In Stato e Rivoluzione Lenin scriveva: “Finché sono vivi i grandi rivoluzionari le classi di oppressori li ricompensano con incessanti persecuzioni: accolgono la loro dottrina con rabbia brutale, odio feroce, con squallide campagne di menzogne e di calunnie. Dopo la loro morte si cerca di farne delle icone inoffensive, di canonizzarli, per così dire, di circondare il loro nome di una certa aureola con lo scopo di “consolare” le classi oppresse e di mistificarli: così si svuota la loro dottrina rivoluzionaria del suo contenuto, la si avvilisce e si smussa il carattere rivoluzionario”. Effettivamente, finché Marx era vivo, la borghesia ha fatto di tutto per impedirgli di agire demonizzandolo, perseguendolo senza sosta con il suo arsenale repressivo[1]. Dopo la sua morte ha fatto di tutto per snaturare la sua lotta tesa a distruggere il capitalismo e permettere l’avvento del comunismo.
L’insieme delle pubblicazioni, delle trasmissioni radio e televisive prodotte in occasione del bicentenario della nascita di Marx non si discosta dalla regola. Molti studiosi accolgono ormai gli apporti di Marx all’economia, alla filosofia o alla sociologia pur presentandolo come un pensatore “fuori dalla realtà”, del tutto “superato” o che si sarebbe completamente sbagliato sul terreno politico. Si tratta, né più né meno, di smussare il suo essere militante rivoluzionario! Uno degli argomenti su cui si pone l’accento oggi è che Marx non sarebbe che “un pensatore del XIX secolo”[2] e che dunque la sua opera non permetterebbe di comprendere l’evoluzione ulteriore del XX e XXI secolo. Una prospettiva rivoluzionaria non avrebbe dunque oggi alcuna validità. Peraltro la classe operaia non esisterebbe più e il suo progetto politico non potrebbe condurre che all’orrore stalinista. Tutto l’aspetto politico dell’opera di Marx sarebbe alla fin dei conti da gettare nella spazzatura della storia.
Ma un aspetto più sottile di questa propaganda afferma che si dovrebbe prendere da Marx il Marx “attuale”, cosa che potrebbe in fin dei conti convalidare la difesa della democrazia, del liberalismo e la critica dell’alienazione. In fondo si tratterebbe di comprendere Marx non come il militante rivoluzionario che egli era, ma come un pensatore che in alcuni aspetti della sua opera permetterebbe di “comprendere” e migliorare un capitalismo che, lasciato da solo, “non regolato” dal controllo dello Stato, genererebbe ineguaglianze e crisi economiche. Nell’ambito borghese la maggior parte preferisce così recuperare Marx presentandolo come un “economista geniale” che avrebbe previsto le crisi del capitalismo, che avrebbe predetto la globalizzazione, l’accrescimento delle diseguaglianze, ecc.
Tra gli incensatori di Marx molti sono suoi sedicenti eredi (dagli stalinisti ai gauchisti e trotskisti) che dopo un secolo continuano a deformare, snaturare e infangare il rivoluzionario Marx trasformandolo, come denunciava giustamente in anticipo Lenin, in icona quasi-religiosa, canonizzandolo, innalzandogli statue. Tutto ciò per presentare, falsamente, come socialismo o comunismo il proseguimento della dominazione del capitalismo nel suo periodo di decadenza attraverso una difesa particolare e incondizionata della forma presa dalla contro-rivoluzione, quella del capitalismo di Stato secondo il modello edificato in URSS, nei paesi dell’ex blocco dell’Est e in Cina.
Prima di tutto è necessario ricordare insieme a Engels che Marx era innanzitutto un rivoluzionario, cioè un combattente. Il suo lavoro teorico non è comprensibile senza questo punto di partenza. Alcuni hanno voluto fare di Marx uno studioso puro, chiuso con i suoi libri e isolato dal mondo, ma solo un militante rivoluzionario può essere marxista. Dalla sua partecipazione al gruppo dei giovani hegeliani a Berlino nel 1842, la vita di Marx è una lotta contro l’assolutismo prussiano. Questa lotta diventa una lotta per il comunismo quando cerca di comprendere le cause della miseria di una parte considerevole della società e quando sente con gli operai parigini le potenzialità che contiene la classe operaia. È questa lotta che fece di lui un esiliato, cacciato da un paese all’altro e lo gettò in una miseria che causò tra l’altro la morte dei suoi figli. A questo proposito è davvero osceno, come ha fatto una puntata di Arte (canale di divulgazione francese), attribuire la miseria di Marx al fatto che né lui né sua moglie sapevano gestire il budget familiare perché erano originari di ceti sociali benestanti. In realtà, impregnato della solidarietà proletaria, Marx usava regolarmente le sue modeste entrate per i bisogni della causa rivoluzionaria!
Inoltre, contrariamente a quanto afferma Jonathan Sperber, Marx non era un “giornalista”, ma un militante che sapeva che la lotta, inizialmente contro la monarchia autoritaria prussiana poi contro la borghesia, richiede un lavoro di propaganda di cui si farà carico nella Gazzetta Renana, poi nella Gazzetta tedesca di Bruxelles e negli Annali franco-tedeschi, infine ne La Nuova Gazzetta Renana. Come combattente, Marx si impegnò nella lotta della Lega dei Comunisti e accettò un mandato dalla Lega per la scrittura di un testo fondamentale del movimento operaio, il Manifesto del Partito comunista. E proprio perché combattente (come indica il titolo della biografia di Nicolaïveski e Maechen-Helfen) pone al centro della sua attività la preoccupazione per il raggruppamento dei rivoluzionari e per la loro organizzazione così come l’insieme della sua opera teorica ha per motore la lotta della classe operaia.
Marx ha potuto sviluppare un’immensa elaborazione teorica perché è partito dal punto di vista della classe operaia, classe che non ha nulla da difendere nel capitalismo e che “non ha nulla da perdere se non le proprie catene” attraverso la sua lotta contro lo sfruttamento. È partendo da questo postulato che egli ha compreso che questa lotta conterrebbe potenzialmente la fine dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo che l’umanità si trova a dover affrontare dalla comparsa delle classi sociali e che la liberazione della classe operaia permetterebbe l’avvento dell’umanità riunificata, cioè del comunismo. Quando Attali (economista francese) afferma che Marx è un “padre fondatore della democrazia moderna” non è che un falsificatore al servizio della borghesia che ci presenta la società attuale come la migliore possibile. Lo scopo di questa propaganda è impedire alla classe operaia di comprendere che la sola prospettiva possibile per uscire dall’orrore del capitalismo agonizzante è il comunismo.
È ancora partendo dai bisogni della classe operaia che Marx ha stabilito un metodo scientifico, il materialismo storico, che permette alla classe operaia di orientare la sua lotta. Questo metodo critica e supera la filosofia di Hegel, anche se recupera quanto questi aveva scoperto, e cioè che la trasformazione della realtà è sempre un processo dialettico. Questo metodo gli ha permesso di trarre lezioni dalle grandi lotte della classe operaia come quelle del 1848 e della Comune di Parigi. La sua trasmissione alle generazioni seguenti di rivoluzionari, come a quelle della Sinistra Comunista, ha ugualmente permesso di trarre lezioni dalla sconfitta della ondata rivoluzionaria del 1917. L’impostazione di Marx è ancora viva, è esaminando la realtà con il suo metodo e confrontandola con i risultati ottenuti che i rivoluzionari possono arricchire la teoria.
Partendo dal punto di vista della classe operaia, egli ha potuto comprendere che era essenziale capire contro chi la classe operaia si batte e cosa deve distruggere per liberarsi dalle sue catene. Si è quindi impegnato nello studio dei fondamenti economici della società per farne la critica. Questo studio gli ha consentito di dimostrare che il fondamento del capitalismo è lo scambio delle merci e che lo scambio è alla base del rapporto salariale, cioè del rapporto di sfruttamento dell’uomo sull’uomo nel capitalismo. È interessante confrontare questo risultato fondamentale con quello che ne fa Liberation (giornale francese) nella sua celebrazione dell’anniversario della nascita : Karl Marx “mostra che l’acquisto della forza lavoro da parte del capitalista pone un problema di incertezza sull’effettivo carico di lavoro cui sono sottoposti i lavoratori”: in altri termini, se si potesse misurare il lavoro dell’operaio affinché il suo carico di lavoro fosse sopportabile, lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo sarebbe una buona cosa: ecco un buon esempio del modo in cui Marx viene usato per giustificare il capitalismo! Per Marx “l’acquisto della forza lavoro” significa “produzione di plus-valore” e dunque sempre e comunque sfruttamento!
È anche attraverso l’aspetto profondamente militante delle sue opere teoriche che Marx ha potuto dedurne che il capitalismo non è eterno e che, come i modelli di produzione che lo hanno preceduto, questo sistema presenta dei limiti ed entra storicamente in crisi perché “ad un certo stadio del loro sviluppo le forze produttive materiali della società entrano in contrasto con i rapporti di produzione esistenti, o, nell’espressione giuridica, con i rapporti di proprietà nell’ambito dei quali si erano mosse fino ad allora. Da forme di sviluppo delle forze produttive che erano, questi rapporti ne diventano ostacoli. Allora si apre un periodo di rivoluzione sociale” (Contributo a una Critica dell’economia politica). D’altra parte Marx dimostra che il capitalismo produce il suo becchino, il proletariato, che è contemporaneamente l’ultima classe sfruttata della storia, spogliata di tutto, e la sola classe sociale potenzialmente rivoluzionaria per la natura associata e solidale del suo lavoro, una classe che, unendosi al di là delle frontiere, è la sola forza capace di rovesciare il capitalismo a livello mondiale per creare una società senza classi e senza sfruttamento.
In fin dei conti, le “grandi analisi” del XX e del XXI secolo che, considerando superficialmente i fatti, pretendono che il pensiero di Marx sia superato, o che sia ancora oggi attuale perché sarebbe “economista” o sarebbe il pensiero di un “precursore geniale” delle teorie altermondialiste attuali per “correggere gli eccessi” del capitalismo, hanno il solo scopo di mascherare la necessità della lotta per la rivoluzione proletaria.
L’identificazione della classe operaia come il solo attore che ha la possibilità di rovesciare il capitalismo e permettere l’avvento del comunismo andava di pari passo, per Marx, con la necessità del proletariato di organizzarsi. Su questo aspetto, come sugli altri, il contributo di Marx è essenziale. A partire dal 1846 egli si impegnò in un “comitato di corrispondenza” per mettere in contatto socialisti tedeschi, francesi e inglesi perché, stando alle sue parole, “nel momento dell’azione, è certamente di grande importanza, per ognuno, essere informati della situazione all’estero tanto quanto a casa propria”. La necessità di organizzarsi si concretizza nella sua costante partecipazione alle lotte per la costituzione e la difesa di un’organizzazione rivoluzionaria internazionale all’interno del proletariato. La lotta per il comunismo e la più profonda comprensione di ciò che rappresenterà questa lotta lo spingerà a impegnarsi per la trasformazione della Lega dei Giusti in Lega dei comunisti nel 1847 e nella comprensione del ruolo che questa organizzazione doveva svolgere all’interno della classe operaia. Consapevoli di questo ruolo Marx ed Engels difesero la necessità di un programma all’interno della Lega dei comunisti, cosa che porterà alla stesura del Manifesto del Partito comunista nel 1848.
