Ancora una volta il Medio Oriente è immerso nell’orrore. Ancora una volta una pioggia di bombe si abbatte sull’Iraq. E mentre le potenze “civilizzate” spargono morte e miseria su una popolazione che già muore di fame, una pioggia di menzogne si abbatte sul resto del mondo per giustificare questa guerra, o per mistificare e deformare ogni opposizione reale ad essa.
Stati Uniti e Gran Bretagna mentono!Ci dicono che si tratta di una guerra per eliminare armi di distruzione di massa. Ma proprio questa guerra si combatte con armi di distruzione di massa e uno dei suoi principali obiettivi è proprio quello di dimostrare a che punto le armi di cui gli Stati Uniti dispongono sono potenti e distruttive, per scoraggiare chiunque voglia contestare la loro dominazione sul mondo. Inoltre sono gli Stati Uniti e la Gran Bretagna che hanno fornito a Saddam le sue armi chimiche negli anni ottanta, sono loro che lo hanno aiutato ad usarle nella guerra Iraq-Iran nel 1980-88, e sono sempre loro che non hanno avuto niente da ridire quando Saddam ha gassato le popolazioni curde di Halabaja nel marzo 1988.
Ci dicono che è una guerra contro il terrorismo. Ma tutti gli Stati – e non solo gli Stati deboli come l’Afghanistan o l’Iraq o gli embrioni di Stato come l’OLP– usano il terrorismo come strumento di guerra. La Gran Bretagna da tempo si serve delle sue bande lealiste nell’Irlanda del Nord per fare il lavoro sporco per suo conto. E’ con la CIA che il nemico attuale degli Stati Uniti, Bin Laden, si è addestrato, per fare la guerra contro la Russia in Afghanistan. Così la Spagna, attuale alleato della Gran Bretagna e degli USA ha usato le squadre della morte GAL per eliminare senza processo i terroristi dell’ETA. E, peggio ancora,questi Stati Uniti, che pretendono di fare la lezione al mondo intero sul pericolo terrorista, non hanno esitato a sfruttare gli attacchi terroristi contro la loro popolazione civile per mobilitare questa al sostegno alla guerra. Oggi è sempre più evidente che lo Stato americano, benché informato da tempo dei progetti di attacchi di Al Quaida sul territorio americano, non ha fatto niente per impedirli.
La Francia, la Germania, la Russia sono anche loro portatori di guerra!Queste menzogne sono oggi sempre più evidenti. Ma i paesi e gli uomini politici che proclamano di essere “contro la guerra”, spargono menzogne ancora più pericolose.
Ci dicono che questa guerra non è giusta perché non è stata avallata dalle Nazioni Unite. Ma nel 1991 la guerra che ha provocato il massacro di centinaia di migliaia di irakeni e ha lasciato a Saddam le mani libere per massacrare quelli che gli si rivoltavano contro era una guerra “legale”, approvata dall’ONU. L’ONU non difende nessun tipo di giustizia internazionale; essa è un covo di briganti dove si giocano sporchi intrighi e le rivalità tra le grandi potenze.
Oggi Chirac, Schroeder, e Putin hanno la faccia tosta di presentarsi come “portatori di pace”. Ma le referenze pacifiste della “alleanza” antiamericana non sono che una presa in giro: in questo stesso momento la Francia – che è stata già in passato la principale responsabile dell’armamento e dell’addestramento degli squadroni della morte Hutu in Ruanda – sta conducendo un intervento militare in Costa d’Avorio per difendere i propri interessi imperialisti in questo paese. Da parte sua, la Germania ha provocato un decennio di guerre nei Balcani, attraverso il suo sostegno alla secessione della Croazia e della Slovenia dalla vecchia Jugoslavia: in questa maniera essa voleva estendere la sua influenza nel Mediterraneo e in Medio Oriente. Quanto alla Russia, le sue truppe continuano a devastare la Cecenia massacrando la sua popolazione.
Il capitalismo è imperialismoI paesi che hanno cercato di fermare i piani di guerra degli Stati Uniti lo hanno fatto per proprie ragioni nazionali e imperialiste. Essi sanno che il vero obiettivo della “guerra contro il terrorismo” non è né Saddam, né Bin Laden, ma loro stessi.
Gli Stati Uniti non fanno mistero della loro strategia imperialista complessiva. Dopo il crollo del blocco russo, alla fine degli anni ottanta, essi si sono ripromessi di utilizzare la loro schiacciante superiorità militare per impedire l’emersione di ogni altra superpotenza capace di competere con loro. E’ in questo che sta il vero obiettivo di tutte le grandi azioni militari che hanno avuto luogo a partire dal 1991: la guerra del Golfo del 1991, quella del Kossovo nel 1999, l’Afghanistan nel 2002. Ma tutto è stato vano. Ognuna di queste azioni non ha fatto altro che spingere le altre potenze, piccole o grandi, a mettere sempre più in discussione l’autorità degli USA. Perciò gli Stati Uniti rilanciano la loro strategia su scala più grande. Essi vogliono adesso avere un controllo diretto sull’Asia centrale e sul Medio Oriente, ed estendere il loro campo d’azione fino all’Estremo Oriente. Confrontati all’indisciplina dei loro principali rivali – Francia e Germania in particolare – gli USA cercano né più né meno di accerchiare l’Europa, e di utilizzare il loro controllo sul petrolio del Medio Oriente come un’arma contro le potenze europee e contro il Giappone. La Germania e gli altri sono sulla difensiva, ma essi sono nondimeno attori attivi in questo grande gioco imperialista.
Gli Stati capitalisti non si comportano così perché hanno dei cattivi dirigenti o per stupidità, ma perché fin dal 1914 l’estensione a livello mondiale del capitalismo significa l’estensione globale della guerra. Essendosi diviso il dominio del pianeta, le diverse potenze nazionali non potevano più estendersi in maniera pacifica senza impadronirsi dei mercati e delle risorse dei loro rivali. Oggi, tutti gli Stati sono imperialisti e tutte le guerre del 20° e del 21° secolo – ivi compresa la sedicente guerra antifascista del 1939-45, ivi comprese le sedicenti “guerre di liberazione nazionale”, ivi compresa la “guerra santa” predicata da Bin Laden – sono delle guerre imperialiste.
Il capitalismo non può più vivere che attraverso la guerra. Questa è la prova che esso è diventato da tempo un ostacolo al progresso umano, che la sua esistenza minaccia la sopravvivenza stessa dell’umanità.
Contro tutte le illusioni pacifiste!A febbraio milioni di persone sono scese in piazza per partecipare a delle manifestazioni, pensando che questo fosse il mezzo per “fermare la guerra”. Ma la guerra ha proseguito il suo cammino. Né i veti alle Nazioni Unite, né gli appelli ai grandi ideali, come la democrazia o la pace, hanno impedito alla guerra di passare.
Cento anni di conflitti imperialisti hanno mostrato che il pacifismo non ha mai potuto impedire al capitalismo di fare la guerra. In realtà il pacifismo è sempre stato utilizzato per preparare il terreno alla guerra diffondendo ogni tipo di pericolose illusioni:
- illusioni sugli interessi pacifici di certi paesi capitalisti, di certi partiti capitalisti o dell’ONU;
- illusioni che ci si possa opporre alla guerra con mezzi pacifici e legali;
- illusioni secondo cui la “democrazia” sarebbe un antidoto alle tendenze guerriere, che la “volontà dei popoli” potrebbe impedire ai governi di fare la guerra,
- illusioni che un giorno si potrebbe avere la pace nel mondo senza sbarazzarsi prima del sistema capitalista.
Queste illusioni non possono che disarmare ogni opposizione reale al corso, intrinseco del capitalismo, alla guerra. Peggio ancora, esse preparano la popolazione per l’arruolamento alla guerra perché se un capitale è “buono”, “pacifico”, e “rispetta gli interessi del popolo”, allora noi siamo tenuti a prendere le armi in sua difesa quando questo viene minacciato da un capitale “cattivo”, “antidemocratico” e “guerrafondaio”. Ed è per questo che queste illusioni sono deliberatamente incoraggiate da tutte le forze politiche della classe dominante e in primo luogo dai partiti della sedicente “sinistra”, dai socialdemocratici ai trotskysti.
Contro la guerra imperialista – lotta di classe internazionale!Solo un movimento che non ha nessun interesse nazionale da difendere – un movimento internazionale della classe operaia – può opporsi alla guerra tra nazioni capitaliste.
In tutte le guerre è la maggioranza sfruttata che paga il prezzo più alto, che siano soldati o civili, sul fronte o in quanto produttori e consumatori a cui si chiede di lavorare di più e di mangiare di meno in nome dell’interesse nazionale.
Ma la classe operaia non è una semplice vittima passiva della guerra. Sono gli scioperi di massa e gli ammutinamenti del 1917-18 che hanno messo fine alla Prima Guerra Mondiale – e c’è voluto che l’ondata rivoluzionaria fosse vinta perché il capitalismo si lanciasse nella sua seconda carneficina mondiale. E quando la classe operaia è risorta sulla scena della storia alla fine degli anni sessanta, la sua resistenza alla crisi del capitalismo ha sbarrato la strada a una terza guerra mondiale. Nei fatti, la principale ragione della forma che prendono oggi i conflitti imperialisti – quella di azioni di “polizia” contro dei capri espiatori come Saddam – è che il capitalismo oggi non è capace di forzare la classe operaia a seguirlo in un conflitto aperto tra grandi potenze imperialiste.
La classe operaia non può evitare lo scontro con il sistema che ci sfrutta. La ragione stessa della fuga in avanti del capitalismo nella guerra, la sua incapacità ad assicurare lo sviluppo economico, provoca attacchi senza fine contro il livello di vita della classe operaia, attraverso uno sfruttamento crescente, la disoccupazione e la riduzione di tutti i benefici sociali. La marcia alla guerra provocherà una ulteriore accelerazione di questi attacchi e la richiesta di sacrifici sempre più grandi per gli sfruttati. Perciò la lotta inevitabile contro gli effetti della crisi economica costituisce anche una lotta contro la guerra.
Oggi la lotta della classe operaia non può essere che difensiva. Ma essa contiene i germi di una lotta offensiva, rivoluzionaria, di una guerra di classe contro l’insieme del sistema capitalista. Solo questa lotta può distruggere la macchina da guerra capitalista e condurre l’umanità verso una comunità mondiale che getterà le guerre imperialiste e le frontiere nazionali nella pattumiera della storia.
Contro ogni solidarietà con i nostri sfruttatori, che essi siano contro o a favore dell’attuale guerra, che essi siano americani, inglesi, spagnoli, francesi, tedeschi, cinesi, russi, italiani o irakeni!
Per la solidarietà internazionale della classe operaia!
Corrente Comunista Internazionale, marzo 2003
Questo volantino è distribuito in diversi paesi: Stati Uniti, Messico, Venezuela, Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia, Spagna, Olanda, Belgio, Svizzera, Svezia, India, Australia, Russia.
Supplemento a RIVOLUZIONE INTERNAZIONALE n. 129
Aut. Trib. di Napoli n. 2656 del 13/7/76
Per ogni contatto, richiesta, ecc., scrivere a:
R.I. C.P. 469, 80100 Napoli
Lo scorso 15
febbraio, nel mondo intero, le strade delle principali metropoli
di tutti i continenti hanno risuonato di slogan quali: “No
alla guerra!”, “Niente sangue per il petrolio!”,
“Rifiutiamo una nuova carneficina!”, “Bush,
Sharon, assassini!”, “Che assurdità è la
guerra!” ed altri dello stesso tipo. Questi cortei
“pacifisti” hanno trascinato folle immense, stabilendo
un po’ ovunque dei record di mobilitazione, principalmente
in quei paesi i cui governi si sono schierati con l’impresa
guerriera di Bush contro l’Iraq: quasi tre milioni di
partecipanti a Roma, un milione e mezzo a Londra, a Barcellona ed
a Madrid. Ma anche negli altri Stati, dove le manifestazioni hanno
assunto degli accenti e dei comportamenti “di unità
nazionale” in sostegno al “fronte contro la guerra”
delle borghesie nazionali, gli assembramenti sono stati quasi
giganteschi: 500.000 persone a Berlino ed altrettante in Francia,
più di 200.000 a Bruxelles. Anche negli Stati Uniti la
protesta organizzata nella maggior parte delle grandi città
del paese ha raggiunto un’ampiezza paragonabile alle grandi
sfilate contro la guerra del Vietnam (250.000 manifestanti a New
York). Mai la stessa “causa” aveva mobilitato tante
persone nello stesso giorno a livello mondiale. Che la guerra sia
una cosa abominevole, un’espressione di barbarie, è
scontato. Questa è tanto più insopportabile e
nauseante per la classe operaia che ne ha sempre pagato il prezzo
più alto, con le sue condizione di esistenza, con la sua
vita e il suo sangue. Ma siamo chiari: questa mobilitazione
pacifista generale alla quale abbiamo assistito non era che un
passaggio importante di una campagna ideologica di grande portata,
menzognera e criminale, che la borghesia sviluppa dappertutto ed
in particolare nei paesi in cui la classe operaia è più
forte e concentrata. Le grandi masse pacifiste non hanno mai
impedito le guerre imperialiste. Anzi sono servite a prepararle ed
accompagnarle. Il pacifismo è uno strumento delle rivalità
imperialiste Per prima cosa, gli assembramenti attuali, qualunque
sia la loro ampiezza, non possono pesare seriamente sul corso
degli avvenimenti. Essi non potevano in alcun modo impedire la
guerra nella misura in cui gli Stati Uniti avevano già
deciso di farla anche da soli o quasi, come poi è successo.
