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I testi di discussione che pubblichiamo qui sono il prodotto di un dibattito interno alla CCI sul significato e la direzione della fase storica della vita del capitalismo decadente che si è definitivamente aperta con il crollo del blocco imperialista russo nel 1989: la fase della decomposizione, la fase terminale della decadenza capitalistica.
Divergenze con la Risoluzione sulla situazione internazionale del 23° Congresso della CCI
Al 23° Congresso della CCI ho presentato una serie di emendamenti alla risoluzione sulla situazione internazionale. Questo contributo si concentrerà su quelli dei miei emendamenti, respinti dal Congresso, che ruotano intorno alle due divergenze centrali che ho con la posizione del Congresso: sulle tensioni imperialiste, e sul rapporto di forze tra proletariato e borghesia. C'è un filo rosso che collega queste divergenze, e ruota intorno alla questione della decomposizione.
Sebbene tutta l'organizzazione condivida la stessa analisi della decomposizione come fase terminale del capitalismo decadente, quando si tratta di applicare questo quadro alla situazione attuale emergono differenze di interpretazione. Ciò su cui siamo tutti d'accordo è che questa fase terminale non solo è stata inaugurata da, ma ha le sue radici più profonde nell'incapacità di ciascuna delle due principali classi della società capitalistica di attuare le loro opposte soluzioni alla crisi del capitalismo decadente: la guerra generalizzata (la borghesia) o la rivoluzione mondiale (il proletariato). Ma, dal punto di vista della posizione attuale dell'organizzazione, sembrerebbe esserci una seconda causa essenziale e caratteristica di questa fase terminale, che è la tendenza al “ciascuno contro tutti” (o ciascuno per sé, ndt): tra gli Stati, all'interno della classe dirigente, all'interno della società borghese in generale. Su questa base, per quanto riguarda l'imperialismo, la CCI tende attualmente a sottovalutare la tendenza alla bipolarità (e quindi alla eventuale ricostituzione di blocchi imperialisti), e con essa il crescente pericolo di scontri militari tra le grandi potenze stesse. Su questa stessa base, la CCI oggi, per quanto riguarda l'equilibrio delle forze tra le classi, tende a sottovalutare la gravità dell'attuale perdita di prospettiva rivoluzionaria da parte del proletariato, portandoci a pensare che essa possa riconquistare la sua identità di classe e cominciare a riconquistare una prospettiva rivoluzionaria essenzialmente attraverso le lotte operaie difensive.
Da parte mia, pur concordando sul fatto che il ciascuno per sé è una caratteristica molto importante della decomposizione (che gioca un ruolo enorme nell'inaugurazione di questa fase terminale con la disintegrazione dell'ordine mondiale imperialista del secondo dopoguerra), non sono d'accordo che sia una delle sue cause principali. Al contrario, rimango convinto che lo stallo tra le due classi principali, causato dalla loro incapacità di imporre la propria prospettiva di classe, sia la causa essenziale - e non il ciascuno per sé. Per me, la CCI si sta allontanando dalla nostra posizione originaria sulla decomposizione, dando al "ciascuno per sé" un'importanza causale simile a quella dell'assenza di prospettiva. Per come la vedo io, l'organizzazione si sta muovendo verso la posizione che, con la decomposizione, c'è un nuovo fattore che non esisteva ancora nelle fasi precedenti del capitalismo decadente. Questo fattore è la predominanza del ciascuno contro tutti, delle forze centrifughe, mentre, prima della decomposizione, la tendenza alla disciplina dei blocchi, le forze centripete, tendevano a prendere il sopravvento. Per me, al contrario, nella fase di decomposizione non c'è una tendenza maggiore che non esisteva già prima nel periodo di decadenza. La nuova qualità della fase di decomposizione consiste nel fatto che tutte le contraddizioni già esistenti sono esacerbate fino all'eccesso. Questo vale per la tendenza al ciascuno contro tutti, che si esacerba anche essa con la decomposizione. Ma si esacerba anche la tendenza alla guerra tra le grandi potenze, così come tutte le tensioni intorno al passaggio a nuovi blocchi, i tentativi degli Stati Uniti di contrastare nuovi sfidanti, ecc.
1. Le divergenze sull'imperialismo
Per questo motivo ho presentato il seguente emendamento al punto 15 della risoluzione, ricordando il perdurare della bipolarità imperialista (lo sviluppo di una rivalità principale tra due grandi potenze) e i pericoli che ciò comporta per il futuro dell'umanità:
"Durante il periodo dei blocchi militari dopo il 1945, c'erano due tipi di guerra principalmente all'ordine del giorno:
- un'eventuale terza guerra mondiale, che avrebbe probabilmente portato all'annientamento dell'umanità
- guerre locali più o meno ben controllate dai leader dei due blocchi.
Attualmente, anche se la terza guerra mondiale non è all'ordine del giorno, ciò non significa che sia scomparsa la tendenza al bipolarismo degli antagonismi imperialisti. L'ascesa e l'espansione della Cina, che potrebbe alla fine riuscire a sfidare gli Stati Uniti, è attualmente l'espressione principale di questa tendenza (per il momento ancora chiaramente secondaria) alla formazione di nuovi blocchi.
Per quanto riguarda il fenomeno delle guerre locali, esse sono ovviamente continuate senza sosta in assenza di blocchi, ma hanno una tendenza molto più forte ad andare fuori controllo, dato il numero delle regioni e delle grandi potenze coinvolte, e il grado e l'estensione della distruzione e del caos che causano. In questo contesto, il pericolo dell'uso di bombe atomiche e di altre armi di distruzione di massa, e di scontri militari diretti anche tra le stesse grandi potenze è maggiore di prima".
Il rifiuto di questo emendamento da parte del Congresso parla da sé. Stiamo voltando le spalle a quello che è probabilmente il più importante pericolo di guerra tra le grandi potenze nei prossimi anni: che gli Stati Uniti utilizzino la loro superiorità militare ancora esistente contro la Cina nel tentativo di fermare l'ascesa di quest'ultima. In altre parole, il pericolo attuale non è, in realtà, quello di una guerra mondiale tra due blocchi imperialisti, ma di avventure militari volte a montare o a prevenire una sfida allo status quo imperialista esistente, e che tenderebbero a diventare un'incontrollabile conflagrazione globale molto diversa dalle due guerre mondiali del XX secolo. La rivalità sino-americana di oggi assomiglia a quella che, all'epoca della prima guerra mondiale, si era instaurata tra la Germania, la sfidante in ascesa, e l'allora prima potenza mondiale, la Gran Bretagna. Quest'ultimo conflitto portò al declino di entrambe. Ma questo avveniva su scala europea, mentre oggi avviene su scala mondiale, per cui non c'è più nessun terzo (come l'America nelle due guerre mondiali) che aspetta di intervenire dall'esterno per raccoglierne i frutti. Oggi, il "no futuro" sarà molto probabilmente per tutti. Lungi dall'essere esclusi dalla nostra teoria della decomposizione, i conflitti contemporanei tra le grandi potenze la confermano fortemente.
In una risposta sul nostro sito web a una critica di questa parte della risoluzione del 23° Congresso da parte di un simpatizzante della CCI (Mark Hayes), dopo aver affermato che "il militarismo e la guerra imperialista sono ancora caratteristiche fondamentali di questa fase finale di decadenza", aggiungiamo "anche se i blocchi imperialisti sono scomparsi e probabilmente non si formeranno più". Nella stessa risposta, sosteniamo: "La prospettiva è verso le guerre locali e regionali, la loro diffusione verso i centri stessi del capitalismo attraverso la proliferazione del terrorismo, insieme al crescente disastro ecologico e alla putrefazione generale". Guerre regionali, proliferazione del terrorismo, disastri ecologici: sì! Ma perché escludere così accuratamente da questa prospettiva il pericolo di scontri militari tra le grandi potenze? E perché affermiamo che probabilmente non si formeranno più blocchi imperialisti? In realtà, ciò che tendiamo a dimenticare è che "ognuno contro tutti" non è che un polo di una contraddizione, l'altro polo della quale è la tendenza al bipolarismo e ai blocchi imperialisti.