La Lega dei comunisti non resisterà ai colpi della repressione dopo la sconfitta delle rivoluzioni del 1848. Ma da quando ripresero le lotte a partire dal 1860, si verificarono altri tentativi di organizzazione. Marx si impegnò, sin dagli inizi, nell’Associazione internazionale dei lavoratori (AIT) nel 1864. Avrà un ruolo importante nella redazione dei suoi Statuti e sarà l’autore del discorso inaugurale. La sua convinzione sull’importanza dell’AIT e la sua chiarezza teorica faranno di lui la persona centrale dell’organizzazione. Tanto nella Lega dei comunisti quanto nell’AIT egli porterà avanti una lotta decisa perché queste organizzazioni svolgessero la loro funzione. Le sue preoccupazioni teoriche non sono mai state separate dalle esigenze della lotta. È per queste ragioni che, nella Lega, egli esclamerà di fronte a Weitling “fino ad ora l’ignoranza non è servita a nessuno” poiché questi proponeva una visione utopista e idealista del comunismo. È anche per questo che lotterà all’interno dell’AIT contro Mazzini che voleva che l’organizzazione avesse per obiettivo la difesa di interessi nazionali e contro Bakunin che tramava per prendere il controllo dell’AIT e trascinarla in avventure cospirative che sostituissero l’azione di massa del proletariato.
L’elaborazione teorica realizzata da Marx è una formidabile luce chiarificatrice sulla società borghese, tanto nel XIX secolo quanto nei due secoli successivi. Ma se si considera questa elaborazione solo “comprensione del mondo”, sulla scia di tutti gli pseudo-esperti della borghesia che celebrano quest’anno la sua nascita, la sua opera resterà circondata da un alone di mistero. Al contrario, mentre la borghesia coltiva il no-futuro, la classe operaia deve liberarsi dalle sue catene. Per questo deve non solo servirsi delle scoperte teoriche di Marx, ma basarsi sulla sua vita di combattente e militante. Gli strumenti che egli ha saputo sviluppare sono ancora oggi in pieno accordo con il fine stesso della lotta proletaria: trasformare il mondo!
Vitaz, 15 giugno 2018
[1] Engels ai funerali di Marx: “Marx era l’uomo più odiato e calunniato del suo tempo. I governi assolutisti e repubblicani lo hanno deportato. Borghesi, conservatori e democratici si sono uniti contro di lui”.
[2] In particolare nella recente biografia dello studioso americano Jonathan Sperber, che ha avuto ampia promozione nei mezzi di informazione, titolata Karl Marx, uomo del XIX secolo.
170 anni fa fu pubblicato il Manifesto del Partito Comunista: “Al congresso del partito, Londra 1847, Marx ed Engels ricevettero l'incarico di redigere un programma completo, teorico e pratico, da pubblicare. Scritto in tedesco, il manoscritto fu stampato a Londra nel gennaio 1848, poche settimane prima della rivoluzione francese del 24 febbraio. Una traduzione francese apparve poco prima della rivolta di Parigi del giugno 1848” (prefazione di Engels all'edizione del 1888).
Da quel momento, non si contano più le numerose traduzioni e pubblicazioni di questo libro, uno dei più famosi al mondo. Oggi, con il relativo risveglio d’interesse che quest’ultimo suscita all'interno di piccole minoranze combattive alla ricerca di una prospettiva rivoluzionaria, la propaganda ufficiale dello Stato borghese è costretta a continuare a screditare fortemente l'idea di comunismo facendo del Manifesto l’opera sinistra e tragica di un sanguinoso passato. Equiparando in modo fraudolento e falso la contro rivoluzione stalinista all’avvento di un presunto fallito comunismo, il Manifesto non può che incarnare un progetto sociale “obsoleto” ed anche “pericoloso”. Infine, come agli occhi dei peggiori reazionari del diciannovesimo secolo, il Manifesto del Partito comunista rimane ancora oggi “l'opera del diavolo”.
Al culmine dell'ondata rivoluzionaria mondiale degli anni 1917-1923, cioè molto prima del crollo del blocco dell’Est e della pretesa morte del comunismo, il Manifesto era già stato diffamato e combattuto, armi alla mano, dalla classe dominante che accerchiava la Russia dei soviet. In quel tempo, il Manifesto rimaneva per i rivoluzionari, più che mai, una vera bussola che permetteva di orientare il proletariato in vista del rovesciamento del capitalismo attraverso il suo progetto rivoluzionario mondiale. Nelle conferenze sulla vita e l'attività di Marx ed Engels fatte da Ryazanov nel 1922, il Manifesto veniva considerato come un puro prodotto della lotta della classe operaia. Ciò è mostrato nel seguente passo citato dallo stesso Engels: “Gli operai si presentarono e invitarono Marx ed Engels nella loro unione; Marx ed Engels dichiararono che ne avrebbero fatto parte se fosse stato accettato il loro programma. Gli operai acconsentirono, organizzarono la Lega dei comunisti e incaricarono immediatamente Marx ed Engels di scrivere il Manifesto del Partito comunista”[1]. Questo “consenso” non fu il prodotto di un colpo di testa, di una debolezza che cedeva ad una “crisi autoritaria” e ancor meno una sorta di “atto di forza” da parte di Marx ed Engels. Era al contrario il prodotto di una reale maturazione della coscienza operaia e frutto di un lungo dibattito, un prodotto militante legato all'attività organizzata della Lega dei comunisti: “il dibattito durò parecchi giorni e Marx fece molta fatica a convincere la maggioranza della giustezza del nuovo programma. Esso fu adottato nelle linee fondamentali e il congresso incaricò soprattutto Marx di scrivere a nome della Lega dei comunisti non una professione di fede, ma un Manifesto”[2]. È molto importante sottolineare che il Manifesto è stato soprattutto un mandato che Marx ed Engels ricevettero dal Congresso come militanti e non una semplice produzione scritta di loro proprietà. Infatti in una lettera, datata 26 marzo, inviata dal Comitato centrale al Comitato regionale di Bruxelles e redatta sulla base di una risoluzione adottata il 24 gennaio, si chiede conto a Marx dello svolgimento dei suoi lavori. Nel caso in cui non avesse assunto il suo mandato in tempo Marx rischiava persino delle sanzioni: “Il Comitato centrale con la presente incarica il Comitato regionale di Bruxelles di comunicare al cittadino Marx che se il manifesto del partito comunista, della cui stesura si è assunto l'incarico all’ultimo congresso, non sarà pervenuto a Londra il 1° febbraio dell'anno in corso saranno prese contro di lui misure conseguenti. Nel caso in cui il cittadino Marx non portasse a termine il suo lavoro, il Comitato centrale esigerà la restituzione immediata dei documenti messi a sua disposizione”[3].
Marx ed Engels riuscirono a finire il loro lavoro in tempo. Ma essi, già prima e contemporaneamente, non si erano mai fermati nel promuovere l'unità del proletariato facendo anche un lavoro organizzativo esemplare, di cui lo stesso Manifesto è sia il prodotto che lo strumento tale da permetterne il perseguimento: “Gli storici non si sono resi conto di questo lavoro organizzativo di Marx di cui hanno fatto un pensatore da tavolino. In questo modo non hanno capito il ruolo di Marx in quanto organizzatore, non hanno compreso uno degli aspetti più interessanti della sua fisionomia. Se non si conosce il ruolo che Marx (sottolineo Marx e non Engels) giocava già verso il 1846-47 come dirigente e ispiratore di tutto questo lavoro organizzativo, è impossibile comprendere il grande ruolo da lui sostenuto in seguito come organizzatore nel 1848-1849 e all’epoca della Prima Internazionale”[4].
Tutto questo lavoro militante, al servizio dell'unità e della lotta del proletariato, si riflette nelle stesse formulazioni del Manifesto, che definisce la posizione dei comunisti come "avanguardia" e parte non separata della classe operaia: “i comunisti non formano un Partito distinto (...) essi non hanno interessi che li separano dall'insieme del proletariato”[5].
