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Pro o contro la “mondializzazione”, rassicuranti o allarmistici, i discorsi sulla situazione internazionale e le sue prospettive sono unanimi su di un concetto: la democrazia sarebbe il solo sistema che permetterà alla società di progredire, di prosperare ed il capitalismo sarebbe la forma al fine trovata dell’organizzazione economica, politica e sociale dell’umanità. “Il 2000 non è stato veramente il primo anno del 21° secolo. In termini sostanziali, il 21° secolo è cominciato nel 1991 con la caduta del comunismo sovietico, il crollo dell’ordine bipolare e l’affermazione del capitalismo globale come ideologia incontrastata della nostra era.” (1)
Ma come si spiega il moltiplicarsi delle guerre locali e dei massacri? Perché la crescita e la generalizzazione della miseria nel mondo? Perché l’aumento della disoccupazione ed il degrado delle condizioni di esistenza del proletariato? Come spiegare le carestie, la recrudescenza delle epidemie, la corruzione e l’insicurezza crescenti? Da dove vengono le cosiddette catastrofi naturali e le minacce all’ambiente del pianeta? Se non dalla sussistenza del capitalismo, di quelle relazioni sociali, di quei rapporti di produzione, che non hanno nulla a che fare con i bisogni umani e rispondono al conseguimento di un solo obiettivo: il profitto; e “non semplicemente un profitto tangibile, ma un profitto sempre crescente.” (2)
Di fronte a questa obiezione vengono avanzate differenti risposte.
La “mondializzazione” e la favola della “democrazia” per mascherare il caos capitalista
Tutto queste cose non sarebbero che delle esagerazioni di quelli che si rifiutano di vedere i benefici del sistema attuale. Questa risposta è in generale quella degli adulatori del capitalismo liberale. Per questi ultimi, le conseguenze disastrose della sopravvivenza del capitalismo sono il prezzo normale da pagare in questo sistema sociale, il risultato inevitabile di una legge della natura che implica l’eliminazione dei più deboli ed il benessere solo per i più forti.
Tutte queste calamità del mondo moderno all’alba del 21° secolo sono reali ma sono considerate prima di tutto come degli eccessi o delle imperfezioni, come le conseguenze di errori commessi da responsabili troppo presi dal guadagno e non abbastanza preoccupati del bene di tutti. Sarebbe il risultato del capitalismo “selvaggio”. Ci vorrebbe dunque, secondo queste concezioni, un controllo, una regolamentazione accurata, organizzata da parte dei governi, dagli Stati, da organismi locali, nazionali ed internazionali appositi (per esempio sulla falsariga delle famose ONG, le cosiddette organizzazioni non governative). Ciò potrebbe cancellare gli effetti devastatori di questo sistema, trasformandolo in una vera organizzazione di “cittadini”, facendone un autentico porto di pace e di prosperità per tutti. Questa risposta è in generale, con delle varianti, quella della sinistra dell’apparato politico della borghesia, della socialdemocrazia e degli ex partiti stalinisti, degli ecologisti. E’ la concezione della corrente di pensiero “antimondializzazione”. E si trovano anche le correnti di estrema sinistra che mettono da parte la loro fraseologia rivoluzionaria tradizionale per apportare un contributo radicale al concerto di difesa della democrazia. E’ il caso di tutte le specie di cappelle trotskiste o ex maoiste, anarchiche o libertarie, tutte le varie correnti più o meno fuoriuscite dal gauchisme socialista, comunista, libertario degli anni 1970-80. Al di là delle differenze, tutto il mondo si richiama dunque oggi alla democrazia, dalla estrema destra alla estrema sinistra.
I contestatari che, nel passato, criticavano il circo parlamentare si sono tolti la maschera e hanno mostrato la loro vera natura di ferventi difensori della democrazia borghese, in altri tempi disprezzata. Molti di loro sono d’altronde oggi, praticamente in tutti i paesi, ai vertici dello Stato, occupano dei posti di responsabilità in onorabili istituzioni, organismi ed imprese, ben integrate al sistema. Altri, che si sono mantenuti in un’opposizione più o meno radicale ai governi e a queste stesse istituzioni (3), denunciano gli eccessi e gli errori del sistema, ma in fondo non pongono mai la vera questione della natura di questo sistema.
