gennaio-marzo 2013
E’ passato poco più di un anno dall’avvento del governo Monti e tutti ci ricordiamo il sospiro di sollievo che, anche tra i più avvertiti, si è tirato per la messa al bando di Berlusconi e di quell’accozzaglia di cialtroni che componevano il suo governo. Quel sospiro è durato fin troppo poco perché, come tutti ci ricordiamo, in nome del raddrizzamento dell’Italia e dello spread che continuava a salire, il nuovo governo Monti ha dimostrato di non essere affatto imbarazzato per il fatto che tutti lo chiamavano “governo tecnico” ed ha cominciato a sparare nel mucchio con degli attacchi che non si erano ancora visti fino a quel momento e che andavano ad aggiungersi a quelli che avevano già prodotto i vari governi precedenti, di destra e di “sinistra”[1]. Ma a cosa hanno portato questi interventi, tanto sbandierati dalle varie componenti politiche e dalle stesse centrali sindacali come indispensabili al risanamento dell’Italia, alla fine di quest’anno? Se non c’è stata ripresa economica - perché, a sentire il premier, non ce ne sarebbero state le condizioni e i tempi - almeno una parte dei guai finanziari sono stati messi a posto? Ahimè, le notizie riportate nel recente supplemento “Finanza pubblica” al bollettino statistico della Banca d’Italia dicono proprio di no, e in maniera decisa! Infatti, il debito pubblico italiano ha superato ad ottobre scorso il valore di 2.000 miliardi di euro, il livello più alto mai raggiunto[2], aumentando dall’inizio dell’anno, sotto il governo Monti, di ben 71,238 miliardi (+3,7%). Con il livello raggiunto a ottobre, il debito pubblico italiano pesa per circa 33.081mila euro a testa, neonati compresi[3].
Inoltre, come si vede dalla maggiore pendenza del tratto a freccia rispetto alla linea tratteggiata in figura, la velocità con cui questo debito cresce con il tempo è addirittura aumentata dal 2007 ad oggi, il che significa che non solo siamo indebitati, ma che continuiamo a indebitarci sempre più velocemente nonostante tutti i sacrifici che abbiamo già patito (nel 2007, l’ultima volta che il debito è diminuito, questo era pari al 103,6% del PIL, nel 2011 era passato al 120,6% e nel 2012, dopo un anno di governo Monti, sarebbe passato – per ora si tratta di una stima - al 126,4%).[4] A questo si aggiunge l’allarme rosso per la sanità pubblica. Il Servizio sanitario nazionale “affoga” nei debiti: circa 40 miliardi di euro verso i fornitori.[5] “Dal lato della crescita invece l'OCSE stima (per il poco valore che ha) un 4% complessivo per i prossimi 10 anni, il che significa uno 0,4% annuo. Quindi una crescita pressoché nulla. (…) Nel terzo trimestre il Pil è sceso dello 0,2% rispetto al trimestre precedente e del 2,4% rispetto al 3° trimestre del 2011. Rispetto alle previsioni del Governo e dell'FMI (di parte) un risultato quindi disastroso. (…) L'indice armonizzato dei prezzi al consumo, a base 100 nel 2005, è pari a 119,2, +2,7 punti rispetto alla lettura di 116,5 di luglio. Ciò significa che in 7 anni il potere di acquisto è diminuito di quasi il 20% vale a dire che una persona compra con lo stesso denaro il 20% in meno dei beni che comprava nel 2005. La disoccupazione, ultimo dato aggiornato questo, sta all'11,1%, ma bisognerebbe aggiungere circa un 2,3% dovuto a oltre un miliardo e cento circa di ore di Cassa Integrazione che qui significano, anche in ragione del trend economico, disoccupazione, e non quindi una misura temporanea. Il tasso di disoccupazione fra i giovani tra i 15 e 24 anni è 35,1% (dati vecchi, di Settembre)”.[6]
Ma è vero che è tutta colpa della Germania?
Certo, qualcuno potrebbe obiettare che non siamo l’unico paese a essere indebitato, che il Giappone ha un debito di oltre 11.000 miliardi, con un rapporto debito/PIL da capogiro del 229%, o che gli USA arrivano addirittura a 12.500 miliardi di euro, con un più misurato ma non leggero rapporto debito/PIL del 105%[7].
La stessa Germania è dal 2011 il paese con il più alto debito pubblico dell’Eurolandia e con un rapporto rispetto al PIL che supera l’80% (ben oltre 20 punti al di sopra del valore richiesto dagli accordi di Maastricht) tanto che, nel “2012 Fiscal Sustainability Report”, la Commissione Europea ha parlato, a proposito della Germania, di necessità di una inversione di tendenza sulla questione del debito pubblico. Ma non è solo un problema di indebitamento, è tutto il decantato sistema tedesco che, visto da vicino, mostra più di una crepa, come quella della disoccupazione, ufficialmente al 6,7%, ma dietro la quale c’è la vergogna dell’assunzione di moltissimi lavoratori, specie i più giovani, attraverso i mini-job, lavori scarsamente retribuiti (circa 400 euro mensili) che occupano ormai circa sette milioni di tedeschi (che su 39 milioni di occupati rappresentano il 18% circa della forza lavoro).[8] Tanto che è molto diffusa la voce, accreditata sia dalla destra berlusconiana che da una certa sinistra populista alla Grillo e che ha una presa significativa su molte persone[9], secondo cui le condizioni dell’Italia non sarebbero tanto cattive ma che sarebbe la Germania che ci vuole in crisi per poter guadagnare “sul suo debito. Il Bund tedesco a dieci anni viene remunerato sotto il tasso di inflazione a dispetto peraltro dei fondamentali dell’economia tedesca. (…) La Germania in questo modo può ricapitalizzare le sue banche che sono intossicate molto di più delle altre da titoli spazzatura consentendo una sorta di riciclaggio del denaro. La terza ragione: deprimendo le economie dei suoi competitor e in particolare dell’Italia che è il secondo Paese europeo esportatore la Germania si assicura i mercati.”[10]
Naturalmente non si può non riconoscere un fondo di verità anche a questi argomenti. Ma quello che sfugge a chi porta avanti questi ragionamenti è che, con i processi di sovrapproduzione di merci che rendono sempre più asfittici i mercati e la politica dell’indebitamento su cui ormai si basa il mercato capitalista, l’economia reale cede sempre più il posto ad un’economia fittizia, basata sulla semplice speculazione di denaro, con capitali che corrono per il mondo intero alla ricerca di risorse da parassitare, principalmente dove ci sono economie deboli sul punto di crollare. Così, una delle qualità più importanti da esibire oggi sul mercato è la fiducia che riescono a ispirare i singoli soggetti (individui, aziende o nazioni) ai loro creditori. Infatti, se il problema fosse solo una questione di debito pubblico, come abbiamo visto prima il Giappone o gli stessi USA dovrebbero essere KO da tempo. Invece in Europa, in seguito alla crisi economica della Grecia, si è sparsa una contagiosa sfiducia verso i paesi più deboli che ha messo in forti difficoltà in successione Grecia, Spagna e poi Italia. Che lo si voglia o no, il governo Monti ha dunque avuto il “merito” di restituire la fiducia dei creditori nella capacità dell’azienda Italia di restituire il suo debito. Ma attenzione! Come abbiamo detto prima l’operazione Monti si ferma qui e non c’è alcun segnale che si possa andare oltre. Anzi, grazie al Governo Monti, le imposte sono aumentate, la tassa sulla spazzatura aumenterà e gli italiani hanno utilizzato le tredicesime per pagare l’Imu, con la conseguenza che a Natale sono crollate le attività commerciali perché gli italiani, lasciati senza soldi, non hanno potuto acquistare granché e la situazione economica del Paese, nonostante i sacrifici chiesti ai cittadini, è peggiorata. E se dopo la “cura Monti” la maggioranza degli italiani è più povera di prima, se lo stesso Stato è più indebitato di prima, cose che avevamo puntualmente previsto[11], su che basi potremmo sperare in una prossima “ripresa”?
Che abbiamo da sperare dalle nuove elezioni?
Quali sono dunque le prospettive che si aprono con le prossime elezioni politiche di febbraio prossimo? Purtroppo la situazione non permette una grande scelta, e questo non tanto per la qualità dei candidati e delle parti politiche in lizza, che comunque è quella che è, cioè pessima, ma soprattutto perché chiunque andrà al potere non potrà fare altro che continuare a portare avanti la stessa politica di Monti. L’unica variante potrà essere quella di accompagnare queste misure con delle leggi a favore delle fasce meno protette che faranno finta di proteggere la parte di popolazione in condizioni di maggiore povertà, cioè di salvare dalla morte per fame e freddo qualche migliaio di persone, spingendo però decine di milioni di persone verso condizioni di vita sempre meno sostenibili.
Si, perché ormai non si tratta più soltanto dei poveri di una volta, dei proletari, ma sono interi strati sociali, a volte anche di commercianti, di ex benestanti, che sono progressivamente scaraventati in condizioni di miseria crescente. E con una situazione all’orizzonte che, secondo gli stessi economisti di regime, non è destinata a risolversi domani, dopodomani, ma che forse potrebbe schiarirsi un poco nel giro dei prossimi anni. Per cui, di fronte ad un nuovo anno che tutti percepiscono già come un anno di ulteriori batoste, non possiamo restare inermi e dobbiamo cominciare a porci la domanda: come opporci a tutto questo? E la strada che dobbiamo seguire è di porre questo quesito a tutti, perché lo stesso quesito è presente nella testa di ognuno di noi, anche se la risposta non è ancora matura. Insomma, se Monti è il meglio che ci potevano dare, non c’è più nulla da attendersi! Facciamo sentire la nostra voce!!
Ezechiele 3 gennaio 2013
[1] Vedi Rapporto sull’Italia 2012 [2] ed in particolare la parte 1. Crisi economica [3].
[3] https://www.repubblica.it/economia/2012/12/14/news/debito_italia_supera_2mila_miliardi-48721806/ [5].
[4] La Repubblica, 14/11/2012.
[5] https://www.repubblica.it/economia/2012/12/14/news/debito_italia_supera_2mila_miliardi-48721806/ [5].