Anche i bolscevichi consideravano il Manifesto del Partito comunista una vera “bussola”. Ecco cosa Lenin stesso ha detto del Manifesto: “Questo libretto vale interi volumi: ispira e anima ancora oggi tutto il proletariato organizzato e combattente del mondo civilizzato”[6]. La forza teorica del Manifesto non è stata possibile, al di là della innegabile genialità di Marx, che attraverso il contesto legato ad un momento decisivo nella storia della lotta di classe, quella di un periodo in cui il proletariato stava iniziando a formarsi come classe indipendente della società. Questa lotta avrebbe permesso al comunismo di superare anche l'ideale astratto elaborato dagli utopisti per diventare un movimento sociale pratico basato su un metodo scientifico, dialettico, quello del materialismo storico. Il compito essenziale era quindi elaborare la vera natura del comunismo, della lotta di classe, e i mezzi per raggiungere questo obiettivo che doveva essere formulato in un programma. Vent'anni fa abbiamo detto del Manifesto: “Non c'è documento oggi che turbi profondamente la borghesia più del Manifesto comunista, per due ragioni. La prima è che la sua dimostrazione del carattere temporaneo storico del modo di produzione capitalistico, della natura insolubile delle sue contraddizioni interne confermate dalla realtà attuale, continua a perseguitare la classe dominante. La seconda, perché il Manifesto, già all'epoca, fu scritto proprio per dissipare la confusione della classe operaia sulla natura del comunismo”[7]. Il Manifesto è un vero tesoro per il movimento operaio. “In anticipo sui tempi”, oggi offre tutte le armi necessarie per combattere l'ideologia dominante. Ad esempio, la critica del socialismo “conservatore o borghese” dell’epoca, con i dovuti rapporti, si applica perfettamente allo stalinismo del XX secolo e ci permette di capire che cosa significa veramente l'abolizione della proprietà privata “(...) per cambiamento delle condizioni materiali di vita, però, questo socialismo non intende affatto l'abolizione dei rapporti borghesi di produzione, possibile solo per via rivoluzionaria; bensì miglioramenti amministrativi che vengono realizzati sul terreno di questi rapporti di produzione, che dunque non cambiano nulla nel rapporto tra capitale e lavoro salariato e che anzi, nel migliore dei casi, diminuiscono a vantaggio della borghesia i costi del suo dominio e semplificano il suo bilancio statale”[8]. Oltre a questi elementi critici che è possibile utilizzare come un'arma sempre attuale, il Manifesto ne indica anche altri ed essenziali che restano pienamente validi per orientare la lotta oggi:
- il primo è la dimostrazione della crisi del sistema capitalista, la realtà della “sovrapproduzione”, il fatto che il capitalismo e la società borghese sono condannati dalla storia: “la società non può più vivere sotto il dominio borghese; ciò significa che l'esistenza della borghesia e l'esistenza della società sono diventati incompatibili”;
- il secondo elemento essenziale, è che mentre la borghesia continua ad affermare il falso dicendo che il proletariato è “scomparso” e che solo le riforme “democratiche” borghesi, “per il popolo”, sono valide, il Manifesto, al contrario, mostra una prospettiva rivoluzionaria sottolineando con chiarezza che: “solo il proletariato è una classe veramente rivoluzionaria”. Espressione di una classe universale per natura sfruttata e rivoluzionaria allo stesso tempo, che lavorando in modo associato e solidale nei rapporti di produzione capitalistici, la sua lotta si inscrive e si sviluppa non solo in rapporto alla necessità ma anche nella capacità di portare avanti questo progetto. Uno dei principali chiarimenti contenuti nel Manifesto risiede nel fatto che esso afferma in modo molto più evidente di prima che l'emancipazione dell'umanità è ora nelle mani del proletariato. Quest'ultimo deve affrontare inesorabilmente la borghesia senza alcun compromesso, non può avere più alcun punto in comune con essa. Un aspetto questo che non era così tanto chiaro fino al 1848 e che, del resto, non lo è stato nemmeno successivamente. Ricordiamo che lo slogan della Lega dei Giusti (“Tutti gli uomini sono fratelli”) esprimeva ancora tutta la confusione che regnava nel movimento operaio. Al contrario, il Manifesto afferma l'irrimediabile antagonismo tra il proletariato e la borghesia. In ciò, infatti, risiede l'espressione di un passo decisivo compiuto nella coscienza di classe;
- il terzo riguarda la natura e il ruolo dei comunisti che costituiscono “la parte più risoluta (...) che coinvolge tutti gli altri: ed essi poi s'avvantaggiano teoricamente sulla restante massa del proletariato per via dell'intendimento netto che hanno, così delle condizioni e dell'andamento, come dei risultati generali del movimento proletario”;
- l'ultimo punto, ma non meno importante, è l'affermazione del Manifesto del carattere internazionalista della lotta di classe: “gli operai non hanno patria” che è sempre stata e rimane più che mai la pietra angolare della difesa delle posizioni di classe, totalmente all'opposto del nazionalismo del nemico di classe. Il fatto che il Manifesto termini con questo vibrante appello: “proletari di tutti i paesi, unitevi!” ne è l'espressione più forte che traduce la dimensione intrinsecamente internazionalista della lotta proletaria e della difesa del suo principio fondamentale.
Potremmo evidenziare molti altri aspetti importanti presenti nel Manifesto, ma desideriamo concludere questo breve omaggio militante tornando alle sue prime righe, quelle della formula non meno famosa e secondo noi sempre attuale: “Uno spettro si aggira per l'Europa: lo spettro del comunismo”. Ed affermiamo che, nonostante le difficoltà che oggi attraversa, il proletariato internazionale conserva ancora le sue capacità e la sua forza per abbattere l'ordinamento capitalista e sostituirlo con una società senza classi, senza guerra o sfruttamento. Questo "spettro", lo voglia o no la borghesia, è ancora e sempre presente!
WH, 3 giugno 2018
[1] Ryazanov, Marx ed Engels. Ed. Samonà e Savelli pag. 49
[2] Idem pag. 60
[3] Idem pag. 61
[4] Idem pag. 57
[5] Marx ed Engels, Manifesto del Partito Comunista.
[6] Lenin, Karl Marx e la sua dottrina.
[7] 1848: The Communist Manifesto is an indispensable compass for the future of humanity [2]; 1848 - Le manifeste communiste : une boussole indispensable pour l'avenir de l'humanité [3]; 1848 : el Manifiesto comunista - Una brújula indispensable para el porvenir de la humanidad [4]
[8] Marx ed Engels, Manifesto del Partito Comunista. Ed. Laterza pag. 48
Gli orientamenti principali del rapporto sulle tensioni imperialiste di novembre 2017 ci forniscono il quadro essenziale per comprendere gli sviluppi attuali:
- la fine dei due blocchi della ‘guerra fredda’ non significava la scomparsa dell'imperialismo e del militarismo. Sebbene le composizioni di nuovi blocchi e lo scoppio di una nuova ‘guerra fredda’ non siano all'ordine del giorno, i conflitti sono scoppiati in tutto il mondo. Lo sviluppo della decomposizione ha portato ad un sanguinoso e caotico scatenamento di imperialismo e militarismo;
- l'esplosione della tendenza al ‘ciascuno per sé’ ha portato al sorgere di ambizioni imperialiste di potenze di secondo e terzo livello, nonché al crescente indebolimento del controllo sul mondo da parte degli Stati Uniti;
- la situazione attuale è caratterizzata da tensioni imperialiste ovunque e da un caos che è sempre meno controllabile, ma soprattutto dal suo carattere altamente irrazionale e imprevedibile, legato all'impatto delle pressioni populiste, in particolare al fatto che la prima potenza mondiale è guidata oggi da un presidente populista con reazioni instabili.
Nel periodo recente, il peso del populismo sta diventando più tangibile esacerbando la tendenza al 'ciascuno per sé' e la crescente imprevedibilità dei conflitti imperialisti;
- gli interrogativi sugli accordi internazionali, sulle strutture sopranazionali (l'UE), su qualsiasi approccio globalizzato rendono le relazioni imperialiste più caotiche e accentuano il pericolo di scontri militari tra gli squali imperialisti (Iran e Medio Oriente, Corea del Nord e Estremo Oriente).
- Il rifiuto in molti paesi delle tradizionali élite politiche globalizzate va di pari passo con il rafforzamento di una retorica nazionalista aggressiva in tutto il mondo (non solo negli Stati Uniti con lo slogan 'America first' di Trump o in Europa, ma anche in Turchia o in Russia per esempio).
Queste caratteristiche generali del periodo trovano la loro concretizzazione oggi in una serie di tendenze particolarmente significative.
L'evoluzione della politica imperialista USA negli ultimi trent'anni è uno dei fenomeni più significativi del periodo di decomposizione: gli Usa, dopo aver promesso “una nuova era di pace e prosperità” (Bush senior) all'indomani dell'implosione del blocco sovietico, lottano in seguito contro la tendenza al ciascuno per sé per diventare oggi il principale propagatore di questa tendenza nel mondo. In effetti, l'ex leader di blocco e la sola restante superpotenza imperialista dopo l'implosione del blocco orientale, che agisce da circa 25 anni come il poliziotto mondiale combattendo contro la diffusione del ciascuno per sé a livello imperialista, istiga oggi al rifiuto dei negoziati internazionali e degli accordi globali a favore di una politica di ‘bilateralismo’.
Un principio condiviso, volto a superare il caos nelle relazioni internazionali, è riassunto nella seguente frase latina: “pacta sunt servanda”, i trattati, gli accordi devono essere rispettati. Se qualcuno firma un accordo globale - o multilaterale, dovrebbe rispettarlo, almeno apparentemente. Ma gli Stati Uniti sotto Trump hanno abolito questa concezione: firmo un trattato, ma posso scartarlo domani. Ciò è già avvenuto con il Patto Transpacifico (TPP), l'accordo di Parigi sui cambiamenti climatici, il trattato nucleare con l'Iran, l'accordo finale sull'incontro del G7 a Québec. Gli Stati Uniti respingono oggi gli accordi internazionali a favore di una negoziazione tra Stati, in cui la borghesia statunitense imporrà senza mezzi termini i suoi interessi attraverso il ricatto economico, politico e militare (come possiamo vedere oggi con il Canada prima e dopo il G7 per quanto riguarda il NAFTA o con la minaccia di ritorsioni contro le società europee che investono in Iran). Ciò avrà conseguenze tremende e imprevedibili per lo sviluppo di tensioni e conflitti imperialisti (ma anche per la situazione economica del mondo) nel prossimo periodo. Lo illustreremo con tre 'punti caldi' negli scontri imperialisti oggi:
- Medio Oriente: nel denunciare l'accordo nucleare con l'Iran, gli Stati Uniti si oppongono non solo alla Cina e alla Russia ma anche all'UE e persino alla Gran Bretagna. La sua apparentemente paradossale alleanza con Israele e Arabia Saudita porta a una nuova configurazione di forze in Medio Oriente (con un crescente riavvicinamento tra Turchia, Iran e Russia) e aumenta il rischio di una generale destabilizzazione della regione, in più scontri tra i principali squali e guerre sanguinarie più estese.
- Le relazioni con la Russia: quale posizione verso Putin? Per ragioni storiche (il periodo della 'guerra fredda' e il Russiagate durante le ultime elezioni presidenziali), ci sono poteri molto forti nella borghesia statunitense che spingono per scontri più forti con la Russia, ma l'amministrazione Trump, nonostante lo scontro imperialista in Medio Oriente, continua a non escludere un miglioramento della cooperazione con la Russia: all'ultimo G7, Trump ha suggerito di reintegrare la Russia nel Forum dei Paesi industrializzati.
- L'estremo oriente: l'imprevedibilità degli accordi pesa particolarmente sui negoziati con la Corea del Nord: (a) che dire di un accordo tra Trump e Kim, se Cina, Russia, Giappone e Corea del Sud non sono direttamente coinvolti nella negoziazione di questo accordo? Questo è già apparso in superficie quando Trump ha rivelato a Singapore, con lo sgomento dei suoi 'alleati' asiatici, che aveva promesso di fermare le manovre militari congiunte in Corea del Sud (b), se qualsiasi accordo potesse essere messo in discussione in qualsiasi momento dagli Stati Uniti, quanto ci si può fidare di Kim? (c) La Corea del Nord e la Corea del Sud in questo contesto si affideranno totalmente al loro 'alleato naturale' e stanno prendendo in considerazione una strategia alternativa?
Sebbene questa politica implichi un'incredibile crescita del caos e della tendenza al ciascuno per sé e, infine, un ulteriore declino delle posizioni globali della prima potenza mondiale, non vi è alcun approccio alternativo tangibile negli Stati Uniti. Dopo un anno e mezzo di indagini di Mueller e di altri tipi di pressioni contro Trump, non sembra probabile che Trump venga espulso dal suo incarico, tra l'altro perché non c'è una forza alternativa in vista. Il pantano all'interno della borghesia statunitense continua.
La contraddizione non potrebbe essere più sorprendente. Nello stesso tempo in cui gli Stati Uniti di Trump denunciano la globalizzazione per ricorrere ad accordi 'bilaterali', la Cina annuncia un enorme progetto globale, la “Nuova via della seta”, che coinvolge circa 65 paesi in tre continenti, che rappresentano il 60% della popolazione e circa un terzo del PIL mondiale, con investimenti per un periodo di 30 anni (2050!) fino a 1,2 trilioni di dollari.