Uno dei migliori esempi di questa ideologia ci è regolarmente fornito dal mensile francese Le Monde diplomatique. Così, nel numero di gennaio 2001 di questo giornale, si trova che “Il nuovo secolo comincia a Porto Alegre (in Brasile dove si è tenuto il 1° Forum sociale mondiale a fine gennaio 2001). Tutti coloro che, in un modo o in un altro, contestano o criticano la mondializzazione neoliberale stanno per riunirsi … (…) Non per protestare come a Seattle, a Washington, a Praga ed altrove, contro le ingiustizie, le diseguaglianze ed i disastri che provocano, un po’ dappertutto nel mondo, gli eccessi del neoliberalismo. Ma per tentare in uno spirito positivo e costruttivo questa volta, di proporre un quadro teorico e pratico che permetta di prospettare una mondializzazione di tipo nuovo ed affermare che un mondo diverso, meno disumano e più solidale, è possibile.” (4)
E nello stesso numero, si trova un articolo di Toni Negri, figura emblematica di Potere Operaio (5), che sviluppa l’idea che oggi non vi è imperialismo ma un “Impero” capitalista!? Il proposito sembra restare fedele alla “lotta di classe” e alla “battaglia degli sfruttati contro il potere del capitale”. Ma non è che un’apparenza. L’articolo pretende soprattutto di inventare una sorta di nuova prospettiva per la lotta di classe. Il che lo porta dritto dritto su di un vecchio terreno sfruttato: la necessità della difesa della democrazia al posto di quella della “rivoluzione”; l’identificazione di cittadini al posto dell’identità della classe proletaria. “Queste lotte esigono, oltre al salario garantito, una nuova espressione della democrazia nel controllo delle condizioni politiche di riproduzione della vita (…) la maggior parte di queste idee sono nate all’epoca delle manifestazioni di Parigi nell’inverno del 1995, questa “Comune di Parigi sotto la neve” (!) che esaltava (…) l’autoriconoscimento sovversivo dei cittadini delle grandi città.”
Quali che siano le intenzioni soggettive di questi protagonisti della contestazione del sistema capitalista, di questi difensori della prospettiva della democrazia, tutto ciò serve innanzitutto oggettivamente a mantenere in vita delle illusioni sulla possibilità di riformare questo sistema o di trasformarlo gradualmente.
Ciò che la classe operaia ha bisogno di comprendere, contro queste vecchie idee riformiste rimesse in piazza, è che l’imperialismo, questo “stadio supremo del capitalismo” come diceva Lenin, la fa sempre da padrone. Che esso tocca “tutti gli Stati, dal più piccolo al più grande” come diceva Rosa Luxemburg. Che esso è alla base del moltiplicarsi delle guerre locali e della proliferazione dei massacri in tutte le zone del mondo. Di fronte a queste numerose questioni ed inquietudini sull’inutilità ed assurdità del mondo attuale, di fronte all’assenza crescente di prospettiva che pervade tutta la società, di fronte a questa atmosfera pesante di vita al giorno per giorno, di fronte al ciascuno per sé, alla decomposizione del tessuto sociale, allo scomparire della solidarietà collettiva, la classe operaia ha bisogno di comprendere che la prospettiva del capitalismo non è certo un mondo di cittadini che una buona democrazia potrà far vivere nella pace, nell’abbondanza e nella prosperità. Ciò che la classe operaia ha bisogno di comprendere è che la società attuale è e resta una società di classe, un sistema di sfruttamento dell’uomo sull’uomo, il cui motore è il profitto ed il funzionamento dettato dall’accumulazione del capitale. Che la democrazia è una democrazia borghese, la forma più elaborata della dittatura della classe capitalista.