La tendenza verso l'uno contro tutti e la tendenza al bipolarismo esistono entrambe in modo permanente e simultaneo nel capitalismo decadente. La tendenza generale è che l'uno abbia il sopravvento sull'altro, in modo che l'uno sia principale e l'altro secondario. Ma nessuno dei due scompare mai. Anche nel momento culminante della guerra fredda (quando il mondo era diviso in due blocchi rimasti stabili per decenni) la tendenza verso il ciascuno contro tutti non è mai del tutto scomparsa (ci sono stati scontri militari tra membri dello stesso blocco da entrambe le parti). Anche nel punto culminante del ciascuno contro tutti e la schiacciante superiorità degli Stati Uniti (dopo il 1989) la tendenza verso i blocchi non è mai del tutto scomparsa (la politica della Germania verso i Balcani e l'Europa orientale dopo la sua unificazione). Inoltre, il dominio dell'una tendenza può passare rapidamente all'altra, poiché non si escludono a vicenda. L'imperialismo del ciascuno contro tutti negli anni Venti, per esempio, (mitigato solo dalla paura della rivoluzione proletaria) si è trasformato nella costellazione dei blocchi della seconda guerra mondiale. Il bipolarismo del dopoguerra si è rapidamente trasformato in un inedito ciascuno contro tutti nel 1989. Tutto questo non è una novità. È la posizione che la CCI ha sempre difeso.
Il principale ostacolo alla tendenza al bipolarismo imperialista nel capitalismo decadente non è il ciascuno contro tutti, ma l'assenza di un candidato abbastanza forte da lanciare una sfida globale alla potenza leader. Questo è stato il caso dopo il 1989. Il rafforzamento della tendenza bipolare negli ultimi anni è quindi soprattutto il risultato dell'ascesa della Cina.
A questo livello, abbiamo un problema di assimilazione della nostra stessa posizione. Se pensiamo che l'ognuno contro tutti sia una delle principali cause di decomposizione, l'idea stessa che il polo opposto, quello della bipolarità, stia attualmente riguadagnando forza, e potrebbe un giorno anche prendere il sopravvento, appare necessariamente una messa in discussione della nostra posizione sulla decomposizione. È vero che, intorno al 1989, è stato il crollo del blocco orientale (che ha reso superflua la sua controparte occidentale) a inaugurare la fase di decomposizione, innescando la più grande esplosione dell’“ognuno contro tutti" della storia moderna. Ma questo "ciascuno contro tutti" è stato il risultato, non la causa, di sviluppi più profondi: lo stallo tra le classi. Al centro di questi sviluppi c'è stata la perdita di prospettiva, il "nessun futuro" prevalente che caratterizza questa fase terminale. Più recentemente, l'ondata contemporanea del populismo politico è un'altra manifestazione di questa fondamentale mancanza di prospettiva da parte di tutta la classe dirigente. Per questo motivo ho proposto il seguente emendamento al punto 4 della risoluzione:
"Il populismo contemporaneo è un altro chiaro segno di una società che va verso la guerra:
- l'ascesa del populismo stesso è un prodotto della crescente aggressività e degli impulsi di distruzione generati dalla società borghese attuale
- poiché, tuttavia, questa aggressività "spontanea" non è di per sé sufficiente a mobilitare la società per la guerra, i movimenti populisti di oggi sono necessari a questo scopo da parte della classe dirigente.
In altre parole, essi sono allo stesso tempo un sintomo e un fattore attivo della spinta alla guerra".
Anche questo emendamento è stato respinto dal Congresso. Secondo le parole della commissione per gli emendamenti:
"Non siamo in disaccordo con il fatto che il populismo faccia parte di un crescente clima di violenza nella società, ma pensiamo che ci sia una differenza di concezione sulla marcia verso la guerra che non corrisponde all'approccio generale della risoluzione".
Questo è molto vero. L'intenzione dell'emendamento era di modificare, anzi correggere la risoluzione su questo punto. (La commissione emendamenti, tra l'altro, ha fornito lo stesso argomento per il suo rifiuto dell'emendamento al punto 15, vedi sopra). Esso voleva non solo far suonare il campanello d'allarme in relazione al crescente pericolo di guerra, ma anche mostrare che la particolare irrazionalità del populismo è solo una parte dell'irrazionalità della classe borghese nel suo complesso. Questa irrazionalità è già una delle principali caratteristiche del capitalismo decadente, molto prima della decomposizione: la tendenza di parti crescenti della classe dirigente ad agire in modo dannoso per i propri interessi. Così, tutte le principali potenze europee sono emerse indebolite dalla prima guerra mondiale, e la sfida a tutto il resto del mondo da parte della Germania e del Giappone nella seconda guerra mondiale costituiva già una sorta di impeto suicida.
Ma questa tendenza non era ancora del tutto prevalente. In particolare, gli Stati Uniti hanno tratto profitto sia economicamente che militarmente dalla loro partecipazione ad entrambe le guerre mondiali. E si potrebbe anche sostenere che, per il blocco occidentale, la Guerra Fredda si rivelò avere una certa razionalità, poiché la sua politica di contenimento militare e di strangolamento economico contribuì al crollo della sua controparte orientale senza una guerra mondiale. Al contrario, nella fase di decomposizione, è la stessa prima potenza mondiale, gli Stati Uniti, che è all'avanguardia nel creare il caos, nell’impazzire, ed è difficile capire come qualcuno possa trarre beneficio dalle guerre tra gli Stati Uniti e la Cina. Irrazionalità e "nessun futuro" sono le due facce della stessa medaglia, una grande tendenza del capitalismo decadente. In questo contesto, quando alcune delle correnti populiste dell'Europa occidentale continentale ora sostengono di poter fare in futuro affari preferibilmente con la Russia o la Cina, e sono pronte a rompere con i loro nemici "anglosassoni" preferiti (Stati Uniti e Gran Bretagna), questa è chiaramente un'espressione di "nessun futuro". Ma, nell'opporvisi, la razionalità di Angela Merkel consiste nel riconoscere che, se la polarizzazione tra America e Cina continua ad accentuarsi come oggi, la Germania non avrebbe altra scelta che schierarsi dalla parte degli Stati Uniti, sapendo che non permetterebbe in nessun caso all'Europa di cadere sotto il dominio "asiatico".
2. La divergenza sul rapporto di forze tra le classi
Passando alla parte della risoluzione sulla lotta di classe, fondamentalmente diventa evidente la stessa divergenza sull'applicazione del concetto di decomposizione. Una parte fondamentale della risoluzione è il punto 5, poiché affronta i problemi della lotta di classe negli anni '80 - il decennio alla fine del quale inizia la fase di decomposizione. Riassumendo le lezioni di questo decennio, si conclude come segue:
"Ma peggio ancora, con questa strategia di dividere i lavoratori e di incoraggiare l’ “ognuno per sé”, la borghesia e i suoi sindacati sono riusciti a presentare le sconfitte della classe operaia come vittorie.
I rivoluzionari non devono sottovalutare il machiavellismo della borghesia nell'evoluzione del rapporto di forze tra le classi. Questo machiavellismo non può che continuare con l'aggravarsi degli attacchi alla classe sfruttata. La stagnazione della lotta di classe, poi il suo riflusso alla fine degli anni Ottanta, è il risultato della capacità della classe dirigente di volgere alcune manifestazioni della decomposizione della società borghese, soprattutto la tendenza all' "ognuno per sé", contro la classe operaia".
Il punto 5 ha ragione nel sottolineare l'importanza dell'impatto negativo dell' "ognuno per sé" sulle lotte dei lavoratori di allora. È anche giusto sottolineare il machiavellismo della classe dirigente nel promuovere questa mentalità. Ciò che colpisce, tuttavia, è che il problema della mancanza di prospettiva è assente da questa analisi sulle difficoltà della lotta di classe. Il che è tanto più notevole in quanto gli anni Ottanta sono passati alla storia come il decennio del "niente futuro". È lo stesso approccio che abbiamo già incontrato per quanto riguarda l'imperialismo. Gli eventi sono analizzati soprattutto dal punto di vista del ciascuno contro tutti, a scapito del problema della mancanza di prospettiva. Per correggerlo, ho proposto il seguente emendamento, da aggiungere alla fine del punto:
"Tuttavia, questi scontri con i sindacati non hanno in alcun modo invertito, o addirittura arrestato, la regressione a livello della prospettiva rivoluzionaria. Questo è stato ancora più vero negli anni Ottanta che negli anni Settanta. Le due più importanti e massicce lotte operaie del decennio (Polonia 1980, i minatori britannici) hanno portato ad un aumento del prestigio dei sindacati coinvolti".
