle fabbriche, è utilizzato senza vergogna per ottenere delle riduzioni di stipendio, più ore lavorate ed una crescente flessibilità. In questo processo, spingere i lavoratori delle varie fabbriche gli uni contro gli altri diventa una politica che si impone alla borghesia in tutti i paesi.
La classe operaia sta già rispondendo a queste minacce con delle lotte. Il 2 ottobre 2004 in Olanda ed in Germania, in risposta agli attacchi dello Stato contro i disoccupati, ci sono state manifestazioni simultanee di 200.000 persone ad Amsterdam e 45.000 a Berlino. Nel settembre 2004, gli operai dei cantieri navali a Porto Reale ed a San Fernando in Andalusia (Spagna) hanno scioperato e hanno manifestato contro i licenziamenti.
Ciò che è tipico di queste lotte è che esse sono preparate da altre lotte, meno significative, nello stesso settore o in un altro, e che a loro volta ne preparano di future. Già quattro anni fa c'erano stati scioperi alla Opel di Bochum in risposta alla minaccia di riduzioni di impieghi, seguiti nella primavera 2004 da uno sciopero selvaggio alla fabbrica automobilistica Ford di Colonia. C'è inoltre un aspetto comune tra l'attuale sciopero di Bochum e le lotte rivendicative che ci sono state tre mesi fa alla Mercedes. Gli operai vi hanno messo in pratica la lezione secondo cui non si può, e non si deve, accettare il ricatto della borghesia senza lottare. Grazie ad un risveglio della solidarietà di classe, gli operai hanno bloccato i tentativi dei padroni di mettere i lavoratori delle differenti fabbriche gli uni contro gli altri. In questo senso, gli operai della Opel-Bochum hanno ripreso la fiamma della coraggiosa lotta dei loro colleghi della Mercedes.
Come è stata divisa e sabotata la lotta
Naturalmente i sindacalisti radicali hanno provato a spiegare la ripresa del lavoro alla Bochum dopo sei giorni (senza che le principali rivendicazioni degli operai fossero state soddisfatte) con le manovre della direzione della IG Metall e del consiglio di fabbrica del 20 ottobre. Ciò ha indotto gli operai a votare sull'apertura di negoziati condizionati alla ripresa del lavoro. Questo è un esempio tipico di manovra sindacale contro gli operai: il proseguimento ad oltranza di uno sciopero già isolato è presentato come unica alternativa alla fine della lotta. In effetti, le questioni decisive per la lotta sono state messe in un vicolo cieco:
- Come fare affinché le rivendicazioni operaie siano il più possibile efficaci?
- Chi negozia, i sindacati ed il consiglio di fabbrica o i delegati scelti da un'assemblea generale?
I sindacalisti radicali, schierandosi per uno sciopero lungo ed isolato, non hanno fatto altro che sostenere una delle opzioni della falsa alternativa della direzione. Quando è stato dato l'annuncio delle riduzioni di posti di lavoro programmati in Europa, gli operai di TUTTE le fabbriche Opel hanno reagito con indignazione bloccando il lavoro. Esattamente come alla Mercedes durante l'estate, quando hanno avuto luogo scioperi simultanei a Sindelfinden (Stoccarda) ed a Brema, dimostrando così come le forze operaie delle differenti fabbriche erano determinate a non lasciarsi spingere le une contro le altre. Anche qui, gli operai delle fabbriche principalmente prese di mira, Bochum e Rüsselsheim (minacciate ognuna di circa 5.000 licenziamenti) hanno reagito insieme. L'IG Metall ed il consiglio di fabbrica a Bochum non hanno nemmeno tentato di rompere questo slancio di combattività iniziale. Ma è stato fatto di tutto per imporre una ripresa veloce del lavoro a Rüsselsheim. Questo fatto è stato ignorato sistematicamente dai media di sinistra. E quando ne hanno parlato lo hanno fatto per dare l'impressione che i lavoratori di Rüsselsheim erano la causa di questa divisione.
La rapida ripresa del lavoro nella fabbrica “madre" alla Opel di Francoforte (Rüsselsheim) è stata vissuta dagli operai di Bochum, che rimanevano in sciopero, come un atto di mancanza di solidarietà. Fin dal secondo giorno del movimento alla Opel, si sentiva già il germe della divisione, contro cui gli operai della Mercedes erano stati capaci di premunirsi.
Come spiegarlo? Alcune settimane prima degli annunci di soppressione di 12.000 posti di lavoro in Europa, la GM aveva fatto sapere che in Europa sarebbe rimasta una sola fabbrica, o a Rüsselsheim (di Hesse), o a Trollhätan in Svezia. Già durante i primi giorni dello sciopero, il consiglio di fabbrica e l'IG Metall (IGM) a Rüsselsheim non hanno lasciato dubbi sul fatto che non avrebbero tollerato altre azioni di solidarietà con gli operai di Bochum, perché ciò poteva portare a perdere la fabbrica in Hesse di fronte alla "rivale svedese". Il sindacato, il consiglio di fabbrica ed il SPD hanno indetto manifestazioni separate delle differenti fabbriche il 19 ottobre mentre avrebbero potuto organizzare facilmente un'azione comune. Ma al contrario, gli operai di Bochum e di Rüsselsheim sono stati costantemente allontanati gli uni dagli altri, in modo da non avere mai l'opportunità di incontrarsi e discutere dei loro interessi comuni. I sabotatori della lotta non hanno neanche permesso ad una piccola delegazione di andare da Rüsselsheim a Bochum, per portare le loro testimonianze di solidarietà. Al contrario, il consiglio di fabbrica di Rüsselsheim ha messo in guardia contro “le teste calde" della Rhur, mentre i loro compari a Bochum facevano osservazioni sarcastiche sulla solidarietà dei loro “cari colleghi" di Rüsselsheim. Per avere un'idea di tutta l'ampiezza dell'ipocrisia dei sindacati durante la "giornata di solidarietà in tutta Europa", basta ricordare come i sindacati svedesi, in un'assemblea operaia, dopo il veloce ed abituale blabla sulla solidarietà con gli operai della Opel, si siano affrettati ad annunciare trionfalmente che il Primo ministro svedese Persson aveva promesso di impegnarsi personalmente affinché la produzione restasse in Svezia, e cioè che la fabbrica di Rüsselsheim fosse liquidata.
I lavoratori di fronte a delle false alternative
Che cosa succedeva a Bochum dove lo sciopero continuava? Là, i rappresentanti ufficiali dell'IGM ed il consiglio di fabbrica avevano talmente abbassato la testa all'inizio dello sciopero che una parte dei media li accusava di avere perso il controllo della situazione. Altri criticavano il fatto che questi avessero lasciato il campo libero ai sindacalisti radicali. In realtà, giusto alcuni giorni più tardi, i sindacati dimostravano quanto poco avessero perso il controllo mettendo fine allo sciopero con relativa facilità. Ma è anche vero che durante i primi giorni, i leader sindacali avevano lasciato veramente il campo ai “radicali". Appena è stato chiaro che la gente di Bochum sarebbe rimasta isolata nel proprio sciopero, questi pseudo-radicali, quali rappresentanti più conseguenti dell'ideologia sindacale, hanno cominciato a fare propaganda per “un lungo sciopero che doveva resiste fino alla fine". Un secolo fa, quando i lavoratori in lotta si battevano principalmente contro i singoli capitalisti, potevano imporre realmente i loro interessi facendo il proprio sciopero. Ma, da quando queste imprese familiari sono diventate dei consorzi giganti, legati a livello nazionale ad altre imprese ed allo Stato, gli operai devono battersi in quanto classe, e cioè devono estendere ed unificare le loro lotte in modo da essere capaci di opporre una resistenza efficace. Oggi, e già nel ventesimo secolo, l'ideologia sindacale delle lotte separate, isolate è diventata un’ottica borghese, una ricetta per colpire gli operai. Dalla Opel a Bochum, ancora una volta questa è servita a dividere gli operai. Mentre una maggioranza di lavoratori - presentendo già il vicolo cieco in cui li conduceva uno sciopero isolato - votava per la ripresa del lavoro, una minoranza combattiva, nella sua rabbia, voleva continuare qualunque fossero le conseguenze. Alcuni hanno anche accusato la maggioranza di aver tradito la causa comune. In quel momento, si insediava la divisione, non solo tra Bochum e Rüsselsheim, ma anche in seno agli operai di Bochum. In seguito, i rappresentanti dello "sciopero ad oltranza" - per esempio i sostenitori del MLPD stalinista - hanno affermato che se lo sciopero fosse durato alcuni giorni di più, i capitalisti sarebbero stati obbligati a capitolare. Ma la posta della lotta va ben oltre il semplice blocco della produzione. Si tratta innanzitutto di fare pendere il rapporto di forza tra le classi a favore del proletariato, grazie all'estensione ed all'unificazione delle lotte operaie.
Lo sviluppo di una prospettiva di classe autonoma
E’ pur vero che, dopo una settimana, la borghesia aveva fretta di mettere fine allo sciopero a Bochum. Non perché ci fosse una qualsiasi minaccia di crollo della produzione mondiale della GM. Ed è qui il cuore del problema. Lo sciopero a Bochum ha avuto realmente un impatto sulla borghesia e ha reso nervosi i difensori del sistema. Ma non per delle eventuali conseguenze per la produzione, ma proprio per le conseguenze possibili di questa lotta sugli altri lavoratori, sullo sviluppo della coscienza di classe nel suo insieme. Ciò di cui avevano paura non era neanche l'estensione della lotta immediata ad altre parti della classe. La situazione, la combattività generale e soprattutto il livello di coscienza non erano ancora abbastanza maturi per ciò. Ciò che li preoccupava di più erano le manifestazioni di combattività operaia nel contesto di una simultaneità sempre più grande di attacchi contro tutti gli operai. Ciò che temeva la classe dominante era che la classe, stimolata dalla lotta alla Opel, riconoscesse sicuramente, anche se lentamente, che i lavoratori delle differenti imprese, rami o regioni, hanno interessi comuni ed hanno bisogno di una solidarietà vivente.
La lotta alla Opel ha messo gli operai davanti ad una sfida più grande di quella alla Mercedes. Alla Opel, la possibilità di ricatto era molto più importante, ivi compreso la possibilità di chiusura completa della fabbrica. I lavoratori hanno raccolto questa sfida, almeno a Bochum, con una maggiore combattività. Ma non c'è stato ancora uno sviluppo conseguente del livello della coscienza di classe. Ciò non ci sorprende. La classe oggi è confrontata alla bancarotta sempre più visibile dell’intera società, quella del capitalismo. È evidente che il proletariato dovrà fare tentativi su tentativi ancor prima di cominciare ad avere un'idea di tutta l'ampiezza del problema e che indietreggerà ripetutamente davanti all'immensità del compito. Il ruolo dei rivoluzionari oggi è sostenere i lavoratori in questa lotta per acquistare la propria prospettiva di classe. E' per questo che la CCI ha distribuito un volantino durante la giornata di azione a Bochum e Rüsselsheim con cui non si accontentava di chiamare gli operai a lottare, ma provava a stimolare la riflessione politica nella classe.
