Contro le mistificazioni del Forum Sociale Europeo.Un solo altro mondo è possibile: il comunismo!

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Dal 12 al 15 novembre si è svolto a Parigi il “Forum Sociale Europeo”, una specie di succursale europea del Forum Sociale Mondiale che si tiene da diversi anni a Porto Alegre in Brasile. L’avvenimento ha avuto una certa consistenza: circa 40.000 partecipanti venuti da tutta l’Europa; un programma di circa 600 seminari e mostre sparse in diverse località intorno Parigi; e in conclusione una manifestazione da 60-100mila persone per le strade di Parigi, con gli stalinisti di Rifondazione Comunista davanti e gli anarchici della CNT in coda.

Anche se meno pubblicizzati, nello stesso periodo ci sono stati altri due “forum europei”: uno di deputati, l’altro per i sindacalisti europei. E come se non bastasse, gli anarchici hanno organizzato un “forum sociale libertario”nella periferia parigina, in simultanea con l’FSE  e “in alternativa” a questo.

“Un altro mondo è possibile”, questo uno degli slogan del FSE. E’ indubbio che per un gran numero dei manifestanti del 15 novembre, e in particolare per i giovani che cominciano a politicizzarsi, esiste un reale e pressante bisogno di lottare contro il capitalismo e per un mondo diverso da quello in cui viviamo, con la sua miseria senza fine e le sue guerre tanto orribili quanto interminabili. Il problema è sapere non solo che “un altro mondo è possibile” – e necessario – ma anche e soprattutto di quale mondo si tratta, e di come lo si può costruire.

E’ difficile pensare come poteva essere l’FSE a dare una risposta a questa domanda. Visto il numero e la varietà delle organizzazioni partecipanti (i sindacati dei quadri e dei “giovani dirigenti”, le organizzazioni cristiane, i trotskysti di Lutte Ouvrière e del Socialist Workers Party, gli stalinisti del PCF, fino agli anarchici di Alternativa libertaria), si immagina a fatica come poteva venirne fuori una risposta coerente, o semplicemente una qualche risposta. Tutti avevano qualcosa da dire, per cui c’era una massa di volantini, dibattiti, slogan. Ma quando si guarda più da vicino le idee uscite dal FSE, si constata che queste non hanno niente di nuovo, e soprattutto esse non hanno niente di “anticapitalista”.

La forte mobilitazione intorno a questa manifestazione ha spinto la CCI a fare un intervento al FSE commisurato alle sue forze, ma determinato. Sapendo che i presunti “dibattiti” del FSE erano chiaramente preclusi in partenza (cosa che ci è stata confermata da molti partecipanti), i nostri militanti venuti da diversi paesi d’Europa hanno privilegiato la vendita della stampa (nella maggior parte delle lingue europee), la partecipazione a discussioni informali tenutesi durante il FSE, e alla manifestazione finale. L’obiettivo di questa nostra partecipazione è stato quella di mettere avanti, nelle discussioni, la prospettiva comunista contro quella dell’anarchismo.

Un mondo liberato dai traffici e dal commercio?

“Il mondo non è in vendita”, questo è uno slogan di moda, recitato in diverse versioni, quando si vuole concretizzare: “la cultura non è in vendita”, per gli artisti e i precari dello spettacolo, “la salute non è in vendita” nel caso degli infermieri e dei lavoratori della Sanità pubblica, o anche “la scuola non è in vendita”, quando si tratta degli insegnanti.

Chi non si sentirebbe coinvolto in simili parole d’ordine? Chi sarebbe disponibile a vendere la sua salute, o l’educazione dei propri figli?

Tuttavia, quando si cerca di osservare cosa si trova dietro questi slogan, si comincia a sentire puzza di bruciato. Per esempio, la proposta non è di mettere fine alla vendita del mondo, ma solamente di “limitarla”: “sottrarre i servizi sociali alla logica del mercato”, che significa? Tutti sappiamo che finchè esisterà il capitalismo, tutto deve essere pagato, anche i servizi come la sanità e la scuola. Questi aspetti della vita sociale che gli altermondialisti vorrebbero “sottrarre alla logica del mercato” sono nei fatti una parte del salario globale dei lavoratori, gestita in generale dallo Stato. Lungi dall’essere “sottratto alla logica del mercato”, il livello del salario operaio, la proporzione della produzione che viene restituita al lavoratore, è al centro stesso del problema del mercato e dello sfruttamento capitalista. Il capitale paga sempre la sua mano d’opera il meno possibile: cioè paga quello che è necessario per la riproduzione della forza lavoro e della prossima generazione di operai. Oggi, mentre il mondo affonda in una crisi sempre più profonda, ogni capitale nazionale ha bisogno di sempre meno braccia, e le braccia di cui ha bisogno deve pagarle sempre meno per non farsi eliminare dai suoi concorrenti sul mercato mondiale. In questa situazione la classe operaia mondiale non può resistere, se non con la propria lotta, alle diminuzioni di salario – compreso quello “sociale” e non certo facendo appello allo Stato capitalista chiedendogli di “sottrarre” i salari alle leggi del mercato, cosa che esso non potrebbe assolutamente fare anche se ne avesse voglia.

Nella società capitalista il proletariato può, nella migliore delle ipotesi, imporre con la forza della sua lotta una ripartizione più favorevole del prodotto sociale: ridurre il plusvalore estorto dalla classe capitalista a favore del capitale variabile - il salario. Ma fare questo nel contesto attuale esige innanzitutto un livello elevato delle lotte (come si è potuto constatare con la sconfitta delle lotte di maggio 2003 in Francia con gli attacchi che piovevano sul salario sociale) e, in secondo luogo, questi guadagni non potrebbero essere che temporanei (come si è visto dopo il movimento del 1968 in Francia).

