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Dopo i bombardamenti israeliani nel sud Libano della scorsa primavera le tensioni interimperialiste in Medio Oriente sono andate crescendo Ancora una volta tutti i discorsi dei difensori della borghesia sull’avvento di una pretesa “era di pace” in questa regione che è una delle principali polveriere imperialiste del pianeta vengono smentite. Questa zona, che per quaranta anni è stata un obiettivo di primo piano per i due vecchi blocchi, è oggi al centro della lotta accanita tra le grandi potenze imperialiste che compongono l’ex blocco occidentale. Dietro questo rinnovarsi delle tensioni imperialiste c’è fondamentalmente la crescente contestazione verso la prima potenza mondiale in una delle sue principali riserve di caccia, contestazione che guadagna anche i suoi alleati e luogotenenti più vicini.
La prima potenza mondiale contestata nel suo feudo
La politica dei muscoli messa in piedi dagli Stati Uniti negli ultimi anni per rafforzare la loro dominazione su tutto il Medio Oriente e tenerne fuori tutti i loro rivali, ha conosciuto una vera mazzata con l’arrivo al potere di Netanyhau in Israele, e questo mentre Washington non aveva nascosto un forte appoggio al candidato laburista, Simon Peres. Le conseguenze di questo fallimento elettorale non hanno tardato a farsi sentire. Contrariamente a Peres che controllava solidamente il partito laburista, Netanyhau non riesce a fare altrettanto con il suo, il Likud. Netanyhau è sottomesso alla pressione delle frazioni più dure e arcaiche del Likud il cui capofila è Ariel Sharon, colui che aveva violentemente denunciato le ingerenze americane nelle elezioni israeliane, ingerenze che, secondo lui, riducevano Israele “al rango di una semplice repubblica delle banane”. Egli affermava così apertamente la volontà di certi settori della borghesia israeliana di avere una maggiore autonomia rispetto alla pesante tutela americana. Queste frazioni spingono oggi alla politica del “tanto peggio tanto meglio” rimettendo in causa l’insieme del “processo di pace” imposto dal grande padrino americano attraverso l’accordo del tandem Rabin-Peres sia rispetto ai palestinesi (nuovi insediamenti di coloni che erano stati sospesi dal governo laburista vengono ora ripresi) che rispetto alla Siria sulla questione del Golan. Sono state ancora queste frazioni che hanno fatto di tutto per ritardare l’incontro, previsto da lunga data, tra Arafat e Netanyhau e che, quando infine questo ha avuto luogo, si sono attivate per svuotarlo di ogni contenuto.
Questa politica non può non mettere in difficoltà l’uomo degli Stati Uniti, Arafat, al punto che quest’ultimo non potrà mantenere a lungo il controllo delle sue truppe se non alzando nettamente il tono (come ha cominciato già a fare) e avviarsi così verso un nuovo stato di belligeranza con Israele.
Allo stesso modo, tutti gli sforzi impiegati dagli Stati Uniti, alternando il bastone e la carota, per far sì che la Siria accettasse di partecipare al loro “piano di pace”, sforzi che cominciavano a dare i loro frutti, si trovano oggi rimessi in causa per la nuova intransigenza israeliana.
L’arrivo al potere del Likud ha avuto conseguenze anche sull’altro grande alleato degli Stati uniti nella regione, sul paese che, dopo Israele, è il principale beneficiario dell’aiuto americano in Medio Oriente, cioè l’Egitto; e ciò mentre già questo stato chiave del “mondo arabo” è, da un po’ di tempo, oggetto di tentativi di aggancio da parte dei rivali europei della prima potenza mondiale. Dall’invasione israeliana del Sud Libano, l’Egitto tende a demarcarsi sempre più dalla politica americana rafforzando i suoi legami con la Francia e la Germania e denunciando sempre più violentemente la nuova politica di Israele a cui è tuttavia legato da un accordo di pace.