Dall'inizio del suo riemergere, che è stato pianificato in un sistematico approccio a lungo termine, la Cina ha modernizzato il suo esercito, costruendo una 'corda di perle' - a cominciare dall'installazione/occupazione di barriere coralline nel Mare del Sud della Cina e una catena di basi militari nell'Oceano Indiano. Per ora, tuttavia, la Cina non cerca uno scontro diretto con gli Stati Uniti; al contrario, progetta di diventare l'economia più potente del mondo entro il 2050 e mira a sviluppare i suoi legami con il resto del mondo, cercando di evitare scontri troppo diretti. La politica della Cina è una politica a lungo termine, contrariamente agli accordi a breve termine di Trump. Cerca di espandere le sue competenze industriali, tecnologiche e, soprattutto, militari. A questo ultimo livello, gli Stati Uniti hanno ancora un vantaggio considerevole sulla Cina.
Nello stesso momento del fallito vertice del G7 in Canada (9-10.06.18), la Cina ha organizzato a Quingdao una conferenza dell'Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai con l'assistenza dei presidenti della Russia (Putin), dell'India (Modi), dell'Iran (Rohani), e i leader di Bielorussia, Uzbekistan, Pakistan, Afghanistan, Tagikistan e Kirghizistan (il 20% del commercio e il 40% della popolazione mondiale). Il loro vero obiettivo è chiaramente il progetto Silk-Road (la via della seta): l'obiettivo è quello di diffondere la sua influenza, un progetto a lungo termine, e uno scontro diretto con gli Stati Uniti controbatterebbe questi piani. In questa prospettiva, la Cina userà la sua influenza per spingere per un accordo che implichi una neutralizzazione di tutte le armi nucleari nella regione coreana (armi americane incluse), che, a condizione che gli Stati Uniti lo accettino, spingerebbe indietro le forze statunitensi in Giappone e ridurrebbe la minaccia immediata sulla Cina settentrionale.
Tuttavia, le ambizioni della Cina porteranno inevitabilmente a confrontarsi con gli obiettivi imperialisti non solo degli Stati Uniti ma anche di altri squali, come l'India o la Russia.
- un crescente confronto con l'India, l'altra grande potenza in Asia, è inevitabile. Entrambe le potenze hanno ingaggiato un massiccio rafforzamento dei loro eserciti e si stanno preparando per uno scontro a medio termine;
- la Russia è in questa prospettiva in una situazione difficile: entrambi i paesi stanno collaborando ma, a lungo termine, la politica della Cina non può che portare a uno scontro con la Russia. La Russia ha riacquistato il potere negli ultimi anni a livello militare e imperialista, ma la sua arretratezza economica non è stata superata, al contrario: nel 2017 il PIL russo (prodotto interno lordo) era solo del 10% superiore al PIL del Benelux!
- Infine, è probabile che le sanzioni economiche e le provocazioni politiche e militari di Trump costringeranno la Cina a confrontarsi con gli Stati Uniti più direttamente nel breve periodo.
L'esasperazione della tendenza all'ognuno per sé a livello imperialista e la crescente competizione tra gli squali imperialisti danno origine a un altro significativo fenomeno di questa fase di decomposizione: l'avvento al potere di 'leader forti' con una radicalizzazione delle prese di posizione, affermazioni forti e una retorica aggressiva e nazionalista.
L'avvento al potere di un 'leader forte' e una retorica radicale sulla difesa dell'identità nazionale (spesso associata a programmi sociali a favore di famiglie, bambini, pensionati) è tipica dei regimi populisti (Trump, ovviamente, ma anche Salvini in Italia, Orbán in Ungheria, Kaczynski in Polonia, Babiš nella Repubblica Ceca, ...) ma è anche una tendenza più generale in tutto il mondo, non solo nelle potenze più forti (Putin in Russia) ma anche in potenze imperialiste secondarie come la Turchia (Erdogan), Iran, Arabia Saudita (con il 'colpo di stato morbido' del principe ereditario Mohammed Ben Salman). In Cina, la limitazione della presidenza dello stato a due periodi di cinque anni è stata rimossa dalla costituzione, in modo che Xi Jinping tendesse ad imporsi come 'leader a vita', il nuovo imperatore cinese (presidente, capo del partito e della commissione militare centrale, cosa mai successa dopo Deng Xiaoping). Gli slogan 'democratici' o il mantenimento delle apparenze democratiche (i diritti umani) non sono più il discorso dominante (come hanno dimostrato i colloqui tra Donald e Kim), a differenza di quando è crollato il blocco sovietico e all'inizio del XXI secolo, hanno lasciato il posto a una combinazione di discorsi molto aggressivi e accordi pragmatici imperialisti.
L'esempio più forte è la crisi coreana. Trump e Kim hanno usato all'inizio un'alta pressione militare (anche con la minaccia di un confronto nucleare) e discorsi molto aggressivi e poi si sono incontrati a Singapore per contrattare. Trump ha offerto enormi vantaggi economici e politici (il modello birmano) per attirare Kim nel campo americano. Questo non è assolutamente inconcepibile in quanto i nordcoreani hanno un rapporto ambiguo e persino sfiducia nei confronti della Cina. Tuttavia, il riferimento alla Libia da parte di funzionari statunitensi (consigliere per la sicurezza nazionale John Bolton) – cioè che la Corea del Nord potrebbe avere lo stesso destino della Libia, esortando Gheddafi ad abbandonare le sue armi per poi ucciderlo - rende i nordcoreani particolarmente sospettosi delle proposte americane.
Questa strategia politica è una tendenza più generale negli attuali scontri imperialisti, come dimostrato dai tweet aggressivi di Trump contro il primo ministro canadese Trudeau, “un leader falso e debole”, poiché ha rifiutato di accettare l'aumento delle tasse d'importazione degli Stati Uniti. C'è anche il brutale ultimatum dell'Arabia Saudita contro il Qatar, accusato di 'centrismo' nei confronti dell'Iran o le bellicose dichiarazioni di Erdogan sui curdi contro l'Occidente e la NATO. Infine, citeremo lo “Stato dell'Unione” molto aggressivo di Putin, che presentava le armi più sofisticate della Russia con il messaggio: “fareste meglio a prenderci sul serio!”
Queste politiche rafforzano le caratteristiche generali del periodo, con una forte intensificazione della militarizzazione (nonostante il forte onere economico legato a questo) tra i 3 maggiori squali imperialisti ma anche una tendenza globale in un contesto di cambiamento del panorama imperialista nel mondo e in Europa. In questo contesto di politiche aggressive, il pericolo di attacchi nucleari limitati è persino molto reale, in quanto vi sono molti elementi imprevedibili nei conflitti attorno alla Corea del Nord e all'Iran.
Tutte le attuali tendenze in Europa - la Brexit, l'ascesa di un importante partito populista in Germania (AFD), il populismo che sale al potere nell'Europa orientale, dove la maggior parte dei paesi sono gestiti da governi populisti, sono accentuati da due eventi principali:
- la formazione in Italia di un governo populista al 100% (formato da i 5 Stelle e la Lega), che conduce uno scontro diretto tra i 'burocrati di Bruxelles' (UE), i 'campioni' della globalizzazione, sostenuti dall'Eurogruppo e dai mercati finanziari e dall'altra parte il 'fronte populista' della popolazione;
- la caduta di Aznar e del PP in Spagna e l'ascesa al potere di un governo di minoranza del PS sostenuto dai nazionalisti baschi, catalani e 'Podemos', che accentuerà le tensioni centrifughe in Spagna e in Europa.
Ciò avrà conseguenze enormi sulla coesione dell'UE, sulla stabilità dell'euro e sul peso dei paesi europei sulla scena imperialista.
A) L'UE è impreparata e largamente impotente nell'opporsi alla politica di Trump sull'embargo statunitense nei confronti dell'Iran: le multinazionali europee si stanno già conformando ai dettami statunitensi (Total, Lafarge). Ciò è particolarmente vero in quanto vari Stati europei supportano l'approccio populista di Trump e la sua politica in Medio Oriente (Austria, Ungheria, Repubblica Ceca e Romania erano rappresentati all'inaugurazione dell'Ambasciata USA a Gerusalemme, contro la politica ufficiale dell'UE). Per quanto riguarda l'aumento delle tasse sull'importazione, è tutt'altro che sicuro che all'interno dell'UE ci sarà un accordo per rispondere sistematicamente alle maggiori imposte sulle importazioni imposte da Trump.
B) Il progetto di un polo militare europeo rimane in gran parte ipotetico nel senso che sempre più paesi, sotto l'impulso delle forze populiste al potere o facendo pressione sul governo, non vogliono sottomettersi all'asse franco-tedesco. D'altra parte, mentre la leadership politica dell'UE è costituita dall'asse franco-tedesco, la Francia ha invece tradizionalmente orientato la sua cooperazione tecnologica militare verso l'Inghilterra che sta per lasciare l'UE.
C) le tensioni attorno all'accoglienza dei rifugiati oppongono non solo le coalizioni dei governi populisti dell'Est all'Europa occidentale, ma sono in aumento anche nei paesi occidentali mettendoli uno contro l'altro, come dimostrano le forti tensioni che si sono sviluppate tra la Francia di Macron e il governo populista italiano, mentre la Germania è sempre più divisa sull'argomento (pressione dalla CSU).
D) il peso economico e politico dell'Italia (la terza economia dell'UE) è considerevole, in nessun modo paragonabile al peso della Grecia. Il governo populista italiano intende ridurre le tasse e introdurre un reddito di base, che costerà più di cento miliardi di euro. Allo stesso tempo, il programma governativo prevede di chiedere alla Banca centrale europea di saltare 250 miliardi di euro del debito italiano!
E) Sul piano economico ma anche imperialista, la Grecia aveva già avanzata l'idea di fare appello alla Cina per sostenere la sua economia. Ancora una volta, l'Italia prevede di chiamare la Cina o la Russia per aiutare a sostenere e finanziare la ripresa economica. Tale orientamento potrebbe avere un forte impatto a livello imperialista. L'Italia si oppone già alla continuazione delle misure di embargo dell'UE nei confronti della Russia a seguito dell'annessione della Crimea.
Tutti questi orientamenti accentuano fortemente la crisi all'interno dell'UE e le tendenze alla frammentazione. In definitiva influenzeranno la politica della Germania come leader dell'UE, in quanto è divisa internamente (peso di AFD e CSU), confrontata con un'opposizione politica dei leader populisti dell'Europa orientale, un'opposizione economica dei paesi mediterranei (Italia, Grecia, ...), e in litigio con la Turchia, mentre direttamente sono presi di mira dalle tasse sulle importazioni di Trump. La crescente frammentazione dell'Europa sotto i colpi del populismo e della politica 'l'America prima' rappresenterà anche un grosso problema per la politica della Francia, perché queste tendenze sono in totale opposizione con il programma di Macron che si basa essenzialmente sul rafforzamento dell'Europa e sulla la piena assimilazione della globalizzazione.