Da Weltrevolution 127 (19.11.2004)
1. “Betriebsrat": struttura legale di cogestione delle imprese che ingloba il padronato ed il sindacato di settore.
Avrà certamente bestemmiato Berlusconi, la sera della liberazione di Giuliana Sgrena; ‘ma come’, avrà pensato, ‘avevo fatto tutto così bene, avevo fatto liberare una “comunista”, e quei coglioni di americani si mettono a sparare, per giunta non uccidendo nemmeno la “comunista”, ma un fedele servitore dello Stato! Così mi hanno fatto saltare ogni possibilità di utilizzare la liberazione della Sgrena per ridare credibilità alla nostra presenza in Iraq’. Ed invece proprio la morte del “fedele servitore dello Stato”, per giunta nell’atto “eroico” di proteggere la persona che aveva liberato (1), è servita a dare la stura ad una campagna nazionalista di grande portata. Una campagna che ha visto, come in ogni guerra che si rispetta, una “union sacrée” che ha abbracciato tutte le forze politiche dalla destra alla sinistra.
Che lo abbia fatto il governo, peraltro di destra, che deve difendere il “suo” intervento in Iraq è perfettamente normale: come già per il caso degli altri ostaggi, la loro liberazione costituisce un motivo di orgoglio e l’occasione per sostenere che questo è stato possibile proprio perchè l’Italia gode di grande stima in Iraq, per cui riesce a trovare i canali per la liberazione dei suoi ostaggi, con la conclusione quindi che bisogna ben essere orgogliosi di essere italiani, e di quanto stanno facendo laggiù i nostri militari. Anzi, di più, l’eroismo dei nostri militari deve farci sentire onorati di far parte di questo paese, infatti “Calipari ha ridato onore alla patria” ha detto ai suoi funerali il sottosegretario alla presidenza del consiglio, Gianni Letta. Vuoi mettere la differenza, con quei rozzi di americani che sanno solo sparare al primo movimento e la nostra capacità di manovra e, all’occorrenza, la nostra capacità di morire da eroi?
Meno ovvio che a questa campagna si associasse tutta la sinistra che, essendo “teoricamente” contro l’intervento in Iraq, da questo episodio avrebbe potuto dire che aveva ragione lei, che in Iraq ci sono quei pazzi imperialisti degli americani che non consentono di pacificare la situazione, e quindi è stato sbagliato andarci, sarebbe buono ritornarcene subito. Ed invece la richiesta del ritiro rimane, ma senza fretta e nessuna immediatezza, e quello di cui ci si preoccupa di più è partecipare alla campagna di unità nazionale che la morte “eroica” di Calipari induce.
Così la vera critica a Berlusconi non è che in Iraq i militari italiani stanno conducendo una occupazione militare allo stesso titolo degli altri, ma che ci sono gli americani che non vogliono la pace (sottinteso: se se ne andassero gli americani, gli italiani potrebbero anche restare, perché la loro missione è di pace), per cui è meglio andarsene. Ma meglio farlo in un clima di “unità nazionale”, dice il “comunista” Bertinotti (2), in modo da evitare lacerazioni e contrapposizioni che, ovviamente, sono contrari all’ “interesse del paese”. Andarsene perché “ritirare le truppe da un teatro di guerra così inquinato, con una violenza così incontrollata, è una misura di salute pubblica. (…)Il mio è un appello che dice: non facciamo polemiche, non torniamo alle discussioni che ci hanno diviso. Troviamo la forza di un atto di unità nazionale perché in Iraq siamo di fronte a una situazione incontrollata.”(2). Più chiaro di così: d’accordo a creare un clima di unità nazionale; andiamocene dall’Iraq, non perché l’intervento italiano è stato anch’esso un atto di guerra imperialista, ma perché c’è una situazione incontrollata. Incontrollata anche perché (Bertinotti non lo dice, ma è implicito) gli americani non fanno niente per una reale pacificazione, anzi sono così guerrafondai che sparano anche sugli alleati. Per cui andiamocene con un atto di unità nazionale e, anzi “a Berlusconi chiedo uno scatto di orgoglio nazionale, come avvenne a Sigonella” E di fronte alla sorpresa dell’intervistatore che gli ricorda che nell’episodio di Sigonella (3) al governo c’era Craxi, Bertinotti, ineffabile, risponde: “Non l’ho mai avuto in simpatia, ma a Sigonella vi fu uno scatto d’orgoglio del suo governo. In quell’atto si rivelò la dote di uno statista”
Potenza del clima di unità nazionale! In un sol colpo non solo si avanza una proposta unitaria a Berlusconi, ma si riabilita perfino Craxi, che a suo tempo i militanti dell’attuale Rifondazione volevano in galera, fino a riconoscergli la dote di uno statista (con buona pace di tutte le tangenti che lo “statista” confessò di avere intascato perché “la politica costa”)!
E per rafforzare l’atmosfera dello “stringiamoci a coorti”, anche Bertinotti sottolinea l’eroismo di Calidari, rispetto alla cui morte “Ho provato una commozione intensa. Esce con un nitore tale la personalità di quest’uomo, che si teme perfino di usare parole retoriche per ricordarlo. Una persona straordinaria, con un senso democratico, repubblicano (…). Un senso della missione che dà una visione corale unitaria” (2).
Così se Veltroni, diessino sindaco di Roma si è precipitato a intitolare a Calipari, un giardinetto di Roma, il “comunista” Bertinotti ne esalta le doti di democratico, in modo da far capire che anche i servizi segreti sono organi della democrazia (e quindi da non confondere con quelli “deviati” che mettono le bombe e fanno provocazioni) e non, come “qualche estremista” potrebbe pensare, organi dell’esercito di uno stato imperialista con il compito di controllare e manipolare la vita sociale e politica di un popolo.
Non c’è che dire: tutta la borghesia si è unita per cercare di lanciare ai proletari italiani il messaggio di unirsi in una unità nazionale, di sfruttatori e sfruttati, di assassini e di vittime, di chi le guerre le vuole e le cerca per i suoi interessi di classe e chi le subisce sulla propria pelle. In questa maniera si vorrebbe cercare di far dimenticare ai proletari che i loro interessi sono contrapposti a quelli della propria borghesia, e di far credere che se i proletari rinunciano a contrapporsi alle azioni di questa (siano esse interne od esterne) è tutto il “paese” a trarne benefici.
E invece no: i proletari non hanno nessun interesse a difendere le avventure imperialiste della propria borghesia, anzi, essi le pagano in termini economici e di vite umane; è per questo che al coro unanime di tutti i difensori della borghesia, “stringiamoci a coorti”, i comunisti non possono rispondere che con il vecchio grido di guerra della classe operaia: gli operai non hanno patria!
Helios, 28/03/05
1. Non è che per noi cambi molto, ma questo dell’atto eroico è qualcosa dato per certo da tutti, quando la dinamica dei fatti, e cioè l’improvviso e rapido esplodere dei colpi da parte dei militari americani, non consente a nessuno, nemmeno a Giuliana Sgrena, di dire se Calipari è caduto perché già colpito, o se effettivamente si sia buttato sulla Sgrena per proteggerla. Peraltro, un militare esperto come Calipari non poteva non sapere che l’unica speranza di salvare la Sgrena sarebbe stata quella di buttarla sul fondo dell’auto, in modo da sottrarla dalla traiettoria dei colpi, e non cercare di proteggerla col proprio corpo da proiettili di grosso calibro sparati con armi automatiche. Ma è proprio la morte eroica che consente di orchestrare la campagna, per cui ecco perché nessuno la mette in discussione.
2. Vedi l’intervista a Repubblica dell’8/03/05
3. A Sigonella, base militare in Sicilia, avvenne che gli americani pretendevano che i militari italiani consegnassero loro un terrorista palestinese arrestato, richiesta a cui Craxi disse di no, e quando una pattuglia armata americana si presentò davanti all’aereo che trasportava il terrorista all’estero, Craxi fece trovare un picchetto di uomini armati che fece recedere i militari americani dai loro propositi.
La società in cui viviamo, società capitalista, sta ancora una volta marciando in guerra: la Serbia ieri, l'Afghanistan e Iraq oggi, l'Iran o la Siria domani ed conflitti ancor più gravi in futuro. Non stiamo andando verso una nuova grande guerra mondiale, ma verso guerre sempre più caotiche sparse in tutto il mondo. La minaccia è comunque la stessa: la distruzione dell’umanità, a meno che questo sistema non venga rovesciato.
Nel 1914, la civiltà capitalista ha mostrato di non aveva più alcun utilità per l'umanità avendo immerso l’Europa nel più grande macello imperialista che il mondo avesse mai visto. Nel 1917-19, da Pietrogrado a Berlino, da Torino a Glasgow, la risposta operaia è stata un'ondata internazionale di scioperi di massa e rivoluzioni. L'Internazionale comunista ha descritto la prospettiva: la vittoria della rivoluzione socialista in tutti i paesi o un'epoca di guerre sempre più distruttive.
L'ondata rivoluzionaria è stata sconfitta e l’Internazionale è morta; ma aveva ragione. Dopo 20 anni, una nuova ed ancor più sconvolgente guerra mondiale ha devastato il pianeta. Ancor prima che questo incubo fosse finito, gli imperialisti alleati nel campo ‘antifascista’ si fronteggiavano gli uni agli altri per il controllo del pianeta. Nei 40 anni successivi l'umanità ha vissuto sotto l'ombra di una terza e ultima guerra mondiale fra l’imperialismo americano e quello russo, mentre a milioni sono morti nelle guerre per procura dietro la maschera delle lotte di “liberazione nazionale” dal Vietnam al Medio Oriente ed in Africa.
Nel 1989 il debole blocco russo, circondato dal suo rivale Usa, è sprofondato come un castello di carta; e ci hanno detto da George Bush senior che un nuovo ordine mondiale di pace era all'ordine del giorno. Quasi immediatamente, gli ex soci del vecchio blocco degli Stati Uniti sono scesi anche loro in campo nelle guerre per procura in Africa e nei Balcani. L'America ha risposto con un massiccio dispiegamento di forza militare nel Golfo nel 1991 ed in Serbia nel 1999. E dal 2001 ha dato inizio alla “guerra contro il terrorismo”, il cui scopo reale è controllare i principali rifornimenti di energia del mondo e costruire una barriera intorno all’Europa ed alla Russia.
In breve: il capitalismo decadente significa guerra infinita. La storia degli ultimi 90 anni mostra che tutti i colloqui di pace in questo sistema sono una frottola. La pace è nient'altro che una tregua imperialista tra le guerre.