Ciò che è cambiato dal 1991 non è che il capitalismo avrebbe trionfato sul comunismo e si sarebbe dunque imposto come il solo sistema sociale vivibile. Ciò che è cambiato è che il regime capitalista ed imperialista del blocco sovietico è crollato sotto i colpi della crisi economica e di fronte alla pressione militare del suo nemico, il blocco occidentale. Ciò che è cambiato è la configurazione imperialista del pianeta che reggeva il mondo dopo la seconda guerra mondiale. Non è il comunismo o un sistema in transizione verso il comunismo che è crollato all’Est. Il vero comunismo, che non è ancora mai esistito, resta all’ordine del giorno. Non potrà essere instaurato che con il rovesciamento rivoluzionario del dominio capitalista da parte della classe operaia internazionale. Esso è l’unica alternativa a ciò che promette la sopravvivenza della società capitalista: l’affossamento in un caos indescrivibile che potrebbe significare a breve la distruzione definitiva dell’umanità.
La “nuova economia” in perdita, la crisi ininterrotta
Mentre i festeggiamenti per l’anno 2000 si erano svolti sotto gli auspici dell’euforia della “nuova economia”, l’anno 2001 è cominciato con un’inquietudine chiaramente rivolta alla salute economica del capitalismo mondiale. I nuovi guadagni prodigiosi promessi non sono arrivati. Al contrario, dopo un anno di amarezze e disillusioni, i campioni della e-business e della net-economy (gli affari e l’economia via internet) hanno moltiplicato i fallimenti e licenziato a tutto spiano. Alcuni esempi: “Con il raffreddamento della new economy, si è avuta una raffica di annunzi di licenziamenti. Più di 36.000 impieghi di ‘pointcom’ sono stati soppressi nella seconda metà dell’anno scorso, 10.000 solo il mese corso.” (6)
Nelle colonne della Révue Internationale abbiamo analizzato a più riprese la situazione della crisi economica (7). Non torneremo in dettaglio su queste analisi, le cui conclusioni sono nuovamente confermate oggi. Nello scorso dicembre, i maggiori giornali della stampa internazionale titolavano “Caos” (8) e “Un atterraggio brutale?” (9). Al di là della grandi frasi rassicuranti e vuote, la borghesia ha bisogno di sapere che ne è veramente dei profitti che essa può sperare dai suoi investimenti. E bisogna arrendersi all’evidenza. La “new economy” non è altro che una metamorfosi della “vecchia economia”, cioè molto semplicemente un prodotto non della crescita ma della crisi dell’economia capitalista. Lo sviluppo delle comunicazioni via Internet non è la “rivoluzione” promessa. L’utilizzo su grande scala di Internet, sia a livello degli scambi commerciali, delle transazioni finanziarie e bancarie, che all’interno delle imprese e delle amministrazioni, non cambia le leggi ineluttabili dell’accumulazione del capitale che esigono il beneficio netto, la redditività e la competitività sul mercato.
Così come qualsiasi altra innovazione tecnica, il vantaggio in competizione procurato dall’utilizzo di Internet scompare molto rapidamente a partire dal momento in cui tale utilizzo diventa generalizzato. Ed, inoltre, nel campo della comunicazione e delle transazioni, perché la tecnica funzioni e sia efficace, deve supporsi che tutte le imprese siano connesse.