[7] https://intermarketandmore.finanza.com/debito-pubblico-italia-e-record-ringraziamo-sentitamente-chi-ne-e-stato-responsabile-51613.html [7]
[9] La capacità di presa di queste campagne è significativa della situazione attuale. Come la natura ha paura del vuoto, così la gente, che si rende ben conto dell’entità della crisi economica, non riesce a concepire che questa sia legata all’esaurimento dell’attuale modo di produzione: il capitalismo. Di qui una certa disponibilità ad accettare nel frattempo frottole che rimandano il problema di fare i conti con la situazione reale.
[10] www.liberoquotidiano.it/news/home/1016279/Ecco-perche-alla-Merkel-conviene-un-Italia-in-crisi.html [9]
[11] Vedi l’articolo Tolto Berlusconi resta la crisi e le batoste sulla pelle degli proletari [10] pubblicato all’inizio del mandato Monti su Rivoluzione Internazionale n°173.
Gaza viene punita ancora una volta, come nel caso del precedente massacro, anche attraverso il blocco che ha paralizzato la sua economia, affamato le popolazioni e sbriciolato gli sforzi di ricostruzione dopo le devastazioni del 2008.
Rispetto alla potenza dello Stato israeliano, le capacità militari di Hamas e degli altri gruppi jihadisti radicali di Gaza sono irrisorie. Tuttavia, grazie al caos in Libia, Hamas ha messo le mani su missili a lunga gittata più efficaci. Oltre a Ashdod nel sud (dove tre abitanti di un edificio residenziale sono stati uccisi da un razzo sparato dalla striscia di Gaza), anche Tel Aviv e Gerusalemme sono adesso alla loro portata. La minaccia di paralisi che ha preso Gaza inizia a farsi sentire nelle principali città israeliane.
Chiaramente, le popolazioni su entrambi i lati del confine sono gli ostaggi delle logiche militariste avversarie che dominano Israele e la Palestina - con un aiuto discreto dell’esercito egiziano che pattuglia le frontiere di Gaza per impedire incursioni o fughe indesiderate. Le due popolazioni sono vittime di una guerra permanente - sotto forma di razzi e bombe, ma anche del peso crescente di un’economia zavorrata dalle esigenze della guerra. Inoltre la crisi economica globale costringe oggi la classe dirigente in Israele come in Palestina ad adottare nuove misure di restrizione del tenore di vita, ad aumentare il prezzo dei prodotti di prima necessità.
In Israele, l’anno scorso, l’aumento dei prezzi delle case è stato all’origine del movimento di protesta che ha preso la forma di manifestazioni di massa e assemblee - movimento direttamente ispirato alle rivolte del mondo arabo e che aveva come parole d’ordine “Netanyahu, Assad e Mubarak sono tutti uguali” e “Arabi e Ebrei vogliono case accessibili e decenti”. Durante questo breve ma stimolante movimento di lotta, ogni cosa nella società israeliana era aperta alla critica e al dibattito – compresa la “questione palestinese”, il futuro delle colonie e dei territori occupati.
Uno delle maggiori paure dei manifestanti era che il governo rispondesse a questa sfida chiamando all’“unità nazionale” e lanciando si in una nuova avventura militare.
D’altro canto, l’estate scorsa, nei territori occupati della striscia di Gaza e della Cisgiordania, l’aumento del prezzo del carburante e del cibo ha causato una serie di manifestazioni di collera, di scioperi e blocchi stradali. I lavoratori dei trasporti, della sanità e dell’istruzione, studenti ma anche disoccupati, si sono ritrovati in strada di fronte alla polizia dell’Autorità Palestinese per esigere aumenti salariali, lavoro, prezzi più bassi e la fine della corruzione[1]. Manifestazioni contro il carovita si sono avute anche nel vicino Regno di Giordania.
Nonostante le differenze nel tenore di vita tra i popoli israeliano e palestinese, a dispetto del fatto che quest’ultimo subisce in più oppressione e l’umiliazione militare, le radici di queste due rivolte sociali sono esattamente le stesse: la crescente incapacità di vivere in un sistema capitalistico in crisi.
Le motivazioni per l’ultima escalation militare sono state oggetto di molte speculazioni. Netanyahu cerca di fomentare l’odio nazionalista per migliorare le sue possibilità di rielezione? Hamas ha causato questi attacchi per dimostrare la sua determinazione alle bande islamiste più radicali? Quale ruolo sarà chiamato a giocare nel conflitto il nuovo regime in Egitto? In che modo questi eventi influenzeranno la guerra civile in Siria?
Queste domande sono pertinenti, ma non permettono di rispondere al problema di fondo che le lega. La realtà è che si tratta di un’escalation della guerra imperialista, l’antitesi di quelli che sono gli interessi e le esigenze delle popolazioni palestinesi, israeliane e più in generale del Medio Oriente.
Mentre le rivolte sociali permettono agli sfruttati di lottare insieme per i loro interessi materiali contro i capitalisti e lo Stato che li sfruttano, la guerra imperialista crea una falsa unità tra gli sfruttati e loro sfruttatori, accentuando loro divisione tra i primi. Gli aerei di Israele che bombardano Gaza offrono nuove reclute ad Hamas e alla Jihad per i quali ogni ebreo che si rispetti è considerato il nemico. Quando i razzi jihadisti cadono su Ashdod o Tel Aviv, ancor più israeliani si volgono verso la protezione e gli appelli alla vendetta del “loro” Stato contro gli “Arabi”. Le pressanti questioni sociali che animano le rivolte vengono inghiottite in una valanga di odio e isteria nazionalista.
Grandi o piccole, tutte le nazioni sono imperialiste; grandi o piccole, tutte le frazioni borghesi non hanno mai alcuno scrupolo ad usare la popolazione come carne da cannone in nome degli interessi della “patria”. Del resto, di fronte all’attuale escalation di violenza a Gaza, quando i governi “responsabili” e democratici come gli Stati Uniti e la Gran Bretagna fanno appello alla “calma”, al ritorno verso un “processo di pace”, l’ipocrisia raggiunge il suo apice. Perché sono questi stessi governi che fanno la guerra in Afghanistan, in Pakistan, in Iraq. Gli Stati Uniti sono anche il principale sostenitore finanziario e militare di Israele. Le grandi potenze imperialiste non hanno alcuna soluzione “pacifica”, non più di Stati quali l’Iran che arma apertamente Hamas e Hezbollah. La vera speranza di una pace mondiale non sta nei “nostri” governanti, ma nella resistenza degli sfruttati, nella loro crescente comprensione che hanno gli stessi interessi in tutti i paesi, lo stesso bisogno di lottare e di unirsi contro un sistema che non può offrire altro che la crisi, la guerra e la distruzione.
Amos (20 novembre)
(da World Révolution, organo della CCI in Gran Bretagna)
Pubblichiamo di seguito un articolo scritto da un compagno molto vicino alla CCI in Spagna che racconta e trae degli insegnamenti dalle mobilitazioni dei lavoratori e delle masse oppresse della Palestina. Salutiamo con forza questa iniziativa. In una regione dove c'è un brutale scontro imperialistico, con enormi sofferenze per la popolazione, parole come classe, proletariato, lotta sociale, autonomia del proletariato... sono seppellite dalle parole guerra, nazionalismo, rivalità etniche, conflitti religiosi, ecc. Per questo tali mobilitazioni sono importanti e devono essere conosciute e prese in considerazione dai proletari di tutti i paesi. Ci propongono di essere solidali con nazioni, popoli, governi, organizzazioni di “liberazione” di vario tipo... dobbiamo rigettare una tale solidarietà! La nostra solidarietà può andare solo ai lavoratori e agli oppressi della Palestina, di Israele, dell’Egitto, della Tunisia e dal resto del mondo. SOLIDARIETÀ DI CLASSE CONTRO “SOLIDARIETÀ” NAZIONALE.
CCI
Manifestazioni di massa in Cisgiordania contro il carovita, la disoccupazione e l’Autorità Palestinese
In questa parte del mondo, il Medio Oriente, così spesso in prima pagina a causa di massacri e barbarie, di rivalità tra i diversi gangster imperialisti che tengono in ostaggio la popolazione civile e di ogni genere di odio e movimenti nazionalisti, etnici e religiosi (che le potenze “democratiche” occidentali fomentano e sostengono secondo i loro interessi), mentre i titoli della stampa borghese erano occupati in questi ultimi giorni dai disordini nei paesi musulmani in seguito alle vignette su Maometto, non è stato praticamente scritto nulla sulle grandi manifestazioni e gli scioperi che ci sono stati durante il mese di settembre contro gli effetti della crisi capitalista internazionale sulla vita dei proletari e degli strati oppressi dei territori palestinesi della Cisgiordania, eppure sono state le più grandi manifestazioni da anni[1].
In una situazione spesso disperata, il proletariato e la popolazione sfruttata dei territori palestinesi, sottomessi all’occupazione militare, al blocco e al disprezzo totale per le loro vite e le loro sofferenze da parte dello Stato israeliano, hanno enormi difficoltà a fuggire alle influenze sia nazionaliste sia islamiste e alla tendenza a lasciarsi imbrigliare dalle varie organizzazioni per la “resistenza militare” contro Israele, cioè ad andare al macello sacrificale di fronte a un’enorme superiorità militare. È proprio la lotta contro gli effetti della profonda crisi del capitalismo internazionale che apre la possibilità al riemergere di lotte proletarie di massa a livello mondiale e al superamento delle divisioni settoriali, nazionali, etniche o di altro genere all’interno della classe operaia, come anche al superamento delle illusioni e mistificazioni di ogni tipo (le illusioni “democratiche” all’interno del capitalismo, della “liberazione nazionale”, ecc.).
Scioperi e manifestazioni
Il fattore scatenante dell’ondata di scioperi e manifestazioni è stato l’annuncio fatto dal governo del Primo ministro Fayyad[2] dell’aumento dei prezzi dei generi di prima necessità (cibo...) e della benzina. Questa è stata la goccia che ha fatto traboccare la sfiducia sempre più forte della popolazione della Cisgiordania verso l’Autorità Palestinese. Questa è vista sempre più come un covo di arrivisti e corrotti nel quale trova protezione per il proprio operato ogni casta di capitalisti palestinesi e di cui Fayyad è la personificazione[3]. Non ha nemmeno una parvenza di legittimità, senza circo elettorale dal 2006 e in conflitto con Hamas. Inoltre è incapace a risolvere il benché minimo problema di un’economia palestinese con le spalle al muro e totalmente dipendente dalle “donazioni” esterne[4], soffocata tanto dall’occupazione militare quanto dal controllo totale di Israele sulle importazioni e le esportazioni, sui prezzi, la riscossione delle imposte o le risorse naturali (accordi di Parigi, la contropartita economica degli accordi di Oslo).
