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Ripubblichiamo qui di seguito un articolo scritto nel 2008 dalla nostra sezione in Francia ma che rimane oggi pienamente attuale, sia rispetto alle recenti lotte in Francia che per il resto del mondo. Esso tratta infatti un argomento scottante e cruciale, quello dei blocchi e delle occupazioni. L’attuale movimento in Francia (ma non è il solo) è attraversato da una questione centrale: Come lottare? Quali metodi di lotta possono permettere di stabilire un rapporto di forza a nostro favore? Il blocco e l’occupazione di posti strategici (come le stazioni o le raffinerie) sembra presentarsi attualmente tra numerosi scioperanti in Francia come la risposta più adeguata. Ma lo è veramente?
L’autunno scorso, nel momento più alto del movimento contro la legge LRU[1], 36 università sono state “perturbate” (per riprendere la terminologia della stampa) da sbarramenti selettivi, blocchi e occupazioni. Questi metodi hanno spesso suscitato lunghi e appassionati dibattiti nelle assemblee generali (AG). Lasciamo da parte tutti quei collettivi contrari ai blocchi che, in nome della sacro-santa “libertà individuale” e del “diritto di studiare”, sostenevano in realtà le “riforme necessarie” del governo. Molto più interessanti sono state le discussioni tra quegli studenti che, rifiutandosi di subire degli attacchi senza reagire, si sono chiesti collettivamente come lottare. Bloccando le facoltà? Completamente? Con degli sbarramenti selettivi? Occupando anche i locali?
Tutte queste questioni non riguardano soltanto i giovani e gli studenti. Nel corso dello sviluppo delle lotte questioni simili si porranno poco a poco a tutta la classe operaia: come portare avanti lo sciopero? Bisogna fare un picchetto? In che modo? Bisogna occupare la fabbrica?
Quest’articolo non ha la pretesa di rispondere a tutte queste domande con una ricetta magica pronta per l’uso e valida sempre poiché ad ogni nuova lotta corrispondono condizioni particolari e quindi scelte diverse! Semplicemente, basandosi su alcune esperienze di blocchi ed occupazioni, è possibile comprendere fino a che punto la volontà di estendere lo sciopero è assolutamente vitale e, al contrario, come l’isolamento è sempre una trappola mortale.
L’unità e la solidarietà al centro delle preoccupazione degli studenti
In occasione del movimento contro il CPE[2], nella primavera del 2006, la questione del blocco era già onnipresente. In realtà, questo tipo di movimento non può esistere realmente senza “perturbare” almeno un poco il regolare funzionamento delle università. Altrimenti chi noterebbe l’assenza - anche numerosa - degli studenti ad un corso? Chi si preoccuperebbe nel vedere le aule vuote? Forse neppure i docenti!
Ma al di là di questa semplice necessità, nel 2006 e nel 2007, bloccando le facoltà, alcuni studenti esprimevano soprattutto un profondo senso di solidarietà ed un bisogno di unità. “Non blocchiamo l’università per piacere o per disinteresse per i corsi! Lo sciopero è il migliore strumento per farci ascoltare. Con lo sciopero si rompe la logica abitudinaria del lavoro e si recupera tempo per organizzarsi democraticamente tutti insieme. Ma perché lo sciopero non resti un atto isolato e minoritario, è importante anche bloccare. E’ questo che permette a ognuno di non andare a lezione e di recuperare quindi del tempo libero per iniziare a portare avanti un’attività per la mobilitazione. Inoltre il blocco permette agli studenti che lo desiderano di liberarsi dalla pressione dei corsi o dagli esami per poter partecipare attivamente al movimento senza venirne penalizzati. Il blocco è lo strumento democratico che permette a tutti di mobilitarsi!” (Dal blog: antilru.canalblog.com/archives/le_blocage/index.html). Fermare i corsi ha permesso, ad esempio, ai borsisti di andare alle AG ed alle manifestazioni senza temere di perdere la loro risorsa economica per “assenza”, come esprime coscientemente ancora uno studente ai giornalisti di Libération il 12 novembre 2007: “Se non ci sono i blocchi, non c’è movimento. Altrimenti gli studenti borsisti non andranno a manifestare.”