All’inizio, la grande “rivoluzione tecnologica” di Internet doveva consentire uno sviluppo colossale del “modello” B2C, un acronimo che significa “business to consumer”, cioè procurare un rapporto diretto tra produttore e consumatore. Nei fatti si tratta molto semplicemente di poter consultare dei cataloghi e passare degli ordini per corrispondenza elettronica via Internet piuttosto che per corriere. Bella innovazione! Molto rapidamente il B2C è stato abbandonato a favore del B2B, il “business to business”, il mettere in rapporto diretto le imprese tra loro. Il primo “modello” puntava sui guadagni procurati da una vendita per corrispondenza attraverso corriere elettronico, somma molto poco redditizia perché dedicata essenzialmente al consumo familiare. Il secondo era decantato in quanto metteva in contatto diretto le imprese. I guadagni dovevano allora provenire da due “sbocchi”. Da un lato le imprese potevano guadagnare danaro o piuttosto ridurre delle spese a causa della riduzione degli intermediari nei loro rapporti. Ciò non è un vero sbocco ma una semplice riduzione delle spese! Dall’altro lato si doveva assistere all’apertura di un favoloso “mercato”, quello costituito dalla necessità di fornire su Internet i servizi adeguati (annuari, liste, cataloghi, applicazioni informatiche, mezzi di pagamento, ecc.); nei fatti il ritorno dalla finestra degli … intermediari che si era appena cacciati dalla porta. Grazie Internet! Anche qui è stato necessario arrendersi all’evidenza, il profitto non era arrivato. Questi “modelli” economici sono ben presto stati abbandonati. Il 98% delle start ups di questi tre ultimi anni, queste imprese della “nuova economia” supposte costituire l’esempio dell’avvenire radioso dello sviluppo capitalista, sono scomparse. In quelle sopravvissute, i dipendenti, un tempo euforici di fronte al loro arricchimento (virtuale!) per i dividendi di stock di azioni generosamente distribuite e che non contavano più le loro ore di lavoro, si sono disincantati. E’ significativo che i sindacati, che trascuravano questa manodopera finora, arrivano in forza sul settore. Non che il sindacalismo sia divenuto improvvisamente un difensore dei lavoratori (10), ma piuttosto perché sarebbe pericoloso lasciar sviluppare liberamente la riflessione tra i lavoratori brutalmente disillusi.
Questa ideologia della net-economy è un chiaro esempio dello stallo dell’economia borghese, del declino storico dei rapporti di produzione capitalisti. In questa ideologia il profitto sembrava che dovesse essere estratto dallo sviluppo del commercio e non più direttamente dalla produzione. Il mercante doveva in qualche modo prendere il posto del produttore. Ma cos’è questa ideologia se non l’aspirazione al ritorno ad un capitalismo di mercanti come esisteva alla fine del … Medio Evo? A quell’epoca il capitalismo cominciava a svilupparsi attraverso il progredire del commercio, che spezzava gli ostacoli dei rapporti di produzione feudali che frenavano lo sviluppo delle forze produttive nel vincolo della servitù. Oggi, e dopo più di un secolo da allora, il mercato mondiale è interamente conquistato dal capitalismo ed il commercio mondiale è soffocato da un sovrapproduzione generalizzata che non riesce a trovare degli sbocchi sufficienti. La salute del capitalismo non si avvarrà di un nuovo progresso del commercio che è del tutto impossibile nelle condizioni storiche dell’epoca attuale.
Noi non abbiamo considerato in questo articolo che la net-economy, perché il suo crollo nel corso dell’anno 2000 è stato l’aspetto più pubblicizzato della crisi economica capitalista. Ma come prosegue il giornale citato prima “le riduzioni di posti di lavoro sono andate ben al di là del pianeta ‘pointcom’. Vi sono stati più di 480.000 licenziamenti in novembre. La General Motors licenzia 15.000 operai con la chiusura d’Oldsmobile. Whirpool riduce i suoi organici di 6.330 operai. Aetna ne licenzia 5.000.” (11) In effetti l’anno 2001 si apre con un’accelerazione considerevole della crisi. Negli Stati Uniti sono state prese delle misure urgenti da A. Greenspan, il capo della Banca centrale, per tentare di scongiurare lo spettro della recessione. La “nuova economia” è bruciata rapidamente e la crisi della “vecchia economia” prosegue inesorabile. Indebitamento colossale a tutti i livelli, attacchi sempre più forti alle condizioni di vita del proletariato a livello internazionale, incapacità di integrare nei rapporti di produzione capitalisti delle masse crescenti di senza lavoro, ecc., queste sono le conseguenze fondamentali dell’ economia capitalista. Gli Stati, le banche centrali, le Borse, il FMI, in generale tutte le istituzioni finanziarie e bancarie e tutti gli “attori” della politica mondiale si sforzano di regolare il funzionamento caotico di questa “economia da casinò” (12), ma i fatti sono duri e le leggi del capitalismo finiscono sempre per imporsi.