Il pacifismo: una pericolosa illusione
Se il capitalismo non può fare la pace, allora il pacifismo è una frottola. Il pacifismo, il cosiddetto movimento contro le guerre condotto da quelli che selettivamente sostengono di essere contro questa o quella guerra, quale l’attuale avventura militare in Iraq, ci dice che, con le dimostrazioni legali e le elezioni democratiche, noi possiamo persuadere lo Stato capitalista a trasformare le spade in vomeri. Ci dice che se sosteniamo un certo uomo politico capitalista contro un altro - ad esempio Kerry contro Bush - possiamo invertire la tendenza alla guerra. Ci dice persino che possiamo servire la causa della pace sostenendo determinate potenze imperialiste - come la Francia e la Germania - contro altre, come l'America o la Gran Bretagna, o convincendo l'America e l’Europa a lavorare insieme nel quadro delle buone vecchie Nazioni Unite (persino George Bush è in accordo a parole con questa idea).
Come abbiamo detto: tutto questo è una menzogna. Il capitalismo non sta trascinando l'umanità attraverso l'inferno della guerra perché ha i capi sbagliati, ma perché è un sistema sociale in profondo ed irreversibile deperimento.
La lotta contro la guerra può essere solo una lotta contro il capitalismo.
Molti risponderanno: sono belle parole, ma nel frattempo, che cosa pensiamo di fare noi? Certamente le dimostrazioni pacifiste sono meglio di niente!
La questione è falsa. La lotta contro il capitalismo non è un ideale utopico. Comincia dalla realtà quotidiana della lotta di classe, la lotta degli operai per difendersi contro gli attacchi crescenti ai loro livelli di vita. Contro gli effetti della stessa crisi economica che spinge il capitalismo verso la guerra. Naturalmente la lotta degli operai deve estendersi ed unificarsi e soprattutto deve diventare esplicitamente una lotta politica. Ma essa esiste e si rafforza ogni volta che gli operai riconoscono come classe i loro interessi comuni.
Le campagne pacifiste indeboliscono la lotta di classe spingendo gli operai a concepirsi come componenti di un movimento democratico di rispettabili cittadini. Queste campagne ostacolano lo sviluppo della coscienza di classe nel momento in cui sostengono che la pace è possibile senza rivoluzione.
Di fronte all'estensione della guerra nel mondo, l’unica risposta della classe operaia, in tutti i paesi, può essere solo il rifiuto di tutti i sacrifici richiesti dall'economia capitalista e dalla sua macchina di guerra; combattere per i propri interessi di classe contro l'interesse nazionale difeso apertamente sia dai guerrafondai che dai pacifisti; opporre alla logica nazionalista della guerra il programma internazionalista della rivoluzione mondiale e di una comunità umana mondiale.
CCI 5.3.05
Con l’assassinio del vecchio primo ministro libanese, Rafic Hariri, si è riacceso un focolaio di scontri imperialisti in Medio Oriente. Questo nuovo episodio della barbarie capitalista, che si sviluppa a livello mondiale ed in particolare nel Vicino e Medio Oriente e si manifesta con sanguinosi regolamenti di conti ed una spirale senza fine di attentati terroristici che colpiscono ciecamente le popolazioni, ci ricorda che tutti i discorsi di pace della borghesia, di paesi grandi e piccoli, non sono che spudorate fesserie e cinismo. Sono proprio queste frazioni nazionali della borghesia che, non contente di seminare morte, come gli Stati Uniti in Iraq o la Francia in Africa, manipolano le molteplici bande di terroristi.
Il Medio Oriente, una posta in gioco permanente per le grandi potenze
L’attentato contro Rafic Hariri è una lampante smentita di tutte le chiacchiere che avevano salutato, all’inizio di gennaio, l’elezione di Mahmoud Abbas alla presidenza dell’Autorità palestinese come una garanzia di pace per la regione.
Questo avvenimento permette alla Francia ed agli Stati Uniti, promotori nel settembre scorso della risoluzione 1559 che esigeva il ritiro dell’esercito siriano dal Libano, di posizionarsi all’interno della vita politica libanese, designando espressamente la Siria come responsabile di questo assassinio. E non è certo la volontà di far rispettare la “Libertà” che li anima. Per Chirac, che ha potuto mettere sul piatto la sua “amicizia” con Hariri, era un’occasione troppo bella per tentare di far ritornare la Francia in questo paese, da cui era stata messa da parte progressivamente negli anni 80 e completamente messa fuori nel 91 in particolare con l’espulsione del suo pupillo libanese, il generale Aoun. Quanto agli Stati Uniti, si trattava di una tappa della loro strategia militare nel Sud-Ovest asiatico, che mirava ad accrescere la loro pressione sulla Siria designata dalla scorsa primavera come protettrice dei terroristi di Al-Qaida e dei membri dell’ex-Stato iracheno. Washington ha anche avvertito chiaramente ed a più riprese, anche recentemente, che la Siria rischiava di non scappare alle batoste del suo esercito.
Pertanto l’intesa che esiste oggi tra gli americani ed i francesi a spese del Libano e della Siria ha come unica ragione quella di giustificare la difesa dei rispettivi interessi imperialisti. La sua prospettiva è costituire una nuova fonte di rivalità, per bande terroriste interposte, ed alimentare così il caos nella regione.
Le difficoltà della borghesia americana
Non sono comunque i recenti viaggi diplomatici della cricca di Washington che possono far sognare un domani diverso. In queste ultime settimane anche l’Europa è stata corteggiata intensamente dalla diplomazia americana. Dopo la visita del segretario di Stato Condoleezza Rice, è stato Donald Rumsfeld a spostarsi per il 14ª conferenza sulla sicurezza a Monaco, poi è venuto il “boss” in persona, Bush, ad assistere al summit della Nato e dell’Unione Europea, a fare incontri su incontri con i capi di Stato europei ed in particolare con quelli che si erano opposti all’intervento militare in Iraq, Chirac, Schröder, e poi Putin. Perchè tutta questa effervescenza diplomatica? Cosa si prepara dietro gli ipocriti abbracci tra padrini rivali, tra lo zio Sam e gli europei? Il cambiamento di discorsi della potenza americana non significa che questa ha rinunciato ad utilizzare la sua potenza militare per difendere i propri interessi economici, politici e militari nel mondo, ma solo che cerca di adattare la sua strategia ed il suo discorso ideologico tenendo conto delle difficoltà che incontra in particolare a causa del suo insabbiamento nella situazione irachena. La politica portata avanti in Iraq non fa che alimentare l’ostilità rispetto alla prima potenza mondiale e tende ad accrescere il suo isolamento sulla scena internazionale. Non potendo fare marcia indietro in Iraq, pena un indebolimento considerevole della sua autorità mondiale, lo zio Sam si caccia in contraddizioni difficilmente gestibili. Oltre ad essere una voragine finanziaria, l’Iraq costituisce il punto di appoggio permanente delle critiche dei suoi principali rivali imperialisti. Per altro, le recenti elezioni in Iraq hanno visto la vittoria della lista unificata dei partiti sciiti, più vicini al governo iraniano, e la disfatta del loro pupillo Iyad Allaoui, primo ministro ad interim. “Questo governo avrà eccellenti relazioni con l’Iran ... In termini di geopolitica regionale, non è il risultato che speravano gli Stati Uniti” (Courrier International n°746). A questo indebolimento della loro influenza sul gioco dei partiti politici iracheni, bisogna aggiungere il clima di terrore che continua a regnare in tutto il paese dove gli attentati e gli omicidi si succedono incessantemente. La pretesa vittoria della democrazia irachena (per il fatto che ci sono state queste elezioni), non ha affatto eliminato il rischio di divisione del paese in funzione degli interessi contrastanti delle diverse comunità religiose ed etniche. Del resto tutti sono concordi nel dire che la resistenza armata continuerà e probabilmente si intensificherà. In questo senso, l’offensiva diplomatica e questa volontà americana di apparire di nuovo “sulla stessa lunghezza d’onda” degli Europei, ha soprattutto per obiettivo tentare di convincere questi ultimi ad essere al loro fianco per “difendere e propagare la democrazia nel mondo”, in particolare nel Vicino e nel Medio Oriente. L’amministrazione Bush mantiene gli stessi obiettivi militari che aveva nel primo mandato, nel dopo 11 settembre, ma l’involucro ideologico ha assunto un nuovo look, più confacente ai bisogni della situazione. Il tutto facendo intendere alle potenze europee che da ora in avanti nulla sarà fatto senza che esse siano consultate, nella misura in cui tutte condividono gli stessi valori umani, democratici e di libertà dell’America. Non è del tutto escluso che, dietro questa mascherata, alcune potenze come la Francia abbiamo avuto la promessa di un ruolo privilegiato nel regolamento del conflitto in Iraq in cambio, naturalmente, di una maggiore implicazione al fianco degli Americani.
Dietro i discorsi ostentatamente unitari dell’offensiva diplomatica americana, le divergenze sono comunque sempre presenti, anzi aumentano. Come sottolinea un alto responsabile della NATO “il vecchio Rumsfeld ci ha fatto una sviolinata, come l’aveva fatta Condoleezza Rice la settimana scorsa” (Le Monde del 15 febbraio). Mentre fino ad oggi l’equipe Bush aveva condotto una politica da “pugno di ferro”, ora fa la politica del “pugno di fero in un guanto di velluto”. Rumsfeld ha affermato che per gli Stati Uniti “la missione (in senso militare) determina la coalizione”. In altre parole, l’America farà appello alla NATO solo se questa fa i suoi interessi strategici. Da parte loro gli Europei, ed in particolare la Germania con il sostegno della Francia, pongono apertamente la necessità di riformare la NATO e di sostituire l’Alleanza con un gruppo di esperti, rappresentativi degli interessi americani e soprattutto europei. La Germania inoltre afferma chiaramente che “nel quadro europeo, lei si sente corresponsabile per la stabilità e l’ordine internazionale” e che a questo titolo rivendica un seggio di membro permanente al consiglio di sicurezza dell’ONU. Davanti al rifiuto immediato degli Stati Uniti di riformare la NATO, la Germania si permette addirittura di alzare il tono attraverso il suo primo ministro degli affari esteri Joschka Fischer che dichiara: “Bisogna sapere se gli Stati Uniti si situano dentro o fuori il sistema delle Nazioni Unite”.
Questa tensione intorno al ruolo della NATO si è concretizzata con il rifiuto degli Europei di contribuire al programma di formazione delle forze militari e di polizia in Iraq o con il magro contributo dato. Rispetto all’Afghanistan le potenze europee hanno accettato di rafforzare gli effettivi della Forza Internazionale (FIAS) sotto il comando della NATO perchè questa è agli ordini di un generale francese con importanti unità di soldati francesi e tedeschi. Tuttavia non vogliono che questa forza militare passi alla fine sotto il comando dell’operazione “Enduring Freedom”, cioè sotto il controllo dell’esercito americano.