Noi siamo a chilometri di distanza dalle accuse odiose lanciate da questi rispettabili presidi d’università, e diffuse da tutti i mass media, che qualificano gli studenti in lotta come “ Khmer rossi” e “delinquenti”. La borghesia può anche sputare tutto il suo veleno, ma dietro le azioni di blocco non c’era alcuna volontà d’imporre con la forza la posizione minoritaria di alcuni elementi esuberanti (la forza fisica era d’altronde piuttosto dal lato dei presidi, come documentato dal numero di feriti in seguito agli interventi delle CRS) e di chiudere gli studenti nelle “loro” facoltà. Al contrario, queste traducevano una volontà d’azione cosciente e collettiva verso l’allargamento della lotta che si esprimeva nella volontà di un dibattito il più ampio e vivente possibile. Così, molto più dei blocchi in sé, é questo stato di spirito che li animava che ha conferito al movimento contro il CPE in particolare tutta la sua vitalità e la sua forza. Come scrivevamo già nel maggio 2006 nelle nostre Tesi sul movimento studenti: “Lo sciopero delle università è cominciato con i blocchi. Il blocco era un mezzo che si sono dati gli studenti più coscienti e combattivi per manifestare la loro determinazione e soprattutto per far in modo che alle assemblee generali partecipasse il più alto numero di colleghi, ed effettivamente una proporzione considerevole di quelli che non avevano compreso il significato degli attacchi del governo o la necessità di combatterli è stata convinta dal dibattito e dagli argomenti sviluppati.”
La volontà di estendere la lotta è un elemento vitale per la classe operaia
La forza della classe operaia si rivela in piena luce quando sviluppa un profondo sentimento di unità e di solidarietà. E’ per questo che ogni metodo di lotta deve essere animato da una chiara volontà di estendere lo sciopero. Seguendo questa via, gli operai del grande complesso di tessitura e filatura Mahalla al-Kubra’s Misr, situato a nord del Cairo in Egitto, sono riusciti a condurre, negli anni 2006-2007, una lunga lotta finalmente vittoriosa. Un episodio di questo movimento illumina particolarmente il modo in cui questi operai hanno occupato la loro fabbrica per proteggersi della repressione selvaggia dello Stato egiziano.
Il 7 dicembre 2006, per protestare contro il mancato pagamento dei premi promessi, 3000 operaie lasciano il loro posto di lavoro e si dirigono verso le sezioni dove i loro colleghi maschi non avevano ancora fermato le macchine. Le operaie allora dicono cantando: “Dove sono gli uomini? Ecco le donne!” Così, un po’ alla volta, 10.000 operai si trovano raccolti sulla piazza di Mahalla’s Tal’at Harb, proprio di fronte all’entrata della fabbrica. La risposta della borghesia egiziana non si fa attendere: la polizia antisommossa si spiega rapidamente attorno alla fabbrica e nella città. Di fronte a questa minaccia di repressione, alcune decine di operai scelgono allora di occupare la fabbrica. Ecco dunque 70 operai apparentemente presi in trappola. Sicura del fatto suo, la sera stessa la polizia antisommossa si precipita alle porte della fabbrica. Con 70 operai contro tutta uno schieramento di polizia il combattimento era ovviamente perso in partenza. Ma questi operai sanno in realtà di non essere soli. Così cominciano a colpire fortemente sulle sbarre di acciaio. “Svegliammo tutti nel complesso e nella città. I nostri cellulari uscirono dalle tasche per chiamare le nostre famiglie ed i nostri amici all’esterno, chiedendo loro di aprire le finestre e di fare sapere alla polizia che stavano osservando. Chiamammo tutti gli operai che conoscevamo per dire loro di precipitarsi verso la fabbrica [...]. Più di 20.000 operai arrivarono”[3]. I bambini delle scuole elementari e gli studenti delle scuole superiori vicine scendono anche loro per la strada in sostegno agli scioperanti. I servizi di sicurezza sono paralizzati. Finalmente al quarto giorno di occupazione della fabbrica, gli ufficiali del governo, impauriti, offrono un premio di 45 giorni di salario e danno l’assicurazione che la società non sarà privatizzata[4].
Scegliendo di occupare la loro fabbrica, questi 70 operai avrebbero potuto trovarsi incastrati in una vera trappola, alla mercé delle forze dell’ordine. Ma questo pugno di operai che si sono chiusi nella fabbrica non hanno tentato di resistere ad un assedio, soli contro tutti e “fino alla fine”. Al contrario essi hanno utilizzato questa occupazione come un punto di convergenza, chiamando i loro fratelli di classe a raggiungere la lotta. Molte settimane di lotta avevano mostrato loro che una solidarietà di classe si forgia poco a poco, che dei legami si stavano tessendo e che essi potevano dunque contare sul sostegno “di 20.000 operai”. E’ questa fiducia gradualmente sviluppata che ha permesso loro di osare chiamare tutti gli operai che conoscevano “per dire loro di precipitarsi verso la fabbrica”. L’occupazione della fabbrica non fu che un mezzo fra gli altri per condurre questa lotta, la dinamica generale di estensione del movimento essendo l’elemento determinante.