Come nel campo economico dove i vari discorsi servono soprattutto a mascherare il declino storico del capitalismo e la profondità della crisi, così nel campo dell’imperialismo i discorsi sulla pace servono a nascondere il caos crescente e gli antagonismi moltiplicati a tutti i livelli. La situazione attuale in Medio Oriente ne è una chiara dimostrazione.
L’impossibile pace in Medio Oriente
I protagonisti di questo cosiddetto “processo di pace” non sanno veramente loro stessi cosa fare di fronte alla situazione. Ognuno tenta di difendere al meglio le sue posizioni senza che nessuna delle parti sia capace di proporre una via d’uscita stabile e percorribile all’imbroglio che costituisce la situazione di guerra endemica che perdura in questa regione del mondo. Lo stato di Israele è ben deciso ad abbandonare il meno possibile delle sue prerogative e l’Autorità palestinese sotto la guida di Arafat non può accettare che ciò avvenga, perché apparirebbe come una capitolazione delle sue ambizioni.
Lo Stato di Israele difende una posizione di forza acquisita dalla sua fondazione nel 1947, attraverso molte guerre contro gli Stati arabi vicini (Giordania, Siria, Libano ed Egitto), con il sostegno indefesso degli Stati Uniti. Bastione della resistenza del blocco imperialista occidentale nell’offensiva condotta a partire dagli anni 1950 dal blocco imperialista russo, per il tramite degli Stati arabi infeudatisi all’URSS, lo Stato di Israele si è costruito un posto da gendarme in questa regione del mondo che non è disposto a lasciarsi contestare.
Ma dopo il crollo del blocco imperialista russo, ormai dieci anni fa, la situazione è evoluta. Gli Stati Uniti hanno riorientato la loro politica in Medio Oriente. La guerra del Golfo nel 1991 aveva per obiettivo di imporre il riconoscimento dello stato di superpotenza mondiale degli Stati Uniti di fronte alle velleità degli alleati del blocco occidentale come la Gran Bretagna, la Francia e, soprattutto, la Germania, di prendere le distanze dal loro padrino divenuto ingombrante. La disciplina di blocco non era ormai più attuale poiché la minaccia del blocco avversario era scomparsa. Ma la guerra del Golfo aveva anche un secondo obiettivo, quello di imporre il dominio totale degli Stati Uniti sul Medio Oriente.
Nel periodo della divisione del mondo in due grandi blocchi imperialisti, l’amministrazione americana poteva tollerare che i suoi alleati tenessero delle posizioni influenti sulla scena imperialista in alcune regioni del mondo. Essa poteva anche delegare ad alcuni tra loro il compito di condurre una politica estera, che pur manifestando talvolta dei contrasti con gli interessi americani, pur tuttavia era costretta ad iscriversi nell’orbita del blocco occidentale. In Medio Oriente, la Gran Bretagna poteva così avere un’influenza preponderante in Kuwait, la Francia nel Libano ed in Siria, la Germania e la Francia in Iraq, ecc. Nel 1991, la guerra del Golfo diede il segnale della volontà degli Stati Uniti di riprendere in carico totalmente su si sé la “pax americana”. La conferenza di Madrid nell’ottobre 1991,poi i negoziati di Oslo all’inizio del 1993 portarono alla firma della dichiarazione di principio israelo-palestinese a Washington nel settembre 1993, sotto la solo autorità degli Stati Uniti, senza i vecchi alleati. Nel maggio 1994, Arafat e Rabin firmarono al Cairo l’accordo d’autonomia Gaza-Gerico e l’esercito israeliano effettuò una ritirata per permettere l’arrivo trionfale di Yasser Arafat a Gaza nel luglio 1994.