Ma soprattutto la loro funzione primaria, essenziale, è
precisamente mascherare i giochi reali della situazione e di
impedire la presa di coscienza del vero problema da parte della
popolazione in generale e della classe operaia in particolare: la
responsabilità della guerra non cade su questo o quello
Stato, o gruppo di paesi. La guerra è inscritta nel modo di
vita del sistema di produzione capitalista nel suo insieme, nella
sua globalità. Il campo della “pace” non
esiste, non è che un’illusione. Fare credere che la
“pace” è possibile nel capitalismo è
un’enorme mistificazione. La “pace” non è
che un momento della preparazione di una nuova guerra perché
quest’ultima è divenuta un modo di vita permanente
nel capitalismo decadente. E’ per tale motivo che non vi
possono essere lotte contro la guerra che non siano contro il
capitalismo. Il vero problema da porsi è a che cosa
corrisponde e a chi serve questo fenomeno “pacifista”
che supera di gran lunga l’ampiezza dei raggruppamenti “anti
guerra” all’epoca della prima guerra del Golfo nel
1991? Esso è suscitato ed incoraggiato dalla stessa classe
dominante indicando questo o quel paese, questa o quella frazione
della borghesia come “fautore” di guerra. I
“guerrafondai” ed i “pacifisti” si passano
la palla per mistificare “l’opinione pubblica”:
per gli uni il nemico principale è l’Iraq, per gli
altri sono gli Stati Uniti. Si tratta per la borghesia di
persuadere che c’è sempre un campo imperialista da
scegliere (all’occorrenza, poco importa se gli avversari
designati dai pacifisti siano gli Stati Uniti, il governo
americano, o la sola frazione di Bush). D’altronde da uno
degli slogan delle manifestazioni emergeva questa confessione
rivelatrice: “la pace è patriottica” ciò
che rivela con chiarezza che il “campo bellicista” non
ha il monopolio della difesa degli interessi nazionali
capitalisti. Ciò si traduce in un’ipocrisia ed un
cinismo indicibili del sedicente “fronte anti-guerra”,
in una forma inedita nella storia rappresentata attualmente da
alcuni Stati che osano presentarsi come le colombe della “pace”.
Finanche frazioni di destra dell’apparato borghese, che
possono essere sospettate di tradimento verso l’ordine
borghese, si spacciano come capo fila di una corrente “pacifista”.
Non è grottesco vedere Chirac proposto come futuro “premio
Nobel per la pace” nel momento in cui il governo francese è
responsabile dell’attuale caos guerriero in Costa d’Avorio?
Nello stesso “campo”, troviamo la Russia di Putin che
continua a compiere i peggiori massacri e perpetrare i peggiori
orrori attraverso il suo esercito in Cecenia, ed anche la Germania
dove i predecessori di Schroëder non hanno esitato dieci anni
fa ad incoraggiare lo scoppio della Iugoslavia che ha provocato
anni di genocidi e guerre atroci nei Balcani, tutto ciò per
i loro sordidi interessi imperialisti nazionali particolari.
Attualmente, questi dirigenti, tanto sanguinari come gli altri,
sono condotti a cavalcare le “correnti pacifiste” con
le loro smargiassate e mettere i bastoni tra le ruote alla
borghesia americana. Proclamano: “Chiediamo, esigiamo,
imponiamo la pace al governo Bush!”, unicamente per
affermare i loro interessi che li spingono in un comportamento
apertamente contestatario verso gli Stati Uniti. Inoltre, una
buona parte di essi in questa coalizione di facciata è
pronta a cambiare parere ed a partecipare alla guerra contro
l’Iraq sotto condizione, o se lo esige la pressione
americana, o se “certe regole del diritto internazionale
sono rispettate”, come una nuova risoluzione dell’Onu.
Nessun governo può essere realmente contro la guerra ma
solo contro le condizioni formali con cui gli Stati Uniti la
impongono. Il pacifismo è un’arma della borghesia
contro la classe operaia Questi assembramenti hanno la funzione di
impedire che venga messo in causa il capitalismo, che si prenda
coscienza che la guerra è l’espressione delle
rivalità imperialiste di tutti gli Stati, prodotte dalla
concorrenza capitalista nella difesa dei loro rispettivi interessi
nazionali. Per certi Stati, si tratta chiaramente di chiamare ad
una vera “union sacrée” dietro la propria
borghesia nazionale. E’ il caso della Francia dove predomina
nettamente un tono anti-americano, incoraggiato e sostenuto dalla
quasi totalità delle frazioni politiche della borghesia
nazionale, da Le Pen fino alle organizzazioni estremiste che
“spingono” Chirac ad opporsi ancora di più alla
politica degli Stati Uniti (1). La sua prima funzione è
nutrire nelle popolazioni un sentimento anti-americano indicando
gli Stati uniti come il solo “fattore di guerra”,
l’avversario imperialista numero uno per eccellenza per
deviare la loro ostilità alla guerra su un terreno
borghese. Non ci sono guerre “giuste” ed altre
“ingiuste”, forme accettabili per fare la guerra ed
altre non, qualunque siano i campi in gioco. D’altra parte
il risultato per le popolazioni prese in ostaggio è lo
stesso, sono massacrate, bombardate, gasate, con le più
nocive e mortali armi senza la minima considerazione “umanitaria”.
Oggi, come sempre nel passato, il pacifismo resta il migliore
complice per il lavaggio del cervello bellicista. Questa ideologia
borghese è un vero peso per la classe operaia. Al di là
dell’infamia di tutti quelli che propagandano una tale
mistificazione per mascherare la loro ideologia nazionalista, il
pacifismo mira ad un obiettivo particolare: recuperare il timore e
l’avversione degli operai di fronte alla minaccia della
guerra per avvelenare la loro coscienza e condurli a sostenere un
campo borghese contro un altro. E’ per tale motivo che il
pacifismo fa parte, come ogni volta che la borghesia ha bisogno di
fare accettare ai proletari la sua logica mortale, di una vasta
divisione di compiti tra le differenti frazioni imperialiste del
capitale mondiale. Ciò che definisce il pacifismo non è
la rivendicazione della pace. Tutto il mondo vuole la pace. Gli
stessi guerrafondai non fanno altro che proclamare continuamente
che essi vogliono la guerra per meglio stabilire la pace. Ciò
che distingue il pacifismo, è la pretesa che si possa
lottare per la pace, in se, senza toccare le fondamenta del mondo
capitalista. Anche gli stessi proletari che, attraverso la loro
lotta rivoluzionaria in Russia ed in Germania, misero fine alla
Prima Guerra mondiale, volevano la fine della guerra. Ma se hanno
potuto portare a termine la loro lotta, è perché
hanno saputo condurla non CON i “pacifisti” ma
malgrado questi e CONTRO di essi. A partire dal momento in cui è
diventato chiaro che solo la lotta rivoluzionaria avrebbe potuto
fermare il macello imperialista, i proletari russi e tedeschi si
sono dovuti scontrare non solo con i “falchi” della
borghesia, ma anche e soprattutto con tutti questi pacifisti della
prima ora (menscevichi, socialisti-rivoluzionari, socialpatrioti)
che, armi alla mano, hanno difeso ciò di cui essi non
potevano più fare a meno e ciò che per loro era la
cosa più preziosa: rendere inoffensiva per il capitale la
rivolta degli sfruttati contro la guerra. Questo è sempre
stato lo scopo reale del pacifismo! La storia ci offre delle
esperienze edificanti su manovre di questo tipo. La stessa impresa
che vediamo all’opera oggi, è stata denunciata con
forza già dai rivoluzionari del passato: “La
borghesia ha decisamente bisogno di frasi ipocrite sulla pace
attraverso cui si deviano gli operai dalla lotta rivoluzionaria”,
diceva Lenin nel marzo 1916. L’uso del pacifismo non è
cambiato: “In ciò risiede l’unità di
principio dei socialsciovinisti (Plekhanov, Scheidemann) e dei
socialpacifisti (Turati, Kautsky), gli uni e gli altri,
obiettivamente parlando, sono i servitori dell’imperialismo:
gli uni lo servono presentando la guerra imperialista come la
“difesa della patria”, gli altri difendono lo stesso
imperialismo mascherandolo attraverso frasi sulla “pace
democratica”, la pace imperialista che si annuncia oggi. La
borghesia imperialista ha bisogno di servitori dell’uno e
dell’altro tipo, dell’una e dell’altra
sfumatura: ha bisogno dei Plekhanov per incoraggiare i popoli a
massacrarsi gridando “Abbasso i conquistatori”; ha
bisogno dei Kautsky per consolare e calmare le masse irritate
attraverso inni e discorsi entusiasti in onore della pace”,
scriveva già Lenin nel gennaio del 1917. Ed aggiungeva: “In
realtà, la politica di Kautsky (per la Germania) e quella
di Sembat-Henderson (per la Francia e la Gran Bretagna) aiutano in
modo identico i loro rispettivi governi imperialisti, attirando
principalmente l’attenzione sugli intrighi tenebrosi del
concorrente e dell’avversario, e gettando un velo di frasi
nebulose e di pii desideri sulle altrettanto imperialiste attività
della “loro” borghesia. Cesseremmo di essere dei
marxisti, cesseremo di essere in generale dei socialisti, se ci
contentassimo di una meditazione per così dire cristiana,
sulla virtù delle buone piccole frasi generali, senza
mettere a nudo il loro significato”. Ciò che era vero
al momento della Prima Guerra mondiale si è da quel momento
invariabilmente confermato. Ancora oggi, di fronte alla nuova
guerra nel Golfo, la borghesia ha potentemente organizzato la sua
macchina pacifista in tutti i paesi. Per i rivoluzionari non è
sufficiente denunciare la guerra voluta dagli Stati Uniti, ma è
necessario allo stesso tempo mostrare l’ipocrisia di tutti
gli altri Stati che mobilitano la popolazione contro questa guerra
per opporsi agli stati Uniti e difendere i propri interessi
nazionali. Solo la guerra di classe contro il capitalismo può
mettere fine alla guerra imperialista La classe operaia non ha
alcun interesse a sostenere un campo o l’altro, dunque non
deve assolutamente farsi coinvolgere nelle imprese “pacifiste”
animate da altri briganti imperialisti. L’ostilità
alla guerra del proletariato deve restare legata, senza alcuna
concessione, ad una posizione di principio che i rivoluzionari
hanno sempre difeso: L’INTERNAZIONALISMO PROLETARIO, il
rifiuto di fare causa comune con la propria borghesia nazionale.
Mentre per ogni frazione concorrente della classe dominante, la
propria posizione è dettata dal suo interesse imperialista
da difendere in Iraq o più largamente in questa regione del
Medio Oriente, la classe sfruttata non ha NESSUN interesse ad
allinearsi dietro le presunte “giuste cause” dei suoi
sfruttatori, siano esse “difensive” o “pacifiste”.
La classe operaia deve basarsi sulla sua esperienza storica per
prendere coscienza che i canti delle sirene del pacifismo servono
solo ad attirarla in una trappola, su di un terreno strettamente
borghese. Terreno nel quale può solo essere incatenata ad
un campo imperialista contro un altro, può solo perdere la
propria identità lasciandosi diluire nella massa indistinta
del “popolo”, confusa tra le altre classi, al centro
di un gigantesco movimento “cittadino” nel quale è
impossibile affermare i propri interessi di classe. Quelli di una
classe che non ha patria, né frontiere ed interessi
nazionali da difendere. Oggi come ieri, la sola risposta che i
lavoratori possono dare alla guerra ed al suo corollario che è
il pacifismo, è la LOTTA DI CLASSE. La lotta contro la
guerra non può essere che la lotta contro il capitale
mondiale, contro questo sistema di sfruttamento, del quale sono la
principale vittima. Perché è questo stesso sistema,
di cui Bush, Blair, Berlusconi, Chirac, Scroëder, Saddam e
consorti sono i degni rappresentanti, che da un lato sfrutta i
proletari, li riduce alla disoccupazione e alla miseria,
dall’altro, li massacra, li condanna all’esodo di
massa, alla fame, all’epidemie. E’ solo sviluppando
massicciamente la loro lotta sul proprio terreno di classe
sfruttata, unificando le loro lotte a scala internazionale nei
posti di lavoro e nelle strade, che i proletari di tutti i paesi,
e principalmente quelli dei paesi più industrializzati
d’Europa e d’America, potranno aprire una prospettiva
di futuro per l’umanità: quella del rovesciamento del
capitalismo. La pace è impossibile nel capitalismo. Il
capitalismo è guerra! Contro la “santa alleanza”
di tutti gli sfruttatori, contro tutte le manovre di
intossicazione ideologica e di divisione del proletariato
internazionale: Proletari di tutti i pesi unitevi!
Wim (21
febbraio 2003)
1 1. In questo quadro, anche se il pacifismo è tradizionalmente veicolato dai partiti di sinistra e d’estrema sinistra che restano i motori dei movimenti pacifisti, in particolare al fine di arruolarvi specificamente gli operai, la sua influenza va ben al di là dei divari tradizionali all’interno della borghesia. Allo stesso modo la mobilitazione dei “cristiani” è legata al ruolo eminente del papa nella crociata anti-americana.
Uno dei temi sviluppati dalla borghesia durante gli anni ’90 per mantenere il suo dominio ideologico sulla società è stato quello della supposta salute economica e prosperità del suo sistema. Secondo questa favola, dopo la recessione del 1990-91, l’economia americana avrebbe imboccato il più lungo periodo di recupero della storia. Per alcuni anni qualcuno ha finanche dichiarato che, grazie alle nuove tecnologie per le comunicazioni, il sistema era arrivato ad un’era di prosperità permanente.