No, questa idea che “il mondo” non sarebbe in vendita è una miserabile truffa. La caratteristica del capitale è proprio che tutto è in vendita, e questo il movimento operaio lo sa dal 1848: “(la borghesia) ha fatto della dignità personale un semplice valore di scambio; e in luogo delle numerose franchigie faticosamente acquisite e patentate, ha posto la sola libertà di commercio senza scrupoli (...) La borghesia ha spogliato della loro aureola tutte quelle attività che per l’innanzi erano considerate degne di venerazione e di rispetto. Ha trasformato il medico, il giurista, il prete, il poeta, lo scienziato in suoi operai salariati.

E’ così che Marx ed Engels si esprimevano nel Manifesto Comunista: si vede a qual punto le loro analisi di allora restano attuali ancora oggi!

Un commercio equo?

“Commercio equo, non libero mercato!”” ecco un altro grande tema del FSE, a supporto dei piccoli contadini francesi e dei loro prodotti “biologici”. E, in effetti, chi non potrebbe essere toccato da questa speranza di vedere i contadini e i piccoli artigiani del terzo Mondo vivere decentemente del frutto del loro lavoro? Chi non vorrebbe arrestare il rullo compressore delle fattorie industrializzate che caccia i contadini dalle loro terre per intasarli a milioni nelle bidonville da Città del Messico a Calcutta?

Ma anche qui, come per la questione del mercato, i buoni sentimenti sono una cattiva guida.

Innanzitutto il movimento per un “commercio equo” non è nuovo. Le imprese delle opere cosiddette caritatevoli (come l’inglese Oxfam, ovviamente anch’essa presente al FSE) praticano il “commercio equo”dell’artigianato venduto nei loro magazzini di beneficenza da più di quaranta anni, il che non ha per niente impedito a milioni e milioni di esseri umani di sprofondare nella miseria in Africa, Asia, America Latina...

In più questa parola d’ordine sulla bocca degli altermondialisti costituisce una doppia ipocrisia. Così José Bové, presidente della Confederazione Contadina francese, ha voglia di pestare contro il business agricolo e il cattivo McDonald’s: questo non impedisce ai militanti della Confederazione Agricola di manifestare per chiedere il mantenimento delle sovvenzioni della PAC europea (1). Quest’ultima, abbassando artificialmente i prezzi dei prodotti francesi provoca proprio il mantenimento della iniquità del commercio a favore degli uni e detrimento degli altri. Analogamente, per i sindacalisti della siderurgia americana che nel 1998 manifestarono a Seattle durante il vertice dell’Organizzazione Mondiale per il Commercio (OMC) con grande clamore, il “commercio equo” significa imporre tariffe sull’’acciaio “straniero” prodotto a prezzi più bassi da operai di altri paesi. Alla fine dei conti quando si comincia a fare del commercio equo, si finisce sempre nella guerra commerciale.

Nel capitalismo la nozione di “equità” è, comunque, una bestemmia. Come diceva già Engels nel 1881 (2), in un articolo in cui criticava la nozione di “salario equo”: “l’equità dell’economia politica, del fatto che è l’economia politica che detta le leggi che reggono l’attuale società, questa equità si trova sempre dallo stesso lato: quello del capitale”.

Il colmo della soperchieria in questa storia del “commercio equo” è l’idea che la presenza dei manifestanti “altermondialisti” a Seattle o a Cancun al momento del vertice dell’OMC avrebbe dato coraggio ai negoziatori dei paesi del Terzo Mondo per farli resistere alle esigenze del “paesi ricchi”. Non possiamo dilungarci qui sul fatto che il vertice di Cancun si è concluso con un bruciante scacco per i paesi deboli, dal momento che i paesi europei non smantelleranno il loro PAC, e gli americani continueranno a sovvenzionare la loro agricoltura contro la penetrazione nei loro mercati dei prodotti meno cari dei paesi poveri. No, quello che è veramente incredibile è far credere che i dirigenti e i burocrati senza vergogna dei paesi del Terzo Mondo sarebbero presenti in questi negoziati per difendere i contadini e i poveri. Per non fare che un solo esempio, quando un Lula brasiliano denuncia le tariffe imposte dagli Stati Uniti per proteggere l’industria americana del succo d’arancia, non è ai contadini poveri che pensa, ma alle enormi piantagioni di aranci del Brasile, dove ci sono operai che soffrono esattamente come in Florida.

No al sostegno allo Stato borghese!

Il filo comune che unisce tutte queste teorie è questo: contro i “neo-liberisiti” delle grandi imprese “transnazionali” (le cattive “multinazionali” che venivano denunciate negli anni ‘70), ci viene proposto di affidarsi allo Stato, meglio ancora di rafforzare lo Stato.

Se le imprese hanno “confiscato”il potere di uno Stato “democratico” al fine di imporre la loro legge di mercato al mondo intero, il fine della resistenza dei “cittadini” deve essere quello di recuperare il potere dello Stato e dei “servizi pubblici”.

Che sequenza di mistificazioni! Lo Stato non è mai stato così presente come oggi nell’economia, perfino negli USA. E’ lui che regolamenta gli scambi mondiali fissando i tassi di interesse, le barriere doganali e via di seguito. Ed è anche l’attore principale nella economia nazionale, con una spesa pubblica che oscilla tra il 30 e il 50% a seconda dei paesi, e con i suoi deficit di bilancio sempre più importanti. Ed ancora, quando gli operai si mettono in testa di difendere le loro condizioni di vita contro gli attacchi capitalisti, chi trovano in prima fila sulla loro strada, se non le forze di repressione dello Stato? Chiedere, come fanno gli altermondialisti il rafforzamento dello Stato per proteggerci dai capitalisti è veramente una mistificazione colossale: lo Stato borghese esiste per difendere la borghesia contro gli operai e non l’inverso (3).