Già durante l’estate il disagio si è espresso attraverso varie proteste. Ad esempio, a fine giugno, una manifestazione a Ramallah dopo l’annuncio di un incontro tra il Presidente Abbas e il vice primo ministro israeliano Shauz Mofaz è finita nella brutale repressione da parte della polizia palestinese[5].
Con una disoccupazione di massa (57% secondo le Nazioni Unite, insopportabile soprattutto tra i giovani) e un costo della vita tale che la maggior parte delle persone riesce solo giusto a mangiare e con gran parte dei settori popolari scontenti (ad esempio, 150.000 dipendenti statali non hanno avuto lo stipendio), l’annuncio del 1° settembre dell’aumento dei prezzi ha fatto da detonatore.
Dal 4 settembre in tutta la Cisgiordania si succedono manifestazioni di massa giorno dopo giorno per un miglioramento delle condizioni di vita (Hebron, Betlemme, Ramallah, Jenin, ecc.). Le manifestazioni sono dirette anche contro il controllo israeliano dell’economia dei territori (accordi di Parigi), ma è chiaro che il malcontento non si limita a un sentimento nazionalista o anti-israelita, l’asse centrale delle manifestazioni sono le condizioni di vita e di lavoro. A Ramallah dei giovani gridavano: “Prima lottavamo per la Palestina, ora lottiamo per un sacco di farina”[6].
All’inizio delle proteste, Abbas, nell’ovvia lotta all’interno del potere contro il suo rivale Fayaad, ha manifestato simpatia per la “primavera palestinese”. Ma man mano che le proteste si sviluppavano e dove l’espressione del malessere non si limitava al governo Fayaad o agli accordi di Parigi, ma si estendeva contro la stessa Autorità Palestinese, l’organizzazione Fatah, che all’inizio ha forse giocato un certo ruolo per incanalare e anche organizzare le manifestazioni, ha fatto di tutto per porre fine gradualmente alla loro radicalizzazione e alla loro estensione[7].
Possiamo dire la stessa cosa di Hamas, che senz’altro ha approfittato delle mobilitazioni per cercare di destabilizzare l’attuale governo dell’Autorità Palestinese, ma di fronte alla loro ampiezza e il pericolo di contagio nella striscia di Gaza, ha ovviamente fatto marcia indietro.
A Nablus, una manifestante ha detto: “Siamo qui per dire al governo basta... vogliamo un governo che vive come il suo popolo vive e mangia quello che il suo popolo mangia”[8]. “Siamo stanchi di sentir parlare di riforme... un governo dopo l’altro... un ministro dopo l’altro... e la corruzione è sempre là” come dice un cartellone nella città di Beit Jala[9].
A Jenin, i manifestanti hanno chiesto un salario minimo, la creazione di posti di lavoro per tutti i disoccupati e la riduzione delle tasse d’iscrizione all’università[10]. Il Primo ministro Fayyad dichiara che è “pronto a dimettersi”.
Le manifestazioni di massa continuano, con barricate sulle strade e scontri con la polizia dell’Autorità Palestinese. Il 10 settembre è iniziato uno sciopero generale dei trasporti proclamato dai sindacati. Tassisti, tranvieri, autisti di autobus hanno partecipato in massa. Molti settori, come quello dei dipendenti degli asili hanno aderito allo sciopero. Il movimento si è esteso. L’11 nelle università e nelle scuole viene interrotto il lavoro per 24 ore in solidarietà con lo sciopero generale[11].
I lavoratori di tutte le università palestinesi, insieme agli studenti, convocano uno sciopero di 24 ore per il 13 settembre[12].
Di fronte a tale situazione e dopo una riunione con i sindacati, il governo annuncia che ritira l’aumento dei prezzi che era stato annunciato, che pagherà la metà dei salari dovuti ai dipendenti dal mese di agosto e che farà dei tagli agli stipendi e ai privilegi dei politici e degli alti funzionari dell’Autorità palestinese (AP).
Il 14, il sindacato dei trasporti annulla l’appello allo sciopero perché sono state intavolate delle “costruttive negoziazioni” con l’AP.
Così le proteste di massa sembrano essersi calmate almeno temporaneamente, ma il malessere sociale è ben lungi dall’essere scomparso. I sindacati dei dipendenti statali e degli insegnanti annunciano mobilitazioni con interruzioni parziali del lavoro a partire dal 17[13]. I sindacati del settore sanitario annunciano il 18 settembre che daranno inizio a dei movimenti se le loro rivendicazioni (aumento degli effettivi, miglioramento della mobilità e degli avanzamenti dei lavoratori) continueranno a non essere ascoltate dal governo[14].
I movimenti sembrano essere limitati alla zona controllata dall’Autorità Palestinese, la Cisgiordania.
L’importanza di questo movimento
Al di là degli elementi concreti o particolari, questo movimento assume un’importanza particolare per la regione in cui si è sviluppato. Questa è una regione dagli interminabili e cruenti conflitti imperialistici, sia direttamente tra gli Stati, che per interposte pedine[15], con una popolazione civile che ne subisce le conseguenze[16] e che è diventato il terreno fertile per lo sviluppo dei movimenti reazionari di influenza nazionalista o religiosa. Ma soprattutto, va notato che questi movimenti hanno luogo in un contesto di lotte simili che si sviluppano sia nella regione sia a livello internazionale. Non dimentichiamo le grandi mobilitazioni in Israele negli ultimi mesi contro il carovita che, nonostante le loro debolezze e illusioni “democratiche”, possono significare un importante primo passo verso la rottura della “unità nazionale” in uno Stato così militarizzato come lo Stato israeliano. Non dimentichiamo che sono stati i grandi scioperi operai in tutto l’Egitto che hanno dato lo slancio decisivo che ha portato alla caduta di Mubarak, il protetto degli Stati Uniti.
È necessario che il proletariato e gli strati oppressi della Palestina, e di ogni luogo, comprendano che l’unica speranza di avere condizioni di vita e di lavoro degni e un’esistenza in pace (che è il vero desiderio della stragrande maggioranza della popolazione palestinese) passa attraverso lo sviluppo di lotte di massa con tutti gli sfruttati della regione, al di sopra di ogni divisione nazionale o religiosa. Rompere “unità nazionale” palestinese, unificare le lotte, in primo luogo con gli sfruttati e gli oppressi di Israele e dell’intera regione, questa è l'arma più potente per indebolire e paralizzare il braccio assassino dello Stato israeliano e degli altri gangster imperialisti. La “resistenza armata”, cioè la sottomissione agli interessi dei diversi gruppi nazionalisti o religiosi portano solo al massacro e alla sofferenza senza fine e al rafforzamento degli sfruttatori e di altri corrotti palestinesi.
E’ necessario che gli sfruttati palestinesi, come quelli del resto del mondo, non abbiamo il minimo dubbio: se non lottano per i propri interessi di classe contro il capitalismo, se si lasciano trascinare in lotte di “liberazione nazionale”, razziale o altre della stessa risma, se si sottomettono agli “interessi generali del paese”, cioè agli interessi generali della borghesia e del suo Stato, il presente e il futuro che li attende sotto il sistema capitalista è lo stesso di quello che l’ANC di Mandela riserva ai suoi “fratelli” e “compatrioti” minori: la miseria, lo sfruttamento e la morte[17].
Draba (23 settembre)
[1] Le poche informazioni che ci sono state erano ovviamente centrate sull’occupazione israeliana e l’anti-imperialismo (che è, per loro, “anti-americanismo” e i loro alleati) come per l’agenzia cubana Prensa latina o la tv iraniana di Stato Press TV, dei media sempre così loquaci per tutto ciò che riguarda i movimenti nazionalisti. Neanche i forum della sinistra e dell’estrema sinistra del capitale, almeno in Spagna, (ad esempio lahaine.org, kaosenlared.net o rebelion.org) hanno mostrato grande interesse per questi avvenimenti. Se si capisce bene, la “solidarietà con il popolo palestinese” si limita ai momenti in cui questo serve a sostenere i vari interessi sulla scacchiera imperialista mondiale o per pubblicizzare una qualsiasi causa sciovinista. Quando si lotta contro il “proprio” governo e si rompe l’“unità nazionale” per difendere le proprie condizioni di vita, allora questa lotta non merita notorietà.
[2] Uomo nel FMI, nominato da Abbas nel 2007 nel contesto della guerra con Hamas, sotto la pressione dagli Stati Uniti.
[3] www.aljazeera.com/opinions/2012/9/13/economic-exploitation-of-palestinians-flourishes-under-occupation [19]
[5] https://altahrir.wordpress.com/2012/07/01/ramallah-protesters-attacked-by-palestinian-authority-police/ [21]
[11] https://www.latimes.com/archives/blogs/world-now/story/2012-09-10/palestinians-protest-in-west-bank-cities-over-economy [26]
[15] . Sono ben noti i legami tra l’Iran e la Siria con Hamas, così come i legami della Siria di Assad con la Russia (suo principale alleato tra le grandi potenze imperialiste) e con l’Iran (suo principale alleato regionale).
[16] Non dimentichiamo che la guerra tra Hamas e Fatah per controllo della striscia di Gaza nel 2007 ha fatto innumerevoli vittime e causato sofferenze tra la popolazione civile. Ecco i “danni collaterali” della “liberazione nazionale”... www.haaretz.com/1.4942705 [30], e https://libcom.org/article/palestinian-union-hit-all-sides [31]
[17] Vedi : “Sudafrica: la borghesia sguinzaglia poliziotti e sindacati contro la classe operaia”, https://it.internationalism.org/node/1236 [32]
Dopo la pubblicazione di questo articolo, abbiamo assistito al più importante movimento di scioperi in Africa del Sud dalla fine dell’apartheid, nel 1994. Questi scioperi sono doppiamente significativi perché non solo dimostrano – ammesso che sia ancora necessario – che dietro il presunto miracolo economico dei “paesi emergenti” si nasconde, come dappertutto, una miseria crescente, ma essi mettono anche in evidenza che i lavoratori del mondo intero, lungi dall’avere interessi divergenti, si battono dappertutto contro le indegne condizioni di vita che il capitalismo impone. Per questo motivo, nonostante le debolezze su cui ritorneremo, gli scioperi che scuotono l’Africa del Sud si iscrivono nel solco delle lotte operaie di tutto il mondo.