Ma quello che è senza dubbio uno dei sintomi più spettacolari del nuovo dato imperialista che è sul punto di crearsi nella regione, è l’evoluzione della politica dello Stato Saudita (quello che servì da quartier generale all’esercito americano durante la guerra del Golfo) rispetto al suo tutore americano. Quali che siano i veri mandanti, l’attentato compiuto a Dahran contro le truppe USA mirava direttamente alla presenza militare americana ed esprimeva già un netto indebolimento della presa della prima potenza mondiale in una delle sue principali roccaforti in Medio Oriente. Ma se si aggiunge a questo l’accoglienza particolarmente calorosa riservata alla visita di Chirac, capo di uno stato che è in prima fila nella contestazione della leadership americana, si misura tutta l’importanza dell’indebolimento delle posizioni americane in quello che era, ancora poco tempo fa, uno Stato sottomesso mani e piedi ai diktat di Washington. Manifestamente, la pesante dominazione dello “zio Sam” è sempre più mal sopportata da certe frazioni della classe dominante saudita che cercano, avvicinandosi a certi paesi europei, di staccarsene un po’. Che il principe Abdallah, successore designato al trono, sia alla testa di queste frazioni mostra la forza della tendenza antiamericana che è sul punto di svilupparsi.
Che alleati così sottomessi e dipendenti dagli Stati Uniti, come Israele e Arabia Saudita, possano manifestare delle reticenze a seguire in tutti i punti i diktat dello “zio Sam”, che essi non esitino a tessere relazioni più strette con i principali contestatari dell’”ordine americano”, significa chiaramente che i rapporti di forza interimperialisti in quello che era ancora poco tempo fa un terreno di caccia esclusivo della principale potenza mondiale conoscono una modificazione importante.
Nel 1995 gli Stati Uniti erano confrontati a una situazione difficile nella ex-Jugoslavia, in compenso però regnavano da padroni assoluti sul Medio oriente. Essi erano riusciti in effetti, grazie alla guerra del Golfo, a cacciare totalmente dalla regione le potenze europee. La Francia vedeva la sua presenza in Libano ridotta a niente e perdeva allo stesso tempo la sua influenza in Iraq. Quanto alla Gran Bretagna, essa non veniva per niente ricompensata della sua fedeltà e della sua partecipazione attiva durante la guerra del Golfo nel momento in cui Washington non le concedeva che qualche irrisoria briciola della ricostruzione del Kuwait. Al momento dei negoziati israelo-palestinesi l’Europa si è vista offrire un misero strapuntino, mentre gli Stati Uniti giocavano il ruolo di direttore d’orchestra avendo in mano loro tutte le carte del gioco. Questa situazione si è globalmente protratta fino allo show di Clinton al summit di Sharm El Sceik sul terrorismo. Ma, in seguito, l’Europa è riuscita a fare una nuova sortita nella regione, prima con discrezione, poi sempre più apertamente e fortemente, profittando del fiasco della operazione israeliana nel Sud-Libano della primavera scorsa e sfruttando con abilità le difficoltà della prima potenza mondiale.
Quest’ultima, in effetti, incontrava sempre più ostacoli nel fare pressione non solo sui più tradizionali avversari dell’”ordine americano”, come la Siria, ma anche su alcuni dei suoi più solidi alleati, come per esempio l’Arabia Saudita, e questo in una riserva di caccia come il Medio Oriente così essenziale per il mantenimento della leadership della superpotenza americana, un sintomo chiaro delle serie difficoltà incontrata da quest’ultima per mantenere il proprio primato sull’arena imperialista mondiale.