Non è un caso che dal FSE venga questo appello allo Stato, e in particolare alle sue frazioni di sinistra, presentate come i migliori difensori della “società civile”, contro il “neoliberismo”. Come dice una espressione inglese. “he who pays the piper calls the tune” (chi paga il musicista decide la musica). In effetti è molto istruttivo andare a vedere chi ha finanziato il FSE con ben 3,7 milioni di euro:

-               innanzitutto, i Consigli generali del Dipartimento de Seine-Saint Denis, della Val de Marne e dell’Essonne hanno contribuito per più di 600.000 euro, mentre il comune di Saint Denis da solo ha versato 570.000 euro (4). E’ il Partito “Comunista” Francese, questo ammasso di vecchi arnesi stalinisti, che tenta di rifarsi una verginità politica  dopo essere stato complice dei peggiori crimini commessi dallo Stato stalinista in Russia, nonché il sabotatore delle lotte operaie per decenni.

-               E il partito socialista francese, che si è largamente discreditato con i suoi attacchi antioperai al momento del suo ultimo passaggio al governo, avrebbe dovuto essere visto di cattivo occhio al FSE- Per niente! Il comune di Parigi, controllato dal PS, ha contribuito con 1 milione di euro alle spese del FSE!

-               E il governo ? Un governo di destra, neo liberale, denunciato con abbondanza di manifesti e articoli da tutte le sinistre unite, dagli anarchici agli stalinisti, si è forse turbato nel vedere che questo Forum attirava tanta gente? Al contrario: è su ordine personale del presidente, Jaques Chirac, che il Ministero degli esteri ha sborsato 500.000 euro per finanziare il Forum.

E’ chi paga che ne trae profitto! E’ tutta la borghesia francese, di destra come di sinistra, che ha finanziato liberalmente il FSE e che ha fornito i locali. Ed è tutta la borghesia che vuole tirare vantaggi dal successo del FSE, in particolare su due piani:

-     in primo luogo il FSE serve alla sinistra dell’apparato politico per rifarsi la faccia (dopo essere stata discreditata dagli anni passati al governo a portare attacchi alle condizioni di vita della classe operaia e ad assumersi la responsabilità della politica imperialista del capitalismo francese). Dal momento che i partiti politici non sono più di moda, vista la grande diffidenza che provocano, essi s truccano da “associazioni”, per darsi un’aria più “vicina” ai cittadini, più “democratica”, più “aperta”. E bisogna dire che non è solo la sinistra che ha interesse a far dimenticare i suoi misfatti di ieri, ma è tutta la borghesia che ha interesse a che il fronte sociale non sia sguarnito, a che le lotte operaie, o anche più in generale il disgusto e i dubbi ispirati dalla società capitalista, siano deviate verso le vecchie ricette riformiste, sbarrando loro il cammino verso la presa di coscienza della necessità di rovesciare l’ordine capitalista e mettere fine ai suoi disastri.

-               In secondo luogo, la borghesia francese nel suo insieme ha interesse all’espandersi e al rafforzamento dell’atmosfera nettamente antiamericana del FSE. Le enormi distruzioni delle due guerre mondiali, le terribili perdite di vite umane e poi , soprattutto, la ripresa delle lotte operai alla fine del periodo di controrivoluzione dopo il 1968, hanno contribuito a discreditare il nazionalismo che la borghesia ha utilizzato per lanciare le popolazioni nelle due carneficine mondiali. Per cui, anche se non esiste un “blocco europeo” e ancor meno una “nazione europea”, a cui legare un patriottismo “europeo” guerriero, le borghesie dei differenti paesi europei e in particolare le borghesie francese e tedesca hanno tutto l’interesse a incoraggiare la crescita di un sentimento antiamericano e più vagamente “filoeuropeo”, allo scopo di presentare la difesa dei loro propri interessi imperialisti contro l’imperialismo americano come la difesa di una visione del mondo “diversa”, “altermondialista”.

Analogamente, il sostegno altermondialista al divieto di importazione degli OGM americani, presentato come misura “ecologica” e di “difesa della salute pubblica”, non è nei fatti che un episodio della guerra economica, destinata a lasciare il tempo alla ricerca francese di recuperare il ritardo rispetto agli Stati Uniti in questo campo (5).

Gli esperti del marketing moderno non cercano più di venderci direttamente i prodotti, essi utilizzano un metodo più sottile e più efficace: vendono una “visone” del mondo a cui accostano i prodotti che si presume la incarnino. Gli organizzatori del FSE procedono alla stessa maniera: ci propongono una “visione del mondo” irreale, dove il capitalismo non è più capitalista,, dove le nazioni non sono più imperialiste e dove si può fare un “altro mondo” senza fare una rivoluzione internazionale comunista. E in nome di questa ”visione” propongono di affidarci alla zuppa decotta dei partiti di sinistra, sedicenti “socialisti” e “comunisti”, mascherati per l’occasione in “associazioni di cittadini”.

Dal momento che in questa occasione è stata la borghesia francese che si è data da fare, è normale che siano i suoi partiti politici che profittino in prima istanza del FSE. Non bisogna tuttavia credere che l’operazione sia frutto della sola borghesia francese. Nei fatti questo sforzo di ricredibilizzazione della sua ala sinistra, portato avanti nei “forum sociali” mondiali ed europei, torna utile per tutta la classe borghese mondiale.

Un altro mondo libertario?