La questione della NATO non è il solo soggetto di discordia.
Dopo averci suonato la sinfonia dei Diritti dell’Uomo a proposito della repressione del movimento studentesco della piazza Tien An Men, in Cina nel 1989, gli Europei, da buoni commercianti di armi, sono pronti a levare l’embargo sulla vendita di armi a questo paese. Gli Americani non sono d’accordo, e neanche il Giappone, ma questo non ha niente a che vedere con i Diritti dell’Uomo: il motivo è che ciò rilancerebbe la corsa agli armamenti sul continente asiatico e minaccerebbe la loro influenza in questa regione, già sottomessa a forti tensioni militari aggravate in questi giorni dalla Corea del Nord che annuncia ufficialmente di avere l’arma nucleare. La visita del padrino americano in Europa non è dunque l’inizio di una nuova era di unità, né di un rafforzamento delle relazioni transatlantiche. Al contrario, le divergenze si accumulano e le posizioni sono sempre più inconciliabili. Le strategie e gli interessi degli uni e degli altri sono differenti perchè ciascuno difende la propria nazione, i propri interessi di Stato capitalista. Non ci sono i cattivi Americani da un lato ed i buoni Europei dall’altro. Sono tutti briganti imperialisti e la politica del “ciascuno per sé”, che compare dietro i simulacri di cordiale intesa, alla fine non può che portare a nuove convulsioni, lacerazioni e nuove carneficine militari, di cui l’Iran e la Siria potrebbero essere i prossimi bersagli. In effetti, la principale divergenza tra le grandi potenze – e la più gravida di conseguenze per questa regione del mondo – è su quale politica avere nei confronti dell’Iran. Le grandi potenze europee, compresa l’Inghilterra, sono in linea di massima favorevoli a continuare le negoziazioni con questo paese al fine di impedire – dicono loro – che questo sviluppi un programma nucleare militare. Mosca, dal canto suo, è il primo partner di Teheran sul piano nucleare e non ha nessuna intenzione di cambiare politica. Gli Stati Uniti, tenuto conto del peso che ha l’Iran come potenza regionale rafforzata recentemente dalla vittoria elettorale degli Sciiti in Iraq, non possono che voler accentuare la loro pressione sugli Europei e su Putin per far prevalere la loro opzione. La cricca Bush minaccia così di agguantare il consiglio di sicurezza dell’ONU con una nuova scalata militare che produrrà ancora più caos e barbarie in questa regione.
L’unica politica possibile per gli Stati Uniti è quella dei cannoni
Come abbiamo regolarmente sviluppato nella nostra stampa, il caos ed i conflitti militari che si sviluppano a livello planetario da vari anni e che non risparmiano nessun continente, sono il diretto prodotto del nuovo periodo apertosi nel 1989 con il crollo del blocco dell’Est seguito dalla disgregazione di quello occidentale. Lungi dall’essersi aperto “un nuovo ordine di pace”, come pretendeva all’epoca Bush padre, stiamo andando verso un mondo di disordine omicida, di caos feroce nel quale il gendarme americano tenterà di far regnare un minimo di ordine attraverso l’impiego sempre più massiccio e brutale della sua potenza militare (1).
Dalla guerra del Golfo nel 1991 alla Jugoslavia, dal Rwanda alla Cecenia, dalla Somalia al Timor orientale, dall’attentato alle Twin Towers agli attentati di Madrid, per non citare che alcune delle convulsioni violente della fase di decomposizione del capitalismo (2), tutte le volte i responsabili di questi massacri sono gli scontri imperialisti tra Stati, grandi o piccoli che siano. Per gli Stati Uniti, i cui interessi nazionali si identificano con il mantenimento di un ordine mondiale costruito a sua vantaggio, questo aggravamento del caos nei conflitti imperialisti rende sempre più difficile mantenere la loro posizione di leadership mondiale. Non esistendo più la minaccia russa, i loro vecchi alleati, in particolare gli Europei, Francia e Germania in testa, vogliono difendere i propri interessi di nazioni capitaliste. Il peggioramento della crisi economica acuisce gli appetiti imperialisti di tutti gli Stati e non lascia altra via alla potenza americana che lanciarsi in nuove conquiste, la destabilizzazione dei suoi rivali e soprattutto l’utilizzo a ripetizione della sua forza militare, il che ha per risultato quello di aggravare il caos e la barbarie nelle regioni dove hanno luogo queste spedizioni militari. In questo contesto, la strategia messa avanti dall’amministrazione Bush figlio dopo l’11 settembre 2001, di “guerra al terrorismo”, è un tentativo di risposta all’indebolimento della propria leadership. Di fronte alla crescente contestazione delle altre potenze imperialiste, gli Stati Uniti usano il pretesto degli attentati e la necessità di lottare contro la nebulosa di Al Qaida e Bin Laden per sferrare un’offensiva militare senza precedenti a livello mondiale. Questa campagna militare di lunga durata designa un certo numero di paesi come appartenenti all’asse del male che bisogna sradicare militarmente. E’ il caso dell’Afghanistan, poi dell’Iraq, della Corea del Nord, dell’Iran. Nei fatti, ogni volta gli Stati Uniti hanno degli obiettivi strategici più globali e più vasti che includono la necessità di una presenza decisiva in Asia Centrale allo scopo di assicurarsi il controllo di questa regione, ma anche sul Medio Oriente ed il sub continente indiano. Il fine strategico a lungo termine è l’accerchiamento dell’Europa e della Russia. L’America ha in particolare la preoccupazione di pervenire ad un controllo incontestabile delle principali fonti di approvvigionamento delle risorse energetiche, allo scopo di privarne i rivali imperialisti (le potenze europee, la Russia, il Giappone, la Cina) in previsione di future crisi imperialiste che possano portare ad uno scontro diretto. Gli Stati Uniti hanno tentato di mettere in opera questa politica dal 2001 ad oggi, ma bisogna constatare che hanno molte difficoltà a tenere testa rispetto alla determinazione dei rivali che, benché meno potenti, sono ben decisi a difendere, a tutti i costi, i loro interessi imperialisti. Da ciò ne è già risultato, e non potrà che aggravarsi in avvenire, il più grande caos della storia.
Donald, 24/2/05
1. Vedi l’articolo “Militarismo e decomposizione” nella Rivista Internazionale n° 15.
2. Vedi le nostre tesi su “La decomposizione, fase ultima della decadenza del capitalismo”, nella Rivista Internazionale n° 14.
In questi ultimi mesi sia militanti che sezioni della CCI hanno ricevuto minacce o sono stati fatti oggetto di appelli all’uccisione appena dissimulati.
A dicembre, UHP- ARDE (1) ha pubblicato sul proprio sito internet un testo intitolato “Scienza e arte del ritardato“ (2) che contiene un appello all’uccisione dei nostri militanti fatto attraverso una sinistra sequenza di sillogismi: comincia con l’accusarci apertamente di razzismo e in maniera velata di difendere la politica della borghesia; prosegue stabilendo una gerarchia di aggettivi che comincia con “ritardati”, prosegue con “cretini” e finisce con “imbecilli”. Dopo aver stabilito queste premesse, l’articolo conclude così: “CONTRO LE CAMPAGNE BORGHESI DI FALSIFICAZIONE E DI REPRESSIONE DELLE NOSTRE LOTTE! MORTE AGLI IMBECILLI!” (3).
Il mese precedente, era arrivata all’indirizzo elettronico della nostra sezione in Spagna una lettera anonima che finiva così: “Siete una banda di figli di puttana e raccoglierete quello che state seminando, piccoli professori di merda. Firmato: un sottoproletario”.
Recentemente, nel gennaio scorso, un membro della FICCI (4) aveva minacciato uno dei nostri compagni della sezione in Francia di volergli “tagliare la gola”.
Di fronte a questa successione di minacce delinquenziali completamente estranee ai comportamenti proletari, quale deve essere l’atteggiamento dei rivoluzionari e degli elementi del proletariato? Non dare loro importanza pensando che si tratta di fanfaronate o il frutto di una eccitazione momentanea? Accettare un apprezzamento di questo tipo sarebbe un grave errore.
Innanzitutto perché un tale atteggiamento significherebbe buttare all’aria l’esperienza storica del movimento operaio. Questa dimostra che l’assassinio di militanti operai è stato preceduto – e in gran parte preparato – da una serie di atti cinici: accuse calunniose, minacce, intimidazioni, appelli, a volte sfumati, altre diretti all’assassinio, insomma una serie di piccoli anelli che pezzo dopo pezzo portano a una grande catena. Così, l’assassinio di Rosa Luxemburg, nel gennaio 1919, ad opera delle forze armate dei boia socialdemocratici, conobbe una lenta maturazione: a partire dal 1905 si scatenarono gravi denigrazioni, minacce e provocazioni nei confronti di questa militante proletaria. Nessuno di questi fatti sembrava inquietante, ma il crimine del 1919 rivelò la logica infernale che li legava gli uni agli altri. Alla stessa maniera l’assassinio di Trotsky, perpetrato dall’infame Mercader, fu il punto culminante di una serie di passi orchestrata dalla canaglia stalinista: prima Trotsky fu accusato di essere un agente della Gestapo, poi cominciarono le campagne che richiedevano apertamente la sua testa. In seguito vennero le pressioni su uno dei suoi figli (Lyova) che sboccarono in quello che somiglia ad una assassinio “medico” (6). Più tardi cominciarono le minacce dirette di morte, proferite dai sicari messicani dello stalinismo. Sappiamo tutti quale fu la tragica fine. La storia dimostra che esiste un legame più o meno diretto tra le minacce e gli appelli di oggi e gli assassini di domani. Questi sono sempre il punto culminante di un ammasso di calunnie, di minacce e di campagne d’odio.
In secondo luogo non possiamo trascurare il contesto in cui si situano le 3 minacce che abbiamo ricevuto. In questi ultimi mesi c’è stata una recrudescenza e una moltiplicazione delle campagne della FICCI. Lo prova il bollettino numero 28, in cui veniamo chiamati “sporcaccioni”, cosa che, aggiunta a innumerevoli insulti ,minacce e calunnie non fa che favorire un clima in cui ogni attacco fisico contro la CCI sarebbe legittimo.
Non è un caso che queste minacce giungano nel contesto che abbiamo descritto. I loro autori hanno chiaramente scelto il loro campo. Agli insulti, alle campagne d’odio, al tessuto di menzogne e di calunnie, essi hanno voluto aggiungere le parole ancora più forti dell’appello all’uccisione.