Ma questa evoluzione provocò da parte di una frazione significativa della borghesia israeliana una vera rottura con la politica degli Stati Uniti per la prima volta nella breve storia di questo paese. Nel novembre 1995 Rabin veniva assassinato da “un estremista”. L’ascesa al potere del Likoud di Netanyahou doveva seriamente intralciare i piani della democrazia americana. Gli Stati Uniti riprendevano le redini nel maggio 1999 con il ritorno al potere del Partito laburista e Ehoud Barak come primo ministro, il che doveva portare all’accordo di Sharm el-Sheik tra Arafat e Barak nel settembre 1999. Tuttavia, il summit di Camp David del luglio 2000, che si ipotizzava costituisse il coronamento della capacità degli Stati Uniti di imporre la loro pace nel Medio Oriente, fallisce e si chiude senza alcun accordo. In questo episodio, la politica di uno dei vecchi alleati, la Francia, costituisce apertamente un tentativo di sabotaggio della politica degli Stati Uniti che questi ultimi denunciano d’altronde apertamente come tale. E, in Israele stessa, è il ritorno in forza della resistenza al “processo di pace” all’americana, con la famosa visita di Ariel Sharon, vecchio falco del Likoud, nella valle delle Moschee nel settembre 2000, che lancia il segnale di nuovi scontri violenti che guadagnano rapidamente la Cisgiordania e la Striscia di Gaza. Nell’ottobre 2000, un nuovo summit di Sharm el-Sheik, che prevedeva il blocco delle violenze, la creazione di una commissione di inchiesta e la ripresa dei negoziati, non porta a niente sul terreno dove l’Intifada e la repressione continuano.
Oggi, la situazione non è più dunque la stessa di quella delle guerre aperte come la Guerra dei sei giorni nel 1967 o la Guerra del Kippur del 1973, quando l’esercito israeliano affrontava direttamente gli eserciti degli Stati arabi, all’interno dei quali partecipavano i vari Fronti di liberazione della Palestina. Essa non è più la stessa di quella della guerra del 1982 dove Israele aveva invaso il Libano ed aveva incoraggiato i massacri in massa dei rifugiati dei campi palestinesi di Sabra e Shatila con le milizie cristiane, suoi alleati (più di 20.000 vittime in pochi giorni). Si trattava ancora allora di una situazione dove dominava innanzitutto la separazione fondamentale tra i grandi blocchi imperialisti, al di là delle opposizioni circostanziali che potevano esistere all’interno delle forze dello stesso blocco. E anche se Yasser Arafat, dopo la sua prima partecipazione alle Nazioni Unite nel 1976, tentava di attirarsi le simpatie della diplomazia americana, restava ancora e sempre, agli occhi di quest’ultima, sospetto di connivenza con “l’Impero del male”, espressione del presidente americano dell’epoca, Reagan, per qualificare l’URSS.