CCI, giugno 2018
In una regione segnata dalla guerra imperialista e dalle divisioni settarie, le recenti proteste sociali in Iran, Giordania e Iraq offrono la speranza che ci sia un'altra possibilità: la lotta unitaria degli sfruttati contro il capitale e la sua violenza brutale. Questo articolo, scritto da un simpatizzante, esamina le massicce manifestazioni che hanno spazzato il centro e il sud dell'Iraq.
A partire dall'8 luglio una serie di proteste spontanee sono scoppiate nel centro e nel sud dell'Iraq coinvolgendo migliaia di manifestanti. Si sono diffuse rapidamente attraverso otto province meridionali e, circa due settimane dopo, nelle strade di Baghdad. Questa sono seguite alle significative proteste in Giordania e Iran sugli stessi problemi. Il movimento in Iraq sarebbe stato a conoscenza di queste proteste e ispirato da esse date le somiglianze alla base della situazione in questi paesi.
La classe lavoratrice in Iraq è numericamente e generalmente più debole che negli altri due paesi e sebbene ci siano notizie di manifestanti e assemblee di lavoratori del settore petrolifero, il contenuto e il contesto di questi incontri non sono noti. Ma le forze trainanti delle proteste sono questioni di classe:
- Disoccupazione: nessuno crede alle cifre ufficiali del 18% di disoccupazione giovanile visto che oltre quattrocentomila giovani entrano nel mercato del lavoro ogni anno con scarse prospettive di lavoro.
- Mancanza di servizi di base: la temperatura di 50 gradi ha ulteriormente aumentato la sofferenza derivante da restrizioni e interruzioni di energia elettrica che è disponibile solo per una breve parte della giornata e questo nonostante i 40 miliardi di dollari stanziati dal 2003 per ricostruire la rete del paese.
- Assistenza sanitaria: sono in aumento in tutto l’Iraq tumori e altre gravi malattie congenite al cervello e in tutto il corpo nei bambini e numerosi altri gravi problemi di salute. Già nel 2009, la Reuters ha riferito che molte famiglie stavano prendendo la terribile decisione di lasciare morire i propri figli (1° dicembre)[1]. La mancanza di cure in questi gravi casi si riflette in tutti i livelli di assistenza sanitaria in Iraq.
- Acqua: come i manifestanti in Giordania e Iran (dove nel sud del paese l'esercito dirottava ingenti quantità di acqua verso le proprie aziende agricole), i manifestanti hanno chiesto l'accesso all'acqua potabile pulita. La richiesta di questo bisogno fondamentale di acqua potabile mostra una convergenza di problemi economici ed ecologici all'interno delle proteste[2].
- Elevati affitti e salari non pagati (Rudaw Media, 20.7.18).
- Corruzione e clientelismo: come in Giordania e in Iran questi sono elementi essenziali dell'economia di guerra e i benestanti che vivono dii corruzione e clientelismo sono oggetto dell'indignazione delle masse per il degrado delle le condizioni di vita. I manifestanti hanno anche denunciato la "frode elettorale".
Il più anziano esponente religioso sciita dell'Iraq, Ali al-Sistani, ha chiesto al governo di accettare le richieste dei manifestanti; un "sostegno" simile alle proteste è arrivato dal religioso populista sciita, Muqtada al-Sadr[3] che, con riserva di un nuovo conteggio, ha vinto le elezioni del 12 maggio con l'aiuto del Partito comunista iracheno; il Primo Ministro del partito al governo Sawa, Haider al-Abadi, ha promesso finanziamenti e progetti per rispondere alle proteste; e i sauditi, annusando un'occasione per contrastare l'influenza iraniana, hanno promesso "aiuti".
L'obiettivo degli attacchi dei manifestanti non sono stati solo gli edifici governativi e municipali, ma anche le istituzioni sciite, smascherando così il loro finto “sostegno” all’ondata di proteste. Come mostrato con dei filmati sui social media, la delegazione del populista radicale Al-Sadr è stata attaccata e mandata via. Tutte le principali istituzioni sciite sono state respinte e i loro uffici attaccati e particolarmente significativo è il fatto che gli attacchi sono venuti dagli stessi abitanti delle terre sciite, con i manifestanti che usavano ironicamente il termine Safavids per descrivere i loro leader, un'espressione che si riferisce alle dinastie sciite del passato spesso usata dai sunniti come insulto. Gli aerei iraniani sono stati saccheggiati nell'aeroporto della città santa sciita di Najaf e il quartier generale delle milizie filo-iraniane, comprese le Unità di mobilitazione popolare, sono stati presi di mira e bruciati insieme agli uffici governativi. Secondo il Kurdistan News 24, del 14 luglio, unità regolari dell'esercito iracheno hanno aderito alle proteste in almeno una provincia. Quando le proteste hanno fatto un passo in avanti e hanno colpito Baghdad, il sito web Middle-East Eye, del 19 luglio ha riportato lo slogan "Non sunnita, non sciita, laico, laico!" gridato dalla massa dei manifestanti.
Il primo ministro al-Abadi ha licenziato un ministro e alcuni funzionari e promesso riforme, ma la schiacciante risposta dello Stato è stata la repressione, le retate, gli arresti e le torture, mentre ulteriori proteste hanno visto il rilascio di detenuti. Il governo ha dichiarato lo "stato di emergenza" e ha imposto subito un giro di vite su Internet, mentre lacrimogeni, cannoni ad acqua e vere munizioni sono stati usati contro i manifestanti. Unità antiterrorismo sono state mobilitate contro i manifestanti di Baghdad, cosa impensabile senza il permesso degli alti comandi statunitensi e britannici nella "Zona verde". Almeno 14 persone sono state uccise e 729 ferite secondo Human Rights Campaign (Campagna per i diritti umani) del 20 luglio. Ma le proteste, che durano ormai da tre settimane, sono continuate fino a questo week-end, quando le forze di sicurezza hanno attaccato dei manifestanti fuori al Consiglio provinciale e al giacimento petrolifero di Qurna, Bassora.
Come in Iran e in Giordania queste esplosioni sono dirette contro l'economia di guerra e tutti i suoi detriti parassitari. Come in Iran e in Giordania, le proteste del 2018 in Iraq sono più diffuse e più profonde dei precedenti focolai (nel 2015 nel caso iracheno) ed è abbastanza ovvio che i leader religiosi abbiano una minore influenza. Le promesse del governo e l'influenza dei leader religiosi stanno perdendo il loro potere mentre il proletariato e le masse combattono per i propri interessi in queste schermaglie contro il capitale e la sua economia di guerra.
Baboon, 30.7.18
[1] Gran parte di questo avvelenamento all'ingrosso è stato attribuito ai bombardamenti della coalizione guidata dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna, in particolare attraverso l'uso di uranio impoverito. Il maggior numero di danni e deformità si rileva nei luoghi più bombardati: Falluja e Bassora. A Londra, il Ministero della Difesa usa la vecchia linea "non ci sono prove" e i politici britannici che sono pronti a denunciare le bombe chimiche degli altri non dicono nulla sulle loro stesse atrocità
[2] Non è solo in Medio Oriente che c'è mancanza d’acqua potabile pulita; secondo l'Environmental Protection Agency (Agenzia per la Protezione Ambientale) degli Stati Uniti più di cinque milioni di americani sono esposti ad acqua contenente tossine sopra i livelli di sicurezza (WSWS, 27.7.18). E, a un livello più ampio, se Trump in generale rigetta il problema dei cambiamenti climatici, il Pentagono, nel pieno interesse dell'imperialismo USA, non li vede (compresa la scarsità d'acqua) come un pericolo presente – come menzionato nel suo National Security Implications of Climate-Related Risks and a Changing Climate del 27.5.15. (Implicazioni di sicurezza nazionale dei rischi correlati al clima e al suo cambiamento).
[3] Al-Sadr è stato propagandato in Occidente come "il nuovo volto della riforma", New York Times, 20.5.18
Dopo aver mostrato, nel precedente articolo “Morti di Stato a Genova, ostaggi di Stato sulla nave Diciotti”, il cinismo e l’irresponsabilità di questo governo, passiamo adesso a fare, a sei mesi dalle elezioni e a cento giorni dalla formazione del nuovo governo, un primo bilancio dell'operato di quello che si è autonominato il governo del cambiamento. Ebbene, di cambiamenti nella vita politica e sociale ne abbiamo visti abbastanza, di miglioramenti nell’economia e nelle condizioni di vita delle persone nessuno, anzi.
I provvedimenti legislativi sono stati pochi di cui uno, il cosiddetto milleproroghe, che non aggiunge niente a quanto già deciso dai precedenti governi, e un altro, il cosiddetto Decreto Dignità, che modifica in parte il Job's act di Renzi (ma i 5S in campagna elettorale avevano promesso di abolirlo). Questo Decreto, presentato come rimedio alla precarietà, riduce di un anno la possibilità di prorogare contratti a termine, senza dare nessuna garanzia che il contratto si trasformi in uno a tempo indeterminato, e aumenta, di ben poco, il risarcimento economico ai lavoratori licenziati.
Per il resto, si sono visti soprattutto rimandi, anche di problemi scottanti e urgenti, come il destino dell’ILVA (sciolto solo in questi giorni), dell’Alitalia (che sarebbe già fallita senza i 900 milioni di prestito ricevuti dallo Stato, che però devono essere restituiti), di numerose altre situazioni di crisi aziendale (Irisbus, ecc.), o di emergenze sociali (terremotati del centro Italia e di Ischia, ecc.). Addirittura è stata rinviata l’applicazione del Decreto Periferie, approvato dal precedente governo, che stanziava un miliardo e mezzo per interventi di recupero delle periferie di molti comuni. Infine c’è lo scottante capitolo delle grandi opere pubbliche (TAV, linea ad alta velocità Torino-Lione, TAP, il gasdotto azero che deve sboccare in Puglia, vari tratti autostradali, ecc.), che non viene nemmeno affrontato viste le enormi divisioni esistenti su questo tra Lega e 5S (che hanno fatto promesse opposte su queste opere in campagna elettorale). Qualcuno potrebbe dire “meglio così, meno cose fanno meno danni subiamo”, ma purtroppo non è così: se non si affrontano le varie crisi aziendali, sono migliaia i posti di lavoro a rischio, stessa cosa se si bloccano le grandi opere o gli altri lavori di pubblica utilità (vedi periferie o emergenze sociali).
Insomma, se il governo “del cambiamento” può vantare ben pochi risultati, le sue prime mosse fanno presagire ulteriori batoste per i proletari e problemi per la stessa borghesia italiana.