Il Congresso ha respinto questo emendamento. L'argomento addotto per questo dalla Commissione emendamenti (CE) è stato:
"La regressione nella prospettiva rivoluzionaria è iniziata con la caduta dei regimi stalinisti nel 1989. La Polonia 1980 non aveva le stesse caratteristiche della lotta settoriale dei minatori in Gran Bretagna nel 1984-5. In Polonia c'è stata una dinamica di sciopero di massa, con l'estensione geografica del movimento e l'auto-organizzazione in assemblee generali sovrane (MKS) in un paese stalinista, prima della fondazione del sindacato Solidarnosc. La Polonia del 1980 fu l'ultimo movimento della seconda ondata di lotte. Data la perdita delle nostre acquisizioni, dobbiamo rileggere le nostre analisi della terza ondata di lotte".
Questo almeno ha il merito di essere chiaro: prima del 1989 non c'è stata alcuna regressione nella prospettiva rivoluzionaria. Ma come si correla con la nostra analisi della decomposizione? Secondo questa analisi, è stata l'incapacità delle due classi principali a far avanzare le proprie soluzioni che ha causato e portato alla fase di decomposizione. Se quest'ultima inizia nel 1989, ciò che l'ha causata deve essere già esistita in precedenza: l'assenza di prospettiva - sia da parte della borghesia che del proletariato. La Commissione emendamenti, ma anche il punto 5 della risoluzione stessa, citano la Polonia come prova che non c'è stata alcuna regressione nella prospettiva prima dell'89. Ma, semmai, la Polonia dimostra il contrario. La prima ondata di lotte di una nuova e imbattuta generazione di proletari, a partire dal 1968 in Francia e dal 1969 in Italia, ha prodotto una nuova generazione di minoranze rivoluzionarie. La stessa CCI è il prodotto di questo processo. Al contrario, l'ondata di lotte della fine degli anni Settanta, culminata nello sciopero di massa del 1980 in Polonia, non ha prodotto nulla del genere. E ciò che ne è seguito, negli anni Ottanta, è stata una crisi che ha colpito l'intero milieu politico proletario esistente. Nessuna delle grandi lotte operaie degli anni Ottanta ha prodotto né uno slancio politico nella classe nel suo complesso, né uno slancio rivoluzionario tra le sue minoranze rivoluzionarie come quello del decennio precedente. Ignorando questo, la risoluzione presenta le cose come se l'ognuno per sé fosse la principale debolezza, accuratamente separata dalla questione della prospettiva. Questo approccio del Congresso è sottolineato anche nella bocciatura di un'altra mia formulazione di emendamento che diceva che "già prima degli eventi storici mondiali del 1989, la lotta di classe stava 'segnando il passo' a livello di combattività e regredendo rispetto alla prospettiva rivoluzionaria".
L'argomentazione della Commissione Emendamenti. "Questo emendamento introduce l'idea che ci fosse una continuità tra le difficoltà della lotta di classe negli anni '80 (segnare il passo) e la rottura provocata dal crollo del blocco orientale". Quindi non c'è "continuità"? Si può naturalmente sostenerlo. Ma questo ha qualcosa a che fare con la nostra analisi dello stallo tra le classi che è la causa della decomposizione? Il 1989 è stato davvero una rottura, ma con una preistoria di lotta di classe, oltre che di lotta imperialista. Anche se questa idea dell' "l’ognuno per sé" come centrale per la decomposizione, qualcosa di simile all'assenza di prospettiva, non è (o non è ancora?) la posizione ufficiale dell'organizzazione, direi che è almeno implicita nell'argomentazione di questa risoluzione.
Al punto 7 della risoluzione, gli eventi del 1989 e il loro legame con la lotta di classe sono trattati in questo modo:
" Quando la terza ondata di lotte cominciò ad esaurirsi verso la fine degli anni ’80, un evento fondamentale nella situazione internazionale, il crollo spettacolare del blocco dell’Est e dei regimi stalinisti nel 1989, ha portato un duro colpo alla dinamica della lotta di classe, modificando così in modo rilevante il rapporto di forza tra proletariato e borghesia a favore di quest’ultima. Questo avvenimento ha segnato con forza l’entrata del capitalismo nella fase ultima della sua decadenza: quella di decomposizione. Crollando, lo stalinismo ha reso un ultimo servizio alla borghesia. Ha consentito alla classe dominante di porre un freno alla dinamica della lotta di classe che, con progressi e battute di arresto, si era sviluppata per due decenni.
In effetti, dal momento che non è stata la lotta del proletariato ma la decomposizione in atto del capitalismo che aveva messo fine allo stalinismo, la borghesia ha potuto sfruttare questo avvenimento per scatenare una gigantesca campagna ideologica tesa a perpetuare la più grande menzogna della Storia: l’identificazione del comunismo con lo stalinismo. Così, la classe dominante ha sferrato un colpo estremamente violento alla coscienza del proletariato. Le campagne assordanti della borghesia sul preteso “fallimento del comunismo” hanno provocato una regressione del proletariato nel suo cammino verso la prospettiva storica di abbattimento del capitalismo. Hanno sferrato un colpo alla sua identità di classe."
Qui, i drammatici eventi del 1989 sembrano non avere nulla a che fare con l'equilibrio del rapporto di forze tra le classi. Questo assunto, tuttavia, è in contraddizione non solo con la nostra teoria della decomposizione, ma anche con la nostra teoria del corso storico. Secondo la CCI, era il blocco orientale, dopo il 1968, che, essendo sempre più arretrato sui vari livelli, aveva bisogno di cercare una soluzione militare alla guerra fredda. Attaccando in Europa con mezzi di guerra "convenzionali" (dove l'equilibrio delle forze non gli era così sfavorevole), il Patto di Varsavia avrebbe dovuto riporre le sue speranze nel fatto che il suo nemico occidentale non osasse reagire a livello nucleare (per paura della MAD - "Mutually Assured Destruction" – la reciproca sicura distruzione). Ma, durante gli anni '70 e '80, il blocco orientale non era in grado di giocare questa carta, e una delle ragioni principali era che non poteva contare sull'acquiescenza della sua "propria" classe operaia. Questo però sarebbe stato essenziale per una guerra di tale portata. A questo livello, lo sciopero di massa del 1980 in Polonia fu una massiccia conferma della nostra analisi. Le truppe sovietiche, mobilitate all'epoca vicino al confine in preparazione di un'invasione della Polonia, si ammutinarono, i soldati si rifiutarono di marciare contro le loro sorelle e fratelli di classe in Polonia. Ma la Polonia del 1980 ha dimostrato non solo che il proletariato era un ostacolo alla guerra mondiale, ma anche che non era in grado di andare oltre questa capacità di bloccare il suo avversario per far avanzare la propria alternativa rivoluzionaria. La classe operaia occidentale avrebbe dovuto scendere in campo. Ma negli anni Ottanta non è stata in grado di farlo. Si preparava così il terreno per la fase di stallo che avrebbe portato alla fase di decomposizione alla fine del decennio. La risoluzione è perfettamente giusta: il crollo dello stalinismo del 1989, e l'uso massimo che ne ha fatto la propaganda borghese, è stato il principale colpo contro la combattività, l'identità di classe, la coscienza di classe del proletariato. Ciò che contesto è l'affermazione che ciò non sia stato preparato prima dallo stallo tra le classi, e in particolare dall'indebolimento della presenza della prospettiva nel proletariato. Apparentemente senza rendersene conto, la risoluzione stessa ammette l'esistenza di questo legame tra il 1989 e prima quando scrive (punto 6) che la borghesia ha potuto sfruttare questo evento "in quanto non è stata la lotta del proletariato, ma l'imputridimento della società capitalista a porre fine allo stalinismo".