Dopo il massacro del 16 agosto, la lotta sembrava doversi esaurire, schiacciata dal peso delle manovre della borghesia. In effetti, mentre lo sciopero si estendeva a diverse altre miniere con rivendicazioni identiche, una concertazione di pescecani veniva organizzata tra i soli sindacati di Marikana, la direzione e lo Stato, il tutto sotto la santa mediazione dei dignitari religiosi. La manovra aveva lo scopo di soffocare l’estensione degli scioperi dividendo gli operai tra quelli, da una parte, che beneficiavano di negoziati e di tutta l’attenzione mediatica e quelli, dall’altra, che si lanciavano nello sciopero nell’indifferenza generale, ad eccezione dell’attenzione dei poliziotti (bianchi e neri) che proseguivano la loro campagna di terrore, le loro provocazioni e le loro scorrerie notturne.
Sul terreno l’AMCU, sindacato che aveva approfittato dello scatenamento dello sciopero selvaggio a Marikana il 10 agosto per stendere la sua longa manus in una guerra di territorio sanguinosa contro il suo concorrente MUN , incitava gli operai a scontrarsi fisicamente con i minatori che avevano ripreso il lavoro: “La polizia non potrà proteggerli per sempre, la polizia non dorme con loro nelle loro baraccopoli. Se tu vai a lavorare, devi sapere che ne subirai le conseguenze.” A causa del blackout mediatico che si è brutalmente abbattuto su questa lotta, non siamo in grado di determinare se gli operai hanno effettivamente ceduto alla violenza o se i sindacati hanno proseguito i loro regolamenti di conti sotto la copertura degli scioperi; comunque diversi assassini e aggressioni sono stati perpetrati durante tutto il movimento.
Sebbene la propaganda intorno al “ritorno dell’apartheid” non sia mai stata presa sul serio dagli operai in un tale contesto, la lotta era comunque rifluita. Pur tuttavia attualmente il movimento conosce una nuova vita.
Il 30 agosto la popolazione veniva a sapere, attraverso il giornale di Johannesburg, The Star, che quando la polizia aveva affermato di aver sparato sui minatori di Marikana “per legittima difesa”, aveva mentito vergognosamente, perché i risultati dell’autopsia mostravano che i minatori erano stati abbattuti di spalle, mentre cercavano di fuggire ai loro carnefici. Secondo numerose testimonianze di giornalisti presenti sul posto, i poliziotti s’erano messi anche ad inseguire gli scioperanti per assassinarli a sangue freddo. Quasi nello stesso momento il tribunale di Pretoria annunciava la sua intenzione di accusare i 270 minatori arrestati il 16 agosto durante la sparatoria della polizia… dell’uccisione dei loro compagni (!), sulla base di una legge antisommossa che prevedeva l’imputazione di omicidio di tutte le persone arrestate sul luogo di una sparatoria da parte della polizia.
Questo è quello che si fa nella “più grande democrazia africana”: mentre nessuno dei poliziotti che hanno colpito i minatori di Marikana è stato indagato, lo Stato incolpa i sopravvissuti alla sparatoria. Con un po’ di immaginazione, il tribunale di Pretoria avrebbe potuto giustiziare una seconda volta i morti per il loro assassinio!
La costernazione fu tale che il 2 settembre il tribunale fu costretto ad indietreggiare, annunciando l’annullamento delle accuse e la liberazione di tutti i prigionieri. Lo Stato era stato costretto a rendersi conto del suo errore per il fatto che gli scioperi di erano ben presto diffusi nella maggior parte delle miniere del paese, con le stesse rivendicazioni. In effetti il 31 agosto quindicimila impiegati di una miniera d’oro sfruttata dal gruppo Gold Fields, vicino Johannesburg, iniziavano uno sciopero selvaggio. Il 3 settembre i minatori di Modder East, impiegati di Gold One, entrano a loro volta in lotta. Il 5 settembre quasi tutti i minatori di Marikana manifestavano con l’appoggio della popolazione e rifiutavano, il giorno dopo, di sottoscrivere il miserabile accordo firmato tra i sindacati e la direzione di Lomin. Dal 14 settembre le compagnie Amplats, Aquarius e Xstrata, ognuna delle quali sfrutta diversi siti, annunciavano la sospensione della loro attività, mentre la produzione di quasi tutte le miniere del paese sembravano arrestarsi. L’ondata di scioperi si estendeva anche ad altri settori, in particolare quello dei trasportatori su gomma.
Questa dinamica era, in parte, alimentata dall’indignazione suscitata dalle testimonianze degli scioperanti incarcerati: “Essi [i poliziotti] ci hanno colpito e ci hanno schiaffeggiato, ci hanno camminato sulle dita con i loro stivali”, “Non arrivo a capire cosa mi è successo, è la prima volta che vado in prigione! Noi rivendicavamo un aumento di salario e loro si sono messi a spararci addosso, e in prigione i poliziotti ci hanno picchiato, ed hanno anche rubato i 200 rand [20 euro] che avevo con me!”
Il terrore poliziesco si abbatteva anche sugli scioperanti rimasti liberi con interventi molto violenti, che hanno causato diversi arresti con motivazioni le più disparate, numerosi feriti e diversi morti[1]. Il 14 settembre il portavoce del governo dichiarava: “E’ necessario intervenire perché siamo arrivati ad un punto in cui bisogna fare delle scelte importanti.” Dopo questo bell’esempio di frase vuota di cui solo i politici hanno il segreto, il portavoce aggiungeva, molto più esplicitamente: “Se lasciamo che questa situazione si sviluppi, l’economia ne soffrirà fortemente.” Il giorno dopo fu organizzata una spedizione estremamente brutale, verso le due del mattino, nei dormitori degli operai di Marikana e delle loro famiglie. La polizia, appoggiata dall’esercito, ha ferito numerose persone, per la maggior parte donne. Al mattino scoppiano delle rivolte, con barricate costruite per le strade. La polizia non aspettava altro per scatenare la sua violenza sugli operai in tutto il paese in nome della “sicurezza delle persone”.
Mentre i suoi sbirri terrorizzavano la popolazione, lo Stato, con la complicità dei sindacati, portava, il 18 settembre, un colpo importante alla lotta, concedendo ai soli minatori di Marikana aumenti dall’11 al 22%. Questa vittoria ingannevole aveva chiaramente l’obiettivo di dividere gli operai e togliere dal movimento i lavoratori che fino ad allora erano stati al centro della lotta. In altri termini,la borghesia sacrificava un 22% per gli operai di Marikana per soffocare la combattività degli altri scioperanti, stoppare l’estensione della lotta e privare la maggior parte degli operai degli aumenti salariali rivendicati.
Ciononostante, il 25 settembre i novemila impiegati della miniera Beatrix entravano a loro volta in sciopero, quelli di Atlatsa si gettavano nella lotta il 1 ottobre. La violenza della polizia crebbe di nuovo con i suoi interrogatori brutali, i rastrellamenti e gli assassini. Il 5 ottobre la compagnia Amplats alzava il tiro annunciando il licenziamento di dodicimila minatori. Su questa onda parecchie compagnie, con l’appoggio dei tribunali, minacciavano di licenziare in massa con uno scoraggiante ricatto: o gli operai accettavano i miseri aumenti salariali proposti dalle direzioni, oppure sarebbero stati cacciati. Gold One finì col licenziare 1.400 persone, Gold Field altri 1.500, e così via.
Nel momento in cui scriviamo questo articolo, le ultime schiere di scioperanti tornano a poco a poco al lavoro. Ma questa lotta, malgrado le debolezze che la hanno caratterizzata, esprime una certa crescita della coscienza di classe. Gli operai sudafricani hanno sentito la necessità di lottare collettivamente, hanno formulato rivendicazioni precise ed unitarie, hanno cercato costantemente di estendere la loro lotta. In un contesto in cui la crisi e la miseria vanno inesorabilmente ad approfondirsi questo movimento è un’esperienza incancellabile nello sviluppo della coscienza di tutti i proletari della regione e una lezione per i proletari del mondo intero.
El Generico, 22 ottobre
[1] E’ ancora impossibile stabilire il numero di scioperanti abbattuti dalla polizia sudafricana, ma la stampa ha parlato di sette morti a Rustenburg e di almeno un morto tra le fila degli autisti di camion.
La crisi è ormai aperta, è chiara a tutti e nessuno può sfuggirne.
Pochi credono ancora all’“uscita dalla crisi” di cui ci parlano tutti i giorni.
Il pianeta ci mostra sempre più il suo spettacolo quotidiano di desolazione: guerra e barbarie, fame insopportabile, epidemie, per non parlare delle manipolazioni da irresponsabili apprendisti stregoni che i capitalisti operano sulla natura, la vita e la salute, al solo scopo di realizzare sempre più profitto.
Di fronte a tutto questo è difficile immaginare quale altro sentimento possa pervaderci se non l’indignazione e la voglia di rivolta. E’ difficile pensare che la maggioranza del proletariato creda ancora a un futuro nel capitalismo. Purtuttavia le masse non hanno ancora ripreso appieno il cammimo della lotta.
Bisogna allora pensare che è finita? Che il rullo compressore della crisi è troppo forte, che la demoralizzazione che produce è insuperabile?
Ci sono delle grandi difficoltà…….
E’ innegabile che oggi la classe operaia vive difficoltà importanti, dovute almeno a quattro motivi;
• Il primo, di gran lunga quello principale, consiste nel fatto che il proletariato non ha coscienza di se stesso, avendo perduto la sua propria identità di classe. In seguito alla caduta del muro di Berlino, negli anni ‘90 si è scatenata una propaganda volta a convincerci del fallimento del comunismo. I più audaci - ed i più stupidi - annunciavano anche “la fine della storia”, il trionfo della pace e della democrazia… Associando il comunismo alla carcassa putrefatta del mostro stalinista, la classe dominante ha cercato di screditare in anticipo qualsiasi prospettiva di classe tesa a rovesciare il sistema capitalista. Non contento di cercare di distruggere qualsiasi idea di prospettiva rivoluzionaria si è anche sforzato di fare della lotta del proletariato una sorta di arcaismo da conservare come “memoria culturale” nel museo della Storia, come i fossili di dinosauri o la grotta di Lascaux.