Ma questo non frena le dichiarazioni roboanti di entrambi i partiti dell'attuale maggioranza che si comportano come se fossero sempre in campagna elettorale: così si ribadisce che nella prossima legge di bilancio ci saranno tutte le cose promesse in campagna elettorale (flat tax, riforma della legge Fornero, reddito di cittadinanza, cancellazione di alcune accise sulla benzina, ecc.), poco importa se gli economisti dicono che questo costerebbe un centinaio di miliardi e quindi uno sforamento del 3% del deficit e un aumento del debito.
Per questi signori niente è impossibile, anche perché, da bravi populisti, sono pronti a cambiare posizione o a falsificare quello che fanno tutte le volte che gli va: così, prima dichiarano “aboliremo il job's act”, per poi limitarsi a correggerlo solo un po’; ancora, avevano dichiarato “sforeremo il tetto del 3% del deficit per far stare meglio gli italiani”, attenuando prima con “sfioreremo il tetto…” e per concludere infine “rispetteremo le regole europee” (con un po’ di flessibilità, pare l’1,5%); e ancora “costringeremo l’Unione europea a farsi carico dei migranti” e poi Salvini va ad abbracciare Orban, il presidente ungherese che di accogliere anche un solo migrante non ci pensa proprio. Potremmo continuare a lungo questa lista, ma ci sembra inutile.
Il punto è che i molti che hanno votato i 5S o la Lega si sono illusi che questi veramente costituissero una cosa diversa da quelli che li hanno preceduti, mentre invece il populismo non è quello che fa le scelte per il “popolo” (termine che accomuna tutti: ricchi e poveri, sfruttati e sfruttatori), ma quello che usa l’arma della propaganda per illudere e tenere buoni gli sfruttati e gli emarginati, quelli che parlano alla pancia delle persone per ottenere consenso, quelli che soffiano e ingigantiscono le paure legate all’insicurezza sociale ed economica trovando sempre un capro espiatorio cui attribuire la responsabilità di queste insicurezze: l’immigrato, l’Europa e, quando tutto manca, i fantomatici “poteri forti” (sempre evocati senza però che qualcuno ne citi mai nome, cognome e collocazione sociale).
Ma le leggi dell’economia capitalista sono inesorabili, ed è qui che vengono al pettine i nodi dell’attuale governo: l’impossibilità a mantenere le promesse elettorali senza far saltare i conti dello Stato. Il problema infatti non sono le “rigide regole dell’Europa”, ma il dato di fatto che l’Italia ha un debito pari al 132% del PIL, debito su cui si pagano g1i interessi ai creditori, e più aumenta il debito, più aumentano gli interessi da pagare, tant’è che nonostante il cosiddetto avanzo primario (cioè il bilancio dello Stato al netto degli interessi) sia positivo da alcuni anni, resta il deficit e non diminuisce il debito.
Nelle prossime settimane dovranno scegliere: o venire meno al grosso delle promesse elettorali, o realizzarle in gran parte mandando all’aria i conti dello Stato con il rischio di una crisi finanziaria tipo quella del 2011 che costò il governo a Berlusconi e una nuova ondata di sacrifici ai proletari (Fornero ecc.).
Se c’è qualcosa che differenzia questo governo dai precedenti (perfino da quello Berlusconi) è da un lato il dilettantismo dei suoi componenti (privi non solo di esperienza, ma spesso di qualsiasi competenza) e la sua irresponsabilità, la sua capacità di far saltare equilibri internazionali e istituzionali, col rischio di far perdere qualsiasi credibilità al paese e alla democrazia borghese. Lasciando perdere le differenti gaffe e stupidità espresse da vari esponenti del governo (obblighi “flessibili”, vaccini obbligatori un giorno sì e uno no, possibilità di autocertificazione sanitarie vietate dalla legge, gare pubbliche –ILVA- dichiarate “illegittime ma non cancellabili” …) più grave è il modo di rapportarsi degli esponenti del governo all’Europa, ai differenti paesi europei e alle stesse istituzioni nazionali. Volendo galvanizzare i propri supporter, si sono sbattuti i pugni sul tavolo della UE sulla questione dei migranti, con il solo risultato di inimicarsi molti dei paesi fondatori della UE (Francia in testa), senza ottenere un briciolo di aiuto in più. Non sono nemmeno mancate le accuse e i reciproci insulti con Malta, Francia e Spagna. I soli amici di Salvini in Europa sono i paesi del cosiddetto gruppo di Visegrad, cioè quelli che di dividersi i migranti non ne vogliono sapere (con buona pace della coerenza). Ma se questo significa sconvolgere il normale svolgimento dei rapporti fra gli stati (una delle mistificazioni dell’ideologia borghese), peggio ancora è il comportamento di questo governo verso le altre istituzioni statali: già nella formazione del governo, quando il presidente della Repubblica aveva rigettato il nome di un ministro, i 5S subito reclamarono la messa in stato d’accusa di Mattarella; il presidente della camera dei deputati, Fico, dichiara di non essere d’accordo con il respingimento dei migranti? Salvini gli dice di stare zitto, che parla solo perché non ha niente da fare (la terza carica dello Stato!). Salvini sequestra navi ed esseri umani e quando i giudici, tenuti ad agire di fronte ad ogni notizia di reato, lo indagano per questi reati, lui grida al golpe, alla lesa maestà, sostenendo praticamente che poiché lui è stato eletto, i giudici non possono inquisirlo. Insomma la rimessa in discussione continua della divisione dei poteri, dell’esistenza di pesi e contrappesi nelle diverse istituzioni dello Stato, che è una delle fondamenta della mistificazione della democrazia borghese.
Nonostante questo, il governo gode ancora di appoggio popolare, e bisogna capire perché. Innanzitutto c’è l’aspetto “luna di miele”: il governo non è stato ancora visto all’opera per cui l’illusione permane (anche Renzi, oggi odiatissimo, dopo un anno di governo riuscì a superare il 40% dei voti alle elezioni europee); c’è poi una particolare capacità dell’uso della comunicazione e dei nuovi mezzi di comunicazione (i social media): inondare i social di dichiarazioni, di affermazioni che non passano per il vaglio di nessuno, l’importante è che siano di effetto, che infiammino i supporter, che moltiplichino i like, così da dare l’impressione di una verità condivisa (ci sono anche dei veri esperti che selezionano per i leader le dichiarazioni da fare). Ma c’è qualcosa di ancora più importante che spiega il diffondersi del populismo nei diversi paesi occidentali: “Salvini sfrutta, in altre parole, l’angoscia dell’impoverimento e della perdita dei diritti degli italiani individuando in un fantomatico nemico esterno (l’immigrato) la sua causa prima. Egli alza la voce pretendendo di parlare – come accade anche per il suo collega Di Maio – in nome di tutto il popolo italiano. In questo sfrutta astutamente il carattere parziale della pulsione [la pulsione securitaria]. La pulsione, infatti, non si nutre di ideali, ma solamente di portare a soddisfazione la propria spinta”[1]. E questo è reso ancora più facile in questa fase di difficoltà della lotta della classe operaia, la sola capace di indicare una prospettiva positiva all’insieme dell’umanità.
Al di là delle chiacchiere populiste, delle dichiarazioni di voler difendere il “popolo”, l’impostazione classista, antiproletaria di questo governo è chiara:
Se il carattere di classe di questo governo è indubbio, quello che non si può sapere è quanto durerà. Infatti esso si basa su un vero e proprio matrimonio di interessi, tra forze unite solo dal desiderio di occupare il potere, mentre sono divise quasi su tutto quello che bisogna fare.
Se Salvini ha dovuto ingoiare il “Decreto Dignità” (poco gradito agli industriali), reclamando però la reintroduzione dei famigerati voucher, il M5S si è dovuto tenere la furia di Salvini contro i migranti (politica poco gradita a molti elettori grillini). Ora lo scontro si sposta sui contenuti della prossima legge di bilancio: dato che la coperta è corta, ognuno cerca di tirarla dalla propria parte: Salvini ritiene irrinunciabile la flat tax mentre per i 5S indispensabile è il reddito di cittadinanza. Altro punto di frizione è il contributo di solidarietà sulle pensioni “d’oro”: per i 5S deve essere definitivo e da applicare alle pensioni superiori ai 4000 euro, mentre la Lega ha dei dubbi e, soprattutto, la vorrebbe applicare alle pensioni superiori ai 5000 euro. I 5S vogliono una legge contro la corruzione (il disegno di legge “rivoluzionario” di Bonafede), che invece non piace alla Lega, che si propone di cambiarlo in parlamento. Le grandi opere: la Lega le considera indispensabili, il M5S aveva promesso in campagna elettorale di bloccarle tutte.
Si potrebbe continuare così a lungo perché i motivi di frizione sono ancora molti, ma la conclusione è che nessuno può dire quanto durerà questo governo, anzi, c’è chi pensa che Salvini, forte del grande aumento di consensi ottenuto con il suo attivismo di questi mesi, mollerà i 5S prima o dopo le prossime elezioni europee per andare a nuove elezioni politiche che spera di vincere con l’appoggio di Forza Italia e Fratelli d’Italia e diventare così lui il primo ministro, ruolo che già oggi usurpa di fatto a Conte. Questo gli consentirebbe di andare ancora più avanti nella sua politica xenofoba, anti-UE, a favore di professionisti e imprese.
Dovunque ci si volti c’è poco da scegliere: Renzi, Di Maio, Salvini e chiunque altro non possono che servire gli interessi del capitale, un sistema in decomposizione che può sopravvivere solo imponendo maggiore sfruttamento ai proletari, guerre dappertutto nel mondo, avvelenamento del pianeta.
No, non è seguendo le promesse dei Salvini e Di Maio di turno, né cambiando governo che i proletari potranno trovare la strada del proprio riscatto.
Helios, 20-09-2018
[1] Massimo Recalcati, psicanalista, su Repubblica del 5 settembre scorso.
Ci sono degli avvenimenti che, sgrossati di tutte le retoriche, le false lacrime, le frasi altisonanti propinate da politici, opinionisti e mass media, mostrano con chiarezza la vera essenza ipocrita e cinica della borghesia verso le sofferenze e le sorti degli essere umani; quanto poco valore ha, ed ha sempre avuto, per la classe dominante la vita dell’uomo se non come elemento indispensabile nell’ingranaggio produttivo del capitale. Attraverso l’attacco del Giappone a Pearl Harbor, il bombardamento di Dresda[1], l’attacco alle Torri Gemelle, le bombe di Stato in Italia, la storia ci dimostra che la borghesia di qualsiasi Stato e colore, di fronte ai propri interessi, non ha mai avuto alcuno scrupolo morale a far morire degli esseri umani. Così come i terremoti, le tempeste, i disastri ambientali che ogni anno mietono centinaia di vittime ci mostrano come la messa in sicurezza delle popolazioni non sia la sua preoccupazione prioritaria, nonostante la conoscenza scientifica e tecnologica di cui dispone che permetterebbe un’azione preventiva di salvaguardia di strutture e vite umane.