La leadership degli USA malmenata sulla scena mondiale
Il rovescio subito in Medio Oriente dal gendarme americano deve tanto più essere sottolineato in quanto avviene solo qualche mese dopo la vittoriosa controffensiva che essi erano riusciti a condurre nella ex-Jugoslavia. Offensiva che era finalizzata innanzitutto a rimettere al passo i suoi ex-alleati europei che erano passati alla ribellione aperta. Nel numero 85 della Révue Internationale pur sottolineando il notevole passo indietro imposto al tandem franco-britannico in questa occasione, mettevamo allo stesso tempo in evidenza i limiti di questo successo americano, giacchè le borghesie europee, costrette ad indietreggiare nella ex-Jugoslavia, avrebbero cercato un altro terreno per dare una risposta all’imperialismo americano. Questa previsione si è ampiamente verificata. con gli avvenimenti degli ultimi mesi in Medio Oriente. Se gli Stati Uniti conservano globalmente il controllo della situazione nella ex-Jugoslavia - ma anche laggiù essi devono sempre confrontarsi alle manovre sottobanco degli europei - attualmente si vede che il dominio che essi esercitano in Medio Oriente, finora senza ostacoli, è sempre più rimesso in causa.
Ma non è solo in Medio Oriente che la prima potenza mondiale è confrontata con la contestazione alla sua leadership, e le sue difficoltà non si limitano a questa zona del mondo. Nel terribile scontro che coinvolge in particolare le grandi potenze imperialiste, scontro che è la principale manifestazione di un sistema moribondo, è praticamente sull’insieme del pianeta che gli USA sono confrontati a tentativi più o meno aperti di rimessa in discussione della loro leadership.
Nel Maghreb, i tentativi americani per sloggiare l’imperialismo francese, o almeno per diminuirne fortemente l’influenza, si scontrano con serie difficoltà e volgono per il momento verso il fallimento. In Algeria, il movimento islamico, largamente utilizzato dagli Stati uniti per destabilizzare e portare colpi duri al regime al potere e all’imperialismo francese, è in crisi aperta. I recenti attentati del GIA vanno considerati più come atti di disperazione di un movimento sul punto di scoppiare che la manifestazione di una forza reale. Il fatto che il principale finanziatore delle frazioni islamiche, l’Arabia Saudita, sia sempre più reticente a continuare a finanziarle, indebolisce allo stesso tempo i mezzi di pressione americani. Se in Algeria la situazione è lungi dall’essere stabilizzata, la frazione che è al potere grazie all’appoggio dell’esercito e del padrino francese ha nettamente rafforzato le sue posizioni dopo la rielezione del sinistro Zerual. Allo stesso tempo la Francia è riuscita a serrare i suoi legami con la Tunisia e il Marocco, laddove quest’ultimo era stato negli ultimi anni particolarmente sensibile al canto delle sirene americane.
Nell’Africa nera, dopo il successo che sono arrivati a raggiungere in Ruanda, attraverso la cacciata della cricca legata alla Francia, gli Stati Uniti sono oggi confrontati a una situazione molto più difficile. Se l’imperialismo francese ha rafforzato la sua credibilità intervenendo in maniera muscolosa in Centroafrica, gli Stati Uniti, al contrario, hanno subito un rovescio in Liberia, dove sono stati costretti ad abbandonare i loro protetti. Così hanno tentato di riprendere l’iniziativa in Burundi, cercando di ripetere quello che era riuscito loro in Ruanda; ma anche qui si sono scontrati con una vigorosa risposta della Francia che ha fomentato, con l’appoggio del Belgio, il colpo di stato del maggiore Bouyaya, rendendo impotente la “forza di interposizione africana” che gli Stati Uniti cercavano di mettere sotto il loro controllo.
Bisogna sottolineare che questi successi dell’imperialismo francese - che poco tempo fa era messo alle corde dalla pressione americana - sono dovuti per una buona parte alla sua stretta collaborazione con l’altra vecchia grande potenza coloniale africana che è la Gran Bretagna. Gli Stati Uniti non solo hanno perso l’appoggio di quest’ultima, ma se la ritrovano oggi contro.