In contemporanea al più ufficiale Forum Sociale Europeo si è tenuto sempre a Parigi un “Forum Sociale Libertario”, come alternativo al primo appoggiato dai grandi partiti borghesi. Ci si chiede giustamente fino a che punto l’opposizione tra i due fosse reale: almeno uno dei gruppi organizzatori del FSL ha preso parte attiva anche nel FSE, e la manifestazione organizzata dal FSL ha raggiunto, dopo un piccolo percorso “indipendente”, quella del FSE.

Non è obiettivo di questo articolo occuparsi estesamente di quello che si è detto nel FSE. Vogliamo soffermarci solo su alcuni dei suoi temi principali.

Prendiamo innanzitutto il “dibattito” sugli spazi “autogestiti” (occupanti di case, comuni, reti di scambio di servizi, caffè”alternativi”, ecc.). Se usiamo “dibattito” tra virgolette è perché gli animatori hanno fatto di tutto per limitarlo a dei resoconti descrittivi dei loro “spazi”, evitando ogni valutazione critica anche dall’interno dello stesso campo anarchico. Ci si è presto resi conto che la “autogestione” è molto relativa: un intervento, relativo ad una esperienza inglese, spiegava che essi avevano dovuto acquistare il loro spazio da autogestire per la “misera” somma di 350.000 sterline (circa 500.000 euro); un altro raccontava della creazione di uno “spazio” su internet, creato, come si sa, dal DARPA americano (6).

Ma più rivelatore ancora è il programma di azione dei diversi “spazi” descritti: farmacia gratuita ed “alternativa” (erboristeria), servizi di consulenza giuridica, caffè, scambi di servizi. In altri termini, il piccolo commercio associato ai servizi sociali lasciati andare da uno Stato che taglia le spese. Insomma il massimo della radicalità anarchica consiste nel supplire lo Stato, facendo il suo lavoro gratis.

Un altro dibattito sulla gratuità dei servizi pubblici mostra la vuotezza dell’anarchismo ufficiale. La pretesa è che i servizi pubblici possano essere una opposizione alla società mercantile in quanto rispondono gratuitamente ai bisogni della popolazione (in maniera “autogestita”, ovviamente, con tanto di comitati di consumatori, di collettività locali e di collettività di produttori). Qualcosa di estremamente simile ai comitati di quartiere creati di recente dallo Stato francese per gli abitanti della periferia parigina. In pratica si avanza l’idea che si possa introdurre una opposizione istituzionale alla società capitalista, all’interno della società capitalista stessa.

Un’altra caratteristica dell’anarchismo apparsa fortemente in tutti i dibattiti del FSL è la sua visione profondamente elitaria e educazionista. L’anarchismo non pensa affatto ad un “altro mondo” che potrebbe sorgere dal cuore stesso delle contraddizioni del mondo attuale. Il passaggio dal mondo attuale al mondo futuro e “diverso” non potrebbe farsi quindi che sulla base dell’”esempio” dato dagli spazi “autogestiti”, attraverso una azione educatrice sui misfatti del “produttivismo” moderno. Ma, come diceva già Marx un secolo e mezzo fa, se una nuova società deve apparire grazie all’educazione del popolo, chi educherà gli educatori? Perché quegli stessi che vogliono educare sono a loro volta formati dalla società in cui viviamo, e le loro idee di un “altro mondo” restano in realtà solidamente legate al mondo attuale.

In effetti i due forum “sociali” non ci hanno proposto, sotto forma di idee nuove e rivoluzionarie, niente altro che vecchie idee che hanno rivelato già da lungo tempo la loro inadeguatezza, se non la loro natura controrivoluzionaria.

Per esempio gli spazi “autogestiti” ricordano le imprese cooperative del 19° secolo, o anche le cosiddette “collettività operaie” più recenti, tipo la LIP in Francia o la Triumph in Gran Bretagna, che o sono fallite, o sono restate delle semplici imprese capitaliste, non foss’altro perchè esse dovevano produrre e vendere  all’interno dell’economia mercantile capitalista. O anche tutte le imprese comunitarie degli anni ’70 (squatters, comitati di quartieri, scuole “libere”), che si sono perfettamente integrate nello Stato borghese come servizi sociali o educativi.

Tutte le idee di una trasformazione radicale introdotta attraverso una “gratuità” dei servizi pubblici ricordano il riformismo gradualista che era già una mistificazione nel  movimento operaio del 1900 e che ha fatto definitivamente bancarotta al momento della carneficina del 1914 piazzandosi al fianco del proprio Stato per difendere le loro “conquiste” contro l’imperialismo “invasore”. Queste idee ricordano lo Stato “Provvidenza”, messo in piedi dalla borghesia dopo la seconda guerra mondiale al fine di razionalizzare la gestione della forza lavoro e per mistificare questa stessa forza lavoro (in particolare volendo intendere che i milioni di morti della guerra erano serviti a qualche cosa).

La nostra risposta: un mondo nuovo dalle fondamenta

E’ assolutamente inevitabile che in una società divisa in classe le idee dominanti siano quelle della classe dominante. Se nonostante questo è possibile comprendere la necessità, e la possibilità materiale, di una rivoluzione comunista, è solo perché esiste nella società capitalista una classe sociale che incarna questo divenire rivoluzionario, la classe operaia. Viceversa, se noi cerchiamo semplicemente di “immaginare” quale potrebbe essere una società “migliore”, basandoci sui nostri desideri e sulla nostra immaginazione, che sono influenzati dalla società capitalista,  noi non possiamo che cercare di “reinventare” il mondo capitalista attuale, cadendo o nel sogno reazionario del piccolo produttore che non vede più lontano del suo piccolo spazio “autogestito”, o nel delirio mostruoso di uno Stato mondiale e benefattore  espresso da un altro guru dell’altermondialismo, George Monbiot. (7)

Per il marxismo, invece, si tratta di scoprire in seno stesso al mondo capitalista di oggi le premesse di un mondo nuovo che la rivoluzione comunista deve far sorgere, se non vogliamo che l’umanità vada alla rovina. Come Marx diceva nel Manifesto del 1848: “le idee dei comunisti non poggiano per niente su delle idee, su dei principi inventati o scoperti da questo o quel riformatore del mondo. Esse non sono altro che l’espressione generale di una lotta di classe esistente, di un movimento storico che si opera sotto i nostri occhi.” (8)

Si possono distinguere tre elementi maggiori, strettamente legati, di “questo movimento storico che si opera sotto i nostri occhi”.