Poi, nel 1997-98, l’esplosione di quelle che una volta erano considerate le esemplari economie dell’est asiatico, le “tigri” e i “dragoni”, diffuse il terrore in tutto il mondo capitalista. Storie di un imminente collasso del capitalismo e di una recessione aperta a livello mondiale riempirono i notiziari televisivi e i giornali. Tuttavia, i principali paesi capitalisti – con l’eccezione del Giappone – riuscirono a stare fuori dalla recessione ancora per un paio di anni dando qualche credibilità alla favola del capitalismo in fase di boom.
Ma oggi non si sente neanche più un bisbiglio sulle meraviglie della “new economy” sostenuta dalla “internet revolution”. Il capitalismo mondiale sta sperimentando una nuova caduta nell’abisso della sua crisi economica cronica. Tutte le maggiori economie del mondo sono ufficialmente in recessione aperta o stanno comunque in difficoltà e, al centro di questo crollo del capitalismo mondiale, vi è l’economia americana, di gran lunga la più grande del mondo. A niente sono valse le fesserie degli esponenti della borghesia che hanno cercato di mascherare fino all’ultimo minuto l’arrivo della recessione o di attribuirlo all’attacco alle Torri gemelle o alla guerra. Ormai la situazione si va aggravando di mese in mese, costringendo le borghesie dei vari paesi a prendere delle misure sempre più severe nei confronti dei lavoratori. Tutti i lavoratori si troveranno coinvolti da queste misure. Questo attacco che non potrà lasciare senza reazione i proletari che sono già costantemente confrontati a condizioni di vita che peggiorano in maniera drammatica, di fronte a dei problemi quotidiani affrontati più o meno isolatamente nel quadro della cellula familiare o della fabbrica: disoccupazione, piani di licenziamenti, soppressione di posti, precarietà, perdita del potere di acquisto, degradazione generale delle condizioni di lavoro, del tessuto sociale, aumento della produttività, problemi di salute, di scuola, di casa, di ambiente, riduzione dello stato sociale.
E’ stato reso noto, ad esempio, che in Italia gli aumenti dei prezzi e quelli dei salari viaggiano con un punto percentuale di differenza, il che significa, tenendo anche conto che le statistiche ufficiali sottostimano ampiamente l’aumento dei prezzi, che i lavoratori perdono fior di quattrini ogni anno. E questo è ancora niente visto che lo stesso Berlusconi parla di una finanziaria di un certo peso (si parla di una finanziaria pesante come quella del governo Amato, da 90.000 miliardi di lire). In Francia analogamente il governo sta mettendo mano alla riforma delle pensioni, cosa che ha provocato il 13 maggio scorso una manifestazione con più di un milione di manifestanti.
Malgrado il malcontento generale che susciteranno questi attacchi ed anche il pericolo di alimentare una rimonta di combattività operaia, la borghesia ha coscienza del rischio ancora modesto che corre nella misura in cui i proletari sono ancora dominati da un sentimento di impotenza e di rassegnazione.
Tuttavia, il periodo che si apre è tale che la classe operaia sarà sempre più costretta a comprendere che non ha altra scelta che lottare, per ritrovare e riaffermare il suo cammino di classe di fronte all’accelerazione degli attacchi della borghesia. Contrariamente agli anni ’90, l’aspetto manifesto della crisi costituisce un potente rivelatore del fallimento del sistema agli occhi dei proletari. Alle conseguenze della crisi economica si aggiunge per i proletari il prezzo da pagare per le spese di guerra e per gli armamenti in aumento crescente.
Non c’è alcuna illusione possibile su quello che ci aspetta: sempre più miseria e sfruttamento. Ma sotto i colpi della crisi e degli attacchi che ne risultano, i proletari sono spinti a reagire massicciamente ed insieme. Si creano così le condizioni perché il proletariato riprenda fiducia in sé stesso, ritrovi la sua vera identità di classe e si opponga in massa e unitariamente agli attacchi della borghesia come classe avente degli interessi propri e distinti da difendere contro quelli della borghesia.
L’avvenire appartiene al proletariato!
1/6/03
Berlusconi & company possono certamente restare soddisfatti per come hanno giocato le loro carte nell’avventura irachena. Senza neanche mettere in pericolo un solo soldato, Berlusconi può adesso sedere al tavolo dei vincitori e mandare finanche le proprie truppe di occupazione… pardon, gli uomini per l’ennesima missione umanitaria. Anche se le difficoltà e le divisioni interne alla borghesia nazionale hanno imposto al governo di centro-destra un atteggiamento prudente nei confronti del conflitto, alla fin fine Berlusconi ha concesso parecchio agli alleati anglo-americani. Anzitutto a livello logistico, permettendo ai mezzi e alle truppe americani di transitare per l’Italia, usando le ferrovie e i porti della penisola che, per la sua posizione geografica, costituisce un ottimo ponte tra l’Europa e il Medio Oriente. In secondo luogo a livello politico: l’adesione dell’Italia alla famosa lettera di intenti degli otto paesi europei che si sono schierati a favore della causa americana e quindi per il conflitto ha costituito, prima ancora che un atto di appoggio agli alleati anglo-americani, una rottura del fronte europeo e una grana di non poco conto per quelli che, come Francia, Germania e lo stesso presidente della Commissione Europea Prodi, puntavano a fare di questa sfida sulla questione irachena un passaggio nel processo di costruzione di una unità politica europea. Questo Berlusconi glielo doveva agli USA nella misura in cui, se oggi abbiamo in Italia questo governo, è anche per l’interferenza americana nella politica italiana.
Lo scontro interno alla borghesia
Ma naturalmente più Berlusconi spinge in questa direzione, più i rapporti interni con le altre forze politiche della borghesia italiana, orientate verso un’opzione di maggiore autonomia, diventano difficili. Ricordiamo che, dopo lo sfaldamento dei due blocchi imperialisti avvenuto dopo l’autunno ‘89, in Italia c’è stato un sotterraneo processo di liberazione nazionale dalla tutela americana che si è espresso attraverso la lotta alla mafia e i processi a esponenti dei partiti governativi DC e PSI (la famosa tangentopoli) allo scopo di tagliare ogni legame tra gli USA e i suoi referenti in Italia (appunto la mafia e gli esponenti dei governi di 40 anni di influenza americana). Quello che abbiamo oggi è la compresenza delle due opzioni imperialiste che si fronteggiano e che, in situazioni acute come questa, escono allo scoperto e si combattono ferocemente. Questo spiega la riacutizzazione dello scontro a cui stiamo assistendo in questo momento che è diventato violentissimo, con affermazioni che non hanno riscontri nel passato come quella del primo ministro che accusa i magistrati di essere golpisti e faziosi. Accanto a questo c’è un gioco di ricatti incredibile nella misura in cui Berlusconi si è permesso di dire che, se i magistrati avessero insistito con il loro atteggiamento persecutorio, egli avrebbe rivelato delle cose su Prodi. D’altra parte le forze di governo stanno cercando di blindare ulteriormente le loro posizioni con il cosiddetto lodo Meccanico, cioè con il ripristino dell’immunità per le alte cariche dello stato che, probabilmente, finirà per essere estesa a tutti i parlamentari. Come dire che, se proprio la sinistra insiste con il mettere sotto pressione Berlusconi, la destra è pronta a rompere il gioco e a spostare le carte su un altro tavolo.
Ma le sinistre che fanno, oltre a “tormentare” il governo?
Le sinistre, sia chiaro, non sono per principio contrarie alla politica del governo Berlusconi. D’altra parte non c’è nessun atto del governo attuale che sia qualitativamente dissimile da quelli precedenti di centro-sinistra: le mani in tasca ai lavoratori le hanno messe gli uni quanto gli altri, la guerra l’hanno fatta anche, e in maniera ben più esplicita, i governi di sinistra! L’aspetto più importante che divide destra da sinistra è appunto la scelta di campo internazionale, filo-atlantismo per Berlusconi, posizione blandamente europeista per il centro-sinistra.
A parte dunque questo contrasto sull’opzione internazionale, le sinistre in genere hanno come compito specifico e peculiare quello di controllare la classe operaia per deviarla dal suo terreno di lotta. E’ per questo che stiamo assistendo in questi giorni all’ennesima fregatura, quella relativa al referendum sull’estensione dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori ad aziende con meno di 15 lavoratori. Questo referendum, come tutti gli altri, è una tipica operazione di mistificazione della borghesia. La classe dominante ha i suoi normali strumenti per legiferare, che sono il parlamento e - oggi come oggi - sempre più lo stesso esecutivo. Il referendum si pone quindi come una prova del nove per la borghesia per dimostrare alla popolazione che, se vuole, può esprimere in prima persona il suo parere. Di qui tutto il suo carattere mistificatorio dato che, come è noto, la borghesia con i suoi mass-media è capace di controllare qualunque scelta popolare. D’altra parte, nella misura in cui una vittoria del referendum porrebbe qualche problema alla borghesia perché, almeno in prima istanza, dovrebbe accettare le limitazioni nelle condizioni di licenziamento nelle aziende di più piccola taglia, si vede pure come la stessa sinistra si sia disunita sulla scelta del referendum per disperdere i voti e preparare una sconfitta alla prossima scadenza del 15 giugno. Ma la maniera migliore perché i lavoratori non subiscano alcuna sconfitta a questo referendum è capire che il referendum, comunque vada, è una truffa, che i lavoratori non devono seguire le lusinghe dei falsi partiti operai e dei sindacati che hanno tutti tradito la causa del proletariato. Le condizioni di vita e di lavoro della classe operaia non si possono modificare con un voto. Solo la lotta delle masse operaie può modificare i rapporti di forza.
Ezechiele,1/6/03
A fine marzo la CCI ha tenuto il suo XV congresso. Questo rivestiva per la nostra organizzazione un'importanza tutta particolare, per due ragioni essenziali.
Da una parte, dopo il precedente congresso tenutosi all'inizio del 2001, abbiamo assistito ad un aggravamento molto importante della situazione internazionale, sul piano della crisi economica e soprattutto sul piano delle tensioni imperialiste. Il congresso si è svolto nel momento in cui la guerra imperversava in Iraq ed era responsabilità dell’organizzazione sviluppare le sue analisi al fine di essere in grado di intervenire nella maniera più appropriata di fronte a questa situazione.
D'altra parte, questo congresso si teneva in un momento in cui la CCI aveva attraversato la crisi più pericolosa della sua storia. Anche se la crisi era stata superata, era necessario trarre il massimo di insegnamenti dalle difficoltà incontrate, sulla loro origine ed i mezzi di affrontarle. L'insieme delle discussioni e dei lavori del congresso è stato attraversato dalla coscienza dell'importanza di questi due problemi, che si iscrivevano nelle due grandi responsabilità di ogni congresso: l'analisi della situazione storica e l'esame delle attività che ne derivano per l'organizzazione. La CCI analizza il periodo storico attuale come la fase ultima della decadenza del capitalismo, la fase di decomposizione della società borghese, quella della sua putrefazione. Queste condizioni storiche, come vedremo più avanti, determinano le caratteristiche essenziali della vita della borghesia oggigiorno, ma hanno anche un peso notevolmente sul proletariato e le organizzazioni rivoluzionarie.
È
quindi in questo quadro che sono stati esaminati, non solo
l'aggravarsi delle tensioni imperialiste, ma anche gli ostacoli
che incontra il proletariato nel suo cammino verso gli scontri
decisivi contro il capitalismo e allo stesso tempo le difficoltà
alle quali è stata confrontata la nostra organizzazione.
L'analisi della situazione internazionale
Per certe organizzazioni del campo proletario, in particolare il BIPR, le difficoltà organizzative incontrate dalla CCI ultimamente, come quelle conosciute nel 1981 e all'inizio degli anni 1990, derivano dalla sua incapacità a fornire un'analisi appropriata del periodo storico attuale. Soprattutto la nostra analisi della decomposizione viene considerata come una manifestazione del nostro "idealismo".
È vero che la chiarezza teorica e politica è un'arma essenziale per un'organizzazione che pretende di essere rivoluzionaria. Se questa non è in grado di comprendere la vera posta in gioco del periodo storico in cui opera, rischia di venire sballottata dagli avvenimenti, di cadere nello smarrimento ed alla fine di essere spazzata via dalla storia. È vero anche che la chiarezza non si decreta, ma è il frutto di una volontà, di una lotta per forgiare tali armi. Una lotta che esige affrontare con metodo, il metodo marxista, le questioni nuove poste dall'evoluzione delle condizioni storiche. Questa è stata la preoccupazione esenziale che ha animato i rapporti preparati per il congresso ed tutti i suoi dibattiti. Il congresso ha inscritto questo procedimento nell'ambito della visione marxista della decadenza del capitalismo e della sua fase attuale di decomposizione. Esso ha ricordato che la visione della decadenza non solo era quella della III Internazionale, ma che essa è una base stessa della visione marxista. È questo quadro e questa chiarezza storica che hanno permesso alla CCI di misurare la gravità della situazione in cui la guerra diviene un fattore permanente.