L’isolamento è sempre una trappola mortale
Nessun metodo di lotta costituisce in sé una panacea. I blocchi e le occupazioni possono essere, secondo le circostanze, completamente inadatti. Peggio ancora, nelle mani dei sindacati sono sempre utilizzati per dividere gli operai e condurli alla sconfitta. Lo sciopero dei minatori del 1984, in Gran Bretagna, ne è un tragico esempio. All’epoca il proletariato inglese, il più vecchio del mondo, è anche uno dei più combattivi. Detiene ogni anno l’incontrastato record del numero di giorni di sciopero! Per due volte, lo Stato è anche costretto a ritirare i suoi attacchi. Nel 1969 e nel 1972, i minatori riescono infatti a creare un rapporto di forza a favore della classe operaia imprimendo allo sciopero una dinamica d’estensione che lo fa uscire dalla logica settoriale o corporativa. A gruppi di decine o anche di centinaia, si recano in autobus nei porti, nelle acciaierie, nei depositi di carbone, nelle centrali, per bloccarle e convincere gli operai del posto a raggiungerli nella lotta. Questo metodo diverrà celebre sotto il nome di flying pickets (“picchetti volanti”) e simboleggerà la forza della solidarietà e dell’unità operaie. I minatori paralizzano così tutta l’economia interrompendo quasi completamente la produzione, la distribuzione e la combustione del carbone, fonte di energia allora indispensabile alle fabbriche.
Arrivando al potere nel 1979, la Thatcher pensa bene di rompere le reni a questa classe operaia non abbastanza docile per i suoi gusti. Per fare ciò, il suo piano è semplice: isolare gli elementi più combattivi, i minatori, in uno sciopero lungo e duro. Per mesi la borghesia inglese si prepara al braccio di ferro, accumulando degli stock di carbone per fare fronte al rischio di penuria. Nelle sue memorie, la Thatcher riporta: “Spettò soprattutto a Nigel Lawson, che era diventato ministro dell’Energia nel settembre 1981, di ammassare - regolarmente e senza provocazione - gli stock di carbone che avrebbero permesso al paese di resistere. Si sarebbe dovuto ascoltare spesso la parola “resistere” nel corso dei mesi seguenti.” Quando tutto è pronto, nel marzo 1984, vengono brutalmente annunciati 20.000 licenziamenti nel settore delle miniere di carbone. Come atteso, la reazione dei minatori è fulminea: fin dal primo giorno di sciopero, 100 pozzi su 184 sono chiusi. Ma il sindacato impone subito una morsa di ferro intorno agli scioperanti facendo di tutto per evitare ogni “rischio” di “contaminazione”. I sindacati dei ferrovieri e dei marittimi sostengono platonicamente il movimento, in altre parole, lasciano i minatori a sbrigarsela da soli. Il potente sindacato dei portuali si accontenta di due appelli allo sciopero tardivi, uno a luglio quando numerosi pozzi sono chiusi per le vacanze e l’altro in autunno, che però viene revocato alcuni giorni più tardi! La TUC (la centrale sindacale nazionale) rifiuta di sostenere lo sciopero. I sindacati degli elettricisti e dei siderurgici addirittura vi si oppongono. In breve, i sindacati sabotano attivamente ogni possibilità di lotta comune. Ma soprattutto, il sindacato dei minatori, la NUM (Unione Nazionale dei Minatori) completa questo sporco lavoro chiudendo i minatori in occupazioni sterili ed interminabili (più di un anno!) dei pozzi di carbone. Tenuto conto degli stock ammassati, la paralisi della produzione di carbone questa volta non fa paura alla borghesia, che teme solo la possibilità di un’estensione della lotta ai vari settori della classe operaia. Occorre dunque a tutti i costi evitare che i minatori inviino dei picchetti volanti dappertutto per discutere e convincere gli operai di altri settori a raggiungerli nella lotta. La NUM dispiega tutta la sua energia per contenere lo sciopero nella sola industria mineraria. Per evitare che dei picchetti volanti siano inviati alle porte delle fabbriche vicine, tutta l’attenzione degli operai viene focalizzata sulla necessità di occupare i pozzi, tutti i pozzi, null’altro oltre ai pozzi, a tutti i costi. Ma al tempo stesso la NUM si è ben guardata dal chiamare allo sciopero nazionale, lasciando ad ogni regione decidere se entrare o no in lotta. Così alcuni pozzi continuano a funzionare, il che permette alla stessa NUM di chiamare questi pozzi ancora in attività “covi di crumiri”. Da marzo 1984 a marzo 1985, per un anno intero, la vita di migliaia di operai e delle loro famiglie saranno polarizzate su questa sola questione di occupare le miniere e di bloccare i pochi pozzi ancora in attività. Bloccare la produzione del carbone diventa, sotto il bastone sindacale, l’obiettivo centrale ed unico, una questione in sé. I picchetti volanti hanno del piombo nelle ali; anziché “volare” di fabbrica in fabbrica, restano fermi nello stesso posto, dinanzi agli stessi pozzi, giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, quindi mese dopo mese. Il solo risultato è l’esacerbazione delle tensioni tra chi sciopera e chi no, che porta a volte finanche a degli scontri tra minatori. A questo punto isolati dalla loro classe, divisi al loro interno, i minatori diventano una preda facile. Grazie a questo sabotaggio sindacale, a queste occupazioni sterili ed interminabili, a questi picchetti volanti che di volante conservano solo il nome, la repressione poliziesca può infine abbattersi con tutta la sua violenza. Il bilancio dello sciopero dei minatori del 1984 sarà di 7000 feriti, 11.291 arresti e 8392 persone portate in giudizio. Ma peggio ancora, questa sconfitta sarà la sconfitta di tutta la classe operaia in quanto il governo Thatcher potrà procedere ad attaccare in grande stile tutti gli atri settori.