Oggi, vi sono divisioni dappertutto. La borghesia israeliana non si considera più indissolubilmente legata alla tutela degli Stati Uniti. Già dalla guerra del Golfo nel 1991, una frazione significativa di questa, nell’esercito precisamente, si era schierata contro l’interdizione che era stata fatta ad Israele di rispondere militarmente agli attacchi dei missili irakeni sul suo territorio. Poiché l’esercito israeliano era (ed è ancora) il più efficace ed il più organizzato della regione, l’umiliazione di essere costretto alla passività e di affidarsi per la sua difesa allo Stato maggiore americano era stato un boccone troppo amaro. Poi, il “processo di pace” che mette quasi su di un piede di eguaglianza israeliani e palestinese, che impone il ritiro dell’esercito israeliano dal sud del Libano, che prevede la cessione dell’altopiano del Golan, ecc., non è del tutto gradito dalla frazione più “radicale” della borghesia israeliana. E questo “processo di pace” non è più facilmente accettabile anche dal partito laburista di Barak. Anche se questo partito è più vicino agli Stati Uniti del Likud ed ha una visione soprattutto a lungo termine più realista della situazione del Medio Oriente, esso è il partito della guerra, quello che ha condotto l’esercito e le principali campagne militari. E’ d’altronde quello sotto la cui autorità si sono maggiormente sviluppati i famosi insediamenti dei coloni in territorio palestinesi! Contrariamente alle idee sostenute ed alle mistificazioni, la sinistra, il partito laburista non è orientato alla “pace” più della destra, il Likud. Se esistono delle sfumature, non si tratta di divergenza fondamentale tra le due frazioni della borghesia israeliana. Si è sempre avuta unità nazionale nella guerra come nella “pace” (gli accordi di pace con l’Egitto erano stati condotti dalla destra alla fine degli anni 1970). Ma non è solo lo Stato di Israele che è suscettibile di avere delle velleità di giocare il proprio ruolo e di tentare di affrancarsi dalla tutela degli Stati Uniti. La Siria ha potuto mettere le mani sul Libano, mercanteggiando la propria posizione “neutrale” durante la guerra del Golfo. Pertanto è escluso, dal suo punto vista, dall’accettare l’annessione dell’altopiano del Golan conquistato da Israele nel 1967. Anche qui vi è materia di attrito. E in seno stesso alla borghesia palestinese, l’organizzazione Al Fatah di Arafat e le organizzazioni più radicali sono lungi dall’essere d’accordo tra di loro. Tutta la regione, ad immagine della situazione mondiale, è in preda al crescere del ciascuno per sé. L’influenza largamente preponderante della diplomazia americana è nei fatti molto superficiale e ricopre una grande polveriera sempre pronta ad esplodere nel contesto di superarmamento di tutti i protagonisti della regione.
Quanto alle altre grandi potenze imperialiste, se esse non possono apertamente sabotare le iniziative degli Stati Uniti a rischio di vedersi mettere fuori dal gioco, come è il caso attualmente della diplomazia francese, se tutte sono ufficialmente rientrate nei ranghi per sostenere il “processo di pace”, ciò non esclude che sotto sotto esse intraprendano delle iniziative volte a far fallire il piano Clinton, o ogni altro piano della diplomazia americana. Arafat stesso fa appelli al coinvolgimento dell’Unione europea nei negoziati perché ben gradirebbe non dipendere solamente dagli Stati Uniti per la sua sopravvivenza politica. Detto ciò, non è con l’UE che va a discutere, ma con l’Amministrazione americana.
In questo ciascuno per sé che domina oggi, a parte gli Stati Uniti che fanno di tutto per mantenere il loro status di sola superpotenza militare del pianeta ed eccetto la Germania che prosegue dietro le quinte una politica imperialista discreta e mascherata per accrescere la propria influenza che era stata completamente imbrigliata dopo la II guerra mondiale durante la “guerra fredda”, nessuna altra grande potenza può avere visione a lungo termine. E ancor meno gli Stati meno potenti. Ognuno si sforza di difendere i suoi interessi nazionali, di difendersi là dove è attaccato, in particolare spandendo e seminando il disordine nelle posizioni dell’avversario. Nessuno di essi è capace oggi di mettere in atto una politica costruttiva e duratura. In Medio Oriente, il momento non è quello della stabilizzazione della situazione. Anche una “pace armata” come quella che ha potuto durare in Europa dell’Est durante la “guerra fredda” non è più possibile oggi.
Quanto alla possibilità della creazione dello Stato palestinese, l’incommensurabile assurdità della configurazione del progetto stesso lo fa apparire come una chimera! Vi sono i Territori sotto controllo esclusivo dell’Autorità palestinese: sulla carta alcuni pezzi della Cisgiordania con la striscia di Gaza, ma non tutta intera. Vi sono i Territori sotto controllo misto, dove Israele è responsabile della sicurezza: altri pezzi in Cisgiordania soltanto. Ed il tutto si situa nel circondario dei Territori di Cisgiordania sotto il controllo esclusivo di Israele, con delle strade riservate per proteggere le colonizzazioni israeliane… Come si può far credere che una tale aberrazione contenga un’oncia di progresso, una goccia di soddisfazione dei bisogni delle popolazioni, qualcosa a che vedere con un preteso “diritto dei popoli a disporre di sé stessi”?