E soprattutto, la borghesia ha continuato ad insistere senza sosta sulla scomparsa della classe operaia nella sua forma classica dallo scenario politico. Sociologi, giornalisti, politici e filosofi vari insistono incessantemente sull’idea che le classi sociali sono sparite, fuse nel magma informe delle “classi medie”.
E’ il sogno permanente della borghesia: una società nella quale i proletari si trasformano in semplici “cittadini”, divisi in categorie socio-professionali, più o meno ben individuabili e soprattutto attentamente divise - in colletti bianchi e colletti bleu, impiegati, precari, disoccupati, ecc. - con interessi divergenti e che si “uniscono” solo temporaneamente, isolati e passivi, nelle urne elettorali. E’ vero che il battage sulla sparizione della classe operaia, ripetuto ed illustrato con l’ausilio di reportage, libri, trasmissioni televisive… ha fatto si che molti proletari per il momento non riescono a concepirsi come parte integrante della classe operaia e ancor meno come classe sociale indipendente.
• Da questa perdita d’identità di classe del proletariato derivano le difficoltà ad affermare la sua lotta e le sue prospettive storiche. In un contesto nel quale la borghesia stessa non ha altro da offrire che l’austerità, dominano il ciascuno per sé, l’isolamento ed il si salvi chi può. La classe dominante sfrutta questi sentimenti per mettere gli sfruttati gli uni contro gli altri, dividerli per impedire ogni risposta unitaria, per spingerli alla disperazione.
• Il terzo fattore, conseguenza dei primi due, è che la brutalità della crisi tende a paralizzare molti proletari, per la paura di cadere nella miseria assoluta, di non poter nutrire la propria famiglia e di ritrovarsi in mezzo alla strada, isolati ed esposti alla repressione. Anche se alcuni, messi con le spalle al muro, sono spinti a manifestare la propria collera, come gli “Indignati”, non si concepiscono come una reale classe in lotta. Ciò, nonostante gli sforzi ed il carattere talvolta relativamente esteso dei movimenti, limita la capacità di resistere alle mistificazioni e alle trappole tese dalla classe dominante, a riappropriarsi delle esperienze storiche e trarre le lezioni con la necessaria riflessione e profondità.
• Vi è infine un quarto elemento importante che spiega le difficoltà attuali della classe operaia a sviluppare la sua lotta contro il sistema: l’arsenale di inquadramento della borghesia, apertamente repressivo, come le forze di polizia, o soprattutto più insidiose e ben più efficaci, come le forze sindacali. Su quest’ultimo aspetto in particolare, la classe operaia non è ancora pervenuta a superare i timori a lottare al di fuori del loro inquadramento, anche se sono sempre di meno quelli che si illudono sulla capacità dei sindacati a difendere i nostri interessi. E questo inquadramento fisico si accoppia ad uno ideologico più o meno controllato dal sindacato, i media, gli intellettuali, i partiti di sinistra, ecc. Quello che oggi la borghesia riesce a sviluppare di più è sicuramente l’ideologia democratica. Ogni avvenimento viene sfruttato per vantare i benefici della democrazia. La democrazia è presentata come il quadro in cui ogni libertà può svilupparsi, dove tutte le opinioni si esprimono, dove il potere è legittimato dal popolo, sono favorite le iniziative, tutti possono accedere alla conoscenza, alla cultura, ai sogni e, perché no, al potere.
In realtà la democrazia offre solo un quadro nazionale allo sviluppo del potere di élites, del potere della borghesia e il resto non è che un’illusione, l’illusione che nella cabina elettorale si possa esercitare qualsiasi potere, che nell’emiciclo parlamentare si possano esprimere le opinioni del popolo attraverso il voto dei propri “rappresentanti”. Non bisogna sottovalutare il condizionamento di questa ideologia sulle coscienze proletarie, così come non si deve dimenticare il grande choc provocato dalla caduta dello stalinismo alla fine degli anni ’80. A tutto questo arsenale ideologico si aggiunge l’ideologia religiosa. Questa non è nuova se si pensa che ha accompagnato l’umanità sin dai suoi primi passi nel bisogno di comprendere il mondo circostante. Non è nuova soprattutto se si considera fino a che punto essa ha contribuito a legittimare tutti i poteri nella storia. Ma oggi, il dato nuovo è che questa si innesta nelle riflessioni di una parte della classe operaia di fronte all’effetto distruttivo di un capitalismo in fallimento. Essa cerca di fuorviare questa riflessione spiegando la “decadenza” del mondo occidentale come conseguenza della perdita dei valori portati avanti dalle religioni nel corso dei millenni, in particolare da quelle monoteiste. L’ideologia religiosa ha la forza di ridurre a nulla l’estrema complessità della situazione. Essa dà risposte semplici, apparentemente facili da applicare. Nelle sue forma integraliste riesce a convincere solo una minoranza di proletari, ma in generale contribuisce a parassitare la riflessione della classe operaia.
… e un enorme potenziale
Questo quadro può sembrare un po’ disperato: di fronte ad una borghesia che controlla efficacemente le sue armi ideologiche, ad un sistema che sta minacciando se non addirittura portando alla miseria gran parte dell’umanità, c’è ancora la possibilità di sviluppare un pensiero positivo per far nascere una speranza? C’è ancora una forza sociale capace di mettere in atto un’operazione così grande come la trasformazione radicale della società? A ciò bisogna rispondere si, cento volte si, senza alcun dubbio. Non si tratta di avere una fiducia cieca nella lasse operaia, una fede quasi religiosa negli scritti di Marx o uno slancio disperato verso una rivoluzione già persa. Bisogna invece prendere un certo distacco nel valutare la situazione, operare un’analisi serena al di là delle questioni immediate, cercare di capire il valore reale delle lotte della classe operaia sulla scena sociale e studiare a fondo il ruolo storico del proletariato.
Nella nostra stampa abbiamo già analizzato come, a partire dal 2003, la classe sia entrata in una dinamica positiva rispetto al riflusso che aveva subito con il crollo dei paesi dell’Est. Numerose manifestazioni a conferma di questa analisi si trovano nelle lotte più o meno ampie di questo periodo. Lotte che mostrano tutte una progressiva riappropriazione da parte della classe di alcuni tratti storici della propria essenza: la solidarietà, la riflessione collettiva e l’entusiasmo di fronte all’avversità.
Abbiamo potuto vedere questi elementi all’opera nelle lotte contro le riforme delle pensioni in Francia nel 2003 e nel 2010-2011, nella lotta contro il CPE(Contratto di primo impiego), sempre in Francia nel 2006, ma anche in modo meno esteso in Gran Bretagna (aeroporto di Heathrow, raffinerie di Lindsay), negli stati Uniti (Metrò di New York), in Spagna (Vigo), in Egitto, a Dubai, in Cina, ecc. Il movimento degli Indignati ed di Occupy, in particolare, hanno espresso questa tendenza in maniera più generale ed ambiziosa rispetto alle lotte di singole imprese.
Cosa abbiamo visto nel movimento degli Indignati? Proletari di ogni genere, dal precario all’impiegato “stabile”, riunitisi per vivere un’esperienza collettiva ed ottenere da questa una migliore comprensione della posta in gioco del periodo. Abbiamo visto persone entusiasmarsi alla sola idea di potere di nuovo discutere liberamente con gli altri, persone discutere di esperienze alternative individuandone i pregi ed i difetti. Abbiamo visto persone rifiutarsi di essere vittime passive di una crisi che non hanno provocato e che non vogliono pagare. Persone che hanno messo in piazza assemblee spontanee, adottando forme di espressione che favorissero la riflessione ed il confronto, evitando le perturbazioni ed il sabotaggio delle discussioni. Infine e soprattutto, il movimento degli Indignati ha permesso lo schiudersi di un sentimento internazionalista, la comprensione che, in tutto il mondo, subiamo la stessa crisi e quindi è necessario lottare contro di essa al di là delle frontiere.
Certo non abbiamo quasi per nulla sentito parlare esplicitamente di comunismo, di rivoluzione proletaria, di classe operaia e di borghesia, di guerra civile, ecc. Ma ciò che hanno mostrato questi movimenti è stato anzitutto l’eccezionale creatività della classe operaia, la sua capacità di organizzarsi dovute alla sua caratteristica inalienabile di forza sociale indipendente. La riappropriazione cosciente di queste sue caratteristiche è ancora all’inizio di un percorso lungo e tortuoso, ma è inevitabilmente in marcia. Questa si accompagna indissolubilmente ad un processo di decantazione, di riflusso, di scoraggiamenti parziali. Ciononostante alimenta la riflessione di minoranze che si pongono in prima linea nella lotta della classe operaia a livello mondiale ed il cui sviluppo è visibile, quantificabile, da diversi anni.
E’ un processo sano, che contribuisce alla chiarificazione della posta in gioco alla quale classe operaia è oggi confrontata.
Quindi, anche se le difficoltà che si pongono alla classe operaia sono enormi, niente nella situazione attuale ci può far affermare che i giochi sono fatti, che essa non avrà la forza di sviluppare delle lotte di massa e poi rivoluzionarie. Al contrario, le espressioni viventi della classe si moltiplicano e studiandone approfonditamente la loro effettiva valenza, e non solo ciò che sembrano in apparenza dove si evidenzia solo la fragilità, ne emerge il potenziale e la promessa di futuro che esse contengono. Il loro carattere minoritario e sporadico è là per ricordarci che le principali qualità dei rivoluzionari sono la pazienza e la fiducia nella classe operaia[1].
Questa pazienza e fiducia si basa sulla comprensione di ciò che rappresenta storicamente la classe operaia: la prima classe al contempo espropriata e rivoluzionaria che ha la missione storica di emancipare l’intera umanità dal giogo dello sfruttamento. Si tratta di acquisire una visione materialista, storica, di lungo termine ed è questa visione che ci ha permesso di scrivere nel 2003, nel formulare il bilancio del nostro XV Congresso Internazionale: “Come affermano Marx ed Engels, non si tratta di considerare “ciò che questo o quel proletario od anche tutto il proletariato immagini momentaneamente come suo fine. Interessa solamente ciò che esso è e ciò che sarà storicamente costretto ad essere” (La Sacra famiglia). Una tale visione ci mostra in particolare che, di fronte ai colpi sempre più forti della crisi del capitalismo, che si traducono in attacchi sempre più feroci, la classe reagisce e reagirà necessariamente sviluppando la sua lotta. Questa lotta all’inizio consisterà in una serie di scaramucce che annunceranno uno sforzo verso lotte sempre più di massa. E’ in questo processo che la classe si vedrà di nuovo come una classe distinta, che ha degli interessi propri e tenderà a ritrovare la sua identità, aspetto essenziale che a sua volta stimolerà la lotta”.