Le lotte operaie della fine degli anni Sessanta hanno posto fine alla controrivoluzione, non solo perché erano massicce, spontanee e spesso auto-organizzate, ma anche perché sono uscite dalla stretta ideologica della guerra fredda, secondo la quale si doveva stare o dalla parte del "comunismo" (il blocco orientale) o della "democrazia" (il blocco occidentale). Con la lotta operaia degli anni '60 è apparsa l'idea di una lotta contro la classe dirigente sia a est che a ovest, del marxismo contro lo stalinismo, di una rivoluzione per mezzo di consigli operai che portasse al vero comunismo. Questa prima politicizzazione (come sottolinea la risoluzione) è stata contrastata con successo dalla classe dirigente negli anni Settanta. Di fronte alla conseguente depoliticizzazione, la speranza degli anni Ottanta era che le lotte economiche, in particolare il confronto con i sindacati, potessero diventare il crogiolo di una ri-politicizzazione, forse anche ad un livello più alto. Ma anche se negli anni '80 ci sono state lotte di massa, anche se ci sono stati scontri con i sindacati, e persino con il sindacalismo di base radicale, soprattutto in Occidente, ma anche, per esempio, in Polonia contro il nuovo sindacato "libero", non sono riusciti a produrre l'auspicata politicizzazione. Questo fallimento è già riconosciuto dalla nostra teoria della decomposizione, poiché definisce la nuova fase come una fase senza prospettiva, e questa assenza di prospettiva come causa dello stallo. La politicizzazione proletaria è sempre politica in relazione a un obiettivo che va oltre il capitalismo. Data la centralità dell'idea di una sorta di stallo tra le due classi principali per la nostra teoria della decomposizione, le differenze di valutazione delle lotte degli anni Ottanta sono di particolare rilevanza per la stima della lotta di classe fino ad oggi. Secondo la risoluzione, la lotta proletaria, nonostante tutti i problemi con cui si è scontrato, si stava sostanzialmente sviluppando positivamente fino a quando, nel 1989, è stato fermato nel suo percorso da un evento storico mondiale che gli era fondamentalmente estraneo. Poiché anche gli effetti di tali eventi, anche i più opprimenti, sono destinati ad esaurirsi con il tempo, dovremmo essere abbastanza fiduciosi nella capacità della classe di riprendere il suo viaggio interrotto lungo lo stesso percorso. Questo percorso è quello della sua radicalizzazione politica attraverso le sue lotte economiche. Inoltre, questo processo sarà accelerato dall'aggravarsi della crisi economica, che obbliga subito i lavoratori a lottare e fa perdere loro le illusioni, aprendo loro gli occhi sulla realtà del capitalismo. È così che la risoluzione sostiene il modello degli anni Ottanta come via da seguire. Riferendosi allo sciopero di massa del 1980, dice:
"Questa gigantesca lotta della classe operaia in Polonia ha rivelato che è nella lotta massiccia contro gli attacchi economici che il proletariato può prendere coscienza della propria forza, affermare la propria identità di classe, antagonista del capitale, e sviluppare la propria fiducia in se stesso".
La risoluzione forse pensa a queste lotte economiche quando conclude il punto 13 con una citazione dalle nostre Tesi sulla Decomposizione:
"Oggi la prospettiva storica rimane completamente aperta. Nonostante il colpo che il crollo del blocco orientale ha inferto alla coscienza proletaria, la classe non ha subito grandi sconfitte sul terreno della sua lotta (...) Inoltre, e questo è l'elemento che in ultima analisi determinerà l'esito della situazione mondiale, l'inesorabile aggravamento della crisi capitalistica costituisce lo stimolo essenziale per la lotta di classe e lo sviluppo della coscienza, il presupposto per la sua capacità di resistere al veleno distillato dal marciume sociale. Infatti, mentre non vi è alcuna base per l'unificazione della classe nelle lotte parziali contro gli effetti della decomposizione, la sua lotta contro gli effetti diretti della crisi costituisce la base per lo sviluppo della sua forza e unità di classe".
Perfettamente vero. Ma la lotta proletaria contro gli effetti della crisi capitalistica non ha solo una dimensione economica, ma anche politica e teorica. La dimensione economica è indispensabile: una classe incapace di difendere i propri interessi immediati non sarebbe mai in grado di fare una rivoluzione. Ma le altre due dimensioni non sono meno indispensabili. A maggior ragione oggi, quando il problema centrale è la mancanza di prospettiva. Già negli anni Ottanta, la principale debolezza della classe non era a livello delle sue lotte economiche, ma a livello politico e teorico. Senza uno sviluppo qualitativo a questi due livelli, le lotte economiche difensive avranno difficoltà crescenti a rimanere su un terreno proletario di solidarietà di classe. Questo è tanto più vero oggi che siamo arrivati a una fase in cui la depoliticizzazione, che era una caratteristica così importante già negli anni Ottanta, viene sostituita da diverse versioni di putrida politicizzazione come il populismo e l'anti-populismo, l'anti-globalizzazione, le cause identitarie e le rivolte inter-classiste. È sulla base dell'avanzamento di tutte queste putride politicizzazioni negli ultimi anni che ho presentato al congresso la seguente analisi dell'attuale equilibrio nel rapporto di forze tra le classi:
"Tuttavia, queste prime reazioni proletarie non sono riuscite a invertire il riflusso mondiale di combattività, identità di classe e di coscienza nella classe dal 1989. Al contrario, ciò che stiamo vivendo attualmente non è solo il prolungamento, ma anche l'approfondimento di questo riflusso. A livello di identità di classe, la modificazione del discorso della classe dominante è l'indicazione più chiara di questa regressione. Dopo anni di propaganda sulla sua presunta scomparsa nei vecchi centri capitalisti, oggi è la destra populista che ha 'riscoperto' e 'riabilitato' la classe operaia come 'vero cuore della nazione' (Trump)".
E
"A livello della prospettiva rivoluzionaria, il modo in cui anche i classici rappresentanti istituzionali dell'ordine dominante (come il Fondo Monetario Internazionale) rendono il capitalismo responsabile del cambiamento climatico, della distruzione ambientale o del crescente divario nel reddito tra ricchi e poveri, mostra il grado in cui la borghesia, come classe dirigente, è, per il momento, seduta in sella con sicurezza e fiducia. Finché il capitalismo è considerato come parte della "natura umana" (la forma contemporanea, per così dire, della "natura umana"), questo discorso anticapitalista, lungi dall'essere indice di una maturazione, è un segno di un ulteriore arretramento della coscienza all'interno della classe".
Il Congresso ha respinto questa analisi dell'approfondimento del riflusso dal 1989. Né ha condiviso la mia preoccupazione di ricordare che le lotte difensive, di per sé, sono tutt'altro che una garanzia che la causa proletaria è sulla strada giusta:
"Tuttavia, che la crisi economica possa essere l'alleato della rivoluzione proletaria, e lo stimolo dell'identità di classe, dipende da una serie di fattori, il più importante dei quali è il contesto politico. Durante gli anni Trenta, anche le lotte difensive più militanti, radicali e massicce (occupazioni di fabbrica in Polonia, proteste dei disoccupati in Olanda, scioperi generali in Belgio e in Francia, scioperi selvaggi in Gran Bretagna (anche durante la guerra) e negli Stati Uniti, e persino un movimento che assumeva una forma insurrezionale (Spagna) non riuscirono a invertire la regressione della coscienza all'interno della classe. Nella fase attuale, le sconfitte parziali della classe, anche a livello di coscienza di classe, sono tutt'altro che escluse. Esse, a loro volta, ostacolerebbero il ruolo della crisi come alleato della lotta di classe.
Ma, a differenza degli anni Venti e Trenta, tali sconfitte non porterebbero a una controrivoluzione, poiché non sono state precedute da alcuna rivoluzione. Il proletariato sarebbe ancora in grado di riprendersi da tali sconfitte, che avrebbero meno probabilità di avere un carattere definitivo". (Emendamento respinto, fine del punto 13)
La questione se ci sia o meno un ulteriore indebolimento del proletariato nel rapporto di forze tra le classi è stata una delle due principali divergenze al Congresso sulla lotta di classe.