Certamente nella lotta di classe non esistono ricette. Qualsiasi metodo di lotta (blocco, picchetto, occupazione …) può a volte essere utile allo sviluppo del movimento, altre essere un elemento di divisione. Una sola cosa è certa: la forza della classe operaia risiede nella sua unità, nella sua capacità di sviluppare la sua solidarietà e dunque di estendere la lotta a tutti i settori. E’ questa dinamica di estensione che fa realmente paura alla borghesia e che permette di individuare, nelle grandi linee, alcune lezioni essenziali dalle esperienze di lotta del proletariato:
- i picchetti o le occupazioni non devono mai portare alla chiusura o al ripiegamento, ma devono al contrario essere uno strumento per l’estensione della lotta;
- per realizzare questa estensione, l’apertura è un elemento vitale. Una fabbrica occupata deve essere un luogo dove gli operai degli altri settori, i pensionati, i disoccupati … possono venire a discutere e partecipare alla lotta. I picchetti, anch’essi, devono costituire dei luoghi privilegiati di scambio per convincere i lavoratori che non sono in sciopero a unirsi alla lotta. I picchetti volanti devono avere come prima preoccupazione questa nozione di estensione della lotta a tutti i settori;
- non è possibile utilizzare una qualsivoglia azione in qualsiasi momento. In particolare, quando un movimento non si estende e ristagna piuttosto che svilupparsi, è quasi sempre inutile per gli elementi più combattivi e determinati cercare di andare “fino in fondo” delle loro forze (fisiche e morali) con occupazioni e blocchi spesso disperati. Ciò che conta a quel punto è soprattutto preparare le nuove lotte a venire;
- infine, dietro le azioni di blocco, dei picchetti e di occupazione, i sindacati cercano sempre di dividere ed isolare. Solo la presa in mano della lotta da parte degli stessi operai permette lo sviluppo della lotta e della solidarietà!
Qualunque sia il ruolo che può svolgere un'occupazione di fabbrica o un picchetto a un certo momento d’uno sciopero, è comunque nella strada che gli operai possono raccogliersi in massa! Non è un caso se nel maggio 2006, i metallurgici di Vigo, in Spagna, che occupavano la loro fabbrica e facevano fronte ad una repressione poliziesca violenta, hanno deciso di organizzare le loro assemblee generali e le manifestazioni nelle vie del centro città. Qui, nella strada, gli operai di tutti i settori, i pensionati, i disoccupati, le famiglie operaie … tutti hanno potuto raggiungere gli scioperanti e manifestare attivamente, attraverso la lotta e l’unità nella lotta, la loro solidarietà di classe!
Pawel (24 gennaio 2008)
[1] La legge LRU (Libertà e Responsabilità delle Università) aveva lo scopo di ridurre i costi statali per l’insegnamento superiore concentrando “gli sforzi finanziari” su qualche facoltà di elite e trasformando così tutte le altre università in facoltà spazzatura.
[2] CPE: Contratto di Primo Impiego.
[3] Testimonianza di due operai della fabbrica, Muhammed Attar e Sayyid Habib, raccolti da Joel Beinin e Hossam el-Hamalawy e pubblicati sotto il titolo “Gli operai del tessile egiziano si confrontano con il nuovo ordine economico”, sui siti “Middle East report Online” e libcom.org.
[4] Per ulteriori informazioni su questa lotta, che durò molti mesi, leggere il nostro articolo “Scioperi in Egitto: la solidarietà di classe, punta di diamante della lotta”, sul nostro sito web www.internationalism.org.