Non è la prima volta che si producono questi tipi di “interventi”. Nel 1996, in un contesto di campagne altrettanto ripugnante contro la CCI, anche se con altri protagonisti, il GCI (Gruppo Comunista Internazionaliste), un gruppo che compare nelle pagine dei link di UHP/ARDE, ha voluto apportare il suo contributo contro la CCI, chiamando, con il metodo del “sillogismo”, all’assassinio dei nostri compagni in Messico. Prima premessa: denunciando il gruppo stalin-maoista di Sendero Luminoso in Perù, noi saremmo diventati complici del massacro di prigionieri proletari. Da qui viene la seconda deduzione logica: “per la CCI, come per lo Stato borghese, e in particolare la polizia peruviana, mettersi al fianco degli oppressi, significa sostenere Sendero Luminoso.” Il sillogismo seguente diceva: “ nel campo operaio si è sempre considerato un poliziotto o un informatore che si dedica a questo tipo di amalgama poliziesca”.
Il seguito conteneva un nuovo sofisma: “ questi sono gli stessi argomenti democratici utilizzati dai Domingo Arango e dagli Abad di Santillana davanti alle azioni violente dei militanti rivoluzionari”. E quale è la conclusione di questi ragionamenti? “E per questo tipo di calunnia, la cui utilità per lo Stato è ben reale, Domingo Arango ha ricevuto una pallottola in testa e non possiamo che dispiacerci che Abad di Santillana non abbia subito la stessa sorte” (tratto dal n. 43 di Communisme, organo del GCI) (8).
Siamo perfettamente coscienti del processo in cui si inseriscono queste minacce. Noi non ci lasceremo intimidire e di fronte ad esse noi rispondiamo quello che rispondemmo già nel 1996:”Niente di tutto questo ci farà indietreggiare. Noi rafforziamola nostra lotta e tutta la CCI si mobilita per difendere la nostra sezione in Messico utilizzando un’arma che solo il proletariato possiede: l’internazionalismo. L’unità internazionale della CCI le fornisce delle particolarità che sono intollerabili dal punto di vista della borghesia, nella misura in cui ogni tentativo di distruzione di una delle sue parti si scontra immediatamente con la mobilitazione e la solidarietà attiva del suo insieme.” (9)
Noi dobbiamo respingere con la più grande fermezza e combattere senza la minima concessione la mentalità di pogrom verso i rivoluzionari, perché è solo così che noi potremo rompere la catena che riunisce, a traverso una serie di anelli, i foschi appelli alla “morte degli imbecilli”, all’assassinio dei militanti comunisti di domani.
La solidarietà proletaria è l’arma principale contro questo tipo di attacchi
Ogni classe sociale possiede i suoi metodi. Noi sappiamo già quali sono quelli della borghesia: da una parte, le armi “politiche” della calunnia, del ricatto e, dall’altra parte, le armi più risolutive dell’assassinio, del terrore e del sadismo più ripugnante. (10)
Naturalmente queste armi non fanno parte dell’arsenale di lotta del proletariato e dei suoi gruppi autenticamente rivoluzionari. Noi abbiamo altre armi , molto più efficaci nella lotta contro il capitalismo. Una di queste, la più importante, è la solidarietà.
La forza del proletariato è la solidarietà. La solidarietà come capacità di difendere tutte le sue componenti. La solidarietà per mostrare ai suoi nemici che chiunque attacca una delle sue parti si ritrova immediatamente di fronte alla risposta del suo insieme.
Così la CCI, in modo unanime, manifesta la sua solidarietà ai compagni e alle sezioni minacciate e prende tutte le misure necessarie per la loro difesa. Alla stessa maniera, noi sollecitiamo tutti i nostri simpatizzanti ad esprimere attivamente la loro solidarietà. Lo chiediamo anche a tutti quelli che condividono la lotta rivoluzionaria contro il capitalismo, e che pur avendo dei disaccordi con le posizioni della CCI, considerano che è necessario fare fronte davanti a questi immondi attacchi.
La solidarietà con i compagni minacciati è non solo la loro migliore difesa, ma anche la migliore difesa per tutti i militanti e compagni che si battono contro il capitalismo. E’ anche il migliore contributo che noi possiamo apportare alla difesa dei militanti comunisti di domani.
La pratica della calunnia, della menzogna, delle minacce e dell’intimidazione sono radicalmente incompatibili con l’obiettivo della comunità umana mondiale che il proletariato aspira ad instaurare dopo la distruzione dello stato capitalista. E’ necessario sradicare l’infiltrazione di tali comportamenti che non sono che l’espressione e la riproduzione di quelli della società capitalista putrefatta che noi vogliamo abolire.
La chiarificazione delle posizioni rivoluzionarie, la lotta comune contro il capitalismo e la sua barbarie, non possono essere disturbate dalle torbide manovre di queste bande di impostori che, nascondendosi dietro delle “posizioni rivoluzionarie” da operetta, se ne approfittano per lanciare ogni tipo di attacchi, a tradimento e alle spalle, contro quelli che lottano veramente per la causa proletaria.
Solidarietà con i nostri militanti e le nostre sezioni minacciate!
CCI (15 febbraio 2005)
1. UHP: sigla del gruppo spagnolo Unios Hermanos Proletarios. ARDE è una pubblicazione che sembra essere la portavoce dei differenti nuclei che si chiamano UHP.
2. Vedere la risposta della nostra sezione in Spagna su Accion proletaria n. 180, “Risposta a UHP-ARDE: meglio un ritardato onesto che un furbo imbroglione”
3. Bisogna sottolineare la maniera losca e contorta con cui questi individui chiamano all’assassinio dei nostri militanti. Con una incredibile ipocrisia, essi non dicono apertamente le cose, le lasciano venire: prima dicono che la CCI è costituita da imbecilli, per poi finire con “morte agli imbecilli”
4. Gruppetto di parassiti delinquenti che si fa chiamare “Frazione Interna della CCI “ e la cui sola attività consiste nel riversare tonnellate di calunnie contro la CCI e proferire appelli d’odio contro di noi.
5. Vedere l’articolo di denuncia di questo episodio in Rèvolution Internationale n. 354
6. Vedere le testimonianze sulla strana morte del figlio di Trotsky durante la sua ospedalizzazione in una clinica russa di Parigi; in particolare in Deutscher, Biografia diTtrotsky, e Vereekes, La Guépéou dans le mouvement trotskyste.
7. A questa epoca furono gruppi come il “Communist Bullettin Group”, inglese, o “Hilo Rojo” spagnolo che, insieme ad altri circoli, furono autori di queste campagne. In seguito non si è saputo più niente di loro.
8. Vediamo così che i redattori di UHP-ARDE non hanno inventato niente nei loro appelli loschi e trasversali al nostro assassinio. Hanno dovuto ispirarsi ai metodi del GCI.
9. Tratto dall’articolo “I parassiti del GCI chiamano all’uccisione dei nostri militanti in Messico”, che denuncia il GCI, in solidarietà con la nostra sezione in Messico, pubblicato anche su Rivoluzione Internazionale n. 98, dicembre 1996
10. Bisogna segnalare che il sottoproletariato ha molta attrazione per questi metodi della borghesia, ed è per questo che, nei periodi rivoluzionari, esso in genere alimenta i corpi scelti e altre milizie d’attacco della borghesia, come avvenne, per esempio, in Germania nel 1919.
All’inizio dello scorso mese si è tenuto a Venezia il VI congresso del partito della cosiddetta “Rifondazione Comunista”, un evento che abbiamo seguito con interesse non perché tale partito possa costituire un punto di riferimento valido per la classe operaia, ma giusto per il motivo opposto, ovvero per la falsa alternativa che esso propone per tanti giovani e tanti proletari che sono sinceramente alla ricerca di una militanza di classe. Come è noto questo partito, che ha la pretesa di rappresentare l’aspirazione della gran parte della popolazione a raggiungere “un mondo migliore”, presenta al suo interno una forte frammentazione con posizioni che sono anche notevolmente differenziate. Al congresso, che si è appena chiuso, sono state presentate ben 5 diverse mozioni, ognuna espressione di una componente politica tra cui quella maggioritaria, che fa capo a Bertinotti, raccoglie uno stentato 59%. Con questo articolo ed un secondo previsto per il prossimo numero ci proponiamo di fornire elementi di riflessione utili a comprendere non solo che la linea maggioritaria del segretario non corrisponde agli interessi dei lavoratori, ma che le stesse minoranze, ognuna per proprio conto e tutte quante messe assieme, servono solo a illudere la gente che, nonostante tutto, c’è sempre la possibilità di capovolgere la politica del partito e portarlo su una via “rivoluzionaria”.
1. La svolta governista di Rifondazione
Il V Congresso di Rifondazione del 2002 era stato quello della cosiddetta “svolta a sinistra” per l’apertura ai movimenti alter-mondialisti che lo aveva caratterizzato; l’attuale VI congresso si è invece focalizzato tutto sulla scelta della maggioranza di orientare la politica del partito non solo verso la partecipazione ad una coalizione elettorale e di maggioranza governativa di centro-sinistra, ma addirittura verso la partecipazione in senso stretto alla composizione di un prossimo eventuale governo Prodi, con tanto di ministri targati RC. A questo le minoranze hanno reagito sparando a zero e denunciando il fatto che questa scelta sia stata fatta addirittura a prescindere da qualunque accordo di programma, come per dire “ci svendiamo al nemico senza neanche trattare sul migliore prezzo che si può strappare”. Sul fronte opposto Bertinotti e la sua maggioranza non hanno concesso il minimo spazio di trattativa o di mediazione su questo punto. Infatti la concomitante discussione e approvazione degli statuti ha modificato l’assetto di comando del partito, buttando fuori dalla segreteria tutte le minoranze a cui è stato riservato uno spazio effimero all’interno di un parlamentino del partito privo di ogni reale potere decisionale. In altri termini, il partito è stato blindato per ogni eventuale necessità. Questa scelta ha evidentemente tutto il sapore di rafforzare l’esecutivo di un partito che ha la necessità di effettuare scelte difficili, come quella della partecipazione al governo senza essere particolarmente appesantito da discussioni ai livelli degli organi decisionali. Ma perché questa scelta di Rifondazione di orientarsi verso una scelta governativa? A prescindere dal fatto che, in questo momento, è inopportuno sviluppare qualunque previsione su quale possa essere il colore del prossimo governo nazionale in Italia, bisogna tuttavia ricordare che le divisioni interne alla borghesia italiana tra un’opzione filo-americana ed un’altra di tipo più autonoma e filo-europeista, rappresentate grosso modo dalla coalizione di destra e da quella di sinistra rispettivamente, non si sono esaurite. Anche se spesso i messaggi che lanciano i politici sono fortemente criptati, gli interessi a schierarsi su un fronte o su un altro finiscono alla fine per permeare la stessa politica interna dei paesi. In questo senso la scelta di Bertinotti di predisporre il partito per una partecipazione al governo risponde a questa esigenza di una parte della borghesia italiana di poter contare su questo partito per condurre una politica più indipendente dagli USA. Ma RC come tale svolge anche un altro fondamentale ruolo per la borghesia tutta intera, cioè quello di far credere ai lavoratori che esista un partito veramente comunista al quale fare riferimento. Ed è proprio in risposta a questa seconda esigenza che tutte le minoranze hanno tanto starnazzato in questo ultimo periodo contro la scelta governista del partito, facendo spesso delle critiche molto dure allo stesso partito e alle scelte del passato:
“In un contesto storico segnato dall’esaurimento dello spazio riformistico l’ingresso dei partiti comunisti nei governi borghesi significa il loro coinvolgimento nelle politiche di attacco ai lavoratori. Così è stato per il PCF nel governo Jospin nel 97-2001, e per il nostro partito nella maggioranza del primo governo Prodi del 96-98. (…) La cancellazione della controriforma pensionistica di Berlusconi è doverosa: ma va combinata con la cancellazione della riforma Dini voluta dall’Ulivo che ha abbattuto le pensioni future dei giovani per fare largo al capitale finanziario. La cancellazione della legge 30 è una necessità: ma va congiunta all’abolizione del pacchetto Treu, imposto dal governo Prodi col voto del PRC, che ha introdotto la piaga del lavoro interinale. La cancellazione della “Bossi-Fini” è drammaticamente urgente: ma non può risparmiare i campi di detenzione (CPT) imposti dall’Ulivo agli immigrati, col voto favorevole del PRC, e tutte le loro brutture.” (mozione n. 3, pag. 20, sottolineature nostre).