Per quanto riguarda un altro punto importante della battaglia che si svolge tra le grandi potenze europee e la prima potenza mondiale, cioè la Turchia, anche qui gli USA sono in difficoltà. Questo stato ha una importanza strategica al crocevia tra l’Europa, il Caucaso e il Medio Oriente. La Turchia è un alleato storico della Germania ma ha dei solidi legami anche con gli Stati Uniti, in particolare attraverso il suo esercito che è stato largamente formato da questi ultimi quando esisteva il blocco americano. Per Washington far scivolare la Turchia nel suo campo ed allontanarla da Bonn rappresenterebbe una vittoria particolarmente importante. Se la recente alleanza militare tra la Turchia e Israele può sembrare corrispondere agli interessi americani, gli orientamenti del nuovo governo turco - cioè una coalizione tra gli islamici e l’ex primo ministro Ciller - marcano al contrario una netta presa di distanze con la politica americana. Non solo la Turchia continua a sostenere la ribellione cecena contro la Russia, alleata degli Stati Uniti, cosa che fa il gioco della Germania (1), ma essa ha anche appena assestato un pugno in faccia a Washington firmando importanti accordi con due stati particolarmente esposti alla ostilità americana: l’Iran e l’Irak!
In Asia, la leadership americana è altrettanto ostacolata. La Cina non si lascia sfuggire una occasione per affermare le sue proprie prerogative imperialiste anche se queste sono antagoniste a quelle degli Stati Uniti; allo stesso tempo anche il Giappone manifesta velleità crescenti di una più grande autonomia rispetto a Washington. A intervalli regolari si rinnovano manifestazioni contro la presenza di basi americane e il governo giapponese dichiara di voler stringere relazioni politiche più forti con l’Europa. Un paese come la Tailandia, che era un vero bastione dell’imperialismo americano, tende anche esso a prendere le sue distanze cessando di sostenere i Kkhmer rossi che erano i mercenari degli Stati Uniti, facilitando così allo stesso tempo i tentativi della Francia di ritrovare una influenza in Cambogia.
Molto significative ancora di una leadership contestata sono le incursioni che fanno oggi europei e giapponesi in quella che è la riserva di caccia per eccellenza degli Stati Uniti: il retrocasa sudamericano. Anche se queste incursioni non mettono fondamentalmente in pericolo gli interessi americani in questa zona e non possono essere messe sullo stesso piano delle manovre di destabilizzazione, spesso riuscite, che sono condotte in altre regioni del mondo contro di essi, tuttavia è significativo che questo santuario degli Stati Uniti, finora inviolato, sia a sua volta l’oggetto di mire dei suoi concorrenti imperialisti. Ciò marca una rottura storica nel dominio assoluto che la prima potenza mondiale esercitava sull’America Latina dopo la messa in atto della “Dottrina Monroe”. Mentre l’accordo Nafta, al di là degli aspetti economici, mirava prima di tutto a tenere fermamente raccolto sotto la tutela di Washington l’insieme del continente americano, paesi come il Messico, il Perù o la Colombia, a cui bisogna aggiungere il Canada, non esitano più a contestare certe decisioni degli Stati Uniti contrarie ai loro interessi. Recentemente il Messico è riuscito a trascinare praticamente tutti gli stati sudamericani in una crociata contro la legge Helms-Burton promulgata dagli Stati Uniti per rafforzare l’embargo economico contro Cuba e sanzionare ogni impresa che rompesse questo embargo. L’Europa e il Giappone hanno subito sfruttato queste tensioni dovute alla pesante penalizzazione causata da questa legge e che gravava su numerosi stati dell’America Latina. L’eccellente accoglienza riservata al presidente colombiano Samper durante il suo viaggio in Europa, laddove gli Stati Uniti fanno di tutto per buttarlo giù, illustrano bene questa situazione. Così il quotidiano francese Le Monde scrive nel suo numero del 4 settembre ‘96: “Mentre finora gli stati Uniti ignoravano assolutamente il Gruppo di Rio (associazione che raggruppa quasi tutti i paesi del sud del continente) la presenza a Cochabamba (luogo di riunione del gruppo) di miss Albright, ambasciatrice degli Stati Uniti all’ONU, è particolarmente significativa. Secondo certi osservatori, è il dialogo politico istaurato tra i paesi del Gruppo di Rio con l’Unione europea, e in seguito anche con il Giappone, che spiega il cambiamento di atteggiamento degli Stati Uniti....”