Il nostro sdegno per tutto questo non può che accrescersi di fronte agli avvenimenti di Genova e Catania dove, in maniera sfacciata, la sofferenza e la vita di esseri umani sono usati per la competizione e lo scontro tra le forze politiche all’interno del governo italiano e sul piano della politica internazionale per imporsi sulla scena.
Un numero significativo di parenti di vittime del Ponte Morandi hanno rifiutato i funerali di Stato dichiarando che i loro cari erano delle “vittime di Stato”, e molte altre persone lo pensano a ragione. A un mese dal crollo le notizie sulle indagini in corso dicono che già da anni (e più volte) sono stati presentati dagli enti competenti rapporti dove si evidenziava uno stato di non sicurezza del ponte Morandi che mostrava cenni di cedimento. Tanto è vero che già prima del 2014 c’era il progetto “Gronda”, una variante autostradale per diminuire il carico di transito di mezzi pesanti sul ponte. Nel 2016, l'ingegnere Antonio Brencich, professore associato di Costruzioni in cemento armato all'Università di Genova, aveva denunciato la criticità del ponte dovuta a problemi di corrosione legati alla tecnologia usata da Morandi ma solo adesso, a tragedia avvenuta, si indaga su eventuali falli nella costruzione del ponte.
Solo adesso “si scopre” che non solo il ponte Morandi aveva problemi, ma che in Italia si valuta che almeno un centinaio di ponti andrebbero revisionati se non ricostruiti perché la tecnologia usata negli anni ‘50-‘60 garantiva la sopravvivenza di queste strutture per non più di una cinquantina di anni.
Del resto, in un territorio ad alto rischio sismico e alluvionale, come quello italiano, o nella Florida, nelle Filippine, dove gli uragani si susseguono sempre più devastanti, quali sono le politiche di prevenzione e messa in sicurezza? In Italia, dato lo stato di degrado e assoluta insicurezza delle scuole, bisogna solo augurarsi che la terra tremi in un giorno festivo per evitare la morte di centinaia di bambini e ragazzi (come poteva succedere a Ischia lo scorso anno nella scuola di Casamicciola “restaurata” appena un anno prima).
I morti di Genova, così come quelli del ponte crollato sulla A14 a Camerano nel marzo dello scorso anno, quelli delle alluvioni del 2014 a Genova, Savona, Chiavari, nella zona di Orbetello e in quella di Treviso, l’alluvione di Livorno un anno fa, o quella in Sardegna nel 2013; i morti dei terremoti all’Aquila, in Umbria, in Irpinia; le migliaia di persone che in questi disastri hanno perso tutto (affetti, casa, lavoro) non sono le vittime di calamità naturali incontrollabili, né del progresso industriale, né di questo o quel governo di turno, questo o quell’ente o personaggio particolare. Certamente ci possono essere delle responsabilità precise e puntuali, ma la vera causa della loro morte e della loro sofferenza è il sistema capitalista che avendo come principio motore la legge del profitto non solo non riesce a prevenire le catastrofi, ma non riesce neanche a proteggere l’umanità dai loro effetti:
“Il capitalismo non è innocente neppure nelle catastrofi dette “naturali” […]. Che piova senza sosta (o non piova affatto) per intere settimane è certamente un fatto naturale; ma che ne segua un’inondazione (o una siccità) è un fatto sociale. Analogamente, le scosse sismiche delle Ande sfuggono all’uomo; ma il fatto che distruggano le città del Perù, mentre Macchu Picchu vi resiste da secoli, ha cause sociali […]. Non solo la civiltà borghese può essere causa diretta di queste catastrofi per la sua sete di profitto e per l’influenza predominante dell’affarismo sulla macchina amministrativa (si veda il ruolo del disboscamento nelle inondazioni o […] la costruzione di case in zone di valanghe e d’inondazioni), ma si rivela impotente ad organizzare una protezione efficace nella misura in cui la prevenzione non è un’attività redditizia”. (Prefazione a Drammi gialli e sinistri della moderna decadenza sociale, raccolta di scritti di A. Bordiga degli anni 1951-53 sui disastri nel capitalismo moderno, pag. 8-9. Edizioni Iskra).
Per questo risulta ancora più rivoltante la falsa solidarietà di tutti gli esponenti governativi e di tutti i partiti ai familiari delle 43 vittime di Genova, con i funerali di Stato, le bandiere a mezz’asta, i minuti di silenzio in parlamento, le loro visite nel quartiere del ponte Morandi per rassicurare la gente che “lo Stato è con voi”, “il vostro dolore è il nostro”.
Ma ancora più rivoltante è la “caccia al colpevole” scatenata da Salvini, Di Maio e il ministro dei Trasporti pentastellato Toninelli immediatamente dopo il crollo del ponte. Prima ancora di sapere i come e i perché del crollo, ecco trovati i carnefici: “I responsabili… hanno un nome e un cognome e sono Autostrade per l’Italia”, “Ritirare la concessione e far pagare multe fino a 150 milioni di euro. Autostrade non ha fatto la manutenzione”, “Incassano miliardi, versando in tasse pochi milioni e non fanno neanche la manutenzione … I vertici di Autostrade per l’Italia devono dimettersi prima di tutto”. Salvini in un post su facebook tuona: “Atlantia (Autostrade) riesce ancora, con faccia di bronzo incredibile e con morti ancora da riconoscere, a parlare di soldi e di affari, chiedendo altri milioni agli Italiani in caso di revoca della concessione da parte del Governo dopo la strage di Genova. Dall’alto dei loro portafogli pieni (e dei loro cuori vuoti) chiedessero scusa e ci dessero i nomi dei colpevoli del disastro, che devono pagare. Il resto non ci interessa”. Di Maio, dal canto suo, glissa opportunisticamente sul comizio di Grillo del 2014 al Circolo Massimo di Roma contro il governo Renzi che voleva sperperare 3-4 miliardi di euro degli italiani per la Gronda mentre il ponte Morandi di sicuro avrebbe retto per almeno altri 100 anni e incitava il pubblico gridando “Dobbiamo fermarli con l’esercito!”. All’epoca si urlava per accaparrarsi consensi sfruttando la rabbia e la sofferenza dopo l’alluvione di Genova, oggi si tace per lo stesso motivo sfruttando la nuova tragedia.
Se lo “scaricabarile” è proprio dell’intera classe borghese, la “caccia alle streghe”, il dare in pasto al popolo “il diavolo”, origine di tutti i mali e su cui sfogare tutto il proprio rancore e la propria rabbia, è un fattore distintivo del populismo e la politica della Lega e del M5S ne sono oggi le maggiori espressioni.[2]
Questa caccia alle streghe e l’utilizzo di essere umani per il proprio tornaconto sono stati ancora più chiari e osceni nella vicenda della nave “U. Diciotti” (pattugliatore della Guardia Costiera italiana). 177 persone sfuggite a condizioni disumane nelle loro terre, che hanno subito ricatti, violenze fisiche e morali, che hanno rischiato la vita alla ricerca di un rifugio più sicuro, vengono trattenute per giorni e giorni sulla nave in condizioni igienico-sanitarie pericolose, al solo fine di far prevalere le proprie mire politiche. E vengono messe all’indice come LA CAUSA dei problemi degli italiani, come IL NEMICO dal quale difendersi. Vengono scherniti chiamandoli “palestrati” e con affermazioni tipo: “…la storia degli 'scheletrini che scappano dalla guerra' è una farsa. …. Sono clandestini in fuga dalle leggi. Mentre è pura fantasia l'ipotesi che io li abbia sequestrati: gli unici sequestrati sono gli italiani, vittime dell'immigrazione clandestina”[3].
Una volta diventato vicepremier e ministro dell’Interno, Salvini non ha esitato ad usare questi 177 profughi, e prima ancora quelli della nave Aquarius, come testa d’ariete della propria politica antieuropeista e per accrescere il proprio credito tra gli elettori, presentandosi come quello che agisce, che non ha paura di scontrarsi con “i poteri forti” e che mantiene quello che promette: difendere gli italiani contro tutti (l’orda dei delinquenti clandestini e le potenze europee che vogliono dare ordini agli italiani). A questo scopo Salvini non ha esitato a zittire e insultare il Presidente della Camera e suo alleato di governo, Fico, che era per lo sbarco dei profughi; a sviluppare attriti al vertice EU dei Ministri degli interni a Vienna; ma soprattutto a infischiarsene delle stesse leggi nazionali e internazionali riguardanti il soccorso in mare (impedendo agli stessi marinai di una nave italiana di sbarcare sul suolo italiano). E, di fronte al fatto di essere indagato per sequestro di persona aggravato e abuso di ufficio, ha sfoderato tutta la sua arroganza di “eletto dal popolo” rispetto ai giudici non eletti da nessuno.
Non ha esitato neanche a falsificare la realtà. Trovandosi incastrato tra il rifiuto dell’UE di accettare i suoi ricatti (“se non vi prendete gli immigrati, noi non paghiamo la nostra quota all’UE”), le critiche dirette e indirette di buona parte della classe politica italiana, compreso il suo alleato Forza Italia, di Papa Francesco, e di buona parte dell’opinione pubblica internazionale e non potendo mantenere in eterno i restanti 140 profughi in ostaggio, Salvini ha cercato aiuto alla chiesa attraverso Don Buonaiuto[4] per trovare una soluzione. La CEI ne prende 100, l’Irlanda 20 (dopo la visita del Papa), l’Albania 20. In tal modo la stragrande maggioranza dei famigerati “clandestini” della Diciotti comunque sbarca in Italia, ma senza perderci la faccia completamente come ministro degli Interni.
Se Salvini è l’espressione più chiara di cosa è il populismo, il resto della classe politica non è da meno in quanto ad ipocrisia e cinismo. In questa storia tutti hanno cercato di sfruttare la situazione a proprio favore. Il M5S, ed in particolare il suo leader Di Maio, sono stati attenti a mantenere il profilo più basso possibile, evitando di esporsi (anche rispetto alla presa di posizione di Fico sullo sbarco), facendo qualche critica giusto quando proprio non se ne poteva fare a meno, come nel caso delle esternazioni di Salvini sulla magistratura che starebbe indagando perché “di sinistra”. Questo perché sanno bene che la parte debole della coalizione sono loro e non vogliono perdere il posto di comando raggiunto, ma al tempo stesso non possono neanche rinnegare tutta la parte di elettorato migrato dalla “sinistra” che di certo non si riconosce in Salvini.
Il PD da parte sua, in tutta questa storia, cerca di recuperare la sua immagine di partito di sinistra contrapponendosi a Salvini e parlando di “solidarietà”, “umanità”, “responsabilità morale nei confronti di chi scappa dalla miseria e dalla guerra”, evitando di ricordare che è stato proprio il governo Renzi a patteggiare con la Libia un piano per impedire che i profughi prendessero il largo verso l’Italia.