Il primo è la trasformazione già operata dal capitalismo del processo produttivo di tutta la specie umana. Il più piccolo oggetto di uso quotidiano è l’opera non più di un piccolo artigiano autosufficiente, o di una piccola produzione locale, ma del lavoro comune di migliaia, se non di decine di migliaia di uomini e donne che fanno parte di una rete che ricopre l’insieme del pianeta. Liberata dagli intralci che le sono imposti dai rapporti mercantili di produzione e dall’appropriazione privata dei suoi frutti, questa distruzione di ogni particolarismo locale, regionale o nazionale sarà la base per la costituzione di una sola comunità umana su scala planetaria. Man mano che la trasformazione sociale e l’affermazione di tutti gli aspetti della vita sociale di questa comunità umana avanzeranno, scompariranno anche le distinzioni oggi sapientemente mantenute dalla borghesia come mezzo di divisione della classe operaia, come tra etnie, popoli, nazioni. Si può immaginare che le popolazioni e le lingue saranno mescolati fino a che non esisteranno più europei, africani, asiatici (e ancor meno bretoni, baschi o…padani), ma una sola specie umana la cui produzione intellettuale ed artistica si esprimerà in una sola lingua comprensibile da tutti e infinitamente più ricca, più precisa e più armoniosa di tutte le lingue nelle quali si esprime la cultura limitata e sempre più decadente di oggi (9).

Il secondo elemento fondamentale, indissociabile dal primo, è l’esistenza, all’interno stesso della società capitalista, di una classe che incarna e che esprime al suo punto più alto questa realtà del processo produttivo unificato e internazionale, il proletariato internazionale. Che l’operaio sia un siderurgico americano, un  disoccupato inglese, un bancario francese, un meccanico tedesco, un programmatore indiano, o un metalmeccanico italiano, tutti questi hanno in comune il fatto di essere sfruttati sempre più duramente dalla classe capitalista mondiale, e di non potersi liberare di questo sfruttamento se non rovesciando l’ordine capitalista stesso.

Due aspetti della natura stessa della classe operaia meritano di essere sottolineati:

-    innanzitutto, contrariamente ai contadini e ai piccoli artigiani, il proletariato è creato dal capitalismo che non può disfarsi di lui. Il capitalismo distrugge il contadino e l’artigiano, riducendoli a lavoratori salariati, se non a disoccupati. Ma il capitalismo non può esistere senza proletariato. Finchè esiste il capitalismo esisterà il proletariato. E finchè il proletariato esisterà porterà in sé il progetto rivoluzionario comunista del rovesciamento dell’ordine capitalista e della costruzione di un altro mondo.

-    Un’altra caratteristica fondamentale della classe operaia risiede nel mescolamento e nel movimento delle popolazioni per rispondere ai bisogni della produzione capitalista. “Gli operai non hanno patria”, come diceva il Manifesto, non solo perché essi non possiedono la proprietà, ma perché essi sono sempre alla mercè del capitale e della sua necessità di mano d’opera. La classe operaia è per sua natura una classe di immigrati. Per convincersene basta guardare la popolazione di una qualunque metropoli dei paesi industrializzati, si vedranno uomini e donne provenienti dal mondo intero. Ma è così anche nei paesi sottosviluppati: in Costa d’Avorio molti operai agricoli sono del Burkina Faso; nell’Africa del Sud i minatori vengono dallo Zimbabwe o dal Botswana; nel Golfo Persico gli operai sono palestinesi,, indiani, pakistani, filippini; in Indonesia ci sono milioni di operai stranieri nelle fabbriche. Questa esistenza reale della classe operaia, che prefigura l’unificazione della popolazione planetaria che abbiamo evocato prima, mostra anche tutta la vuotezza dell’ideale caro agli anarchici e ai democratici della difesa di una “comunità” locale o regionale. Per fare un esempio: il nazionalismo scozzese può offrire una prospettive alla classe operaia di Scozia, fatta in buona parte di immigrati asiatici? E’ evidente che no. La sola comunità reale che possono sperare di trovare gli operai che sono stati o saranno strappati dalle loro radici, è quella planetaria che essi potranno costruire dopo la rivoluzione.

Il terzo elemento fondamentale che vogliamo sollevare viene da una statistica: in tutte le società di classe che hanno preceduto il capitalismo il 95% della popolazione (grosso modo) lavorava la terra, e il surplus che essa produceva serviva a far vivere il restante 5 % (signori e religiosi, ma anche artigiani, mercanti, ecc.) Oggi questa proporzione è rovesciata, e nei paesi più sviluppati è una parte sempre più piccola della popolazione che è direttamente implicata nella produzione di beni materiali. Il che vuol dire che potenzialmente, a livello della capacità fisica del processo produttivo, l’umanità è arrivata a uno stato di abbondanza quasi senza limiti.