Tutta la storia della decadenza del capitalismo ha già dimostrato come tutti gli Stati nazionali che non hanno potuto raggiungere la loro maturità nel corso della fase ascendente del modo di produzione capitalista non hanno potuto costituire un quadro economico e politico solido e forte a lungo termine, come la Yugoslavia e l’URSS hanno dimostrato frammentandosi. Gli Stati ereditati dalla decolonizzazione si riducono in brandelli in Africa. La guerra domina in Indonesia,e a Timor est. Il terrorismo spadroneggia nel sud dell’India, nel Sri Lanka. La tensione è estrema alla frontiera indo-pakistana, tra la Thailandia e la Birmania. In America del sud, la Colombia è in preda ad una destabilizzazione permanente. La guerra è endemica tra Perù ed Ecuador. Dappertutto le frontiere sono contestate perché esse non esprimono una reale solidità veramente accettata e riconosciuta dopo il 19° secolo.
In questo contesto, non solo “la patria palestinese non sarà altro che uno Stato borghese al servizio della classe sfruttatrice e oppressore di quelle stesse masse, con polizia e prigioni” (13), ma non potrà che essere un’aberrazione, uno mini Stato simbolo non della formazione di una nazione ma della decomposizione di cui è portatrice la sopravvivenza del capitalismo nel periodo storico attuale. La divisione delle sovranità in un intreccio indescrivibile di zone, di città e di villaggi, di strade, attribuite agli uni o agli altri, non è un “processo di pace”, è un campo minato per oggi e per domani, dove tutto può generare un conflitto in ogni istante. E’ una si-tuazione dove l’irrazionalità del mondo attuale è spinta agli estremi.
Il 21° secolo comincia con una nuova accelerazione delle conseguenze drammatiche per l’umanità della sopravvivenza del modo di produzione capitalista. La prosperità promessa dalla “nuova economia” così come la pace promessa in Medio Oriente non sono giunte all’appuntamento. Esse non possono esserlo, perché il capitalismo è un sistema decadente, un corpo malato sotto trasfusione, che non può condurre nella sua attuale decomposizione che verso il caos, la miseria e la barbarie.
MG
1. “Ideas: No, Economics Isn’t King”, F. Zacaria, Newsweek, Gennaio 2001.
2. Rosa Luxembourg, L’accumulazione del capitale, Ed. Einaudi
3. In realtà, essi hanno per la maggior parte dei posti “ufficiali”
4. Le Monde diplomatique, gennaio 2001, “Porto Alegre”, I. Ramonet.
5. Gruppo di estrema sinistra extraparlamentare italiano degli anni 1960-70.
6. Time, 10 gennaio 2001, “This time is different”.
7. Vedere gli articoli di questi ultimi anni: “La nuova economia: una nuova giustificazione del capitalismo”, Révue Int. n.102, “La falsa buona salute del capitalismo”, Révue Int. n. 100, “Il vuoto che si nasconde dietro la ‘crescita ininterrotta’”, Révue Int. n. 99, e la serie di articoli “Trenta anni di crisi aperta del capitalismo”, Révue Int. nn. 96, 97 e 98
8. Newsweek, 18 dicembre 2000
9. The Economist, 9-15 dicembre 2000
10. Vedere il nostro opuscolo I sindacati contro la classe operaia
11. Time, ibid.
12. Vedere “Una economia da casinò”, in italiano su Rivoluzione Internazionale n. 102
13. “Né Israele, né Palestina, i proletari non hanno patria”, Presa di posizione pubblicata in tutta la stampa territoriale della CCI, in italiano su Rivoluzione Int. n.119