L'altra riguardava la maturazione sotterranea che, secondo la risoluzione, si starebbe attualmente verificando all'interno della classe. Si tratta di una maturazione sotterranea della coscienza non ancora visibile, la famosa "Vecchia Talpa" a cui si riferisce Marx. La divergenza al Congresso non riguardava la validità generale di questo concetto di Marx - che tutti noi condividiamo. E non si trattava nemmeno della possibilità o meno che un tale processo possa avere luogo anche quando le lotte dei lavoratori sono in riflusso - tutti noi affermiamo che è possibile. La questione in discussione era se un tale processo si stia svolgendo o meno in questo momento. Il problema è che la risoluzione non è in grado di fornire alcuna prova empirica a sostegno di questa affermazione. O il suo postulato è il prodotto di un'illusione, oppure di una logica puramente deduttiva, secondo la quale si può supporre che ciò che dovrebbe avvenire - secondo la nostra analisi - stia avvenendo. L'evidenza fornita è molto lacunosa: la continua esistenza di organizzazioni rivoluzionarie, l'esistenza di contatti di queste organizzazioni. Sebbene la Vecchia Talpa scavi nel sottosuolo, lascia tracce della sua operosità in superficie. Criticando l'inadeguatezza delle indicazioni fornite nella risoluzione, ho avanzato delle critiche:
"In questo senso, lo sviluppo qualitativo della coscienza di classe da parte delle minoranze rivoluzionarie non ci dà di per sé un'indicazione di ciò che sta accadendo momentaneamente a livello di maturazione sotterranea all'interno della classe nel suo complesso - poiché questo può avvenire sia durante una fase rivoluzionaria che controrivoluzionaria, sia durante le fasi di sviluppo che di riflusso della classe nel suo complesso. Allo stesso modo, l'emergere di piccole minoranze e di giovani elementi alla ricerca di una prospettiva di classe e di posizioni comuniste di sinistra è possibile anche nelle ore più buie della controrivoluzione, poiché esse sono prima di tutto espressione della natura rivoluzionaria del proletariato (che non scompare mai finché esiste ancora la classe operaia); sarebbe diverso se cominciasse ad apparire un'intera nuova generazione di militanti rivoluzionari. Ma è ancora troppo presto per esprimere un giudizio su questa possibilità". (Emendamento respinto).
E ho proposto i seguenti criteri:
"Non è, per definizione, facile individuare una maturazione sotterranea al di fuori dei periodi di lotta aperta: difficile, ma non impossibile. Ci sono due indicatori delle attività sotterranee della vecchia talpa a cui dobbiamo prestare particolare attenzione
a) la politicizzazione di settori più ampi degli elementi di ricerca della classe, come abbiamo visto negli anni '60/'70
b) lo sviluppo di una cultura della teoria e di una cultura del dibattito (come ha cominciato ad esprimersi in modo embrionale nel movimento anti-CPE in quello degli Indignados) come manifestazioni fondamentali del proletariato come classe della coscienza e dell’associazione. Sulla base di questi due criteri, c'è un alto grado di probabilità che stiamo attraversando una fase di "regressione sotterranea" (dove la Vecchia Talpa ha preso una pausa temporanea), caratterizzata da un rinnovato rafforzamento del sospetto nei confronti delle organizzazioni politiche, da una maggiore attrazione della piccola politica borghese e da un indebolimento dell'impegno teorico e della cultura del dibattito".
Senza l’obiettivo di andare al di là del capitalismo, il movimento operaio non può difendere efficacemente i suoi interessi di classe. Né le lotte economiche in se stesse - per quanto indispensabili - possono bastare a recuperare la coscienza rivoluzionaria di classe (compresa la sua dimensione di identità di classe). Infatti, nel quarto di secolo successivo al 1989, il fattore singolo più importante della lotta di classe proletaria non è stato quello delle lotte di difesa economica, ma il lavoro teorico e analitico delle minoranze rivoluzionarie, soprattutto nello sviluppo di una profonda comprensione della situazione storica esistente e di una profonda e convincente riabilitazione della reputazione del comunismo. Questa può sembrare una valutazione strana, dato che le minoranze rivoluzionarie sono una manciata di militanti, rispetto ai diversi miliardi che compongono il proletariato mondiale nel suo complesso. Tuttavia, nel corso della storia, minuscole minoranze hanno regolarmente sviluppato, senza alcuna partecipazione di massa, idee capaci di rivoluzionare il mondo, capaci alla fine di "conquistare le masse". Una delle principali debolezze del proletariato nei due decenni successivi al 1989 è stata infatti l'incapacità delle sue minoranze di realizzare questo lavoro. I gruppi storici della sinistra comunista hanno una responsabilità particolare per questo fallimento. Il risultato è stato che, quando una nuova generazione di proletari politicizzati (come gli Indignados in Spagna o i diversi movimenti "Occupy" nati sulla scia della crisi della "finanza" e della crisi dell'"Euro" dopo il 2008), l'attuale milieu politico proletario non è stato in grado di armarli a sufficienza con le armi politiche e teoriche di cui avrebbero avuto bisogno per orientarsi e sentirsi ispirati ad affrontare il compito di inaugurare l'inizio della fine del riflusso proletario.
Steinklopfer, 24/05/2020
Risposta al compagno Steinkopfler sulle risoluzioni sulla situazione internazionale del 23° Congresso della CCI
I testi di discussione che pubblichiamo qui sono il prodotto di un dibattito interno alla CCI sul significato e la direzione della fase storica della vita del capitalismo decadente che si è definitivamente aperta con il crollo del blocco imperialista russo nel 1989: la fase della decomposizione, la fase terminale della decadenza capitalistica. Una delle idee chiave del testo di orientamento che abbiamo pubblicato nel 1991, le Tesi sulla Decomposizione[1], è che la storia non si ferma mai: come il periodo della decadenza capitalistica ha una sua storia, così anche la fase della decomposizione ce l'ha, ed è essenziale per i rivoluzionari analizzare i cambiamenti o gli sviluppi più importanti che avvengono al suo interno. Questa è la motivazione alla base del testo del compagno Steinklopfer, il cui punto di partenza è il riconoscimento – che al momento attuale appartiene solo alla CCI - che stiamo effettivamente vivendo la fase di decomposizione, e che le sue radici affondano in uno stallo sociale tra le due grandi classi sociali, la borghesia e il proletariato, nessuno delle quali, di fronte a una crisi economica ormai permanente, ha saputo imporre la propria prospettiva alla società: per la borghesia, la guerra imperialista mondiale, per il proletariato, la rivoluzione comunista mondiale. Ma nel corso del dibattito sulla decomposizione, che comprende l'evoluzione delle rivalità imperialiste e l'equilibrio delle forze tra le classi, sono apparse divergenze che pensiamo siano maturate al punto da poter essere pubblicate all'esterno. A nostro avviso, la posizione attuale del compagno Steinklopfer tende a indebolire la nostra comprensione del significato della decomposizione, ma questo è qualcosa che dovremo dimostrare attraverso un confronto aperto di idee.
Il contributo del compagno inizia sostenendo - almeno implicitamente, come egli stesso afferma in seguito - che la CCI sta rivedendo la sua posizione sulle cause della decomposizione; che insieme allo stallo sociale, una causa di decomposizione alla radice è anche la tendenza crescente all'ognuno per sé: "dal punto di vista della posizione attuale dell'organizzazione, sembrerebbe esserci una seconda causa essenziale e caratteristica di questa fase terminale, che è la tendenza del ciascuno contro tutti: tra gli Stati, all'interno della classe dirigente, all'interno della società borghese in generale".
La conseguenza dell'aggiunta di questa seconda causa viene poi riassunta: "Su questa base, per quanto riguarda l'imperialismo, la CCI tende attualmente a sottovalutare la tendenza alla bipolarità (e quindi alla eventuale ricostituzione di blocchi imperialisti), e con essa il crescente pericolo di scontri militari tra le grandi potenze stesse. Su questa stessa base, la CCI oggi, per quanto riguarda il rapporto di forza tra le classi, tende a sottovalutare la gravità dell'attuale perdita di prospettiva rivoluzionaria da parte del proletariato, portandoci a pensare che esso possa riconquistare la sua identità di classe e cominciare a riconquistare una prospettiva rivoluzionaria essenzialmente attraverso le lotte operaie difensive".
Il compagno Steinklopfer sembra anche pensare di essere l'unico a considerare che "non c'è una tendenza maggiore nella fase di decomposizione che non esisteva già prima nel periodo di decadenza. La nuova qualità della fase di decomposizione consiste nel fatto che tutte le contraddizioni già esistenti sono esacerbate fino all'eccesso".