Già nel capitalismo, le capacità produttive della specie umana hanno creato una situazione qualitativamente nuova rispetto a tutta la storia precedente: mentre prima la penuria assediava la maggior parte della popolazione, e gli stessi periodi di carestia erano il frutto dei limiti naturali della produzione (basso livello di produttività dei suoli, cattivi raccolti, e così via), sotto il capitalismo il solo ed unico motivo della penuria sono i rapporti di produzione capitalisti stessi. La crisi che butta gli operai in mezzo a una strada non ha per causa una insufficienza della produzione, ma al contrario essa è il risultato diretto del fatto che questa produzione non può essere venduta (10). E, più ancora, nei paesi cosiddetti avanzati una parte sempre più grande della attività economica non ha in senso stretto alcuna utilità al di fuori del sistema capitalista stesso: la speculazione finanziaria e borsistica, le astronomiche spese militari, gli oggetti di moda, i prodotti ad “obsolescenza incorporata” al semplice scopo di obbligare il loro riacquisto, la pubblicità, ecc. Se si guarda ancora più lontano è evidente che l’utilizzazione delle risorse della terra è sempre più dominato da un funzionamento irrazionale – salvo che per la redditività capitalista - dell’economia: viaggi di ore per milioni di esseri umani per andare al lavoro, trasporti privilegiati per terra invece che per strade ferrate, collettivi e più veloci. Insomma si ha un rovesciamento totale del rapporto tra la quantità di tempo occorrente a produrre lo stretto necessario (per mangiare, per vestirsi, per alloggiare) e il tempo passato al “di là del necessario”, per così dire (11).

Nascita di una comunità planetaria

Nel nostro intervento, alle manifestazioni, sui luoghi di lavoro, siamo spesso confrontati alla questione “allora, voi dite che il comunismo non è ancora esistito?” Al che, per cercare di dare una definizione al tempo stesso complessiva e rapida, noi rispondiamo “il comunismo è un mondo senza classi, senza nazione e senza denaro”. Anche se molto sommaria (non foss’altro che per l’uso del negativo, “senza”), questa definizione ingloba le caratteristiche fondamentali della società comunista:

-    essa sarà senza classi, perché il proletariato non potrà liberarsi diventando a sua volta una classe sfruttatrice; la riapparizione di una classe sfruttatrice dopo la rivoluzione significherebbe in realtà la sconfitta della rivoluzione e il mantenimento dello sfruttamento (12). La sparizione delle classi deriva naturalmente dall’interesse della classe operaia vittoriosa ad emancipare se stessa. Uno dei suoi primi obiettivi sarà quello di ridurre il tempo di lavoro, integrando nel processo produttivo i disoccupati, le masse senza lavoro del Terzo Mondo, ma anche la piccola borghesia e i contadini, oltre che i membri della borghesia sconfitta.

-    Essa sarà senza nazioni, perché il processo produttivo ha già largamente superato il quadro nazionale, e dunque ha reso obsoleta la nazione come quadro organizzativo della società umana. Il capitalismo, creando la prima società umana su scala planetaria, ha già superato il quadro nazionale in cui esso stesso è nato. Come la rivoluzione borghese ha distrutto tutti i particolarismi e frontiere feudali, così la rivoluzione proletaria metterà fine all’ultima divisione della società umana in nazioni

-    Essa sarà senza denaro, perché il concetto di scambio (e quindi di un equivalente universale per facilitare questo scambio) non ha più senso nel comunismo in quanto l’abbondanza permette che i bisogni di tutti i membri della società siano soddisfatti. Se il capitalismo ha creato la prima società umana in cui lo scambio di merci è diventato del tutto generalizzato ad ogni produzione (contrariamente alle società precedenti, in cui lo scambio era limitato ad alcuni prodotti di lusso, o a quegli articoli che non potevano essere prodotti sul posto, come il sale, per esempio), esso è oggi strangolato dal fatto che è impossibile vendere sul mercato tutto quello che esso è capace di produrre. Il fatto stesso di dover acquistare e vendere è diventato un ostacolo alla produzione. Lo scambio dunque sparirà, e con lui scomparirà il concetto stesso di merce, ivi compresa la prima merce fra tutte: la forza lavoro salariata.

Questi tre principi si scontrano direttamente con tutti i luoghi comuni sparsi dall’ideologia borghese, secondo cui ci sarebbe una “natura umana” avida e violenta che determinerebbe per sempre la divisione tra sfruttatori e sfruttati, o tra nazioni. Una tale idea di “natura umana” conviene alla perfezione alla classe dominante, perché essa dà una giustificazione al suo dominio di classe ed impedisce alla classe operaia di identificare con chiarezza il vero responsabile della miseria e dei massacri che affliggono oggi l’umanità. Essa non ha però niente a che vedere con la realtà: contrariamente alle altre specie animali, la cui “natura” (cioè il comportamento) è determinato dal loro ambiente naturale (e quindi dai suoi limiti), la “natura umana” è sempre più determinata, man mano che avanza il suo dominio sulla natura, non dal suo ambiente naturale ma dal sua ambiente sociale.

I rapporti trasformati tra l’uomo e la natura

I tre punti menzionati prima, non costituiscono che uno schizzo sommario. Ciononostante essi hanno profonde implicazioni riguardo ciò che sarà la società comunista del futuro.

I marxisti hanno sempre resistito alla tentazione di elaborare delle “ricette per il futuro”, in primo luogo perché sarà l’azione delle grandi masse che determinerà il futuro, in secondo luogo perché noi non possiamo immaginare quello che sarà una società comunista, esattamente come un contadino dell’11° secolo non avrebbe potuto immaginare il mondo capitalista. Ciò non ci impedisce tuttavia di tracciare qualche linea di quanto deriva da quello che abbiamo appena detto.