Nello specifico, il congresso doveva esaminare in che misura il quadro d'analisi di cui si era dotata la CCI era capace di rendere conto della situazione presente. La discussione ha confermato la validità di questo quadro. La situazione attuale e la sua evoluzione costituiscono, infatti, una piena conferma delle analisi che la CCI si era dato fin dalla fine del 1989, al momento del crollo del blocco dell'Est. Gli avvenimenti attuali, come l'antagonismo crescente tra gli Stati Uniti ed i loro vecchi alleati che si è manifestato apertamente nella crisi recente, la moltiplicazione dei conflitti con l'implicazione diretta della prima potenza mondiale, che sfoggia ogni volta di più la sua forza militare, erano già previsti nelle Tesi che la CCI ha prodotto nel 1989-'90 (1). Il congresso ha riaffermato anche che l'attuale guerra in Iraq non si riduce, come alcuni settori della borghesia vorrebbero far credere, ad una "guerra per il petrolio". In questa guerra il controllo del petrolio ha una valenza strategia per la borghesia americana e non innanzitutto economica. È uno dei mezzi di ricatto e di pressione che gli Stati Uniti usano per contrastare i tentativi di altre potenze, come i grandi Stati d'Europa ed il Giappone, di giocare le proprie carte sullo scacchiere imperialista mondiale. Nei fatti, dietro l'idea che le guerre attuali avrebbero una certa "razionalità economica" c'è un rifiuto a tener conto dell'estrema gravità della situazione in cui si trova il sistema capitalista. Sottolineando questa gravità, la CCI si è deliberatamente posta nella scia del marxismo che non dà ai rivoluzionari il compito di consolare la classe operaia, ma al contrario di fargli misurare l'importanza dei pericoli che minacciano l'umanità e dunque di sottolineare l'ampiezza della propria responsabilità.
E, nella visione della CCI, mostrare al proletariato la gravità della posta in gioco è tanto più necessario oggi che questo trova delle enormi difficoltà a ritrovare il cammino delle lotte coscienti e di massa contro il capitalismo. Questo è stato un altro punto essenziale della discussione sulla situazione internazionale: su che cosa possiamo oggi fondare la fiducia, che il marxismo ha sempre affermato, sulla capacità della classe sfruttata di rovesciare il capitalismo e di liberare l'umanità dalle calamità che l'assillano in maniera crescente.
Quale fiducia nella capacità nella classe operaia a far fronte alla posta in gioco storica?
La CCI ha già, e a numerose riprese, messo in evidenza che la decomposizione della società capitalista pesa negativamente sulla coscienza del proletariato (2). Così come, fin dall'autunno 1989, ha sottolineato che il crollo dei regimi stalinisti avrebbe provocato delle "accresciute difficoltà per il proletariato" (titolo di un articolo della Révue Internazionale, n. 60). Da allora, l'evoluzione della lotta di classe non ha fatto che confermare questa previsione.
Di fronte a questa situazione, il congresso ha riaffermato che la classe conserva tutte le potenzialità per arrivare ad assumersi la sua responsabilità storica. È anche vero che essa è attualmente ancora in una situazione di riflusso importante sul piano della coscienza, dovuto alle campagne borghesi che assimilano marxismo e comunismo allo stalinismo e che stabiliscono una continuità tra Lenin e Stalin. Inoltre, la situazione presente è caratterizzata da una marcata perdita di fiducia dei proletari nella propria forza e nella propria capacità a fare anche delle lotte difensive, il che può condurli a perdere di vista la loro identità di classe. E bisogna notare che la tendenza alla perdita di fiducia nella classe si esprime anche nelle organizzazioni rivoluzionarie, principalmente sotto forma di spinte improvvise d'euforia di fronte a movimenti come quello in Argentina alla fine del 2001 (presentato come una formidabile spinta proletaria nel momento in cui la classe era diluito nell'interclassismo). Ma una visione materialistica, storica, a lungo termine, ci insegna, per parafrasare Marx, "che non si tratta di considerare ciò che questo o quel proletario, o anche il proletariato nel suo insieme, prende oggi per verità, ma di considerare ciò che é il proletariato e ciò che sarà storicamente condotto a fare, conformemente al suo essere". Una tale visione ci mostra in particolare che, di fronte ai colpi della crisi del capitalismo che si traducono in attacchi sempre più feroci, la classe reagisce e reagirà necessariamente sviluppando la sua lotta.
Questa lotta, all'inizio, sarà caratterizzata da una serie di scaramucce, che annunceranno uno sforzo per andare verso lotte sempre più massicce. È in questo processo che la classe operaia si concepirà di nuovo come la classe sfruttata e tenderà a ritrovare la sua identità, aspetto essenziale che a sua volta stimolerà la lotta. Allo stesso tempo la guerra, che tende a divenire un fenomeno permanente, che svela ogni giorno di più le tensioni estremamente forti che esistono tra le grandi potenze e soprattutto il fatto che il capitalismo è incapace di sradicare questo flagello, che non può che opprimere sempre più l'umanità, favorirà una riflessione in profondità della classe. Tutte queste potenzialità sono contenute nella situazione attuale. Esse impongono alle organizzazioni rivoluzionarie di esserne coscienti e di sviluppare un intervento per metterle a frutto. Intervento essenziale, soprattutto in direzione della minoranza in ricerca a livello internazionale.
Ma per essere all'altezza della loro responsabilità, è necessario che le organizzazioni rivoluzionarie siano in grado di far fronte, non solo agli attacchi diretti che la classe dominante tenta di portare loro, ma anche alla penetrazione al loro interno del peso ideologico che quest'ultima diffonde nell'insieme della società. In particolare, il loro dovere é combattere gli effetti più deleteri della decomposizione i quali, come colpiscono la coscienza dell'insieme del proletariato, pesano ugualmente sui loro militanti, distruggendo le loro convinzioni e la loro volontà di operare al compito rivoluzionario. È giustamente un tale attacco dell'ideologia borghese favorito dalla decomposizione che la CCI ha dovuto affrontare nel corso dell'ultimo periodo e la volontà di difendere la capacità dell'organizzazione ad assumersi le sue responsabilità è stata al centro delle discussioni del congresso sulle attività della CCI.
Le attività e la vita della CCI
Il congresso ha tirato un bilancio positivo delle attività svolta dal precedente congresso, nel 2001. Nel corso dei due ultimi anni la CCI ha mostrato di essere capace di difendersi di fronte ai più pericolosi effetti della decomposizione, principalmente le tendenze nichiliste che hanno colpito un certo numero di militanti che si sono costituiti in "frazione interna". Essa ha saputo combattere gli attacchi di questi elementi il cui obiettivo era, in tutta evidenza, la sua distruzione. Fin dall'inizio dei suoi lavori, con una totale unanimità, il congresso, dopo la conferenza straordinaria tenuta ad aprile del 2002, ha ancora una volta ratificato tutta la lotta condotta contro questa combriccola e stigmatizzato i suoi comportamenti provocatori. E' con una totale convinzione che ha denunciato la natura anti-proletaria di questo raggruppamento. Ed è in maniera unanime che ha pronunciato l'esclusione di elementi della "frazione" che avevano coronato i loro comportamenti contro la CCI pubblicando (e rivendicando questa pubblicazione) sul loro sito Internet informazioni che facevano direttamente il gioco dei servizi di polizia dello Stato borghese (3). Questi elementi, benché si erano rifiutati di venire al congresso ed in seguito di presentare la loro difesa di fronte ad una commissione speciale nominata da quest'ultimo, non hanno trovato altra cosa da fare, nel loro bollettino n.18, che proseguire la campagna di calunnie contro la nostra organizzazione, dando la prova che il loro scopo non era affatto convincere l'insieme dei militanti di quest'ultima dei pericoli di cui la minacciava una pretesa "fazione liquidatrice", ma di screditarla il più possibile, visto che non erano riusciti a distruggerla.
Come mai questi elementi hanno potuto sviluppare all'interno dell'organizzazione un'azione tale da minacciare la sua distruzione?
In rapporto a questa questione il congresso ha messo in evidenza un certo numero di debolezze che si sviluppavano a livello del proprio funzionamento, debolezze che sono essenzialmente legate ad uno spirito di circolo che ritorna in forza, favorito dal peso negativo della decomposizione della società capitalista. Un aspetto di questo peso negativo è il dubbio e la perdita della fiducia nella classe, che porta a vedere solo la sua debolezza immediata. Lungi dal favorire lo spirito di partito, ciò favorisce la tendenza per la quale i legami d'affinità e dunque la fiducia in certi individui si sostituiscono alla fiducia nei principi di funzionamento. Gli elementi che vanno a formare la "frazione interna" erano un'espressione caricaturale di queste deviazioni e di questa perdita di fiducia nella classe. La loro dinamica di degenerazione si è servita di queste debolezze che attualmente pesano su tutte le organizzazioni proletarie, il cui peso è tanto più pericoloso in quanto la maggior parte di queste non ne hanno alcuna coscienza. È con una violenza mai conosciuta fino ad ora nella storia della CCI, che questi elementi hanno sviluppato le loro azioni distruttrici. La perdita di fiducia nella classe, l'indebolimento della convinzione militante, si sono accompagnati ad una perdita di fiducia nell'organizzazione, nei suoi principi e ad un disprezzo totale per i suoi statuti. Questa cancrena poteva contaminare tutta l'organizzazione e sabotare la fiducia e la solidarietà nei suoi ranghi e dunque nelle sue stesse fondamenta.
Il congresso ha affrontato senza paura la messa in evidenza delle debolezze di tipo opportunista che avevano permesso al clan, auto-proclamatosi "frazione interna", di minacciare la vita stessa dell'organizzazione. Esso ha potuto farlo perché la CCI esce rafforzata dalla lotta che ha portato avanti.
D'altra parte, se la CCI sembra avere una vita tanto movimenta, fatta di crisi che si ripetono è proprio perché essa lotta apertamente contro ogni penetrazione opportunistica. È stata essenzialmente la difesa, senza concessioni, dei suoi statuti e dello spirito proletario che questi esprimono, a suscitare la rabbia di una minoranza presa da un opportunismo senza freni, cioè un abbandono totale dei principi in materia di organizzazione. Su questo piano, la CCI a proseguito la lotta del movimento operaio, in particolare di Lenin e del partito bolscevico i cui i detrattori ne stigmatizzavano le crisi a ripetizione e le molteplici lotte sul piano organizzativo. Nella stessa epoca la vita del partito socialdemocratico tedesco era molto meno agitata, ma la calma opportunista che lo caratterizzava (alterata solamente dai "turbamenti" di sinistra come quello di Rosa Luxemburg) annunciava il suo tradimento del 1914! Le crisi del partito bolscevico invece costruivano la forza che ha permesso la rivoluzione del 1917!
Ma la discussione sulle attività non si è limitata alla difesa diretta dell'organizzazione contro gli attacchi che subiva. Ha invece particolarmente insistito sulla necessità di proseguire lo sforzo di sviluppo della capacità teorica della CCI, constatando al contempo che la lotta contro questi attacchi ha profondamente stimolato lo sforzo in questa direzione. Il bilancio di questi due ultimi anni mostra un arricchimento teorico: su di una visione più storica della fiducia e della solidarietà nel proletariato, elementi essenziali della lotta di classe; sul pericolo d'opportunismo che aspetta al varco le organizzazioni incapaci di analizzare un cambiamento di periodo; sul pericolo del democratismo. D’altra parte, come ci è stato insegnato da Marx, Rosa Luxemburg, Lenin, dai militanti della Frazione italiana e da altri rivoluzionari ancora, questa preoccupazione della lotta sul terreno teorico è parte pregnante della lotta contro l'opportunismo, minaccia mortale per le organizzazioni comuniste.
Infine, il congresso ha fatto un primo bilancio del nostro intervento nella classe operaia a proposito della guerra in Iraq. Ha constatato la notevole capacità di mobilitazione della CCI in quest'occasione poiché, fin da prima dell'inizio delle operazioni militari, le nostre sezioni hanno realizzato una significativa diffusione della stampa in numerose manifestazioni, pubblicando, quando è stato necessario, supplementi alla stampa regolare e ingaggiando discussioni politiche con numerosi elementi che non conoscevano fin ad allora la nostra organizzazione. Appena la guerra è scoppiata, la CCI ha immediatamente pubblicato un volantino internazionale tradotto in tredici lingue (4) che è stato distribuito in 14 paesi e in più di 50 città, soprattutto davanti alle fabbriche, e che è stato poi pubblicato sul nostro sito Internet.
Possiamo senz’altro dire che questo congresso è stato un momento che ha espresso il rafforzamento della nostra organizzazione. La CCI si richiama con forza alla lotta che ha condotto e che prosegue per la sua difesa, per la costruzione delle basi del futuro partito e al fine di sviluppare la sua capacità di intervento nella lotta storica della classe. È convinta di essere, in questa lotta, un anello della catena delle organizzazioni del movimento operaio.
La CCI
1. Per tale argomento vedere principalmente le "Tesi sulla crisi economica e politica in URSS e nei paesi dell'Est" (Rivista Internazionale n°13) redatto due mesi prima della caduta del muro di Berlino e "Militarismo e decomposizione" (datato dal 4 ottobre 1990 e pubblicato nella Rivista Internazionale n°15).
2. Vedere principalmente: "La decomposizione, fase ultima della decadenza del capitalismo", punti 13 e 14 (Rivista Internazionale n°14)
3. Su tale argomento vedere il nostro articolo "I metodi polizieschi della 'FICCI'", in Rivoluzione Internazionale n°130.
4. Le lingue delle nostre pubblicazioni territoriali più il portoghese, il russo, l'indiano, il bengalese, il farsi, il coreano.
Due anni fa, l’attentato dell’11 settembre sulle Twin Towers a New York apriva la strada ad un’accelerazione senza precedente degli scontri imperialisti dalla fine della Guerra fredda. Questo ulteriore passo del mondo nel caos ha avuto come giustificazione la “lotta contro il terrorismo internazionale” e la “lotta per la difesa della democrazia”. Questa propaganda non può più mascherare la realtà di un aggravamento delle tensioni imperialiste tra le grandi potenze ed in particolare tra gli Stati Uniti ed i loro vecchi alleati del blocco dell’Est.Come abbiamo più volte sviluppato nella nostra stampa, gli Stati Uniti sono costretti permanentemente ad affermare sul piano militare la loro leadership mondiale che i vecchi alleati gli contestano. I principali conflitti in cui sono rimaste coinvolte queste potenze dal crollo del blocco dell’Est rivelano questa logica. Questa è ancora più evidente in Afghanistan ed in Iraq dove gli Stati Uniti giocano un maggiore ruolo di mantenimento dell’ordine ed hanno difficoltà crescenti di fronte ad una situazione che già possiamo definire impantanata.