Cosa dobbiamo pensare di un partito che, mentre dice di essere comunista, presenta al suo congresso una mozione in cui si afferma che Rifondazione ha condotto una politica di attacco ai lavoratori? E che per di più afferma che un coinvolgimento ulteriore in prossimi governi non potrebbe che aggravare queste responsabilità? D’altra parte, a leggere le varie mozioni, questa posizione è abbastanza condivisa dalle varie minoranze, il che significa che circa il 40% del partito considera la politica portata avanti da RC come una politica antiproletaria. E allora: che senso hanno queste minoranze se non quella di dare al partito una credibilità che non può avere? Ma aspettiamo di valutare altri importanti punti che seguiranno.
2. Il rapporto strumentale con il movimento alter-mondialista
Come abbiamo detto sopra, il partito aveva tentato la carta dei “movimenti” cercando di farsi uno spazio al loro interno. Ma il bilancio che ne viene fatto al congresso è disastroso: non solo non c’è stato un aggancio reale con il mondo altermondialista, ma di più tutte le componenti del partito denunciano un calo importante nel tesseramento e una minore presenza nelle realtà sociali. Più in particolare viene rimproverato alla maggioranza l’abbandono completo della politica di avvicinamento ai settori altermondialisti in nome dell’assunzione di future responsabilità governative:
“Fin da subito si è consumata una rottura con i settori di sinistra del movimento alter globalizzazione. Emblematico da questo punto di vista è lo strappo coi Disobbedienti, sui quali la maggioranza dirigente dei GC aveva investito tutto il senso del proprio agire. La prospettiva del governo si è tradotta nella dissociazione da parte della segreteria nazionale da tutti gli atti di “disobbedienza” che potevano compromettere la credibilità del PRC agli occhi del Centro liberale italiano: in questo quadro si inseriscono anche le recenti prese di distanza nei confronti di pratiche (quali la “spesa proletaria”) che in passato sono state assecondate acriticamente e che oggi vengono condannate nonostante le minacce repressive del governo.” (Mozione n. 3, pag. 22).
Si può capire tutta la doppiezza di un partito che si era aperto ad un settore sociale solo per ingrossare le proprie fila ma senza avere le risposte ai problemi che i giovani si pongono oggi. E questo vuoto di proposte è stato malamente nascosto da Bertinotti che ha dichiarato all’epoca di non voler fagocitare nessuno, di voler partecipare al movimento alla pari senza farsi maestro nei confronti di altri settori (ma che partito sarebbe mai questo???). D’altra parte la strumentalità di questa svolta movimentista è stata avvertita chiaramente anche dall’interno del partito dalla componente di Bellotti (mozione: “Rompere con Prodi”), che ricorda come:
“Il V Congresso del partito (2002) si era svolto all’insegna della svolta verso i movimenti, della “contaminazione”, della immersione e anzi dell’identificazione completa del PRC con i “movimenti” e in particolare con il movimento “noglobal”. (…) La “contaminazione” con i movimenti ha significato nella pratica la rincorsa alle azioni “disobbedienti” e in generale l’adozione di tutte le teorie “alla moda” negli stati maggiori dei Social Forum. Tale linea portava il partito a voltare le spalle al movimento operaio proprio mentre nel paese reale esplodeva il conflitto sociale, partendo dalla mobilitazione sull’articolo 18. (…) La centralità della contraddizione di classe viene negata, sostituita da una semplice elencazione di “culture critiche” (femminismo, ecologismo, pacifismo) che vengono proposte come pilastri fondanti della nuova identità comunista.” (mozione n. 5, pag. 33).
Come si vede, in Rifondazione c’è la mancanza più assoluta di coerenza su un punto di un certo spessore qual è quello di quale risposta dare alle nuove generazioni. D’altra parte anche chi, come l’on. Russo Spena, sembra prendere una posizione di sinistra appoggiando - a dispetto della direzione del partito - i recenti “espropri proletari” praticati a Roma alla Feltrinelli e in un centro commerciale, non fa che appoggiare opportunisticamente una posizione che è peraltro sbagliata dal punto di vista di classe, come abbiamo cercato di dimostrare in un recente articolo del nostro giornale1.
3. La partecipazione di Rifondazione alla campagna contro il comunismo
Il terzo e ultimo punto che vogliamo affrontare in questo primo articolo è l’identità politica e storica di Rifondazione. Come molti ricorderanno, Rifondazione viene fuori da quella costola del vecchio PCI che non ha voluto adeguarsi al “traghettamento di Occhetto verso la democrazia”2. Il nuovo partito, gestito in una prima fase da vetero-stalinisti alla Garavini e Cossutta, ha finito per costituire per la borghesia un utile polo di attrazione per tutti gli scontenti di una politica troppo responsabile e ligia alle esigenze della borghesia come era quella del vecchio PDS (ora DS). Il partito è un po’ per volta andato assumendo una nuova connotazione e oggi che la vecchia dirigenza stalinista è stata emarginata, la leadership di Bertinotti, ex sindacalista combattivo ma privo di una militanza di partito, esprime il nuovo partito della sinistra italiana. Il problema è che questo partito è oggi completamente privo di identità politica e storica. Si autodefinisce comunista, ma di fatto al suo interno ognuno dà a questo termine il significato più diverso. Questo carattere indefinito però, tutto sommato, ha fatto la fortuna di Rifondazione perché è proprio questa mancanza di definizione che permette a questo partito di incamerare tutte le tendenze di sinistra che si vogliono. La mancanza di una piattaforma più stretta, come quella dei vecchi PCI, è infatti un elemento che consente sia di lasciare libero l’ingresso a nuove componenti, sia di mantenere l’illusione in queste stesse componenti che vi possa essere un maggiore spazio di azione nel partito. Non è un caso che il partito sia infestato di trotskisti che, notoriamente, praticano la politica dell’entrismo, ovvero di lavorare all’interno di un partito che essi stessi considerano opportunista per poter avere la possibilità di “guadagnare alla propria causa” i suoi militanti. Naturalmente tutto ciò non toglie che ci siano delle prese di posizione di una certa importanza che fanno capire la reale posizione dei gruppi dirigenti del partito. Ci riferiamo in particolare al seguente passaggio della mozione di maggioranza:
“La critica allo stalinismo non è, quindi, semplicemente la critica alle degenerazioni di quei sistemi ma al nucleo duro che ha determinato quell’esito ed è per questo motivo il punto irrinunciabile per la costruzione di una nuova idea del comunismo e del modo di costruirlo”. (tesi n. 6, mozione n. 1, pag. 3).
Di fatto questo passaggio esprime il ripudio ufficiale del marxismo da parte di RC. Infatti, nel suo carattere secco, si vuole attribuire al marxismo (“il nucleo duro”) la responsabilità della degenerazione di quei sistemi che invece è legata alla sconfitta dall’interno della rivoluzione e dal ritorno della dominazione borghese attraverso lo stalinismo, che è il vero nemico del comunismo. Da qui capiamo che in realtà il termine “Rifondazione comunista” trova tutto il suo significato nel tentativo di riscrivere e dare un senso nuovo e diverso al termine comunismo, sulla base della pretesa critica al “nucleo duro” che avrebbe determinato l’esito della degenerazione! Questa dichiarazione fa il filo al “libro nero del comunismo”3 e a tutta la campagna anticomunista scatenata dopo la caduta del muro di Berlino, dandogli uno sbocco moderato di reinterpretazione democratica e non violenta del comunismo.
Ezechiele, 2 aprile 2005
1. Vedi a tale proposito il nostro articolo A proposito di “espropri proletari” pubblicato su RI n. 138.
2. Si tratta della metamorfosi subita dal PCI in seguito alla caduta del blocco dell’est e alla necessità di adeguare la propria politica ad un contesto internazionale e nazionale profondamente modificati. Che le condizioni operaie rimanessero immutate in tutto questo fa capire quanto poco già il vecchio PCI avesse a che fare con la difesa degli interessi della classe operaia. Sulla evoluzione di Rifondazione vedi i nostri articoli su RI n. 69 e 99 e 108.
3. Libro apparso negli anni ’90 dopo la caduta del muro di Berlino e che aveva lo scopo di raccontare tutte le malefatte del comunismo, che erano in realtà le malefatte degli odiati regimi stalinisti, fatti passare per comunisti. Vedi a tale proposito il nostro articolo su RI n. 104.
Cento anni fa il proletariato ingaggiava in Russia il primo movimento rivoluzionario del XX secolo, conosciuto sotto il nome di Rivoluzione russa del 1905. Non essendo stata vittoriosa come fu dodici anni più tardi per la Rivoluzione di ottobre, questo movimento è oggi quasi completamente caduto nell’oblio. Tuttavia, la Rivoluzione del 1905 ha apportato tutta una serie di lezioni, di chiarificazioni e di risposte alle questioni che si ponevano al movimento operaio dell’epoca senza le quali la Rivoluzione del 1917 non avrebbe certamente potuto vincere. E, benché questi movimenti abbiano avuto luogo un secolo fa, il 1905 è molto più vicino a noi politicamente di quanto si possa credere ed è necessario, per le generazioni di rivoluzionari di oggi e di domani, riappropriarsi degli insegnamenti fondamentali di questa prima rivoluzione in Russia.