Prima di rispondere alle critiche del compagno alla nostra posizione sui conflitti imperialisti e sullo stato della lotta di classe, pensiamo sia necessario dire che nessuna delle sue descrizioni della comprensione generale della decomposizione dell'organizzazione è precisa.
Le Tesi sulla Decomposizione presentano già questa fase come "la conclusione, la sintesi di tutte le successive contraddizioni ed espressioni della decadenza capitalistica": possiamo aggiungere che è anche la "conclusione" di alcuni tratti chiave dell'esistenza del capitalismo fin dall'inizio, come la tendenza alla atomizzazione sociale che Engels, per esempio, segnalava nelle sue Condizioni della classe operaia in Inghilterra del 1844.
Già nel 1919 l'Internazionale Comunista, al suo Primo Congresso, lo aveva notato.
"Sull'umanità, la cui civiltà è stata oggi abbattuta, incombe la minaccia della distruzione totale. Una sola forza può salvarla, e questa forza è il proletariato. L'antico 'ordine' capitalista non esiste più, non può più esistere. Il risultato finale del processo produttivo capitalistico è il caos, e questo caos può essere superato soltanto dalla più grande classe produttrice: la classe operaia."[2].
E in effetti questo giudizio era del tutto giustificato se si considera lo stato dei paesi centrali del capitalismo a seguito della prima guerra mondiale: milioni di cadaveri, milioni di rifugiati, crisi economica e fame - e una pandemia mortale. Un incubo simile ha perseguitato l'Europa e gran parte del mondo nell'immediato dopoguerra della seconda guerra imperialista. Ma se guardiamo alla situazione del capitalismo per la maggior parte del periodo tra il 1914 e il 1989, possiamo vedere che la tendenza al caos totale è stata in gran parte tenuta sotto controllo (anche se, come riconosce anche il compagno Steinkopfler, non scompare mai del tutto) dalla capacità della classe dirigente di imporre le sue soluzioni e le sue prospettive alla società: la spinta verso la guerra negli anni Trenta del secolo scorso, la divisione del mondo dopo il 1945 e la formazione di blocchi, infine un lungo periodo di ripresa economica. Con il protrarsi della crisi economica della fine degli anni Sessanta e il crescente stallo tra le classi, la tendenza alla frammentazione e al caos a tutti i livelli si scatena a tal punto da assumere una nuova qualità. Contrariamente a quanto afferma il compagno Steinklopfer, non ne concludiamo che sia diventata retrospettivamente una "causa" della decomposizione, ma certamente è diventata un fattore attivo nella sua accelerazione. È questa comprensione del cambiamento qualitativo che opera nella fase di decomposizione che pensiamo manchi nel testo del compagno Steinkopfler.
Vogliamo anche chiarire che, come i segni di decadenza si sono fatti sempre più evidenti prima della prima guerra mondiale (capitalismo di Stato, corruzione dei sindacati, corsa agli armamenti tra grandi potenze...), così la CCI ha notato segni di decomposizione anche prima del 1989: la vittoria dei mullah in Iran, gli attentati terroristici di Parigi del 1986, la guerra in Libano, e le difficoltà della lotta di classe, di cui parleremo in seguito. Quindi il crollo del blocco dell'est non è stato affatto un accidente della storia, ma il risultato di un lungo sviluppo precedente.
La divergenza sugli antagonismi imperialisti
Per quanto riguarda le differenze concrete a livello degli antagonismi imperialisti, siamo stati certamente in ritardo nel comprendere il significato dell'ascesa della Cina, ma negli ultimi anni abbiamo chiaramente integrato questo fattore nella nostra analisi sia delle rivalità imperialiste globali che dell'evoluzione della crisi economica mondiale. Non respingiamo l'idea che anche in un mondo dominato dall' ognuno per sé a livello imperialista, possiamo vedere una tendenza certa alla "bipolarizzazione", cioè che le rivalità tra i due Stati più potenti diventino un fattore importante della situazione mondiale. Infatti, questa è sempre stata la nostra posizione, come si evince dal testo di orientamento su "Militarismo e decomposizione", scritto all'inizio della nuova fase, dove abbiamo affermato che "E' perciò che la presente situazione porta con sé, sotto l'impulso della crisi e dell'acuirsi delle tensioni militari, una tendenza verso la riformazione di due nuovi blocchi imperialisti."[3]. Abbiamo poi valutato la possibilità che altre potenze (Germania, Russia, Giappone...) potessero sfidare gli Stati Uniti candidandosi al ruolo di leader di un nuovo blocco. A nostro avviso, a quel punto, nessuno di questi contendenti aveva le "qualifiche" necessarie per svolgere questo ruolo, e abbiamo concluso che era molto probabile che i nuovi blocchi imperialisti non sarebbero mai stati riformati, pur insistendo sul fatto che questo non significava affatto un'attenuazione dei conflitti imperialisti. Al contrario, questi conflitti avrebbero assunto la forma di una sempre più caotica libertà per tutti, per molti versi una minaccia più pericolosa per l'umanità rispetto al periodo precedente in cui i conflitti nazionali o regionali erano in qualche modo tenuti sotto controllo dalla disciplina dei blocchi. Pensiamo che questa prognosi sia stata in gran parte confermata, come si può vedere più chiaramente negli attuali conflitti a più fronti in Siria e in Libia.
Naturalmente in questa fase, come abbiamo detto, abbiamo sottovalutato la possibilità che la Cina emergesse come una grande potenza mondiale e come seria contendente agli Stati Uniti. Ma l'ascesa della Cina è essa stessa un prodotto della fase di decomposizione[4] e se da un lato fornisce una prova certa della tendenza alla bipolarizzazione, dall'altro c'è una grande differenza tra lo sviluppo di questa tendenza e un processo concreto che porti alla formazione di nuovi blocchi. Se guardiamo ai due poli principali, gli atteggiamenti sempre più aggressivi di entrambi tendono a minare questo processo piuttosto che a rafforzarlo. La Cina è fortemente mal vista da tutti i suoi vicini, non ultima la Russia, che spesso si allinea con la Cina in questioni di immediato interesse (come la guerra in Siria) ma ha il terrore di diventare subordinata alla Cina a causa della forza economica di quest'ultima, ed è uno dei più accaniti oppositori dell'iniziativa "Via della seta" di Pechino. L'America nel frattempo sta attivamente smantellando quasi tutte le vecchie strutture del vecchio blocco che aveva usato in precedenza per preservare il suo "Nuovo Ordine Mondiale" e così resiste allo scivolamento verso l'"ognuno per sé" nelle relazioni internazionali. Tratta sempre più i suoi alleati nella NATO come nemici, e in generale - come afferma con fermezza lo stesso compagno Steinklopfer - è diventato uno dei principali fattori che oggi aggravano il carattere caotico delle relazioni imperialiste.
In questa situazione, il pericolo di guerra riflette questo processo di frammentazione. Non possiamo certo escludere la possibilità di scontri militari tra Stati Uniti e Cina, ma non possiamo nemmeno escludere scoppi sempre più irrazionali che coinvolgano l'India contro il Pakistan, Israele contro l'Iran, l'Iran contro l'Arabia Saudita, ecc. Ma questo è proprio il significato, e la terribile minaccia, dell’ognuno per sé come fattore che aggrava la decomposizione e mette in pericolo il futuro stesso dell'umanità. Continuiamo a pensare che questa tendenza non solo è molto più avanti rispetto alla tendenza alla riformazione dei blocchi, ma è in diretto conflitto con essa.