Gli Stati Uniti incapaci di controllare e migliorare la situazione in Iraq
Allo scopo di impedire che i suoi principali rivali gli mettessero i bastoni fra le ruote in Iraq e in Medio oriente, gli Stati Uniti hanno fatto in modo di essere i soli padroni in campo negando all’ONU la possibilità di poter giocare il benché minimo ruolo politico nell’amministrazione dell’Iraq e sottomettendo alla loro autorità tutte le altre componenti della forza internazionale presente militarmente in questo paese. Eppure, non solo non esiste al momento alcuna prospettiva tangibile di un alleggerimento del loro apparato militare sul posto (145.000 uomini), ma in più quest’ultimo si dimostra sempre più in difficoltà a controllare la situazione. Gli obiettivi che gli USA si erano fissati sembrano allontanarsi di giorno in giorno mentre la prospettiva di ristabilire la società irachena non è mai stata così lontana.
Le condizioni di vita della popolazione già misere sotto il regno di Saddam Hussein si sono aggravate a causa della guerra e dell’incapacità dell’occupante a migliorare l’approvvigionamento di beni di consumo e di prima necessità, a rimettere in piedi un minimo di infrastrutture indispensabili alla vita quotidiana. Per la fame, dei rivoltisi assalgono i rari magazzini di approvvigionamento. La criminalità dilaga, mentre sperpero e speculazione di ogni tipo si estendono in tutto il paese.
L’insicurezza e l’instabilità si sviluppano in particolare sotto l’effetto del terrorismo a largo raggio. Quest’ultimo colpisce essenzialmente le forze americane o i loro alleati, come dimostra l’attentato perpetrato a Bagdad contro l’ambasciata della Giordania. Ma prende di mira anche gli interessi economici vitali dell’Iraq, come gli oleodotti che trasportano acqua o petrolio.
Le truppe d’occupazione pagano quotidianamente un pesante tributo nella difesa degli interessi imperialisti della borghesia americana. Ne sono testimoni i 62 soldati che sono morti in attentati o imboscate dalla fine della guerra. Per la maggior parte terrorizzate, le truppe americane a loro volta terrorizzano la popolazione generando in essa un’ostilità crescente. Lo sforzo di guerra americano, in dollari ed in vite umane, non è certo finito: altri 78 soldati sono rimasti uccisi, questa volta “accidentalmente”, dopo la “vittoria”. Malgrado la morsa di ferro che gli Stati Uniti tentano di attuare su quel che resta di questa società, in Iraq regna una totale anarchia. Quanto ad un ricambio iracheno che possa sostituire sul posto la dominazione americana ci sarà un bel po’ da aspettare, così come per la costituzione di un governo “democratico”, progetto faro della propaganda della Casa Bianca e giustificazione della guerra. Bush ha proclamato che mai nella storia una coalizione governativa aveva riunito tanti partiti differenti come nel “Consiglio del Governo Provvisorio”, “prova” della sua volontà di attuare la “democrazia” Questa coalizione non è affatto uno scheletro di governo futuro ma un vero covo di vipere. Gli interessi più diversi e contrapposti vi si scontrano, senza la minima preoccupazione per l’interesse “nazionale”. Peggio, alcune frazioni pro-sciite presenti al suo interno sono sempre più inclini a una lotta frontale con l’America, escludendo così di fatto ogni possibilità che questa coalizione possa giocare il benché minimo ruolo.
Quanto alla terra promessa, la ricostruzione dell’Iraq, è sempre più chiaro che ne esce malconcia: i profitti petroliferi previsti potranno parteciparvi solo in minima parte, appena sufficiente per finanziare la riattivazione delle installazioni petrolifere. Si pone dunque la questione di sapere chi deve accollarsi il fardello finanziario.
Chi va a controllare e finanziare il protettorato dell’Iraq?
Giunti ad eliminare l’influenza dei rivali in Iraq, gli Stati Uniti si trovano ora prigionieri di contraddizioni dalle quali cercano di uscire. L’occupazione dell’Iraq è una voragine finanziaria e le perdite di vite umane tra le truppe americane porranno a lungo termine dei problemi seri alla borghesia americana, che però non può disimpegnarsi senza aver stabilizzato la situazione a suo vantaggio, il che è una scommessa. Essa cerca dunque di coinvolgere altre potenze nello sforzo finanziario e militare conservando però il monopolio del comando, con la Gran Bretagna nel ruolo di secondo piano. Tenuto conto dell’opposizione francese e tedesca ad un ritorno dell’ONU come semplice banchiere e fornitore di carne da cannone, senza tenere le leve del comando, la tensione sale nuovamente tra le principali potenze imperialiste.
Gli attentati contro i soldati o quelli che colpiscono personalità inclini ad una cooperazione con la Casa Bianca sono destinati a far salire la pressione contro “l’invasore yankee”. Le difficoltà attuali degli Stati Uniti incoraggiano naturalmente tutti i raggruppamenti, che agiscono sul posto o nei paesi vicini, ostili alla presenza americana. L’attentato contro un dignitario sciita moderato il 9 agosto a Nadjaf, con i suoi 82 morti e 230 feriti, è un colpo supplementare alla credibilità della borghesia americana per quanto riguarda la sua capacità ad attuare una soluzione politica in Iraq. Questo attentato fa essenzialmente il gioco delle potenze rivali degli Stati Uniti, senza che queste ne siano necessariamente i mandanti.
Tutti gli atti terroristici in Iraq non sono tuttavia diretti contro gli interessi americani come ha dimostrato l’attentato contro la sede dell’ONU a Bagdad il 12 agosto che ha ucciso più di venti persone, tra cui il rappresentante speciale in Iraq del segretario generale dell’ONU, grande amico della Francia (le sue guardie del corpo erano tutte francesi ed elementi riportati dai media mostrano che egli era particolarmente preso di mira). Questo attentato fa gli interessi degli Stati Uniti per diversi aspetti. Benché costituisca una prova supplementare della loro incapacità a mantenere l’ordine in questo paese, esso alimenta tuttavia la loro propaganda secondo la quale “é in Iraq che si combatte il terrorismo internazionale che, come si vede, non è diretto unicamente contro gli interessi americani”. Esso costituisce anche un pretesto per fare pressione sulle grandi democrazie, rivali degli Stati Uniti, affinché si prendano le loro responsabilità e s’impegnino nella causa di pacificazione e di edificazione dell’Iraq democratica. Non è certamente una coincidenza se questo attentato giunge quando la Gran Bretagna e gli Stati uniti miravano a fare assumere a più membri della “comunità internazionale” il peso militare ed economico della situazione in Iraq. Tuttavia, la Francia e la Germania hanno potuto ribaltare a loro vantaggio l’attentato invocando l’impossibilità dell’ONU di prendere una parte attiva sul terreno umanitario in Iraq senza essere associati alla direzione degli affari di questo paese che permetta loro di garantire la sicurezza del proprio personale. Questo è il significato dell’arringa fatta la settimana seguente l’attentato dal ministro degli affari esteri francesi, de Villepin, “per una soluzione politica” in Iraq, ripresa con forza da Chirac che ha chiesto dinanzi a 200 ambasciatori “il trasferimento del potere…agli stessi Iracheni” ed l’attuazione “di un processo a cui solo le Nazioni Unite sono in grado di dare tutta la sua legittimità”, il tutto arricchito dalla denuncia del “l’unilateralismo”, e cioè degli Stati Uniti.
Le contraddizioni a cui è sottoposta la borghesia americana non risparmiano la borghesia britannica, tanto più allarmata per il fatto che essa ha poco da guadagnare in quest’alleanza con lo Zio Sam. Le peripezie intorno alla morte di David Kelly, uno dei principali consiglieri dell’ONU per le questioni sulle Armi di Distruzione di Massa irachene, esprimono l’esistenza di un disaccordo di frazioni significative della borghesia inglese con la politica perseguita da Tony Blair.
Territori palestinesi: i piani americani hanno fatto cilecca
Accanto al pantano iracheno, Washington deve far fronte ad una situazione endemica che perdura e s’aggrava da decenni, il conflitto israelo-palestinese. Nessuno dei piani di pace americani ha potuto fino ad allora venirne a capo. Era tuttavia urgente e della massima importanza che gli Stati Uniti eliminassero un focolaio di tensione in grado di cristallizzare nei confronti di Israele e di se stessi l’ostilità del mondo arabo. Il famoso “foglio di via” di cui l’amministrazione Bush è all’origine è stato il segno della determinazione di Washington a costringere Israele a fare delle concessioni significative. In questo caso non si è trattato più di trattative tra Israele e l’Autorità palestinese come all’epoca degli accordi di Oslo inaugurati da Clinton nel 1993, ma di una ingiunzione della Casa Bianca affinché Israele non ponesse più ostacoli alla creazione di uno stato palestinese. Rispetto al campo palestinese avverso, sono stati impiegati gli stessi metodi autoritari per eliminare tutto ciò che sembrava costituire un ostacolo alla soluzione finale. Per questo Arafat, fino ad ora un buon alleato degli Stati Uniti nella messa in opera del processo di pace, è stato messo da parte a favore del suo rivale Mahmoud Abbas. Malgrado la pressione di Bush, Sharon, fingendo di accettare le diverse tregue, ha continuato la sua politica di apertura dei territori palestinesi ai coloni israeliani, di incursioni sanguinarie nei territori occupati e di uccisione di capi di Hamas e della Jiihad islamica. Queste organizzazioni intanto aspettavano solo le provocazioni dello Stato israeliano per perpetrare una nuova serie di attentati contro israeliani.
Il “foglio di via” é riuscito per un certo tempo ad abbassare la tensione, ma il nuovo incendio attuale segna il suo fallimento. Di fronte alla situazione di debolezza della diplomazia degli Stati Uniti, Arafat fa un tentativo di ritorno sulla scena presentandosi come un attore inevitabile della pace con Israele. Alle difficoltà crescenti della Casa Bianca in Iraq fa eco la sua impotenza ad influire sul conflitto israelo-palestinese.
Alla vigilia del secondo anniversario dell’attentato contro le Twin Towers e del terzo anniversario dell’Intifada in Palestina, la prospettiva che offre il capitalismo, tanto alle popolazioni delle regioni annientate dalle guerre, sottomesse al terrore ed ad una miseria indicibile, che all’insieme del pianeta, è sempre più caos, sempre più orrori e massacri.
Mulan (30 agosto)
L’indecenza, l’assenza totale di pudore che caratterizzano le campagne dei media della borghesia, hanno raggiunto questa volta il massimo. Con cinismo la borghesia da spettacolo della sofferenza e della solitudine dei vecchi, il dolore dei parenti piangenti, ma cade nel macabro più abietto saturando fino alla nausea gli spettatori con le immagini dei becchini che si attivano nei cimiteri o di custodie di plastica e di bare allineate sotto i neon dei locali frigo del mercato di Rungis requisiti e trasformati in sala mortuaria per la circostanza, come se si trattasse di bestiame appena abbattuto: ci viene mostrata con compiacenza l’organizzazione del “deposito” prima dell’inumazione, ed il trasporto dei corpi con i camion frigo; e per “l’ambiente” per poco non viene evocato l’odore dei cadaveri! E’ ripugnante.
Queste scene dei “bodybags” che la borghesia non sa dove ammassare, le camere degli ospedali strapiene, con un personale estenuato che riconosce la sua impotenza, pazienti a dozzine sulle barelle nei corridoi o distesi per terra, che aspettano ore e ore che qualcuno si occupi di loro, danno tutta la dimensione della decomposizione del capitalismo, di una società che sta andando in brandelli e che, sempre di più, scherza con la morte. La borghesia ha ripetuto il solito ritornello della “fatalità della catastrofe naturale, eccezionale ed imprevista”. Da Raffarin a Kouchner, ci viene ripetuto continuamente che “il governo non è responsabile del tempo che fa”. Giustamente, sempre di più studi scientifici stabiliscono che, per la prima volta nella storia, l’umanità (leggere il sistema capitalista in decadenza e l’anarchia distruttrice della sua produzione basata sulla ricerca a qualsiasi costo del profitto) influenza l’evoluzione globale del clima ed è responsabile di un aumento della temperatura climatica, definita “arma di distruzione di massa” da uno specialista inglese. Già “la ripetitività e l’intensità dei fenomeni climatici estremi producono una sfrenata baraonda sull’insieme dei continenti e degli oceani. (…) Caldo torrido ed inondazioni si succedono, tempeste e siccità si combinano. L’alternanza ravvicinata di catastrofi dette naturali provoca una aspirale di squilibri. Il numeri delle vittime silenziose ed anonime si accresce. I danni sull’ecosistema planetario s’intensificano” (1). In avvenire, “le ondate di calore saranno più frequenti, più intense e i record di temperature non dovranno più attendere cento anni per essere superati” (2). Ricercatori americani prevedono “un 21° secolo caratterizzato da variazioni estreme di temperature e di precipitazioni. In altri termini, all’ondata di calore ed alla siccità che attualmente conosce la Francia ed i suoi vicini, si alterneranno periodi di ondate fredde e d’inondazioni” (2). Le popolazioni dell’Europa occidentale sono condannate dal capitalismo ad essere sempre più esposte in avvenire agli effetti del “disordine climatico maggiore che si accelera e si generalizza” (1) attraverso la ripetizione dei fenomeni di cui esse sono ormai regolarmente vittime, come per la tempesta del 1999 in Francia, per le inondazioni catastrofiche dell’inverno 2002 in Germania ed in Francia 2001, gli allagamenti ed i fiumi di fango in Italia negli ultimi anni, così come quest’afa dell’estate 2003.