Gli avvenimenti del 1905 si situano all’alba della fase di declino del capitalismo, declino che imprime già il suo marchio, anche se, all’epoca, solo un’infima minoranza di rivoluzionari è capace di intravederne il significato all’interno del profondo cambiamento che si sta operando nella società e nelle condizioni di lotta del proletariato. Nel corso di questi avvenimenti si vede la classe operaia sviluppare dei movimenti di massa che vanno al di là dei confini di fabbrica, di settore, di professione, senza rivendicazione unica, senza distinzione chiara tra l’economico e il politico come invece era prima tra la lotta sindacale e la lotta parlamentare, senza consegne precise da parte dei partiti o dei sindacati. La dinamica di questi movimenti porta, per la prima volta, alla creazione da parte del proletariato, di organi – i soviet (o consigli operai) – che diverranno, nella Russia del 1917 e in tutta l’ondata rivoluzionaria che ha scosso l’Europa in seguito, la forma di organizzazione e di potere del proletariato rivoluzionario.
Nel 1905, il movimento operaio considerava ancora che la rivoluzione borghese fosse all’ordine del giorno in Russia poiché la borghesia russa non deteneva il potere politico ma subiva ancora il giogo feudale dello varismo. Tuttavia, il ruolo dirigente assunto dalla classe operaia negli avvenimenti avrebbe permesso di mettere da parte questo punto di vista. L’orientazione reazionaria che aveva cominciato a prendere, con il cambiamento di periodo storico che si stava producendo, la lotta parlamentare e sindacale, era lungi dall’essere chiarificata e non lo sarà che molto più tardi. Ma il ruolo totalmente secondario o nullo che i sindacati e il Parlamento giocheranno nel movimento in Russia ne costituiva la prima significativa manifestazione. La capacità della classe operaia di prendere in mano il suo avvenire e di organizzarsi per proprio conto veniva a mettere in questione la visione della socialdemocrazia tedesca e del movimento operaio internazionale sui compiti del partito, la sua funzione di organizzazione e di inquadramento della classe operaia, e di gettare nuova luce sulle responsabilità dell’avanguardia politica della classe operaia. Molti degli elementi che avrebbero costituito le posizioni decisive del movimento operaio nella fase di decadenza del capitalismo erano già presenti nel 1905.
Noi ci concentreremo, nel quadro di questo articolo, su alcune lezioni che ci sembrano centrali oggi per il movimento operaio e sempre di attualità. Per fare ciò, torneremo molto rapidamente sugli avvenimenti del 1905, riferendoci a quelli che, come Trotsky, Lenin, Rosa Luxemburg, ne furono testimoni e protagonisti ad un tempo dell’epoca e che, attraverso i loro scritti, sono stati capaci di restituirci non solo grandi lezioni di politica ma anche la grande emozione suscitata dalla forza di quei mesi di lotta.1
Il contesto internazionale e storico della rivoluzione del 1905
La Rivoluzione russa del 1905 costituisce una illustrazione particolarmente chiara di ciò che il marxismo intende per natura fondamentalmente rivoluzionaria della classe operaia. La capacità del proletariato russo di passare da una situazione in cui è ideologicamente dominato dai valori della società a una posizione in cui, attraverso un movimento di massivo di lotte, prende fiducia in se stesso, sviluppa la sua solidarietà, scopre la sua forza storica fino a creare gli organi che gli permetteranno di prendere in mano il suo avvenire, è l’esempio vivente della forza materiale che costituisce la coscienza di classe del proletariato quando entra in movimento.
A partire dalla caduta del muro di Berlino, la borghesia non ha cessato un minuto di proclamare che il comunismo è morto e che la classe operaia è scomparsa; e le difficoltà incontrate da questa sembrano darle ragione. La borghesia è sempre interessata a interrare il suo affossatore storico. Ma la classe operaia esiste sempre – non vi è capitalismo senza classe operaia, e gli avvenimenti del 1905 in Russia ci ricordano come questa possa passare da una situazione di sottomissione e di confusione ideologica sotto il giogo del capitalismo a una situazione in cui diviene il soggetto della storia, il portatore di tutte le speranze, perché la classe porta, nel suo stesso essere, l’avvenire dell’umanità.
Prima di addentrarci nella dinamica della rivoluzione russa del 1905, occorre ricordare brevemente qual era il contesto internazionale e storico a partire dal quale la rivoluzione prese le mosse. Gli ultimi decenni del XIX secolo erano stati caratterizzati da uno sviluppo economico particolarmente forte in tutta l’Europa. Erano gli anni in cui il capitalismo carburava al massimo e i paesi capitalisticamente avanzati erano alla ricerca di un’espansione verso le aree arretrate sia per trovare mano d’opera e materie prime a più basso costo, sia per creare nuovi mercati per i loro prodotti. E’ in questo contesto che la Russia zarista, paese dall’economia segnata da una forte arretratezza, divenne il luogo ideale per l’esportazione di forti capitali per l’installazione di industrie di medie e grandi dimensioni. Nel giro di pochi decenni si ebbe una trasformazione profonda dell’economia, dove “le ferrovie furono il potente strumento dell’industrializzazione del paese. (...)”.2 I dati riportati da Trotsky sulla industrializzazione della Russia, comparati con altri paesi a più solida struttura industriale come la Germania e il Belgio dell’epoca, mostrano che, benché il numero di operai fosse ancora piuttosto modesto rispetto alla sterminata popolazione (1,9 milioni contro i 5,6 milioni della Germania e i 600.000 del piccolo Belgio), la Russia aveva tuttavia una struttura industriale di tipo moderno che non aveva nulla da invidiare alle altre potenze capitaliste del mondo. Creata dal nulla da capitali prevalentemente stranieri, l’industria capitalista in Russia non si era formata a partire da dinamiche endogene, ma da un vero e proprio trapianto di tecnologie e di capitali provenienti dall’estero. I dati di Trotsky mostrano come in Russia la mano d’opera operaia fosse molto più concentrata che negli altri paesi in quanto distribuita principalmente in grandi e medie imprese (38,5% in imprese con oltre 1000 operai e 49,5% in imprese con un numero di operai tra 51 e 1000, mentre per la Germania i corrispondenti valori erano 10% e 46%). E’ questo dato strutturale dell’economia a spiegare la vivacità rivoluzionaria di un proletariato peraltro affondato in un paese profondamente arretrato e dall’economia prevalentemente contadina.
D’altra parte, gli eventi del 1905 non nascono dal nulla ma sono il prodotto di una sedimentazione di esperienze successive che scuotono la Russia a partire dagli ultimi anni del 19° secolo. Come riporta Rosa Luxemburg, «lo sciopero di massa del gennaio a Pietroburgo si svolse indubbiamente sotto l’impressione immediata di quel gigantesco sciopero generale che poco prima, nel dicembre 1904, era scoppiato nel Caucaso, a Baku, e che per un certo periodo tenne l’intera Russia con il fiato sospeso. A loro volta, però, i fatti del dicembre avvenuti a Baku non furono nient’altro che un’eco ultima e possente del grandioso sciopero di massa che, come un terremoto periodico, aveva scosso tutta la Russia meridionale nel 1903 e 1904 e il cui prologo era stato lo sciopero di massa attuato a Batum (nel Caucaso) nel marzo 1902. Questa prima serie di scioperi in massa, nella concatenazione continua dell’attuale eruzione rivoluzionaria, è in fondo posteriore solo di quattro o cinque anni al grande sciopero generale messo in atto dai tessili di Pietroburgo nel 1896 e 1897... ».3
Gli avvenimenti del gennaio 1905
Il 9 (22) gennaio è stato l’anniversario della cosiddetta “domenica di sangue”, che segnò l’inizio di una serie di eventi occorsi nella vecchia Russia zarista che occuparono l’intero corso dell’anno 1905 e che si sono terminati con la repressione sanguinosa dell’insurrezione di Mosca del dicembre.
L’attività della classe fu praticamente incessante per un anno intero, anche se le forme di lotta non furono sempre le stesse e non sempre con la stessa intensità. Tre furono le fasi più significative di questo anno di rivoluzione: il gennaio, l’ottobre e dicembre.
Nel gennaio 1905, due operai delle fabbriche Putilov di Pietrogrado vengono licenziati. In conseguenza di ciò si sviluppa un movimento di scioperi di solidarietà con l’elaborazione di una petizione per le libertà politiche, il diritto all’educazione scolastica, la giornata di otto ore, contro le imposte, ecc. da portare allo zar in una manifestazione di massa. E’ la repressione di questa manifestazione che costituisce il punto di partenza dell’incendio rivoluzionario che divampa nel paese per un anno. Il processo rivoluzionario in Russia ebbe una partenza davvero singolare. «Migliaia di operai – e non socialdemocratici, ma credenti e sudditi fedeli – sotto la direzione del pope Gapon, affluiscono da tutte le parti della città, verso il centro della capitale, verso la piazza ove è il Palazzo d’Inverno per presentare allo zar la loro petizione. Gli operai procedono recando le sacre icone. Il loro capo d’allora, Gapon, aveva già dichiarato per iscritto allo zar che egli stesso si rendeva garante della sua sicurezza personale e lo pregava quindi di mostrarsi al popolo».4 E’ noto infatti che il pope Gapon era stato l’animatore, nell’aprile del 1904, di una Assemblea degli operai russi di fabbrica e di officina della città di Pietroburgo, autorizzata dal governo e in combutta con il colonnello Zubatov.5 Come dice lo stesso Lenin, questa organizzazione, in maniera del tutto simile a quanto avviene ancora oggigiorno con altri mezzi, aveva il compito di contenere e arginare il movimento operaio dell’epoca. Ma evidentemente la pressione che veniva esercitata all’interno del proletariato era già arrivata ad un punto critico. «Ed ecco che il movimento zubatovista varca i limiti impostigli e, promosso dalla polizia nel proprio interesse, allo scopo di sostenere l’autocrazia e di corrompere la coscienza politica degli operai, si rivolge contro l’autocrazia e sfocia in un’esplosione della lotta di classe del proletariato»6. Il tutto si scatena in seguito al fatto che, arrivati al Palazzo d’Inverno per porgere la supplica allo zar, gli operai si vedono attaccati dalle truppe che «si gettano sulla folla impugnando le sciabole e sparando contro gli operai inermi che, in ginocchio, supplicano i cosacchi di lasciarli andare dallo zar. Secondo i documenti della polizia si contano più di mille morti e duemila feriti. L’indignazione degli operai è indescrivibile»7. E’ questa profonda indignazione degli operai pietroburghesi verso colui che chiamavano piccolo padre e che aveva risposto con le armi alla loro supplica, che aveva così profondamente oltraggiato chi si era affidato a lui, che scatena le lotte rivoluzionarie del mese di gennaio. La classe operaia, che aveva cominciato per indirizzare la sua supplica, dietro al pope Gapon e le icone della chiesa, al “piccolo padre dei popoli”, è capace di esprimere una forza imprevista con lo slancio della rivoluzione. Il cambiamento rapidissimo dello stato d’animo del proletariato che si produce in questo fase è l’espressione tipica del processo rivoluzionario in cui i proletari, nonostante tutte le loro credenze e i loro timori, vengono guadagnati da una nuova consapevolezza, cioè che l’unione fa la forza. «Una grandiosa ondata di scioperi scosse, da un capo all’altro, l’intero paese. Secondo un calcolo approssimativo, lo sciopero interessò 122 città e piccoli centri, parecchie miniere del Donec, 10 compagnie ferroviarie. Un intimo fermento colse le masse proletarie. Il movimento coinvolse circa un milione di persone. Senza un piano determinato, spesso senza alcuna precisa rivendicazione, tra sospensioni e riprese, guidato solo dallo spirito di solidarietà, lo sciopero imperversò nel paese per quasi due mesi»8. Questo entrare in lotta anche senza una rivendicazione specifica da portare avanti, per solidarietà, perché «la massa proletaria, che si conta a milioni, acquisì di colpo una coscienza netta e acuta di quanto fosse insopportabile quell’esistenza sociale e politica»9 è al tempo stesso espressione e fattore attivo della maturazione, all’interno del proletariato russo dell’epoca, della consapevolezza di essere classe e della necessità di confrontarsi come tale al proprio nemico di classe.