GD, 25 ottobre
Il processo che si è tenuto a L’Aquila a fine ottobre è all’altezza delle ultime stupidaggini di tele reality. Si trattava di veri attori? Di una barzelletta di cattivo gusto? Si potrebbe anche crederlo. Ma no, non stiamo sognando! Il tribunale dell’Aquila ha realmente condannato i cinque scienziati della Commissione “Grandi Rischi” a sei anni di reclusione per “omicidio per imprudenza”. In concreto si rimprovera loro di aver utilizzato delle espressioni troppo rassicuranti in un comunicato stampa, proprio una settimana prima che arrivasse il sisma che ha distrutto l’Aquila, il 6 aprile 2009. Bisogna ricordarsi che questo sisma, di magnitudo 6,3 della scala Richter, fece più di 300 vittime ed oltre 1500 feriti, distruggendo numerosi edifici. Ma di qui a far portare tutta la responsabilità all’equipe di scienziati, ce ne passa! Soprattutto quando si prenda in considerazione la grande complessità di questo tipo di previsioni.
D’altra parte la comunità scientifica ha prontamente reagito: “Si fa portare agli scienziati la responsabilità di una catastrofe non prevedibile”, ha dichiarato all’Agenzia di stampa Sipa, Jean-Paul Montagner, professore di geofisica presso l’Istituto di Fisica della Terra di Parigi (IPGP) e all’Università di Parigi-Diderot. “E’ l’insieme del sistema che ha fallito, e si attribuisce la responsabilità agli scienziati.” O ancora : “E’ piuttosto sconcertante e sconvolgente”, stima Alexis Rigo, sismologo del CNRS di Tolosa. “Come si può condannare dei ricercatori su qualche cosa di imprevedibile?”[1].
Per vederci un po’ più chiaro, occorre fare un piccolo passo indietro, all’inizio del 2009.
All’epoca il territorio italiano era colpito da numerose scosse telluriche che inquietavano già la popolazione. Al di fuori di qualche lesione qua e là, non si lamentava tuttavia alcun danno, ma il ripetersi del fenomeno crea un tale stato d’animo che il presidente della Protezione Civile, Guido Bertolaso, aveva chiamato l’assistente alla Protezione Civile della Regione, Daniela Stati, per convocare una riunione della commissione “Grandi Rischi” una settimana prima della catastrofe.
Più recentemente, Repubblica TV ha diffuso delle intercettazioni telefoniche che ci informano su questa misteriosa chiamata tra Bertolaso e la sua assistente. L’oggetto di questa chiamata non potrebbe essere più chiaro : “Ti chiamerà De Bernardinis, adesso, il mio vice, al quale ho detto di fare una riunione lì all'Aquila domani su questa vicenda di questo sciame sismico che continua, in modo da zittire subito qualsiasi imbecille, placare illazioni, preoccupazioni, eccetera. ... Però devi dire ai tuoi di non fare comunicati dove non sono previste altre scosse di terremoto, perché quelle sono cazzate, non si dicono mai queste cose quando si parla di terremoti … Digli che quando devono fare comunicati parlassero con il mio ufficio stampa. … Vengono Zamberletti, Barberi, Boschi, quindi i luminari del terremoto d’Italia. Li faccio venire all’Aquila o da te o in prefettura, decidete voi, a me non frega niente, di modo che è più un’operazione mediatica, hai capito? Così loro, che sono i massimi esperti di terremoti diranno: è una situazione normale, sono fenomeni che si verificano, meglio che ci siano 100 scosse di 4 scala Richter piuttosto che il silenzio perché 100 scosse servono a liberare energia e non ci sarà mai la scossa, quella che fa male. Hai capito?”.[2]
Altrettanto illuminante è la telefonata tra Bertolaso e il sismologo Enzo Boschi. E’ il 9 aprile 2009 quando Bertolaso convoca una riunione di esperti della commissione Grandi Rischi ma prima chiama Boschi e dice: “Mi hanno chiesto: ma ci saranno nuove scosse?” dice Bertolaso “La riunione di oggi è finalizzata a questo, quindi è vero che la verità non la si dice”. Boschi risponde: “Non ti preoccupare, sai che il nostro è un atteggiamento estremamente collaborativo. Facciamo un comunicato stampa che prima sottoponiamo alla tua attenzione”.[3]
Ecco come il potere del capitale compra le parole degli scienziati per far “tacere gli imbecilli” e per liberarsi di misure di sicurezza troppo impegnative. Questa non è una novità. Ci ricordiamo bene la favolosa storia della nube radioattiva di Chernobyl che - ci dicevano nel 1986 - non avrebbe raggiunto l’Europa occidentale... Con un tale approccio, se ne può essere certi, la catastrofe è assicurata. E’ chiaro che per il potere si tratta di trovare dei colpevoli, per placare gli spiriti e ritrovare la pace. E da questo punto di vista, cosa poteva apparire più semplice e logico che incolpare gli scienziati di “negligenza, imprudenza e inesperienza”?[4]
Senza togliere la parte di responsabilità che tocca a questi scienziati[5], farne dei capri espiatori fortemente esposti sui media permette alle autorità di nascondere un’altra verità: le vere ragioni per cui gli effetti delle catastrofi naturali sono così devastanti e i veri responsabili.
Nel 2000, la situazione sismica della penisola italiana era stata oggetto di un rapporto molto dettagliato. Ugualmente alla fine degli anni 1990, “[il rapporto Barberi][6] raggruppava il lavoro di tecnici incaricati di verificare lo stato di migliaia di costruzioni pubbliche. Tutti i sindaci ne avevano ottenuto una copia. Numerosi monumenti de L’Aquila che sono crollati con il terremoto erano elencati in questo rapporto.”
“C’era anche un ex ingegnere che aveva lanciato un allarme basandosi sul rilevamento del radon, ricorda Jean-Paul Montagner. Nelle settimane che hanno preceduto il terremoto, Giampaolo Giuliani ha ripetutamente lanciato degli allarmi su un terremoto imminente a L’Aquila.” Con tali testimonianze, la responsabilità delle autorità non è più da dimostrare. Un’altra realtà che la borghesia italiana spera probabilmente di nascondere attraverso la frenetica ricerca di capri espiatori, è la propria indifferenza e incapacità a venire in aiuto della popolazione de L'Aquila. Come conclude l’articolo di Rue89: “Qui, 37.000 persone, in mancanza di meglio, vivono ancora attraverso gli aiuti di Stato. I lavori diventano eterni e la speranza che un giorno la città possa essere rimessa a nuovo è andata in fumo... E la politica di austerità del governo Mario Monti non ha alcuna priorità per l'assistenza alle vittime dei terremoti”, [ Rue89, 26/10/12].
Enkidu (5 dicembre 2012)
[1] Citazioni tratte dal Nouvel Observateur del 23/10/12.
[3] https://abexpress.it/ [37], leggi l'articolo [38], ascolta l’intercettazione [39].
[4] Processo verbale de L’Aquila citato ne Il Fatto quotidiano.
[5] Va infatti ricordato che questi hanno effettivamente ceduto alla pressione politica per rassicurare gli abitanti.
[6] “Il rapporto Barberi, dal nome dell’ex capo della Protezione Civile, era il più grande studio mai realizzato riguardante la vulnerabilità sismica del paese”, Rue89, 26/10/12.
Pubblichiamo qui di seguito il contributo di una lettrice che permette, alla luce delle ricerche in psicologia sociale e in neurologia, di capire meglio i legami tra le condizioni di vita ed i comportamenti di dipendenza da sostanze psicoattive. Spiegando i meccanismi che sono alla base di questo fenomeno crescente, questo contributo illustra un aspetto dell’impasse del capitalismo e tutto il cinismo della classe dominante. Prendere coscienza della realtà delle sofferenze generate dallo sfruttamento e dalla barbarie della società è importante. L’appello alla “coscienza collettiva” é, a questo titolo, perfettamente valido in quanto si tratta di un'arma degli sfruttati usata per criticare e rovesciare una società disumana. Noi ci teniamo dunque a salutare vivamente il contributo della compagna e ad incoraggiare questo approccio. Si precisa che i riferimenti di legge e le statistiche si riferiscono alla Francia, ma un discorso del tutto analogo vale per tutti gli altri paesi, compresa naturalmente l’Italia. Le note 9 e 11 sono state aggiunte all’articolo originale.
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Gli individui che sono senza lavoro sono costantemente stigmatizzati per la loro presunta mancanza di volontà, in particolare a causa del maggiore uso di psicofarmaci[1] che fanno rispetto al resto della popolazione, come testimoniato da numerosi studi che sono regolarmente realizzati sui comportamenti di dipendenza dei giovani e delle persone senza lavoro. Al contrario, ben pochi studi sono stati svolti sull’uso di psicofarmaci tra le persone professionalmente attive. Questa è tuttavia una realtà che colpisce molti lavoratori e le cui cause sono molteplici e spesso mascherate. Inoltre, le strutture e le azioni che vengono messe in campo da parte dello Stato per la lotta contro le dipendenze sono deboli e ipocrite.
Il consumo dei dipendenti pubblici esclusi e ansiosi di fronte all’avvenire
I dipendenti pubblici che perdono il lavoro consumano più tabacco, alcool, psicofarmaci (ansiolitici, antidepressivi, miorilassanti, ecc.) e droghe illegali. Così, secondo uno studio dell’INPES[2] condotto su 2594 disoccupati nel 2005, il 10,5% di loro erano dipendenti da alcool, il 12% consumava la cannabis e il 17,4% ingeriva psicofarmaci. Inoltre, il 45% dei destinatari di Reddito di solidarietà attiva ha problemi con l’alcool contro il 15% dei lavoratori attivi[3]. Anche i giovani sono vittime di un grande consumo di sostanze psicoattive. Secondo gli studi dell’OFDT[4] svolti nel 2002 e dell’ADSP[5] nel 2007, il 40% dei giovani di 18 anni fuma tabacco quotidianamente, contro il 29% delle persone di età tra 18 e 75 anni. Inoltre, il 10,5% dei giovani fanno un uso elevato di bevande alcoliche e il 13,3% fumano abitualmente cannabis.