Il responsabile di questo disastro attuale è il sistema capitalista. E’ lo stesso capitalismo che ha preparato questo cocktail esplosivo del disordine climatico, associato ai picchi di inquinamento d’ozono, che battono tutti i record storici a Parigi, e che, con l’aggiunta della povertà di parti sempre più importanti della popolazione (principalmente pensionati) e della politica di riduzione drastica dei costi della salute, ha dato come risultato quest’ecatombe senza precedenti. Nonostante il ritardo con cui si è mosso, aspettando la moltiplicazione dei decessi, definiti all’inizio come “morti naturali”, prima di attuare “il piano bianco” per far fronte alla situazione, il governo si è messo fuori causa. Prima ci ha raccontato che lo Stato non ha dato prova di sottostimare il problema perché “per sottostimare, bisogna essere avvertiti, ora questa afa non era prevedibile” (3). Poi, per nascondere la propria responsabilità si è messo alla ricerca di un capro espiatorio. In modo completamente infamante se l’è presa con gli stessi vecchi: il ministro della salute è arrivato a giustificare l’insuccesso delle campagne di prevenzione del governo contro il caldo, non con la quasi inesistenza dei mezzi messi in opera, ma…con la scarsa memoria dei vecchi(!) incapaci di ricordare dopo qualche giorno le prescrizioni sanitarie appropriate!
Ma soprattutto, la borghesia ha scatenato una vera e propria campagna di colpevolizzazione del personale ospedaliero e delle famiglie utilizzando argomenti scandalosi Affermando che “dato che un tale caldo è sopraggiunto in un momento dell’anno in cui gli effettivi negli ospedali sono più deboli, non potevamo aspettarci che conseguenze drammatiche” (J.F. Copé, porta parole del governo) (2), si punta il dito sul personale degli ospedali, e sia fa cadere una parte di responsabilità su questi immemori della loro missione, che preferiscono beneficiare dei sedicenti vantaggi concessi dalle 35 ore, andandosene al mare, piuttosto che assicurare il loro dovere di servizio pubblico nel momento in cui si ha più bisogno di loro! Quanto alle famiglie, non solo sono colpevoli perché si sono prese delle vacanze, “nell’indifferenza del loro modo di vita egoista” lasciando al loro destino i loro vecchi parenti isolati, incapaci di dare l’allarme in caso di necessità! Ma sono anche accusate direttamente di negligenza ed di abbandono dell’obbligo di presa in carico dei vecchi! E per meglio rafforzare il concetto si rincara la dose attraverso tutto lo scalpore, immagini all’appoggio, intorno ai cadaveri scoperti in casa da vicini dopo giorni dal decesso e i 300 corpi che nessuno reclama nei frigoriferi di Rungis e d’Ivry. Veramente nauseante!
Inoltre con lacrime di coccodrillo versate su questo dramma, la borghesia ci gratifica con il tumulto dei suoi battibecchi. Sinistra e destra fanno cadere la responsabilità di queste migliaia di morti sulla cattiva gestione del sistema della sanità… ma dei governi precedenti. Alcuni, come i Verdi (che radicali!) esigono anche le dimissioni del ministro della salute per incompetenza! Che ipocrisia!
Sinistra e destra sono complici nel tacere e nel dissimulare che lo stato di precarietà sociale e sanitaria in cui si trova una parte sempre più ampia di proletari - proprio come l’incapacità degli ospedali a far fronte alla situazione per la carenza di letti, di medici e di infermieri - è il risultato della loro politica, e ogni frazione ne è complice. La politica di una classe dominante strangolata dalla crisi economica insolubile, pronta ad ogni sacrificio sull’altare del profitto, e che dagli anni di Mitterrand e dell’istituzione del prezzo forfettario ospedaliero da parte del “compagno” ministro Ralite del PCF nel 1983, ha fatto della riduzione delle spese per la sanità un’ossessione costante ed il leitmotiv della sua azione. Sinistra e destra hanno mostrato la stessa determinazione e la stessa costanza nell’applicazione di misure di restrizione budgetarie, di compressione del personale, di soppressione di letti, di soppressione di servizi interi e di ospedali; misure volta per volta iniziate dagli uni, allargate ed estese dagli altri man mano che si succedevano al governo.
L’Istituto Nazionale di Vigilanza Sanitaria, creato dalla sinistra, ed il suo “dispositivo d’allarme sanitario” come l’applicazione del sacrosanto “principio di prevenzione” si sono mostrati completamente inoperanti e si sono rivelati per quello che sono: fumo negli occhi.
Le vittime delle precedenti ondate di caldo (2000 nel 1976 e 5000 nel 1983) sono state accuratamente nascoste. Al contrario oggi. Tutta la pubblicità dei media attuale contribuisce a tentativo di abituare la classe operaia all’idea che tutto questo è e sarà in futuro “normale ed “ineluttabile”.
Le migliaia di vittime si contano in maggioranza tra le persone anziane, ma anche tra gli handicappati ed i “senza fissa dimora” morti di sete nelle strade. Cioè tra quelli che il capitalismo condanna ad un’emarginazione ed ad una miseria sempre più grande; bocche improduttive, diventate ai suoi occhi inutili, ed il cui peso aumenta sempre di più per la borghesia costantemente alla ricerca del loro mantenimento a minor costo. E’ per questo che l’APA (Aiuto personalizzato d’autonomia) il cui scopo è d’aiutare le persone anziane, a domicilio o in casa di riposo, e finanziare le spese (non mediche) legate alla perdita di autonomia, s’è vista amputata di 400milioni d’euro principalmente a detrimento delle persone anziane che vivono a domicilio. Così come lo stanziamento di 180 milioni d’euro previsti dalla Sicurezza sociale nel 2003 per migliorare le condizioni d’accoglienza e la qualità delle cure nelle 10.000 case di riposo è stato ridotto a 100 milioni di euro e su questi, solo 30 milioni appena rappresentano una reale spesa assicurazione-malattia. L’applicazione della riforma delle pensioni che si traduce con una perdita dal 15% al 50% del potere d’acquisto delle pensioni, rappresenta una nuova tappa negli attacchi antioperai ed insieme allo smantellamento della sicurezza sociale, cominciato attraverso l’annuncio di centinaia di medicine che non saranno rimborsate e di cure più onerose, illustra il fallimento del sistema capitalista che diventa incapace di integrare nella produzione la forza lavoro e scarta dopo decenni di sfruttamento fino al midollo quelli da cui non può trarre nessun profitto, come appunto i vecchi.
L’ecatombe attuale, degna delle catastrofi del terzo mondo, mostra che le popolazioni occidentali dei paesi sviluppati, non sono e soprattutto non saranno affatto risparmiate dagli effetti della decomposizione del sistema capitalista. La vera calamità è il capitalismo e la dominazione della classe borghese.
Scott
1. Le Monde del 9 agosto.
2. Le Monde del 16 agosto.
3. Le Monde del 15 agosto.
La CCI ha tenuto una riunione a Milano, il 26 giugno, su invito della Giovane Talpa (1) sulla nostra teoria della decadenza del sistema capitalista. Alla riunione hanno partecipato anche altri compagni in contatto con la Giovane Talpa e con la CCI. Noi abbiamo dato un caloroso benvenuto a questa opportunità di discutere una questione che è d'importanza cardinale nel capire l’attuale periodo storico e le condizioni per la lotta al rovesciamento del sistema di produzione esistente. Come uno dei partecipanti alla riunione ha detto: “per un marxista il concetto di decadenza è fondamentale, altrimenti si potrebbe pensare che il capitalismo è un sistema progressivo. Il capitalismo non può far funzionare il mondo, un comunista deve credere per forza alla decadenza altrimenti come pensiamo a distruggerli?”
Infatti, come la nostra introduzione alla riunione ha mostrato, la teoria marxista della decadenza è la chiave per capire l'evoluzione della società umana attraverso lo sviluppo delle forze produttive ed il cambiamento che questo sviluppo comporta nelle relazioni di produzione. I sistemi sociali non sono eterni: così come la schiavitù, il dispotismo asiatico, il feudalesimo sono sorti come forme sociali e sono declinati e morti, così anche il capitalismo è condannato a morire. Questo sistema ha svolto per un periodo un ruolo storico nello sviluppo delle forze produttive, ma raggiunto il massimo del suo sviluppo è entrato nella sua fase decadente in cui è divenuto un ostacolo per quelle stesse forze e ha da offrire all’umanità solamente crisi, disoccupazione di massa, guerra, disastri ambientali, fallimento economico, sociale e politico. È la decadenza del capitalismo come sistema sociale che produce le condizioni per la rivoluzione proletaria, che dà il quadro per capire quali sono le armi della lotta rivoluzionaria e come i rivoluzionari devono intervenire per spingere in avanti all'interno del proletariato lo sviluppo della coscienza del proprio ruolo storico. Poiché un’analisi rigorosa delle conseguenze di un cambiamento di periodo storico è necessaria per arrivare ad una chiarezza politica sulla prospettiva che abbiamo di fronte, la nostra presentazione si è poi focalizzata sulle principali implicazioni politiche della decadenza del capitalismo.
Il diciannovesimo secolo ha visto la formazione di nazioni borghesi in Europa -ad esempio l'unificazione dell’Italia o la creazione della Germania - ed è stato anche un periodo che ha visto l'espansione a livello internazionale del sistema capitalista attraverso le conquiste coloniali - per esempio quelle sui continenti americano ed africano - che aprirono la via alla creazione di stati indipendenti in queste zone, meglio caratterizzati dalla guerra d'indipendenza americana. I rivoluzionari dell’epoca sostennero quei movimenti che erano progressivi in quanto facevano parte dello sviluppo e dell’estensione del capitalismo, e pertanto favorivano la maturazione delle condizioni per la rivoluzione proletaria. Ma la possibilità per la classe lavoratrice di sostenere certe fazioni della borghesia finì all'inizio del 20° secolo con la fine del ruolo progressivo del capitalismo. La prima guerra mondiale e l'ondata rivoluzionaria che ha posto termine ad essa hanno segnato l'entrata della società nel periodo di guerra o rivoluzione; i movimenti nazionalisti persero il loro carattere progressivo e divennero nient’altro che pedine nella lotta imperialista tra stati capitalisti per ridividere le sfere d’influenza mondiale. Non era più possibile per la classe operaia ottenere riforme durevoli da un sistema che ora era in crisi permanente, mentre le condizioni obiettive divenivano mature per la lotta rivoluzionaria. Questo comportò un cambiamento nella natura e nei mezzi della lotta; la tendenza verso lo sciopero di massa sostituì la divisione tra la lotta politica e la lotta economica; il parlamento non poteva più servire come foro per migliorare la situazione della classe operaia all'interno del capitalismo; i sindacati, che erano serviti alla classe nella sua lotta per le riforme nel 19° secolo, divennero un’arma del nemico, mentre la lotta di massa in Russia nel 1905 e nel 1917 portò alla creazione di nuovi organi, i soviet, che erano conformi alle necessità della lotta nel nuovo periodo (2).
Nella discussione che ha avuto luogo sulla base della presentazione, ci sono state due critiche principali alla nostra posizione sulla decadenza.
La prima è che l’impostazione teorica della CCI è stata costruita su di un singolo aspetto (quello economico), su cui sono stati messi altri aspetti, e questo diventa il quadro per spiegare tutti gli avvenimenti mondiali, e che Marx invece era molto più aperto. Questo solleva un problema di fondo: qual è il quadro per capire la realtà sociale, qual è il metodo marxista? L’importanza della visione sviluppata da Marx ed Engels sta nell’identificare nello sviluppo delle forze produttive il motore dell’evoluzione sociale.
"Nella produzione sociale della propria esistenza, gli uomini allacciano dei rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà; questi rapporti di produzione corrispondono allo stadio dato dallo sviluppo delle loro forze produttive materiali. L'insieme di questi rapporti formano la struttura economica della società, il fondamento reale su cui si eleva un edificio giuridico e politico ed a cui corrispondono delle forme determinate della coscienza sociale. Il modo di produzione della vita materiale domina in generale lo sviluppo della vita sociale, politica ed intellettuale. Non è la coscienza degli uomini che determina la loro esistenza, è al contrario la loro esistenza sociale che determina la loro coscienza.
Ad un certo grado del loro sviluppo le forze produttive della società entrano in collisione con i rapporti produttivi esistenti, o con i rapporti di proprietà in seno ai quali esse si erano mosse fino ad allora, e che non ne sono che l'espressione giuridica. Ieri ancora forme di sviluppo delle forze produttive, queste condizioni si trasformano in pesanti ostacoli. Comincia allora un'era di rivoluzione sociale.
Il cambiamento dei fondamenti economici si accompagna ad un rivolgimento più o meno rapido in tutto questo enorme edificio. Quando si considerano questi rivolgimenti, bisogna sempre distinguere due ordini di cose. Esiste il rivolgimento materiale delle condizioni di produzione economiche. Bisogna constatarlo con lo spirito di rigore delle scienze naturali. Ma ci sono anche le forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche, filosofiche; in breve, le forme ideologiche all'interno delle quali gli uomini prendono coscienza di questo conflitto e lo portano fino all'ultimo grado. Non si giudica un individuo per l'idea che egli ha di se stesso. Non si giudica un'epoca di rivoluzioni per la coscienza che essa ha di se stessa. Questa coscienza si esplicherà piuttosto sulla base delle contraddizioni della vita materiale, sulla base del conflitto che oppone le forze produttive sociali e i rapporti di produzione.