Lo sciopero generale di gennaio viene seguito da un periodo di lotte costanti, che sorgono e scompaiono un po’ in tutto il paese, per delle rivendicazioni economiche. Questo periodo è meno spettacolare ma non meno importante. “Le varie correnti sotterranee del processo sociale della rivoluzione s’incrociano a vicenda, si ostacolano a vicenda, esaltano le contraddizioni interne… ha avuto una parte insostituibile il fulmine di gennaio del primo sciopero generale, ma anche, e di più, il susseguente temporale primaverile ed estivo degli scioperi economici”. Benché non ci fosse “nessuna notizia sensazionale dal fronte russo”, “in realtà la rivoluzione prosegue il suo lavoro da talpa instancabilmente, giorno dopo giorno, ora per ora, nelle viscere di tutto l’impero”. (ibid).
Degli scontri sanguinosi hanno luogo a Varsavia. Delle barricate vengono drizzate a Lodz. I marinai della corazzata Potionki nel mar Nero si rivoltano. Tutto questo periodo prepara il secondo tempo forte della rivoluzione.
Ottobre e la costituzione del soviet di Pietrogrado
«Questa seconda grande azione del proletariato ha già un carattere essenzialmente diverso da quella della prima attuata in gennaio. Il fattore della coscienza politica ha già una parte ben maggiore. Ciò non toglie che anche questa volta l’occasione che determina lo scoppio dello sciopero sia secondaria e apparentemente fortuita: il conflitto dei ferrovieri con la loro amministrazione per via della cassa pensioni. Tuttavia la sollevazione generale del proletariato industriale che ne seguì è sostenuta da una chiara idea politica. Il prologo dello sciopero di gennaio era stato una supplica rivolta allo zar per ottenere la libertà politica, la parola d’ordine dello sciopero d’ottobre fu: “Basta con la commedia costituzionale dello zarismo!”. E grazie al successo immediato dello sciopero generale, che si concretò nel proclama emesso dallo zar il 30 ottobre, a differenza di quanto era capitato in gennaio, il movimento non rifluisce all’interno per tornare agli inizi della lotta economica, ma si espande all’esterno per esercitare instancabilmente la libertà politica appena conquistata attraverso dimostrazioni, assemblee, una stampa nuova e giovane, dibattiti pubblici e, tanto per non cambiare, qualche bel massacro finale, seguito però da nuovi scioperi di massa e nuove dimostrazioni». (ibid).
Un cambiamento qualitativo si produce in questo mese di ottobre espresso dalla costituzione del primo soviet della storia del movimento operaio internazionale. A conclusione dell’estensione dello sciopero dei tipografi alle ferrovie e ai telegrafi, gli operai prendono in assemblea generale la decisione di formare il soviet che diventerà il centro nevralgico della rivoluzione: «Il Consiglio dei deputati operai sorse come risposta a un bisogno oggettivo, generato dalle contingenze del momento. Occorreva un’organizzazione che godesse di un’indiscussa autorità, fosse immune da qualsiasi tradizione, raccogliesse immediatamente le folle sparse e slegate. Doveva inoltre fare da centro di convergenza per tutte le correnti rivoluzionarie in seno al proletariato, avere iniziativa e, insieme, autocontrollo automatico»10. In molte altre città, a loro volta, si formano dei soviet.
Il sorgere dei primi soviet non viene granché avvertito dalla gran parte del movimento operaio internazionale. Rosa Luxemburg, che ha così magistralmente analizzato le nuove caratteristiche assunte dalla lotta del proletariato all’alba del nuovo periodo storico, lo sciopero di massa, appoggiandosi sulla rivoluzione del 1905, continua a considerare i sindacati come le forme di organizzazione della classe.11
Sono i bolscevichi (e neanche in maniera immediata) e Trotsky che comprendono il passo avanti che costituisce per il movimento operaio la formazione di questi organi in quanto organi della presa del potere. Noi non svilupperemo qui questo aspetto poiché vi è un altro articolo successivo che lo tratterà.12 Noi ci limiteremo a dire che è proprio perché il capitalismo entrava nella sua fase di declino che la classe operaia si trovava confrontata direttamente al compito di rovesciare il capitalismo; così, dopo 10 mesi di lotte, di agitazione socialista, di maturazione della coscienza, di trasformazione del rapporto di forze tra le classi, essa arriva “naturalmente” a creare gli organi del suo potere.
“All’inizio, i soviet erano i comitati di sciopero che si formavano durante questi scioperi spontanei. Scoppiavano all’improvviso nelle grandi industrie, si estendevano da una fabbrica all’altra, raggiungevano rapidamente tutta una città, vaste regioni, e qualche volta l’intero paese: era quindi essenziale avere dei mezzi di comunicazione reciproca. Nelle fabbriche, i lavoratori tenevano continuamente delle riunioni. (…) Allora dei delegati venivano inviati alle altre fabbriche (…) Ma c’era una differenza fra i soviet ed i normali comitati di sciopero: la posta in gioco era questa volta di gran lunga superiore. Il problema era quello di spezzare la pressione insopportabile del dispotismo governativo, ed ognuno capiva che attraverso l’azione dei soviet la società intera sarebbe stata trasformata. Venivano discussi non soltanto quei problemi che riguardavano il lavoro di fabbrica, ma ogni altro problema politico e sociale. Su ogni cosa doveva essere presa una decisione, ed erano i soviet che, da soli, dovevano trovare la strada giusta per risolvere tutti i diversi problemi. (…) Quando l’intera vita sociale veniva in questo modo bloccata, quando il movimento di sciopero si impadroniva di tutta la città o di tutto il paese, i soviet si trovavano di fronte a nuovi compiti. Dovevano organizzare l’intera vita pubblica, controllare l’ordine e la sicurezza, curare i servizi indispensabili: diventavano così, di fatto, una specie di governo, dal momento che le loro decisioni erano seguite dagli operai”.13
Dicembre e la repressione
«Il fermento seguito al breve sogno costituzionale e al crudele risveglio condusse infine, nel dicembre, all’esplosione del terzo sciopero generale di massa in tutto l’impero zarista. Questa volta, il decorso e l’esito sono del tutto diversi che nei due casi precedenti. A differenza di quanto era avvenuto in gennaio, l’azione politica non si trasforma in azione economica, ma non consegue nemmeno una rapida vittoria, a differenza di quanto si era avuto in ottobre. La camarilla zarista non pone più in atto esperimenti di libertà politica reale, ed ecco che per la prima volta l’azione rivoluzionaria cozza, in tutta l’ampiezza del suo fronte, contro il muro tetragono della violenza materiale dell’assolutismo»14. La borghesia capitalista, spaventata dal movimento del proletariato, si è raccolta dietro lo zar. Il governo non ha applicato le leggi liberali che aveva accordato. I dirigenti del soviet di Pietrogrado vengono arrestati. Ma la lotta continua a Mosca: «L’insurrezione del dicembre a Mosca segnò il culmine dell’insurrezione della rivoluzione del 1905. Un piccolo numero di insorti, e precisamente gli operai armati e organizzati – non più di ottomila – resistette per nove giorni contro il governo zarista che non solo non poteva fidarsi della guarnigione di Mosca, ma dovette tenerla rinchiusa nelle caserme e poté soffocare l’insurrezione solo grazie all’arrivo del reggimento di Semenovski da Pietroburgo».15
Nella seconda parte di questo articolo che apparirà nel prossimo numero del giornale, torneremo sulla natura proletaria della rivoluzione del 1905 e sulla dinamica dello sciopero di massa.
Ezechiele, 5 dicembre 2004
1. Noi non possiamo, nel quadro di questi articoli, rappresentare tutta la ricchezza degli avvenimenti né l’insieme delle questioni e rinviamo il lettore agli stessi documenti storici.
2. L. Trotsky, 1905.
3. R. Luxemburg, Sciopero di massa, partito, sindacati, Newton Compton Editori.
4. Lenin, Rapporto sulla rivoluzione del 1905, in Opere Scelte, Editori Riuniti, pag. 685-686.
5. Zubatov era un uomo della polizia che aveva fondato, in accordo con il governo, delle associazioni operaie che avevano lo scopo di mantenere i conflitti sociali in un quadro strettamente economico e di deviarli così da una messa in causa del governo.
6. Lenin, Lo sciopero di Pietroburgo, in « Sciopero economico e sciopero politico », Le Edizioni del Maquis, pag. 70.
7. Lenin, Rapporto sulla rivoluzione del 1905, in Opere Scelte, Editori Riuniti, pag. 685-686.
8. L. Trotsky, 1905, Newton Compton Editori, pag. 78.
9. Rosa Luxemburg, Sciopero di massa, partito, sindacati, Newton Compton Editori.
10. L. Trotsky, 1905, Newton Compton Editori, pag. 96.
11. Vedi il nostro articolo Note sullo sciopero di massa nella Rivista Internazionale n° 6 (maggio 1982).
12. Vedi anche il nostro articolo Gli insegnamenti della rivoluzione del 1905 in Russia in Rivoluzione Internazionale n. 89 (febbraio-marzo 1995).
13. Anton Pannekoek, Organizzazione rivoluzionaria e consigli operai, Feltrinelli, pag. 105.
14. Rosa Luxemburg, Sciopero di massa, partito, sindacati, Newton Compton Editori, pag. 59.
15. Lenin, Rapporto sulla rivoluzione del 1905, in Opere Scelte, Editori Riuniti, pag. 698.
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