Sparizione dei blocchi imperialisti, trionfo del “ciascuno per sè”
Come spiegare questo indebolimento della superpotenza americana e la rimessa in questione della sua leadership quando essa resta ancora la prima potenza economica del pianeta e, ancor più importante, dispone di una superiorità militare assoluta su tutti i suoi rivali imperialisti?
A differenza dell’URSS, gli Stati Uniti non sono crollati al momento della sparizione dei blocchi che avevano infestato il pianeta dopo gli accordi di Yalta. Ma questa nuova situazione ha nondimeno toccato la sola superpotenza mondiale restante. Nella “Risoluzione sulla situazione internazionale” del 12° congresso di Révolution Internationale, pubblicata in Rivoluzione Internazionale n. 96, nel sottolineare che il ritorno in forze degli Stati Uniti seguito al loro successo in Jugoslavia non significava per niente che essi avessero definitivamente superato le minacce gravanti sulla loro leadership, scrivevamo: “Queste minacce provengono fondamentalmente dalla tendenza al ‘ciascuno per sè’, dal fatto che manca oggi ciò che costituisce la condizione principale per una reale solidità e perennità delle alleanze tra stati borghesi nell’arena imperialista:l’esistenza di un nemico comune che minacci la loro sicurezza. Le diverse potenze dell’ex blocco occidentale possono anche sottomettersi, di volta in volta, ai diktat di Washington, ma per loro è fuori questione il mantenimento di una qualunque fedeltà duratura. Al contrario, ogni occasione è buona per sabotare, quando è possibile, gli orientamenti e le disposizioni imposte dagli Stati Uniti.”
L’insieme dei colpi portati questi ultimi mesi alla leadership di Washington si iscrive pienamente in questo quadro, l’assenza di un nemico comune fa sì che le manifestazioni di forza americane vedono la loro efficacia ridursi sempre più. Così la “Tempesta nel deserto”, malgrado i considerevoli mezzi politici, diplomatici e militari messi in campo dagli Stati Uniti per imporre il loro “nuovo ordine”, non è riuscita a frenare le velleità di indipendenza degli “alleati” degli Stati Uniti se non per un anno. Lo scoppio della guerra in Jugoslavia nel 1992 segnava, in effetti, il fallimento dell’”ordine americano”. Ed anche il successo riportato dagli Stati Uniti alla fine del 1995 in Jugoslavia non ha potuto impedire che la ribellione si estendesse a partire dalla primavera 1996! In una certa maniera, più gli USA fanno mostra della loro forza, più essi tendono a rinforzare la determinazione dei contestatori dell’”ordine americano”, che trascinano nella loro scia altri Stati fino ad allora docili ai diktat provenienti da Washington.
Così, quando Clinton vuole trascinare l’Europa in una crociata contro l’Iran in nome dell’antiterrorismo, la Francia, la Gran Bretagna e la Germania gli rispondono come se non avessero sentito. Ancora, le pretese di Clinton di punire gli Stati che commerciano con Cuba, l’Iran o la Libia non hanno avuto come risultato che, come abbiamo visto fino in America Latina, una levata di scudi contro gli Stati Uniti. Questo atteggiamento aggressivo ha una incidenza anche su un paese dell’importanza dell’Italia, il cui cuore oscilla tra gli Stati Uniti e l’Europa. Le sanzioni inflitte a grandi imprese italiane per le loro strette relazioni con la Libia non possono che rafforzare le tendenze pro-europee della borghesia italiana.
Questa situazione traduce il vicolo cieco in cui si trova la prima potenza mondiale:
- o essa non fa niente, rinuncia ad utilizzare la forza (che è il suo solo mezzo di pressione oggi), il che significherebbe lasciare il campo libero ai suoi concorrenti,
- o essa cerca di affermare la sua superiorità per imporsi come gendarme del mondo con una politica aggressiva (cosa che tende a fare sempre più) e ciò le si rivolge immediatamente contro isolandola ancora di più e rafforzando l’ostilità antiamericana un po’ dappertutto nel mondo.