Il cambiamento più radicale verrà probabilmente dalla scomparsa della contraddizione tra l’essere umano e il lavoro. La società capitalista ha elevato al più alto grado la contraddizione – sempre esistita nelle società divise in classi – tra il lavoro, cioè l’attività che si intraprende solo se si è costretti e forzati, e il tempo libero, cioè quello in cui si è liberi di scegliere il tipo di attività da svolgere. La costrizione viene da una parte dalla penuria imposta dai limiti della produttività del lavoro e, d’altra parte, dal fatto che una parte del frutto del proprio lavoro è arraffata dalla classe sfruttatrice. Nel comunismo, queste costrizioni non esisteranno più: per la prima volta nella storia l’essere umano potrà produrre in tutta libertà, e la produzione sarà tutta finalizzata al soddisfacimento dei bisogni umani. Si può anche immaginare che i termini “lavoro” e “tempo libero” spariranno del tutto dal linguaggio, perché nessuna attività sarà svolta per costrizione. La decisione di produrre o di non produrre dipenderà non solamente dall’utilità della cosa in se stessa, ma anche dal grado di piacere o di interesse che la sua produzione porta in sé.

L’idea stessa di “soddisfazione dei bisogni” cambierà di natura. I bisogni di base (nutrirsi, vestirsi, avere un tetto) occuperanno una parte progressivamente meno importante, mentre si affermeranno sempre più i bisogni determinati dall’evoluzione sociale della specie. Così si metterà fine alla distinzione tra lavoro artistico e quello che non lo è, che il capitalismo ha esacerbato al massimo. L’immensa maggioranza degli artisti della storia è rimasta anonima, e non è che con l’avvento del capitalismo che l’artista comincia a firmare il suo lavoro, che l’arte comincia ad essere una attività specifica separata dalla produzione quotidiana. Oggi questa tendenza è al parossismo, con una separazione quasi totale tra le “belle arti” da un lato (incomprensibile per la grande maggioranza della popolazione e riservata a una piccola minoranza di intellettuali) e la produzione artistica industrializzata nella pubblicità e nella “cultura pop”. Tutto ciò non è che il risultato della contraddizione nel capitalismo tra l’essere umano e il suo lavoro. Con la sparizione di questa contraddizione sparirà anche la contrapposizione tra produzione “utile” e produzione “artistica”. La bellezza, la soddisfazione dei sensi e dello spirito, saranno dei bisogni altrettanto fondamentali per l’essere umano che il processo produttivo dovrà soddisfare (13).

Anche l’educazione cambierà completamente la sua natura. In ogni società il fine dell’educazione dei giovani è quello di permettere loro di prendere il loro posto nella società adulta. Nel capitalismo “prendere il proprio posto nella società adulta” vuol dire prendere posto in un sistema di sfruttamento brutale, dove quello che non rende non ha, giustamente, alcun posto. Il fine dell’educazione è dunque soprattutto quello di fornire alle nuove generazioni delle capacità che possono essere vendute sul mercato, e più in generale, in questa epoca di capitalismo di Stato, di fare in modo che la nuova generazione sia capace di rafforzare il capitale nazionale di fronte ai suoi concorrenti sul mercato mondiale. E’ quindi evidente che il capitale non ha alcun interesse a promuovere uno spirito critico verso la sua organizzazione sociale. L’educazione insomma, non ha altro fine che di uccidere i giovani spiriti e di buttarli nel brodo della società capitalista e dei suoi bisogni produttivi; nessuna meraviglia dunque se le scuole somigliano sempre più a delle fabbriche e i professori a degli operai alla catena di montaggio.

Nel comunismo, al contrario, integrare un giovane nel mondo adulto non potrà farsi  senza un risveglio ampio di tutti i sensi, fisici e intellettuali. In un sistema sociale completamente liberato dalle esigenze della redditività il mondo adulto si aprirà al fanciullo man mano che egli svilupperà le sue capacità, e il giovane adulto non sarà più esposto all’angoscia dell’abbando-no della scuola e l’immersione nella concorrenza sfrenata del mercato del lavoro. Come non ci sarà più contraddizione tra “lavoro” e “tempo libero”, tra “produzione” ed “arte”, così non ci sarà più contrapposizione tra scuola e “mondo del lavoro”. Le parole scuola, fabbrica, ufficio, galleria d’arte, museo (14), spariranno o cambieranno completamente di senso, perché tutta l’attività umana si fonderà in uno sforzo armonioso di soddisfazione e di sviluppo dei bisogni e delle capacità fisiche, intellettuali e sensoriali della specie.

La responsabilità del proletariato

I comunisti non sono degli utopisti. Noi abbiamo cercato di fare uno schizzo molto breve e necessariamente limitato di quello che dovrà essere la nuova società umana che nascerà dalla società capitalista attuale; in questo senso lo slogan dei no-global “un altro mondo è possibile” (ovvero “altri mondi sono possibili”) non è che un mistificazione.. Non c’è che un solo altro mondo possibile: il comunismo.

Ma la nascita di un nuovo mondo non ha niente di inevitabile, In questo il capitalismo non è diverso dalle società che lo hanno preceduto, in cui “uomo libero e schiavo, patrizio e plebeo, barone e servo, in una parola, oppressori ed oppressi, in opposizione costante, hanno condotto una guerra ininterrotta, a volte aperta, altre nascosta, una guerra che finiva sempre o con una trasformazione rivoluzionaria dell’intera società, o con la distruzione delle due classi in lotta” (Manifesto)

Questo vuol dire che la rivoluzione comunista, per quanto sia necessaria, non ha niente di inevitabile. Il passaggio dal capitalismo al mondo nuovo non potrà risparmiarsi la violenza della rivoluzione proletaria per potersi realizzare (15). Ma l’alternativa, nella situazione attuale di decomposizione del capitalismo in cui viviamo non è più distruzione delle due classi in lotta, ma dell’intera umanità. Da qui deriva l’immensa responsabilità che pesa sulle spalle della classe rivoluzionaria mondiale.