Diverse spiegazioni possono essere avanzate a questo consumo elevato tra le persone alla ricerca di una integrazione sociale. Da un lato, alcuni autori ritengono che l’adolescenza e i suoi molteplici cambiamenti (fisiologici, psicologici, di transizione verso l'età adulta, ecc.) sia la causa principale dei comportamenti a rischio dei giovani. In effetti, gli adolescenti percepiscono l’alcol come un mezzo sia per vivere meglio questo sconvolgimento che genera un malessere, sia per creare legami sociali. E’ vero che se l’aspetto conviviale dell’alcool non è proprio dell’adolescenza, è comunque un modo percepito come efficace e facilmente accessibile da parte dei giovani. D’altra parte, i professionisti del settore delle bevande alcoliche conoscono questo fenomeno e sviluppano delle strategie di marketing indirizzate ai giovani consumatori che sono attirati da sapori dolci. Dei prodotti chiamati “premix” o “alcopops” sono creati a destinazione di questo pubblico. Questi superalcolici (vodka, whisky o rum) sono mescolati con bevande analcoliche fortemente zuccherate (bevande gassate o succhi di frutta) per nascondere il gusto forte di alcool. Ora, anche se la quantità di alcool ingerita è minore rispetto ad una bevanda alcolica tradizionale, il rischio è quello di dimenticare la loro gradazione alcolica e di consumarne in grandi quantità, cosa che ha delle gravi conseguenze su dei cervelli ancora in via di sviluppo.
D’altra parte, l’ansia per il futuro e la paura della disoccupazione legate alla situazione economica accentuano ugualmente il consumo di sostanze psicoattive delle popolazioni precarie. A tale riguardo, Isabelle Varescon mostra che la dipendenza da alcool è una conseguenza di un fallimento di fronte ad un compito. Questo fallimento si traduce in un sentimento di incompetenza personale e sociale. Attraverso il suo effetto analgesico, il consumo di sostanze psicoattive è un modo per superare la scarsa considerazione che l’individuo ha di se stesso.
La ricerca di un legame sociale attraverso l’alcool e l’effetto analgesico di sostanze psicoattive sono strategie di adattamento di cui spesso troppo tardi i consumatori si rendono conto del loro potere ulteriormente destabilizzante.
Il consumo dei lavoratori
La stessa inchiesta dell’INPES, condotta su 15.994 “occupati attivi” di età compresa tra 16 a 65 anni, ha stimato che il 28,1% degli intervistati fuma regolarmente, il 13,8% assume psicofarmaci, l’8.1% ha una dipendenza da alcool e l’8% fa uso di droghe illecite.
Questa inchiesta ha ugualmente mostrato che esistono dei legami tra il tipo di sostanza utilizzata e l’ambiente di lavoro. A parte il settore finanziario, nessun altro settore sembra essere risparmiato. Ma i settori delle costruzioni e dei trasporti sono i più colpiti nella misura in cui l’uso di tabacco, di alcool, di psicofarmaci e di droghe illegali è superiore a tutti gli altri ambienti professionali. Un consumo eccessivo di tabacco e di droghe illecite è dimostrato anche nell’ambiente della ristorazione. Per quanto riguarda i farmaci psicotropi, nelle persone dedite ad attività domestiche o amministrative si registra un consumo più importante che in altri settori, come l’industria, i servizi e la ristorazione.
Studi recenti hanno mostrato che l’alto consumo di sostanze psicoattive in campo professionale è il risultato di un malessere sul lavoro che si traduce con uno stress. Lo stress appare quando una situazione di lavoro supera le capacità normali di un individuo (risorse adattative)[6]. Per far fronte a queste situazioni tese di lavoro, i lavoratori sviluppano delle strategie di adattamento. In questo quadro, i dipendenti che fanno uso di sostanze psicoattive lo fanno per gestire al meglio il loro stress o per aumentare la loro capacità di lavorare[7]. In particolare, l’esperienza Niezborala (2000) mostra che su 2.106 lavoratori attivi intervistati durante il periodico controllo della salute sul lavoro, quasi uno su tre consuma sostanze psicoattive per far fronte alle difficoltà sul luogo di lavoro. Così, “il 20% utilizza un farmaco per essere “in forma al lavoro”, il 12% prende il proprio farmaco sil loro posto di lavoro per affrontare un “sintomo fastidioso”, e il 18% utilizza un medicinale “per rilassarsi alla fine di una giornata difficile”.
Altri autori, come Reynaud-Maurupt e Hoare (2010) e Fontaine e Fontana (2003) ritengono inoltre che un consumo eccessivo di sostanze psicoattive riguardino essenzialmente i lavoratori attivi che hanno delle condizioni di lavoro penose, che inducono il “bisogno di sentirsi superuomini”. Questa strategia mira a migliorare le prestazioni, al fine di adattarsi alle esigenze professionali. Inoltre, Angel mostra che i salariati che hanno delle condizioni di lavoro fisico e penoso consumano più sostanze psicoattive rispetto ai dipendenti di altri settori di attività.
Il consumo di sostanze psicoattive è dunque una strategia per far fronte allo stress da lavoro. Questo fenomeno è la diretta conseguenza del lavoro faticoso e della crescente precarietà. Allo stesso modo, l’isolamento sociale all’interno dell’impresa e nella vita privata, di cui sono sempre più vittime i lavoratori, conduce al rischio di un consumo accresciuto. Questo consumo permette, da un lato, di ripristinare i legami sociali attraverso un uso collettivo (tabacco e alcool in particolare) e, in secondo luogo, di sopportare meglio i disturbi fisici e psicologici legati al lavoro (alcool, psicofarmaci e droghe illecite soprattutto).
Come rispondere allo sviluppo dei comportamenti di dipendenza?
Questo consumo eccessivo di sostanze psicoattive tra i lavoratori precari del settore pubblico e tra quelli che hanno delle condizioni di lavoro che agiscono sulla loro salute fisica e mentale hanno delle conseguenze drammatiche. Infatti, ogni anno in Francia, circa 45000 decessi sono direttamente correlati all’abuso di alcool. Questo consumo di sostanze genera anche dei conflitti, degli incidenti sul lavoro, delle malattie di breve e lungo periodo, dei suicidi, ecc. Hassé Consultants e Angel stimano che in media il 20% degli incidenti e dei blocchi del lavoro siano legati al consumo di sostanze psicoattive. Inoltre, nel 40-45% dei casi, gli incidenti mortali sul lavoro sono il risultato diretto di un loro uso eccessivo.
Alcune strutture ed azioni vengono messe in campo per lottare contro le dipendenze, in particolare dei centri per la disintossicazione. Questi centri accolgono, in un contesto di ospedalizzazione, delle persone in condizioni di dipendenza da un prodotto psicoattivo.[8] In un primo tempo viene imposta una disintossicazione fisica di circa una settimana, poi viene proposta una disintossicazione psicologica più lunga. In occasione di questa disintossicazione psicologica, sempre più le strutture scelgono di informare i pazienti sul funzionamento fisiologico delle dipendenze. Così viene messa spesso in atto una fase tesa a rimuovere il senso di colpa attraverso la comprensione dei meccanismi cerebrali di dipendenza.
Nel quadro di un consumo eccessivo di alcool, per esempio, l’etanolo squilibra i recettori sui neuroni, chiamati recettori GABA.[9] Questi recettori, divenuti dipendenti, solleciteranno per tutta la vita una quantità crescente di etanolo per essere soddisfatti. L’arresto del consumo di alcool si rivela dunque estremamente difficile in quanto appare una sindrome da astinenza, più o meno importante a seconda degli individui. In questi casi viene allora consigliata un’astinenza a vita nella misura in cui questi recettori non ritroveranno mai un funzionamento normale. Così, una piccola quantità di alcool ingerito è sufficiente per riattivare questo processo.
Tuttavia, la disintossicazione è niente a confronto delle difficoltà future dell’ex alcool-dipendente. In realtà, oltre alla difficoltà a sfuggire alle numerose sollecitazioni sociali (feste, riunioni di famiglia, cene di lavoro, ecc.), tutto è fatto per spingerlo a consumare bevande alcoliche. Per quanto riguarda le bevande analcoliche che dire, se non che non è molto “divertente” visto che ...queste contengono per la maggior parte dell’alcol?! Sì, una sordida legislazione vuole che al di sotto di 1,2° di etanolo, le bevande possano essere etichettate come “senza alcool”[10], senza indicare nella loro etichetta che invece questo è presente, pur sapendo che la minima quantità di alcool è sufficiente per la ricaduta[11].
Ecco la prova che le ricadute sono dovute ad una mancanza di volontà degli alcolizzati! ... Quanto al loro lavoro, ammesso che ne abbiano uno, questo non va a migliorare durante la loro terapia. Ah, questi lavoratori che hanno la fortuna di avere un lavoro e un padrone gentile che li aspetta dopo il loro “piccolo problema personale!” ... purché mantengano la stessa docilità di prima della loro terapia! In caso contrario, che vi ricadano in fretta! Sarà sempre un mezzo di pressione supplementare perché il lavoro sia fatto rapidamente e senza reclami.
L'esclusione sociale è in crescita a causa della precarizzazione del lavoro, la disoccupazione, le difficoltà finanziarie, ecc., e le condizioni di lavoro sono più difficili. L’isolamento sociale, che spesso ne è la conseguenza, aumenta e diventa persistente. Gli individui cercano delle soluzioni a questa degenerazione lenta e laboriosa. Queste soluzioni possono assumere varie forme: la lotta contro queste condizioni di vita o l’abbandono. Lottare contro delle condizioni di vita penose non dovrebbe mai essere fatto adattando il proprio organismo a queste condizioni mediante delle sostanze psicoattive. Lottare contro l’origine del problema sarebbe molto più efficace ma questa lotta, piuttosto che una risposta individuale, richiede una coscienza collettiva.
Agnosia, 17 settembre
[1] Le sostanze psicoattive (tabacco, alcool, psicofarmaci e droghe illegali) agiscono sul funzionamento del cervello degli individui modificandone il loro comportamento.