Tuttavia, conformemente alla irrazionalità di fondo dei rapporti interimperialisti nella fase di decadenza del sistema capitalistico, caratteristica accentuata nella fase attuale di decomposizione accelerata, gli Stati uniti non possono che usare la forza per tentare di preservare il loro statuto sull’arena imperialista. Per questo li si vede sempre più ricorrere alla guerra commerciale, che non è più solamente l’espressione della feroce concorrenza economica che lacera un mondo capitalista infognato nell’inferno senza fine della sua crisi, ma anche un’arma per difendere le sue prerogative imperialiste di fronte a tutti quelli che contestano la loro leadership. Ma di fronte a una contestazione di una tale ampiezza la guerra commerciale non può bastare, e la prima potenza del mondo è costretta a fare di nuovo parlare le armi come nel suo intervento di questa estate in Irak.
Lanciando diverse dozzine di missili di crociera su Baghdad, in risposta all’incursione delle truppe di Saddam Hus sein in Kurdistan, gli Stati Uniti mostrano la loro determinazione a difendere le loro posizioni in Medio Oriente e più in generale a ricordare che essi intendono preservare la loro leadership nel mondo. Ma i limiti di questa nuova dimostrazione di forza si mostrano subito:
- a livello dei mezzi messi in opera, che non sono che una pallida replica di quelli della “Tempesta nel deserto”;
- ma anche attraverso il fatto che questa nuova “punizione” che gli Stati Uniti cercano di infliggere all’Irak non beneficia che di pochi appoggi nella regione e nel mondo.
Il governo turco ha rifiutato l’utilizzo delle forze degli Stati Uniti basati nel suo paese, mentre l’Arabia Saudita non ha permesso che gli aerei americani decollassero dal suo territorio per andare a bombardare l’Irak ed ha anche fatto appello a Washington perchè sospendesse la sua azione. I paesi arabi nella loro maggioranza hanno criticato apertamente questo intervento militare. Mosca e Pechino hanno apertamente condannato l’iniziativa americana mentre la Francia, seguita dalla Spagna e dall’Italia, ha nettamente marcato la sua disapprovazione. Si vede a qual punto si è lontani dall’unanimità che gli Stati uniti erano riusciti ad imporre al momento della guerra del Golfo. Una tale situazione è rivelatrice dell’indebolimento subito dalla leadership americana dopo questa epoca. La borghesia americana avrebbe, senza dubbio, auspicato di fare una dimostrazione di forza molto più clamorosa; e non solo in Irak, ma anche, per esempio, contro il regime al potere in Iran. Ma in mancanza di un sostegno e di punti di appoggio sufficienti, anche nella regione, essa è stata costretta a far parlare le armi a un tono minore e con un impatto forzatamente ridotto.