Giammai una società muore prima di aver sviluppato tutte le forze produttive che essa può contenere; giammai dei rapporti di produzione superiori si instaurano, prima che le condizioni materiali della loro esistenza siano apparse nel seno stesso della vecchia società.
L'umanità non si pone che i problemi che può risolvere; perché, considerando la questione più da vicino, si trova sempre che il problema stesso sorge solo quando già esistono o sono almeno in processo di formazione le condizioni materiali per la sua soluzione.
In grandi linee, i modi di produzione asiatico, antico, feudale e borghese moderno appaiano come epoche progressive della formazione economica della società." (3)
Questo descrive precisamente e succintamente la visione materialista storica dell'evoluzione sociale e le condizioni che generano una situazione rivoluzionaria ed è la base da cui il successivo movimento operaio sviluppò una comprensione del cambiamento di periodo quando si confrontò direttamente con esso nel 1914. La prima guerra mondiale ha visto il tradimento dei partiti socialisti all'interno della Seconda Internazionale quando questi difesero gli interessi delle loro borghesie nazionali nella guerra imperialista contro il ruolo storico del proletariato. Però la sinistra difese una posizione internazionalista contro la guerra e sviluppò una discussione sul significato della fase imperialista nella vita del capitalismo, sull'impossibilità di difendere il nazionalismo borghese ed il significato della rivoluzione russa come la presa del potere da parte del proletariato in un periodo in cui la rivoluzione comunista era finalmente all’ordine del giorno della storia.
La dichiarazione dell’Internazionale Comunista nel 1919 che il capitalismo era entrato in un periodo di guerra o rivoluzione era una concretizzazione della visione di Marx che i rapporti sociali di produzione, quando entrano in conflitto con lo sviluppo delle forze produttive, segnano la crisi finale della vecchia società e producono le condizioni obiettive per una situazione rivoluzionaria. Ma furono soprattutto Bilan e la GCF (Sinistra Comunista Francese) a tirare le lezioni dalla sconfitta dell'ondata rivoluzionaria e analizzare le implicazioni del cambio di periodo per la lotta della classe operaia e l'intervento dei rivoluzionari.
Questo è il metodo che segue la CCI, l’unico capace di identificare l'agente rivoluzionario al centro del sistema capitalista, il proletariato. L'idea secondo la quale dobbiamo essere più 'aperti', che non tutto dipende dal concetto di decadenza, significa togliere dal quadro la coerenza e il rigore del metodo marxista e cadere in una visione empirica della realtà, concepita come una serie di fenomeni distaccati, senza una coesione interna se non la soggettività dell'individuo. E’ per certi versi strano che una tale critica venga proprio dalla Giovane Talpa che ha risposto all'ultima guerra del Golfo producendo un opuscolo, con la ristampa di tre testi del movimento operaio che prendono una posizione internazionalista sulla guerra, e un'introduzione che intende fare un bilancio generale e storico della situazione attuale del capitalismo per spiegare le ragioni dell'attacco all'Iraq. Quali che siano i disaccordi che possiamo avere su punti specifici dell'opuscolo, il metodo e l’approccio è quello che difendiamo: risalire alla storia del movimento operaio, non limitare l'analisi ad un'interpretazione dell'evento in sé ma situarlo nel contesto della situazione sociale e globale.
La seconda obiezione sollevata nella discussione è che è sbagliato datare l’inizio della decadenza dal 1914 perché c'è stato uno sviluppo delle forze produttive anche dopo la seconda guerra mondiale. Diversi elementi sono stati portati dai compagni che difendono questa posizione: la seconda guerra mondiale ha prodotto scoperte tecnologiche e scientifiche poi applicate in campo industriale; dagli anni ’50 agli anni ’80 ci sono stati miglioramenti delle condizioni di vita dei lavoratori, se non in ogni parte del mondo, almeno nei paesi centrali del capitalismo; solo dopo la seconda guerra mondiale i paesi africani guadagnarono l'indipendenza; in Cina nel 1949 c'è stata non una rivoluzione proletaria ma una rivoluzione democratico borghese.
Anche qui è necessario capire ogni singolo fenomeno individuale nel contesto della situazione generale. Non possiamo riportare qui per esteso le risposte che sono stata date dalla CCI, né possiamo sviluppare ogni singola questione, ma vogliamo brevemente ricordare quali sono stati gli elementi da noi portati per un’ulteriore riflessione.
Innanzitutto, quando diciamo che il capitalismo è decadente, non diciamo che lo sviluppo delle forze produttive si ferma completamente, che non c’è nessuno sviluppo tecnologico, ma piuttosto che lo sviluppo tende ad essere un fattore che aggrava le crisi economiche nel contesto della disoccupazione crescente, al posto di aprire la possibilità di un nuovo ciclo economico e l’integrazione di più operai nella produzione. In questo contesto, “l’indipendenza” accordata agli stati africani nella seconda metà del 20° secolo, non ha aperto una prospettiva di sviluppo dell'infrastruttura e la formazione di stati moderni. Essa è servita semplicemente a sanare una situazione residua del periodo coloniale, che è stato un’espressione dell’espansione capitalista dal centro alla periferia nella fase ascendente, ma non è più la forma appropriata di dominio nell’epoca imperialista, durante la quale il controllo viene esercitato attraverso il capitale finanziario. Del resto questi nuovi stati “indipendenti” sono stati integrati fin dall'inizio in uno dei due blocchi imperialisti allora esistenti; le affiliazioni possono cambiare a seconda dei periodi e delle situazioni, ma il gioco è sempre lo stesso. E questo gioco imperialista è un’espressione della decadenza capitalista in cui la guerra è il modo di vita del sistema moribondo.
L’ascesa di Mao Tse Tung nella Cina del secondo dopoguerra non è stata l'ultima delle rivoluzioni democratiche borghesi, ma un tentativo di rendere più adatto questo paese, arretrato e rurale, alla sopravvivenza in una situazione di crisi economica globale e permanente. Non una rivoluzione borghese quindi, ma un fattore della tendenza generale verso il capitalismo di stato, forma più idonea a controllare la crisi attraverso il diretto intervento dello Stato nella vita economica di una nazione. Questa tendenza è caratteristica del periodo decadente, non solo in Russia ma, in forme diverse, anche nei regimi più sviluppati dell’Europa occidentale, negli Stati Uniti ed in ogni paese del mondo.
Ugualmente, anche se la classe operaia non può ottenere miglioramenti reali e durevoli, e la situazione oggi mostra un declino senza precedenti delle condizioni di vita, a livello di disoccupazione, intensificazione dello sfruttamento, tagli al salario sociale, questo non significa che non ci possano essere stati guadagni temporanei e relativi. I miglioramenti tra gli anni ’50 e ’80 menzionati alla riunione (ed in verità dovrebbe essere considerato un periodo più breve), sono stati una conseguenza della ricostruzione dopo la guerra, un palliativo momentaneo della crisi mortale del capitalismo.
Questa riunione con la Giovane Talpa chiaramente non si è conclusa con un accordo completo con l’analisi della CCI sulla decadenza. E non poteva che essere così perché questa è una questione complessa, che richiede molte discussioni e riflessioni per farne emergere tutte le implicazioni. Ciononostante questa riunione è stato un momento politico importante perché è stata animata da uno spirito costruttivo di confronto, da un reale interesse a discutere, esprimendo critiche, dubbi, posizioni diverse, per arrivare ad una chiarificazione politica al fine di poter meglio contribuire alla maturazione dello scontro tra le classi. E’ stata quindi una riunione che ha confermato l'importanza del dibattito aperto tra quegli elementi e quelle forze che si situano sul terreno della missione storica del proletariato ed ha confermato il bisogno di riappropriarsi della storia del movimento operaio in modo critico e profondo per rafforzare il movimento di oggi e di domani. In questo senso ripetiamo l'appello fatto alla fine della riunione stessa, di continuare il dibattito per iscritto ed attraverso altre riunioni; sviluppare le critiche con lo scopo di partecipare al lavoro essenziale di rafforzare una coerenza rivoluzionaria che possa rispondere in maniera decisiva alla necessità storica aperta dalla bancarotta del sistema capitalista: la rivoluzione della classe operaia.
AS
1. La Giovane Talpa è un collettivo editoriale a carattere aperto. Vedi il loro sito internet: www.giovanetalpa.net [12]
2. Per la posizione della CCI sulla decadenza, vedi l’opuscolo “La decadenza del capitalismo” e altri articoli nella Rivista Internazionale (in inglese, francese, spagnolo)
3. Marx, “Prefazione alla Critica dell’economia politica”
1.
La manifestazione nazionale a Roma contro la modifica dell’articolo 18
dello statuto dei lavoratori viene oscurata dall’agguato mortale contro
il prof. Marco Biagi, consulente del governo su questioni di diritto
del lavoro, avvenuto due giorni prima ad opera di una sedicente
organizzazione comunista combattente;
2. La manifestazione del 24 ottobre 2003 contro l’ulteriore riforma del
regime pensionistico viene anch’essa condizionata dalla notizia,
diffusa cronometricamente nella stessa mattinata, secondo cui una
retata effettuata nelle ore precedenti aveva messo al sicuro una folta
banda di brigatisti responsabili del suddetto delitto ed altro ancora.
Noi non siamo esperti criminologi e certamente tutto si può dire di noi tranne che possiamo avere delle simpatie per il terrorismo, in qualunque forma esso sia portato avanti. Certo è singolare questa coincidenza di eventi. Ma si può veramente parlare di coincidenza, quando si sa bene che queste operazioni non sono mai il frutto del caso ma l’espressione di un lungo, meticoloso e paziente lavoro di preparazione, sia da parte delle BR, per gli attentati, che da quella dello Stato, per le retate? Quello che appare invece come la più logica conclusione è che sia le BR che lo Stato usino coscientemente le manifestazioni di massa per avere un’eco al loro interno, per fare di queste degli amplificatori dei loro messaggi. Insomma sembra esserci un reciproco e parallelo gioco egemonico sulla pelle dei lavoratori attraverso la ricerca delle occasioni di maggiore mobilitazione e sensibilità per galvanizzare e orientare il movimento in un senso o in un altro. Naturalmente non bisogna neanche scartare l’ipotesi che alcuni morti di terrorismo siano stati lasciati morire dallo Stato, che su questo piano ha una lunga e consolidata esperienza (vedi caso Moro). Un morto come Biagi alla vigilia di una grande manifestazione operaia ha evidentemente un forte impatto, creando un clima di terrore che tende a raffreddare gli animi e le pretese dei manifestanti e fornendo peraltro la stura ai sindacalisti di turno per infiorettare ricchi discorsi sulla democrazia e il rispetto delle istituzioni.
Ciò detto, bisogna ancora stare attenti a non credere che, in conseguenza di quanto detto sopra, il terrorismo costituisca una politica adeguata per combattere i mali di questa società solo perché le BR professano di essere contro lo Stato. In realtà, come abbiamo più volte affermato, il terrorismo è solo la reazione impotente di strati di piccola borghesia, che evidentemente può guadagnare influenza anche nei ranghi proletari, tanto più in questa fase di decomposizione e di difficoltà nell’intravedere una chiara prospettiva per la lotta di classe e un domani migliore. Il terrorismo è intrinsecamente antioperaio nella misura in cui tende a erodere quelle che sono le principali armi del proletariato, la sua unità e la sua coscienza. Infatti la sua azione - necessariamente clandestina e segreta - richiede che una minoranza, agente per piccoli gruppi uniti solo da persone di fiducia, agisca di fatto in nome e per conto della classe operaia. Questo significa dare per scontato, a priori, che la direzione del processo di emancipazione resti in mano ad un pugno di militanti (nel caso italiano, le BR appunto) e che la classe si debba associare per “fede”. Ma la rivoluzione proletaria non è un processo che può portare avanti una classe senza convinzione, senza chiarezza di quello che fa. Questo è potuto accadere solo nelle rivoluzioni precedenti, ed in particolare nella rivoluzione francese dove la plebe, al comando di una ristretta schiera di politici borghesi, ha materialmente portato avanti il processo rivoluzionario. Ma in quel caso la plebe poteva rimanere in uno stato di semicoscienza di quello che andava a fare perché la borghesia, per conto della quale quella rivoluzione si stava compiendo, aveva già delle solide basi economiche nella società e aveva solo bisogno di suggellare questo dominio con la conquista del potere politico. Il quadro di oggi è completamente diverso: non potendo la classe operaia contare su alcun punto di forza all’interno di questa società, può fare appello solo alla sua unità e alla sua coscienza. Ed è in questo senso che le azioni del brigatismo sono in netta contraddizione con la natura rivoluzionaria della classe operaia e finiscono per disorientarla e scoraggiarla ogni volta che si manifestano.