[2] Istituto Nazionale per la prevenzione e l’educazione sanitaria.
[3] I dati sono tratti dal sito web ALPA (alcol, prevenzione e assistenza).
[4] Osservatorio francese delle droghe e delle tossicodipendenze.
[5] Attualità e Dossier in Salute Pubblica.
[6] Guillet, Hermand et Py (2003).
[7] Angel, Amar, Gava et Vaudolon (2005).
[8] In generale, alcol e droghe illegali.
[9] G. Giannelli, G. Smeraldi, L. Agostini, M. Stella. "Alcool: effetti tossicologici e comportamentali [40]". Bollettino degli Ordini dei Medici e degli Odontoiatri della Romagna n. 4, 1998.
[10] Articolo L3321-1 del codice della sanità pubblica
[11] Si tratta dei soft drink [41], che per la legislazione italiana sono definite bevande analcoliche pur essendo consentito un tasso di alcool fino all’1% (vedi Osservatorio Internazionale Food-Beverage-Equipment, https://www.oifb.com/index.php?option=com_content&view=category&id=32&Itemid=59 [41]).
Così scrisse Marx nel 1848, nel Manifesto del Partito Comunista. Il capitalismo, alla fine, è durato più a lungo di quanto Marx si aspettasse, ma la lotta di classe è più che mai presente in giro per il mondo. Se i lavoratori del 1848 potevano fare affidamento sulle ferrovie, che non furono certo create per il loro bene, i lavoratori e i rivoluzionari del 2013 si basano sempre più su Internet per diffondere le loro idee, per discutere, e - speriamo - a poco a poco per forgiare quella “unione che si estende sempre più” di cui parlava Marx. Internet ha profondamente modificato il nostro modo di lavorare, e soprattutto il nostro modo di comunicare.
Quando la CCI fu costituita nel 1975, Internet, naturalmente, non esisteva: le idee venivano diffuse attraverso i giornali, distribuiti in centinaia di piccole librerie radicali che spuntarono in seguito al maggio francese, all’autunno caldo e ad altre lotte simili in tutto il mondo alla fine degli anni ‘60. La corrispondenza veniva condotta attraverso la posta, con lettere spesso scritte a mano! Per trovare dei rivoluzionari in altri paesi, non c’era altra soluzione che recarvisi fisicamente nella speranza che sarebbe stato possibile stabilire un contatto.
Oggi tutto questo, tranne il contatto fisico, si è spostato dalla carta ai supporti elettronici. E mentre una volta vendevamo i nostri giornali e riviste nelle librerie di tutto il mondo, oggi le nostre vendite avvengono soprattutto nelle manifestazioni e nei luoghi di lavoro in lotta.
La nostra stampa si è sempre basata sulla condivisione di articoli oltre i confini nazionali, cercando in questo modo di contribuire allo sviluppo di una visione internazionalista nella classe operaia. Oggi, la maggiore velocità dei media elettronici ha reso possibile per le sezioni della CCI lavorare più strettamente assieme, in particolare per quelle sezioni che condividono la stessa lingua, e vogliamo usare questa occasione per rafforzare l’unità internazionale della nostra stampa.
Tutto questo ci ha condotto a rivedere la nostra stampa e in particolare il posto relativo della stampa elettronica e di quella cartacea nel nostro intervento complessivo. Noi siamo convinti che la stampa cartacea rimane una parte vitale del nostro arsenale - è attraverso la stampa cartacea che possiamo essere presenti sul campo, direttamente nelle lotte. Ma la stampa cartacea non gioca più esattamente lo stesso ruolo che in passato: essa ha bisogno di diventare più flessibile, adattabile a situazioni che evolvono.
Date le nostre forze limitate, siamo giunti alla conclusione che, se vogliamo rafforzare e migliorare il nostro sito web, dobbiamo al tempo stesso ridurre lo sforzo messo nella stampa cartacea. Una delle prime conseguenze di questo riorientamento delle nostre pubblicazioni è perciò una riduzione della frequenza delle pubblicazioni cartacee. Concretamente, nel caso della stampa in lingua italiana, questo significa che il giornale passerà da 5 a 4 numeri all’anno.
Siamo solo all’inizio della nostra riflessione sulla stampa ed è possibile che, nel corso di quest’anno, ci siano ulteriori cambiamenti, in particolare nel modo in cui il nostro sito è strutturato. Saremo ben lieti se i nostri lettori vorranno coinvolgersi in questo sforzo, trasmettendoci i loro suggerimenti per mail.
Tutto quello che abbiamo detto sopra vale, ovviamente, per quelle zone dove l’accesso a Internet è molto diffuso. Esistono però ancora regioni in cui la mancanza o la difficoltà di accesso a Internet fa sì che la stampa cartacea continui a giocare lo stesso ruolo ricoperto in passato. Ciò vale in particolare per l’India e l’America Latina, per cui stiamo lavorando con le nostre sezioni in India, Messico, Venezuela, Perù ed Ecuador per capire come meglio adattare la stampa cartacea alle condizioni di quei paesi.
Stiamo scrivendo separatamente a tutti gli abbonati su ciò che questo significa per la durata e il futuro dei loro abbonamenti. Ovviamente incoraggiamo ancora fortemente i nostri lettori a sostenere il nostro lavoro facendo delle sottoscrizioni per le pubblicazioni e chiedendo delle copie in più da vendere.
CCI 5 gennaio 2013
Links
[1] https://it.internationalism.org/files/it/images/20121213_italy_0.png
[2] https://it.internationalism.org/content/rapporto-sullitalia-2012
[3] https://it.internationalism.org/content/1-crisi-economica
[4] http://www.blogo.it/post/37369/italia-in-rosso-debito-pubblico-sopra-i-2-mila-miliardi-33-mila-euro-per-ogni-italiano-bebe-compresi
[5] https://www.repubblica.it/economia/2012/12/14/news/debito_italia_supera_2mila_miliardi-48721806/
[6] https://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=11229
[7] https://intermarketandmore.finanza.com/debito-pubblico-italia-e-record-ringraziamo-sentitamente-chi-ne-e-stato-responsabile-51613.html
[8] https://www.termometropolitico.it/18481_le-balle-che-la-germania-racconta-ai-tedeschi-e-a-noi.html
[9] https://www.liberoquotidiano.it/news/home/1016279/Ecco-perche-alla-Merkel-conviene-un-Italia-in-crisi.html
[10] https://it.internationalism.org/content/tolto-berlusconi-resta-la-crisi-e-le-batoste-sulla-pelle-degli-proletari
[11] https://it.internationalism.org/en/tag/4/75/italia
[12] https://it.internationalism.org/en/tag/situazione-italiana/economia-italiana
[13] https://it.internationalism.org/en/tag/situazione-italiana/politica-della-borghesia-italia
[14] https://it.internationalism.org/en/tag/3/47/economia
[15] https://it.internationalism.org/content/sulle-manifestazioni-cisgiordania
[16] https://it.internationalism.org/en/tag/4/86/israele
[17] https://it.internationalism.org/en/tag/4/87/palestina
[18] https://it.internationalism.org/en/tag/3/48/guerra
[19] https://www.aljazeera.com/opinions/2012/9/13/economic-exploitation-of-palestinians-flourishes-under-occupation/
[20] http://www.maannews.net/eng/ViewDetails.aspx?ID=521815
[21] https://altahrir.wordpress.com/2012/07/01/ramallah-protesters-attacked-by-palestinian-authority-police/
[22] http://www.maannews.net/eng/ViewDetails.aspx?ID=517262
[23] http://www.maannews.net/eng/ViewDetails.aspx?ID=517618
[24] http://www.maannews.net/eng/ViewDetails.aspx?ID=518944
[25] http://www.maannews.net/eng/ViewDetails.aspx?ID=517945
[26] https://www.latimes.com/archives/blogs/world-now/story/2012-09-10/palestinians-protest-in-west-bank-cities-over-economy
[27] http://www.maannews.net/eng/ViewDetails.aspx?ID=519320
[28] http://www.maannews.net/eng/ViewDetails.aspx?ID=520696
[29] http://www.maannews.net/eng/ViewDetails.aspx?ID=521159
[30] https://www.haaretz.com/2007-06-13/ty-article/human-rights-watch-condemns-hamas-fatah-for-war-crimes/0000017f-dc8f-db22-a17f-fcbf605a0000
[31] https://libcom.org/article/palestinian-union-hit-all-sides
[32] https://it.internationalism.org/content/sudafrica-la-borghesia-sguinzaglia-poliziotti-e-sindacati-contro-la-classe-operaia
[33] https://it.internationalism.org/en/tag/4/83/medio-oriente
[34] https://it.internationalism.org/en/tag/2/29/lotta-proletaria
[35] https://it.internationalism.org/en/tag/4/58/sud-africa
[36] https://www.google.it/url?sa=t&rct=j&q=testo%20intercettazioni%20telefoniche%20bertolaso%20stati&source=web&cd=1&cad=rja&sqi=2&ved=0CDIQFjAA&url=http%3A%2F%2Fwww.abruzzoweb.it%2Fcontenuti%2Fgrandi-rischi-il-testo-completo-della-telefonata-shock-di-bertolaso-alla-stati%2F45101-302%2F&ei=nFHTUP6zE87GtAahsoGIBA&usg=AFQjCNHG4-WZgBvEVwqqB8RrF5IQ9tQOhA
[37] https://abexpress.it/
[38] https://www.repubblica.it/cronaca/2012/10/25/news/terremoto_aquila_intercettazioni-45259736/?ref=HRER1-1
[39] https://www.google.it/url?sa=t&rct=j&q=testo%20intercettazioni%20telefoniche%20bertolaso&source=web&cd=6&cad=rja&ved=0CFIQFjAF&url=http%3A%2F%2Fwww.abexpress.it%2Fcronaca%2Fitem%2F10320-la-telefonata-dopo-il-6-aprile-tra-bertolaso-e-boschi-non-si-pu%25C3%25B2-dire-la-verit%25C3%25A0-audio&ei=4kvTUIrxMY7VsgbcsAE&usg=AFQjCNFDE_-Ll04XGT5Sg9CZrqkhSeLJSA
[40] http://www.emernet.it/artalcol.htm
[41] https://www.oifb.com/index.php?option=com_content&view=category&id=32&Itemid=59
[42] https://it.internationalism.org/files/it/images/presse.jpg