Se una parte della borghesia italiana e della borghesia dei paesi europei si contrappone alla politica di Salvini e cerca di arginarne gli effetti non è certo per spirito umanitario e solidale verso i profughi, ma perché questa politica costituisce un pericolo per le relazioni internazionali dell’Italia e alimenta le forze centrifughe già in atto che destabilizzano l’Unità europea[5].
La causa della crescita enorme dei profughi sono le guerre senza fine, la desertificazione, la distruzione economica e sociale di intere aree geografiche che tutti gli Stati, con i loro governi e le loro forze politiche, hanno contribuito a creare e alimentare per la salvaguardia dei propri interessi economici, strategici e politici in una crisi economica senza via d’uscita. La causa della mancanza di lavoro, della miseria, della precarietà e insicurezza di vita che aumenta nei paesi centrali del capitalismo hanno la stessa origine e gli stessi responsabili[6].
Se il crollo del ponte Morandi ha potuto costituire per molti un elemento di riflessione sulla volontà e capacità di chi governa la società di porre in primo piano la sicurezza della popolazione ed ha prodotto un sentimento di solidarietà verso i familiari delle vittime e le famiglie costrette ad abbandonare le loro case, l’effetto della vicenda Diciotti non va nella stessa direzione. Da un lato, come al momento dell’attacco al capo di Stato Mattarella durante la formazione del governo[7], tutta la campagna di Salvini contro i rifugiati e la contro-campagna di PD e dintorni ha provocato due schieramenti contrapposti tra i difensori della linea dura contro gli immigrati e i difensori dell’accoglienza, tra razzisti e anti razzisti, rispolverando anche il binomio fascismo e l’antifascismo. Dall’altro, il no allo sbarco e la voce grossa di Salvini contro l’UE ha reso più pregnante l’idea che “noi non siamo razzisti, ma se già per gli italiani c’è poco, se i nostri giovani devono andare all’estero per trovare lavoro, allora è meglio che non ci arrivino altre bocche da sfamare”. Queste due tendenze sono il pericolo più insidioso in questo momento per i proletari. La prima li divide portandoli su di un terreno che non è il loro. La classe lavoratrice non è razzista o anti razzista, perché un proletario, quale che sia il colore della sua pelle o il luogo dove è nato, quale che sia la sua collocazione immediata (occupato, disoccupato, profugo, immigrato o autoctono) è comunque un uomo che è costretto a vendere la sua forza lavoro per poter sopravvivere e non può disporre della propria vita. La seconda li divide nella falsa contrapposizione “mors tua, vita mea”, che gli impedisce di comprendere che la causa sociale della propria sofferenza è il capitalismo e che la possibilità di vivere degnamente, di avere un futuro per sé ed i propri figli dipende dalla possibilità che sia tutta l’umanità capace di liberarsi delle catene del capitalismo attraverso la lotta unita di tutti i proletari.
Eva, 19-09-2018
[1] Città tedesca piena di rifugiati distrutta con un feroce bombardamento da inglesi e americani nel febbraio ’45 quando la guerra in Europa stava nei fatti per finire.
[2] Sullo sviluppo del populismo in Italia vedi anche Elezioni in Italia. Il populismo: un problema per la borghesia, un ostacolo per il proletariato [7]
[3] https://www.ilgiornale.it/news/politica/diciotti-salvini-scheletrini-solo-dei-clandestini-che-1572895.html [8]
[4] Don Aldo Buonaiuto, direttore di In Terris, molto vicino al Vaticano.
[6] Vedi: la serie di 4 articoli Migranti e rifugiati: vittime del capitalismo (Parte I) [10]; Immigrazione: un dramma epocale di un sistema senza prospettive [11]; Migranti e rifugiati: la crudeltà e l'ipocrisia della classe dominante [12]
I media borghesi e i commentatori politici internazionali concordano sul fatto che la formazione del governo populista tra M5S e Lega in Italia potrebbe portare alla più grave crisi dell’Unione europea dopo la Brexit nel Regno Unito, il referendum secessionista in Catalogna e la crisi in Grecia. Dopo la Polonia, l’Ungheria e l’Austria (in parte), il governo di un membro fondatore dell’EU e di uno dei cinque paesi più importanti dell’Europa occidentale è nelle mani dei populisti, cioè di forze caratterizzate dall’irresponsabilità politica rispetto alle esigenze globali della borghesia sul piano nazionale ed europeo. Questa situazione in Italia può inoltre innescare un effetto domino tendente a rafforzare ulteriormente le forze centrifughe già in atto nell’UE, mettendo a rischio l’esistenza stessa di un’Unione Europea ancora capace di costituire una difesa, sul piano economico, rispetto alle altre potenze (in particolare USA, Cina, Russia).
Tre sono le questioni attorno alle quali si focalizzano gli allarmi per l’Unione Europea: l’immigrazione, la politica estera e l’economia.
Sul fronte dell’immigrazione, il problema di fondo è che questa questione viene utilizzata dalle forze populiste come perno per la loro affermazione politica sul piano interno ed internazionale[1]. Il no agli sbarchi in Italia e il battere i pugni di Salvini contro l’Europa su questa questione incoraggiano e danno vigore a forze analoghe in altri paesi. Le rassicurazioni da parte della cancelliera Merkel che l’Italia può aspettarsi tutto il sostegno per trovare una soluzione “europea” a difesa delle frontiere contro l’immigrazione e al tempo stesso il rifiuto di accettare ogni atteggiamento provocatorio e ricattatorio come nel caso della nave Diciotti, non servono solo a porre dei limiti a Salvini, ma anche a contenere in Ungheria un Orban, in Germania il ministro dell'Interno Horst Seehofer, della CSU bavarese, e soprattutto l’Afd, Alternativa per la Germania, partito anti-UE e antimmigrazione.
Sul piano della politica estera un governo “euroscettico”, che manifesta apertamente il suo risentimento in particolare nei confronti della Germania, entra in carica in Italia in un momento in cui gli altri principali leader europei (compresa Theresa May!) ripetono il mantra dell’unità europea di fronte alla Russia di Putin e all’America di Trump. Nel G7 di Charlevoix, in Canada, il capo del governo italiano, Conte, appoggia la dichiarazione dei rappresentanti europei che hanno respinto la proposta di Trump di “invitare” la Russia a rientrare nei suoi ranghi - ma omette di dire che aveva appena twittato il contrario ai suoi supporter, mentre Salvini, che primeggia sulla scena governativa italiana, non nasconde le sue “simpatie” per Trump e Putin.
Sul piano economico, Di Maio e Salvini hanno dichiarato di non voler subire le imposizioni in materia di politica economica che la Germania ha dettato all’Eurozona e voler tornare a una sorta di politica neo-keynesiana di aumento della spesa pubblica (e del debito) per stimolare l’economia nazionale. Per molti economisti, una tale politica in sé potrebbe anche non essere del tutto errata, ma il problema di fondo è che l’Italia ha uno dei debiti più alti e uno dei più bassi tassi di crescita nell'Eurozona. Una politica economica irresponsabile basata solo sulla ricerca del consenso elettorale[2], potrebbe portare a un crollo dell’economia italiana che avrebbe delle ripercussioni sul resto dell’Europa ben più pesanti di quelle della crisi in Grecia, non solo per l’economia di singoli paesi, ma anche per la stabilità dell’intera zona-euro. E la causa principale di ciò non sarebbe tanto lo stato attuale dell’economia italiana (secondo gli esperti finanziari il livello del debito è ancora gestibile e l’apparato produttivo non è uno dei peggiori d’Europa), ma la sua crisi politica. La classe dominante non è più in grado di assicurare alla guida del governo delle forze politiche capaci di perseguire una politica economica ed estera responsabile da un punto di vista capitalista.
Per questo se, da una parte, i vertici dell’UE mostrano una certa accondiscendenza su alcuni punti programmatici del governo M5S-Lega, come sul reddito di cittadinanza (che poi corrisponde a quei sussidi che in altri paesi, e già da tempo, esistono), dall’altra mantengono una posizione ferma sulle questioni centrali - come sul debito pubblico - lanciano allarmi sulle scelte economiche e seguono molto da vicino le vicende della politica italiana, come durante tutta l’epopea delle ultime elezioni e della formazione di questo governo[3].
Nel capitalismo decadente, l’Italia è stata ripetutamente alla punta nel panorama politico-sociale: il fascismo, la mafia, l’euro-comunismo, Berlusconi. L’Italia è una delle culle della politica populista contemporanea. Berlusconi è stato il modello per Trump. Oggi, mentre il Berlusconi americano sta creando il caos a Washington e nel mondo intero, l’Italia ha messo su una seconda generazione di populisti che, come Orban a Budapest e Kacynski a Varsavia, si presentano come difensori del welfare state, combinando posizioni di destra e di sinistra della borghesia e che appaiono più “realisti” della sinistra perché promettono di difendere alcuni degli oppressi a spese di altri. Lo slogan di Trump è: l’America prima di tutto. Lo slogan di Salvini non è “l'Italia prima di tutto” ma “gli Italiani prima di tutto”.
B/E, 21-09-2018
Links
[1] https://it.internationalism.org/en/tag/2/24/marxismo-la-teoria-della-rivoluzione
[2] https://en.internationalism.org/node/3823
[3] https://fr.internationalism.org/rinte93/1848.htm
[4] https://es.internationalism.org/revista-internacional/200612/1201/1848-el-manifiesto-comunista-una-brujula-indispensable-para-el-por
[5] https://it.internationalism.org/en/tag/3/49/imperialismo
[6] https://it.internationalism.org/en/tag/situazione-italiana/politica-della-borghesia-italia
[7] https://it.internationalism.org/content/1419/elezioni-italia-il-populismo-un-problema-la-borghesia-un-ostacolo-il-proletariato
[8] https://www.ilgiornale.it/news/politica/diciotti-salvini-scheletrini-solo-dei-clandestini-che-1572895.html
[9] https://it.internationalism.org/content/1425/il-populismo-al-governo-italia-un-fattore-dinstabilita-lunione-europea
[10] https://it.internationalism.org/cci/201601/1351/migranti-e-rifugiati-vittime-del-capitalismo-parte-i
[11] https://it.internationalism.org/cci/201510/1342/immigrazione-un-dramma-epocale-di-un-sistema-senza-prospettive
[12] https://it.internationalism.org/cci/201509/1339/migranti-e-rifugiati-la-crudelta-e-lipocrisia-della-classe-dominante
[13] https://it.internationalism.org/en/tag/4/75/italia
[14] https://it.internationalism.org/content/1424/morti-di-stato-genova-ostaggi-di-stato-sulla-nave-diciotti-il-cinismo-e-lipocrisia
[15] https://it.internationalism.org/content/1423/italia-il-populismo-al-potere-un-governo-antiproletario-che-e-un-problema-la-borghesia