La divergenza sulla lotta di classe
Come abbiamo visto, il compagno Steinklopfer suggerisce che la risoluzione sul rapporto di forze del 23° Congresso non si occupa più del problema della prospettiva rivoluzionaria, e che questo fattore è scomparso dalla nostra comprensione delle cause (e delle conseguenze) della decomposizione. In realtà, la questione della politicizzazione della lotta di classe e degli sforzi della borghesia per impedirne lo sviluppo è al centro della risoluzione. Il tono è dato dal punto uno della risoluzione, che parla della rinascita della lotta di classe alla fine degli anni '60 e della ricomparsa di una nuova generazione di rivoluzionari: : "Di fronte a una dinamica di politicizzazione delle lotte operaie, la borghesia (sorpresa dal movimento del maggio 1968) ha subito sviluppato una controffensiva su larga scala e a lungo termine per impedire alla classe operaia di dare una propria risposta alla crisi storica dell'economia capitalista: la rivoluzione proletaria". In altre parole: per la classe operaia politicizzazione significa essenzialmente porre la questione della rivoluzione: è esattamente la stessa questione della "prospettiva rivoluzionaria". E la risoluzione prosegue mostrando come, di fronte alle ondate di lotta di classe nel periodo tra il 1968 e il 1989, la classe dirigente ha usato tutte le sue risorse e mistificazioni per impedire alla classe operaia di sviluppare questa prospettiva.
Per quanto riguarda la questione delle lotte in Polonia, che hanno un ruolo centrale nell'argomentazione del compagno Steinklopfer: non c'è disaccordo tra noi sul fatto che la Polonia 1980 sia stato un momento chiave nell'evoluzione del rapporto di forze tra le classi nel periodo aperto dagli eventi del maggio 1968 in Francia. Il compagno ha ragione ad affermare che, a differenza del maggio 68 e della conseguente ondata internazionale di movimenti di classe il cui epicentro era nell'Europa occidentale, le lotte in Polonia non hanno dato origine a tutta una nuova generazione di elementi politicizzati, alcuni dei quali (dal 68 in poi) hanno trovato la loro strada verso le posizioni della sinistra comunista. Ma ha posto comunque una sfida profonda alla classe operaia mondiale: la questione dello sciopero di massa, dell'organizzazione autonoma e dell'unificazione dei lavoratori come forza nella società. Gli operai polacchi si sono elevati a questo livello anche se non hanno saputo resistere ai canti delle sirene del sindacalismo e della democrazia a livello politico. La questione, come dicevamo all'epoca, parafrasando Rosa Luxemburg sulla rivoluzione russa, è stata posta in Polonia, ma poteva essere risolta solo a livello internazionale, e soprattutto dai battaglioni della classe politicamente più avanzata dell'Europa occidentale. I lavoratori dell'Occidente avrebbero raccolto il guanto di sfida e sviluppato sia l'auto-organizzazione che l'unificazione ed offrire la prospettiva di una nuova società? La CCI ha contribuito con una serie di testi all'inizio degli anni '80 per valutare questo potenziale[5][5].
In particolare, la nuova ondata di lotte iniziata in Belgio nel 1983 sarebbe stata in grado di raccogliere la sfida? Mentre la CCI ha notato molti importanti progressi in questa ondata di lotte (le tendenze all'auto-organizzazione e il confronto con il sindacalismo di base in Francia e in Italia, per esempio), questo passo vitale della politicizzazione non è stato fatto, e la terza ondata ha cominciato ad incontrare delle difficoltà. All'ottavo congresso della CCI nel 1988, ci fu un animato dibattito tra quei compagni che sentivano che la terza ondata stava avanzando inesorabilmente, e quella, che allora era una minoranza, che sottolineava che la classe operaia stava già soffrendo per l'impatto della decomposizione in termini di atomizzazione, perdita di identità di classe, l'ideologia dell' ognuno per sé sotto forma di corporativismo, eccetera - tutto ciò era il risultato dell'incapacità della classe di sviluppare una prospettiva per il futuro della società. Così - e qui dobbiamo prendere in considerazione una formulazione della Commissione Emendamenti per la risoluzione della lotta di classe del 23° congresso, a cui il compagno Steinklopfer fa riferimento nel suo testo - c'è in effetti una continuità tra le difficoltà della classe negli anni '80 (l'influenza della decomposizione) e il riflusso del periodo post-89 (dove abbiamo visto un'enorme regressione a livello sia di coscienza che di combattività). Ma anche in questo caso, a nostro avviso, il compagno Steinklopfer sottovaluta il cambiamento qualitativo provocato dagli eventi del 1989, che erano sembrati scendere dal cielo alla classe operaia, anche se in realtà erano da tempo in fermento all'interno della società borghese. Hanno portato a un riflusso della coscienza di classe e della combattività che sarebbe stato molto più profondo e duraturo di quanto sospettassimo, anche se lo avevamo predetto nell'immediato dopo crollo del blocco sovietico.
Populismo e mobilitazione bellica
Non c'è quindi disaccordo sul fatto che la classe operaia negli ultimi decenni abbia attraversato un lungo processo di disorientamento, caratterizzato da una perdita di identità di classe e della sua prospettiva per il futuro. Siamo anche d'accordo sul fatto che alcuni movimenti che hanno avuto luogo in questo periodo di riflusso generale hanno indicato la possibilità di una ripresa della lotta, sia a livello di combattività, sia di consapevolezza dell'impasse della società capitalistica: come dice il compagno Steinklopfer, in questi movimenti abbiamo visto "lo sviluppo di una cultura della teoria e di una cultura del dibattito (come ha cominciato ad esprimersi in modo nascente dall'anti-CPE agli Indignados) come manifestazioni fondamentali del proletariato come classe di coscienza e di associazione".
Tuttavia siamo in forte disaccordo con due delle conclusioni del compagno sulle attuali difficoltà della classe:
- Che l'ascesa del populismo è l'espressione di una società che si prepara alla guerra
- Che ora non stiamo assistendo a una maturazione sotterranea della coscienza, ma a una vera e propria "regressione sotterranea".
In primo luogo, non pensiamo che il populismo sia il prodotto o l'espressione di un chiaro corso verso la guerra da parte della classe dirigente dei maggiori paesi capitalisti. Certamente è il prodotto di un nazionalismo e di un militarismo accentuato, di quella violenza nichilista e di quel razzismo che trasuda dalla decomposizione di questo sistema. In questo senso, naturalmente, ha molte analogie con il fascismo degli anni Trenta. Ma il fascismo era il prodotto di una vera e propria controrivoluzione, una sconfitta storica subita dalla classe operaia, ed esprimeva direttamente la capacità della classe dirigente di mobilitare il proletariato per una nuova guerra imperialista mondiale. Il populismo, invece, è il risultato dello stallo tra le classi, che implica una mancanza di prospettiva non solo da parte della classe operaia, ma anche della stessa borghesia. Esso esprime una crescente perdita di controllo da parte della borghesia del suo apparato politico, una crescente frammentazione sia all'interno di ogni Stato nazionale che a livello di relazioni internazionali. Se l'ascesa del populismo significasse davvero che la borghesia ha recuperato la possibilità di far marciare la classe operaia verso la guerra, dovremmo concludere che il concetto di decomposizione, così come l'abbiamo definito finora, non è più valido. Significherebbe che la borghesia ha ora una "prospettiva" da offrire alla società anche se è totalmente irrazionale e suicida.
L'emendamento del compagno Steinklopfer sostiene che "il populismo contemporaneo è un altro chiaro segno di una società che va verso la guerra:
- l'ascesa del populismo stesso è non da ultimo un prodotto della crescente aggressività e degli impulsi di distruzione generati dalla società borghese attuale
- Poiché, tuttavia, questa aggressività "spontanea" non è di per sé sufficiente a mobilitare la società per la guerra, i movimenti populisti di oggi sono necessari a questo scopo da parte della classe dirigente.
In altre parole, essi sono allo stesso tempo un sintomo e un fattore attivo della spinta alla guerra".
In altre parole, fenomeni come la Brexit nel Regno Unito o il trumpismo negli Stati Uniti non sarebbero, in primo luogo, il risultato della perdita di controllo da parte della borghesia del suo apparato politico (e, sempre più, economico), espressione concentrata della visione a breve termine e della frammentazione della classe dirigente. Al contrario: le fazioni populiste sarebbero i migliori rappresentanti di una borghesia che si sta realmente unendo dietro la mobilitazione per la guerra.
Di fronte a questa visione di dove vanno le cose, non sorprende che il compagno Steinklopfer veda poco la spinta della borghesia verso la guerra: nonostante le embrionali espressioni della natura rivoluzionaria della classe nel 2006 e nel 2011, oggi non riusciamo ancora a discernere i segni di una maturazione sotterranea della coscienza, che potrebbe implicare che la borghesia non abbia tutte le carte in regola a suo favore.