D’altra parte a livello di posizioni politiche, cosa suggeriscono i terroristi di oggi? A sentire le dichiarazioni della militante brigatista Lioce, i proletari dovrebbero stare a osannare i vari Saddam Hussein, gli Osama Bin Laden, per il fatto che stanno riuscendo a mettere a dura prova l’imperialismo americano. E sia pure. Ma esiste un solo imperialismo nel mondo? E forse che abbattutone uno, tutti gli altri se ne cadono da soli? Oppure, come è molto più ragionevole che sia, tutti gli altri profittano della situazione per rafforzarsi? Allora questi brigatisti per chi fanno il tifo, per qualche imperialismo minore con cui la classe operaia si dovrebbe alleare? E per fare questo il proletariato occidentale dovrebbe chiudere gli occhi su tutte le migliaia di proletari che sono vittime inconsapevoli della maggior parte di questi attentati internazionali? La conclusione evidente è che, al di là della buona volontà di chicchessia, lo Stato da una parte e le organizzazioni terroriste dall’altra, partecipano ad una stessa operazione di controllo e di mistificazione della classe operaia. I terroristi cercando di spingere gli elementi più determinati in dei vicoli ciechi e disperati; lo Stato cercando di additare il pericolo terrorista come la naturale estensione di una lotta radicale operaia e additando la democrazia e la moderazione come l’ambito naturale all’interno del quale trattare tutte le questioni. La sottolineatura, fatta a più riprese dalle forze di polizia e governative dell’appartenenza ad un sindacato dei (presunti) terroristi arrestati, ha dunque tutto il sapore di una messa in guardia contro i lavoratori: ogni lotta sarà tollerata purché completamente interna alle compatibilità e ai canoni borghesi. Qualunque deragliamento sarà considerato assimilabile ad un atto di terrorismo! In conclusione, da qualunque punto di vista si voglia guardare la situazione, il terrorismo è sempre più un’arma del terrore statale contro i lavoratori.
Ezechiele
23 novembre 2003
Ci volevano 19 morti italiani per fare finalmente uscire fuori che l’Italia è in guerra. E non ci sta da adesso, dopo l’attentato, ma fin da quando la missione è stata decisa, perchè in Iraq non c’è nessun governo locale che ha chiesto l’aiuto di un esercito straniero per difendersi da un nemico interno od esterno (1), ma degli eserciti di occupazione che si sono imposti grazie ad una guerra di aggressione. E poco importa che il contingente italiano non abbia partecipato all’invasione, ma si sia aggiunto dopo. La guerra in Iraq non è mai finita e gli avvenimenti di questi giorni non fanno che confermarlo. E se c’è una guerra, tra chi è se non tra forze irakene (poco importa se minoritarie o no) e gli eserciti di occupazione, ivi comprese le truppe italiane?
Si è così drammaticamente svelata la grossa menzogna sulla missione di “pace” del contingente italiano in Irak. I soldati italiani stanno laggiù per difendere gli interessi imperialisti del capitale italiano. Cioè ci sono per gli stessi motivi dei soldati americani, inglesi, spagnoli,ecc. Non è un caso che in occasione dell’attentato ci sia stata la santa alleanza della maggioranza delle forze politiche, unite nel difendere la menzogna della missione di pace, ed unite nel sostenere che in Iraq bisogna rimanere. Il massimo di distinguo con la maggioranza governativa che ha voluto l’intervento è stata (vedi dichiarazione di D’Alema) la richiesta di una accelerazione del passaggio di consegne del potere a forze irakene, il che è la stessa cosa che sta dicendo in queste settimane l’amministrazione Bush! E quelli che si spingono a chiedere il ritiro delle truppe italiane dall’Iraq lo fanno non perchè denunciano il carattere imperialista dell’intervento, ma per chiedere che sia l’ONU a occuparsi dell’Iraq. Come se l’ONU fosse un organismo al disopra delle parti e non il covo dei briganti imperialisti, come diceva Lenin della precedente Società delle Nazioni, dove prevalgono sempre gli interessi delle nazioni più forti o, se queste sono divise, come è successo proprio nel caso dell’Iraq, l’ONU finisce con l’essere puramente e semplicemente ignorata.
Ma l’aspetto più repellente di questa situazione è l’uso cinico che la borghesia italiana sta facendo dei 19 morti in Iraq. Sfruttando l’emotività legata al numero di morti e alla maniera in cui sono morti, la borghesia cerca di giustificare così a posteriori il proprio intervento, per cui afferma di non volere lasciare l’Iraq perchè questo offenderebbe la memoria dei morti (meglio quindi rischiare di farne altri italiani o irakeni!). E ancora, si è orchestrata tutta una campagna mediatica per cercare di rafforzare il nazionalismo nella popolazione (l’orgoglio per i martiri, gli eroi, e così via). E questo è un obiettivo importante non solo per difendere la presenza in Iraq: in realtà la borghesia italiana sa bene che i sentimenti spontanei della popolazione sono di avversione alla guerra, ad ogni guerra. E l’attentato di Nassirya, poiché svela la situazione di guerra che c’è laggiù, rischia di rafforzare ancora di più questo sentimento, con la conseguenza che l’opposizione popolare agli interventi italiani nel mondo potrebbe crescere, il che metterebbe a rischio non solo la missione in Iraq, ma anche quella in Afghanistan e nelle decine di paesi in cui c’è una presenza militare italiana per affermare gli interessi imperialisti del capitale nazionale (2).
Ma forse c’è di peggio: i servizi segreti hanno rivelato di aver riferito la forte probabilità dell’attentato, indicando anche le modalità con cui sarebbe avvenuto (camion imbottiti di esplosivo) e il periodo probabile (la prima decade di novembre). Ciononostante nessuna ulteriore protezione era stata posta davanti alla caserma dei carabinieri a Nassirya, quando bastava porre qualche barriera al passaggio veicolare e le conseguenze dell’attentato sarebbero state molto minori. C’è quindi da chiedersi: erano così ottusi i politici e i militari italiani da credere loro stessi alla favola dell’operazione di “pace” e quindi sull’inesistenza di pericoli importanti? O chi sapeva ha lasciato che le cose avvenissero lo stesso per calcolo politico? Per quanto orribilmente cinica possa sembrare questa ipotesi noi non possiamo escluderla; già nel passato la borghesia non ha esitato a lasciare avvenire dei disastri per poter giustificare le sua azioni guerriere: gli USA lo fecero lasciando che i giapponesi bombardassero Pearl Harbur anche se lo sapevano, per poter giustificare l’entrata in guerra; gli stessi USA avevano grossi indizi sulla preparazione degli attentati dell’11 settembre 2001, ma non li hanno seguiti, e così hanno potuto lanciare la crociata della guerra al terrorismo con l’invasione dell’Afghanistan prima, e dell’Iraq dopo. Per quanto riguarda la borghesia italiana, abbiamo visto come l’attentato di Nassirya ha costituito l’occasione per giustificare la missione in Iraq e permettere anche a buona parte dell’opposizione di sostenere che in Iraq bisogna restarci.
In ogni caso quello che è certo è che in Iraq i militari italiani stanno effettuando una azione di guerra per consentire all’imperialismo italiano di essere presente in un altro dei punti chiave del pianeta, e se i 19 militari sono morti per mano di terroristi irakeni, la responsabilità principale è di quelli che li hanno mandati laggiù ben sapendo che i rischi di perdite era molto elevato (e lo è diventato sempre di più da alcuni mesi a questa parte). Quello che è certo è che i proletari italiani stanno sopportando da anni il costo economico delle avventure imperialiste della borghesia italiana nel mondo, ed oggi cominciano a pagarle anche con il sangue. E’ questa la realtà che le principali forze politiche, di destra e di sinistra, cercano di nascondere. E’ questa realtà che deve spingere i proletari italiani ad opporsi con le proprie lotte non solo agli attacchi economici, ma a tutta la dinamica di barbarie che il capitalismo in decomposizione ha messo in moto, e che rischia di portare l’umanità intera alla distruzione.
1. In realtà nell’epoca dell’imperialismo, cioè della divisione del mondo in zone di influenza, anche i casi in cui è un governo locale a chiedere aiuto, questo non viene concesso che per difendere gli interessi imperialisti del paese soccorritore, e non certo per scopi umanitari. 2. L’Italia è presente con proprie truppe in: Irak, Serbia, Bosnia, Kossovo, Macedonia, Albania, Afghanistan con più di 8500 uomini, mentre alcune altre decine sono impiegati in altri paesi (Repubblica del 13/11/03).
Quanta indignazione, martedì due dicembre, per lo sciopero degli autoferrotranvieri di Milano. Da destra a sinistra, tutti i politici li hanno condannati, giudicati degli irresponsabili; i sindacati si sono dissociati; i magistrati hanno annunciato inchieste; qualche ministro ha proposto una nuova legge antisciopero.... L’avranno proprio fatta grossa questi, viene da dirsi. Poi si leggono i giornali e si vede che semplicemente gli autoferrotranvieri di Milano hanno scioperato per l’intera giornata, cioè per tre turni, invece che per l’unico turno previsto dai sindacati. Addirittura!!
Per questo sono stati chiamati sovversivi, nemici dei lavoratori che non sono potuti andare al lavoro, minacciati di licenziamenti, di denunce, ecc. Verrebbe da pensare che sono esagerazioni, che tutti questi benpensanti si sono fatti prendere dalla rabbia. No. Questi sanno bene quello che fanno e quello che dicono. Questi sanno bene che i lavoratori che lunedì si sono scocciati del solito sciopero simbolico sindacale ed hanno voluto dare un segno visibile del loro malcontento, sono lavoratori che sono stati costretti a questo dopo sette scioperi inutili, e questo per una richiesta di aumento salariale assolutamente irrisoria, 106 euro al mese, che recupera solo in parte la perdita di potere di acquisto dovuta a una inflazione reale che è ben al di sopra di quella ufficiale (su cui ancora ipocritamente i sindacati vanno a fare i calcoli per la richiesta di aumenti salariali).
Sanno benissimo che questi lavoratori fanno turni massacranti, per uno stipendio che va dagli 850 euro al mese (!!!), per i neoassunti con contratto di formazione lavoro, ai 1300 di quelli che hanno un decennio di anzianità, in una città in cui gli affitti superano i 500 euro al mese, e il pane costa circa 3 euro al chilo. Pur sapendo tutto questo, fanno finta di essere indignati per un momento di lotta che è più che ampiamente giustificato, al punto che l’indignazione dovrebbe essere diretta verso tutti quelli che sono responsabili di questa situazione e verso quelli, sindacati in testa, che non fanno niente per risolvere i problemi che assillano questi lavoratori, come quelli di ogni altro settore. Ed in realtà l’apparente indignazione nasconde la paura che il caso degli autoferrotranvieri di Milano possa essere solo il primo esempio di qualcosa che sta maturando in seno all’insieme della classe operaia. ”.
E questa paura non è infondata, perchè il susseguirsi degli attacchi economici sta facendo crescere sempre di più il malcontento fra i lavoratori, che cominciano a sentire la necessità di fare qualcosa per reagire, qualcosa che vada al di là degli scioperi simbolici del sindacato, che passano sotto silenzio e servono solo a illudere i lavoratori di aver fatto qualcosa. Quello che è successo lunedì 1 dicembre a Milano è semplicemente che questo malcontento ha cominciato a trasformarsi in organizzazione, in riflessione sulla propria condizione e sulla maniera per reagire. Una riflessione nata spontaneamente fra i lavoratori, che ha portato i più giovani e peggio pagati a confrontarsi con i più vecchi che hanno potuto mostrare loro che anche i contratti a tempo indeterminato non consentono di arrivare a fine mese, se si ha una famiglia da portare avanti, cosa che li ha convinti a lottare uniti al di là delle consegne sindacali.
Ed è questa determinazione, questa unità che, ancora più dei danni provocati dallo sciopero, ha colpito e spaventato i vari servitori della borghesia: “Solo così, con la saldatura tra giovani e vecchi si spiega la straordinaria compattezza dello sciopero selvaggio di ieri mattina. Solo così si spiega che non una voce, non un sospetto, non una soffiata sia arrivata ai vertici dell’ATM nel giorni scorsi, quando il passaparola da un deposito all’altro tesseva le fila del colpo di mano. Perchè vecchi e giovani si trovano a condividere la vita quotidiana nel girone dantesco del traffico milanese, (...)” (Repubblica, 2/12/03) E questa solidarietà tra lavoratori che condividono le stesse condizioni di vita e di lavoro, è la stessa che lega tutti noi altri lavoratori agli autoferrotranvieri, come a tutti i lavoratori del mondo intero. Noi che viviamo quotidianamente i disagi legati alle insufficienze dei trasporti urbani (come tutti gli altri disagi economici e sociali che il capitalismo ci provoca) e che perciò sappiamo bene capire che il disagio di lunedì 1 dicembre è addirittura benvenuto se esso rappresenta l’inizio di una ripresa delle lotte operaie.
Una ripresa che comincia a intravedersi un po’ dappertutto nel mondo. Una ripresa che vede i proletari normalmente ancora inquadrati e ingannati dai sindacati, che sono gli agenti sabotatori della borghesia tra le fila dei lavoratori, il che non ci meraviglia e non ci deve spaventare. Più di un decennio di riflusso delle lotte operaie e di riflusso della coscienza della classe hanno consentito ai sindacati di recuperare quella credibilità che avevano perso nei decenni precedenti a causa del loro continuo sabotaggio delle lotte proletarie. La classe operaia ha oggi bisogno di scontrarsi di nuovo con il vero volto del sindacato per cominciare a contestarlo, per cominciare a ricercare una via autonoma per le proprie lotte. Gli autoferrotranvieri di Milano non hanno contestato apertamente il sindacato, lo hanno scavalcato scioperando al di là delle sue consegne, spinti dalla semplice coscienza che solo così potevano dare un po’ di efficacia alla loro lotta.
Ma è proprio questa la dinamica che fa avanzare la coscienza della classe: non una riflessione a tavolino su quello che bisognerebbe fare, ma le esigenze della lotta che indicano la strada da seguire. Non vogliamo entusiasmarci: il caso degli autoferrotranvieri di Milano è solo un episodio, ma un episodio che va nella giusta direzione e un episodio che probabilmente esprime una maturazione profonda che sta avvenendo nel cuore della classe. Ed è per questo che di fronte alla lotta degli autoferrotranvieri noi gridiamo alta e forte la nostra solidarietà, e il nostro disprezzo per quelli che hanno mostrato indignazione ed espresso minacce nei loro confronti.
7 dicembre 2003 Helios
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