Vista oggi, la capacità rivoluzionaria del proletariato può sembrare un sogno talmente lontano che grande è la tentazione di fare qualcosa ora, anche a costo di trovarsi a fianco dei vecchi politicanti socialisti e stalinisti, cioè dell’ala sinistra dell’apparato statale della borghesia. Ma per le minoranze rivoluzionarie il riformismo non è il male minore, è il compromesso mortale con il nemico di classe. Il cammino verso la rivoluzione che potrà creare un “altro mondo” sarà lungo e difficile, ma è il solo cammino che esiste.

             Jens

1. Politica Agricola Comune (PAC) un enorme e costoso sistema per il mantenimento dei prezzi pagati ai produttori agricoli europei, a danno dei loro concorrenti negli altri paesi esportatori.

2. Vedere il sito:

https://www.marxists.org/archive/marx/works/1881/05/07.htm, articolo scritto nel Labour Standard

3. E’ particolarmente interessante leggere nelle pagine di Alternative Libertaire, un gruppo anarchico francese, “che noi vogliamo la manifestazione più importante possibile per far capire loro ancora una volta che noi non vogliamo una Europa capitalista e poliziesca” (Alternative Libertaire n. 123, novembre 2003), mentre tutto il FSE è finanziato dallo Stato e gira intorno alla mistificazione del rafforzamento degli Stati europei per la presunta difesa dei “cittadini” contro la grande industria. Insomma, non c’è nessuna incompatibilità nei fatti tra l’anarchismo e la difesa dello Stato!

4. Molte tra le città coinvolte sono governate dal Partito Comunista Francese.

5. Come diceva Bismark : “Io ho sempre incontrato la parola Europa nella bocca di quei politici che esigevano qualcosa dalle altre potenze senza osare chiederle apertamente

6. Defence Advanced Research Projects Agency

7. Grande esponente del movimento altermondialista, autore di un Manifeste for a new world.

8. Non si riuscirà mai a sottolineare abbastanza la straordinaria forza e capacità di previsione del Manifesto Comunista che ha gettato le fondamenta per la comprensione scientifica del movimento verso il comunismo. Il Manifesto stesso fa parte dello sforzo del movimento operaio fin dai suoi inizi, continuato dopo il Manifesto, per percepire in maniera più profonda la natura della rivoluzione verso cui esso tendeva con tutte le sue forze. La cronaca di questo sforzo è stata fatta da noi nella serie di articoli “Il comunismo non è un bel ideale, ma una necessità materiale”, pubblicata nella Révue Internationale.

9.In luogo dell’antico isolamento locale e nazionale, per cui ogni paese bastava a se stesso, subentra un traffico universale, una universale dipendenza delle nazioni l’una dall’altra. E come nella produzione materiale, così in quella spirituale. I prodotti spirituali delle singole nazioni diventano patrimonio comune. L’unilateralità e la ristrettezza nazionale diventano sempre più impossibili, e dalle molte letterature nazionali e locali esce una letteratura mondiale.” (Manifesto)

10. Nella crisi scoppia una epidemia sociale che in ogni altra epoca sarebbe apparsa un controsenso: l’epidemia della sovrappodruzione. La società si trova improvvisamente ricacciata in uno stato di momentanea barbarie; una carestia, una guerra generale di sterminio sembrano averle tolto tutti i mezzi di sussistenza; l’industria, il commercio sembrano annientati, e perché? Perché la società possiede troppa civiltà, troppi mezzi di sussistenza, troppa industria, troppo commercio. Le forze produttive di cui essa dispone non giovano più a favorire lo sviluppo della civiltà borghese e dei rapporti della proprietà borghese, al contrario, esse sono diventate troppo potenti per tali rapporti, sicchè ne vengono inceppate.” (idem)

11. Non possiamo entrare nei dettagli qui, ma segnaliamo solo che questa è una nozione da utilizzare con precauzione, perché anche i bisogni di base sono determinati “socialmente”: i bisogni di alloggiamento o di nutrimento non sono gli stessi per l’uomo del Cro Magnon e l’uomo moderno, per esempio, e nemmeno vengono soddisfatti alla stessa maniera o con gli stessi strumenti.

12. E’ quello che è successo con la sconfitta della rivoluzione russa dell’Ottobre 1917: il fatto che molti dirigenti dell’URSS (Breznev, per esempio) fossero stato operai o figli di operai ha potuto accreditare l’idea che una rivoluzione comunista che portasse la classe operaia al potere non farebbe che creare una nuova classe dirigente, “proletaria”. Questa è una idea trattenuta ad arte da tutte le frazioni della borghesia, di destra come di sinistra, far credere che l’URSS fosse comunista e che i suoi capi non fossero altro che l’espressione di questa nuova classe dirigente. Ma la realtà è che la controrivoluzione staliniana ha messo di nuovo al potere una classe borghese; il fatto che una buona parte dei membri di questa classe provenisse dal proletariato o dal contadiname, non cambia assolutamente la loro natura, esattamente come accade quando un figlio di operaio diventa proprietario di una fabbrica.

13. Al FSL un anarchico ha voluto, in maniera dotta, farci una lezione sulla differenza tra i marxisti che privilegerebbero l’ homo “faber” (l’uomo che fabbrica) e gli anarchici che privilegerebbero l’homo “ludens” (l’uomo che gioca). Ma non è perché viene espressa in latino che una asineria si trasforma in qualcosa di meno.

14. E, necessariamente, “prigione”, “galera”, “bagno penale” o “campo di concentramento”

15. Per una visione molto più sviluppata, vedi la nostra serie sul comunismo citata prima, e in particolare la parte pubblicata sulla Révue Internazionale n. 70

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