Certo, come ci ricorda il compagno, abbiamo sempre sostenuto che la coscienza proletaria può svilupparsi in profondità - in gran parte, ma non del tutto, come risultato dell'opera delle organizzazioni rivoluzionarie - anche in un periodo di controrivoluzione in cui è fortemente limitata nella sua azione, come abbiamo visto con l'opera delle frazioni italiana e francese della sinistra comunista degli anni '30 e '40. Ma se continua anche in questi periodi di controrivoluzione, qual è il significato del termine "regressione sotterranea"? Non significherebbe che la situazione oggi è ancora peggiore di quella degli anni Trenta? Non è chiaro dal testo del compagno quanto sia durato questo processo di regressione sotterranea: se noi abbiamo visto uno sviluppo generale della coscienza tra le giovani generazioni nel 2006 e nel 2011, sarebbe logico sostenere che questi movimenti siano stati preceduti da un processo di maturazione "sotterraneo". In ogni caso, siamo d'accordo che, a livello di lotte aperte e di estensione della coscienza di classe, questi progressi sono stati, come praticamente accade dopo il culmine di ogni movimento di classe verso l'alto, seguiti da una fase di riflusso e di regressione: per esempio, alcuni anni dopo il movimento degli Indignados, particolarmente forte a Barcellona, alcuni degli stessi giovani che nel 2011 avevano partecipato ad assemblee e manifestazioni che avevano proposto slogan chiaramente internazionalisti, stavano ora cadendo nel vicolo cieco del nazionalismo catalano.
Ma questo non prova che la Vecchia Talpa abbia deciso di riposarsi, né nel 2012 né prima. Il periodo 2006-2011 è stato accompagnato dall'emergere di una minoranza politicizzata che ha dimostrato di essere molto promettente, ma che è in gran parte affondata nelle paludi dell'anarchismo e del modernismo, tanto che il loro contributo netto al reale sviluppo dell'ambiente rivoluzionario è stato estremamente limitato. Le minoranze in ricerca che si sono sviluppate negli ultimi anni, con tutta la loro giovinezza e inesperienza, sembrano partire a un livello più alto di quelle che abbiamo incontrato un decennio prima: sono, in particolare, più consapevoli della natura terminale del sistema capitalista e della necessità di ricongiungersi con la tradizione della sinistra comunista. A nostro avviso, tali progressi sono proprio il prodotto di una maturazione sotterranea.
Secondo il compagno Steinklopfer, il fatto che i recenti movimenti che si collocano su un terreno riformista, come le manifestazioni intorno alla questione del clima, spesso pretendono di collocare il problema a livello del sistema, della stessa società capitalista, non esprime altro che la fiducia della classe dirigente, che può permettersi di soffiare aria fritta sulla necessità di andare oltre il capitalismo proprio perché non ha paura che la classe operaia prenda sul serio tale discorso. Ma non è meno plausibile che questo discorso anticapitalista sia un tipico anti-corpo della società borghese, che ha un profondo bisogno di far deragliare ogni incipiente messa in discussione delle sue basi fondamentali. In altre parole: man mano che la natura apocalittica di questo sistema diventa sempre più evidente, diventa sempre più necessario che l'ideologia borghese impedisca un'autentica comprensione delle sue radici e della vera alternativa.
Alla fine del testo del compagno Steinklopfer, è difficile capire da dove verrà la rinascita dell'identità di classe e della prospettiva rivoluzionaria e ci rimane l'impressione che lui sia caduto in un profondo pessimismo. Il compagno non sbaglia a sottolineare che le lotte economiche, la resistenza immediata agli attacchi al tenore di vita, non sono di per sé sufficienti a generare una chiara coscienza rivoluzionaria, ma rimangono comunque assolutamente vitali se si vuole che la classe operaia ritrovi il senso di sé come forza sociale distinta, soprattutto in un periodo in cui i crescenti scontri con lo stato della società capitalista sono spinti verso una serie di mobilitazioni interclassiste e apertamente borghesi. Negli anni Trenta, in mezzo a tutto il clamore sulle conquiste rivoluzionarie dei lavoratori spagnoli, i compagni di Bilan si trovarono quasi soli nell'affermare che in tali condizioni il più piccolo sciopero intorno alle richieste economiche (soprattutto nelle industrie belliche controllate dalla CNT!) sarebbe stato un primo passo verso il ritorno della classe operaia sul proprio terreno. I recenti scioperi intorno alla questione delle pensioni in Francia, e in alcuni Paesi intorno alla salute e alla sicurezza sul lavoro all'inizio della pandemia di Covid, sono stati molto meno "degni di nota" delle marce dei Venerdì per il Clima e del Black live matter, ma danno un contributo reale ad un futuro recupero dell'identità di classe, mentre questi altri non possono che ostacolarla.
Siamo d'accordo con il compagno Steinklopfer, naturalmente, che il recupero dell'identità di classe e lo sviluppo di una coscienza rivoluzionaria sono inseparabili: perché la classe operaia capisca veramente cos'è, deve anche capire cosa deve essere storicamente, come diceva Marx: portatrice di una nuova società. E siamo anche d'accordo sul fatto che le organizzazioni della sinistra comunista hanno un ruolo indispensabile in questo processo dinamico. Il compagno ci lascia un giudizio molto severo sul ruolo effettivo che queste organizzazioni hanno svolto nell'ultimo decennio e anche di più: “Nel corso della storia, minuscole minoranze hanno regolarmente sviluppato, pur senza alcuna partecipazione di massa, idee capaci di rivoluzionare il mondo, capaci alla fine di 'conquistare le masse'. Una delle principali debolezze del proletariato nei due decenni successivi al 1989 è stata infatti l'incapacità delle sue minoranze di realizzare questo lavoro. I gruppi storici della sinistra comunista hanno una responsabilità particolare per questo fallimento. Il risultato è stato che, quando una nuova generazione di proletari politicizzati (come gli Indignados in Spagna o i diversi movimenti di "occupay" sviluppatisi sulla scia delle crisi finanziaria e dell'"euro" dopo il 2008), l'attuale milieu politico proletario non è stato in grado di armarli a sufficienza con le armi politiche e teoriche di cui avrebbero avuto bisogno per orientarsi e sentirsi ispirati ad affrontare il compito di inaugurare l'inizio della fine del riflusso proletario".
Non è affatto chiaro da questo come, e con quali contributi teorici, le organizzazioni della sinistra comunista avrebbero potuto armare la nuova generazione al punto da evitare il riflusso che ha seguito i movimenti del 2011. Ma sembra esserci un problema metodologico dietro questo giudizio. Le organizzazioni della sinistra comunista devono certamente fare una severa critica agli errori che hanno commesso di fronte alla "nuova generazione di proletari politicizzati", errori soprattutto di natura opportunistica. Questa critica è necessaria soprattutto perché avviene in un ambito di circostanze che i piccoli gruppi rivoluzionari possono influenzare direttamente: il raggruppamento dei rivoluzionari, i passi necessari per costruire un milieu rivoluzionario vivace e responsabile e quindi per gettare le basi del partito del futuro. Ma sembrerebbe quasi un sostituzionismo suggerire che i nostri sforzi teorici/politici da soli avrebbero potuto arrestare il riflusso che è seguito dopo il 2011, che è stato essenzialmente la continuazione di un processo che era in pieno vigore dal 1989. Le discussioni future determineranno se vi sia una reale divergenza sulla questione dell'organizzazione.
CCI, 24 agosto 2020
[1] La decomposizione, fase ultima della decadenza del capitalismo, Rivista Internazionale n. 14,
[2] Piattaforma dell'Internazionale Comunista, in: Aldo Agosti, La terza Internazionale, Editori Riuniti, 1974, https://www.associazionestalin.it/IIIint_1_piattaforma.html
[3] Militarismo e decomposizione, Rivista Internazionale n. 15
[4] Risoluzione sulla situazione internazionale (2019): conflitti imperialisti, vita della borghesia, crisi economica, (in particolare i punti 10-13) Rivista Internazionale n. 34
[5] Vedi per esempio: “Una breccia si è aperta in Polonia”, Perspectives for the International Class Struggle: (A Breach is opened in Poland) International Review 26