Se questa operazione in Irak è di portata limitata, non si deve tuttavia sottostimare i benefici che gli Stati Uniti ne tirano. A parte la riaffermazione a poco prezzo della loro superiorità assoluta sul piano militare, in particolare in questa loro riserva di caccia che è il Medio Oriente, essi sono riusciti innanzitutto a seminare la divisione tra i loro principali rivali d’Europa. Questi erano riusciti ancora recentemente ad opporre un fronte comune contro Clinton e i suoi diktat riguardo la politica da condurre rispetto a Iran, Libia o Cuba. Che la Gran Bretagna si allinei all’intervento condotto in Irak, al punto che Major “saluta il coraggio degli Stati Uniti”, che la Germania sembri condividere questa posizione, mentre Parigi, sostenuta da Roma e Madrid, contesta la fondatezza di questi bombardamenti, è in tutta evidenza un bel sasso lanciato nel mare dell’Unione europea! Che Bonn e Parigi non siano, ancora una volta, sulla stessa lunghezza d’onda non è una novità. Dalla guerra in Jugoslavia la Francia e la Gran Bretagna non hanno smesso di rafforzare la loro cooperazione (essi hanno firmato ultimamente un accordo militare di grande importante, a cui si è associata la Germania, per la costruzione comune di missili di crociera). Attraverso questo progetto Londra esprimeva, in maniera non si può più chiara, la sua volontà di rompere con una lunga tradizione di cooperazione e di dipendenza militare di fronte a Washington. Allora il sostegno di Londra all’intervento americano in Irak significa che la “perfida Albione” ha infine ceduto alle molteplici pressioni esercitate dagli Stati Uniti per ricondurla nel loro campo e che si prepara a ridiventare il fedele luogotenente dello “zio Sam”? No, perchè questo appoggio non rappresenta un atto di allineamento al padrino d’oltre Atlantico, ma la difesa di interessi particolari dell’imperialismo inglese in Medio Oriente e in particolare in Irak. Dopo essere stato un protettorato britannico, questo paese è progressivamente sfuggito all’influenza di Londra , in particolare dopo l’arrivo al potere di Saddam Hussein. Viceversa la Francia vi ha acquistato solide posizioni; posizioni che si sono ridotte notevolmente dopo la guerra del Golfo ma che la Francia sta riconquistando grazie all’indebolimento della leadership USA in Medio Oriente. In queste condizioni la sola speranza per la gran Bretagna di ritrovare una influenza in questa zona risiede nel rovesciamento del macellaio di Bagdad. E’ questa anche la ragione per cui Londra si è trovata sulla stessa linea dura di Washington riguardo le risoluzioni dell’ONU concernenti l’Irak, mente Parigi, al contrario, non ha smesso di chiedere un addolcimento dell’embargo all’IraK imposto dal gendarme americano.
Se il “ciascuno per sè” è la tendenza generale che insidia la leadership americana, essa insidia anche i suoi contestatori e rende fragili tutte le alleanze imperialiste che, quale che sia la loro relativa solidità, all’immagine di quella tra Londra e Parigi, sono molto più a geometria variabile di quelle che prevalevano all’epoca in cui la presenza di un nemico comune permetteva l’esistenza dei blocchi. Gli Stati uniti, anche se sono le principali vittime di questa nuova situazione storica generata dalla decomposizione del sistema, non possono che cercare di sfruttare a loro vantaggio il “ciascuno per sè” che regge l’insieme dei rapporti interimperialisti. Essi lo hanno già fatto nella ex-Jugoslavia non esitando a istaurare un’alleanza tattica con il loro rivale più pericoloso, la Germania, e tentano oggi la stessa manovra rispetto al tandem franco-britannico. Nonostante i suoi limiti, il colpo così portato alla “unità” franco-britannica rappresenta un successo innegabile per Clinton e la classe politica americana non si è sbagliata nell’apportare un sostegno unanime all’operazione in Irak.
Tuttavia questo successo americano ha una portata molto limitata e non può veramente impedire lo sviluppo del “ciascuno per sè” che mina in profondità la leadership della prima potenza mondiale, nè risolvere il vicolo cieco in cui si ritrovano gli Stati Uniti. In un certo senso, anche se gli Stati Uniti conservano, grazie alla loro potenza economica e finanziaria, una forza che il leader dell’ex-blocco dell’Est non ha mai avuto, si può tuttavia fare un parallelo tra l’attuale situazione degli Stati Uniti e quella della defunta URSS ai tempi del blocco dell’est.
Come essa, fondamentalmente gli USA non dispongono, per preservare la loro dominazione, che dell’uso ripetuto della forza bruta e questo esprime sempre una debolezza storica.
Questa esacerbazione del “ciascuno per sè” e il vicolo cieco in cui si trova il “gendarme del mondo” non fanno che tradurre il vicolo cieco del modo di produzione capitalistico. In questo quadro le tensioni imperialiste tra le grandi potenze non possono che andare crescendo, portare la distruzione e la morte su zone sempre più estese del pianeta e aggravare ancora l’incredibile caos che è già la norma di continenti interi.
Una sola forza è capace di opporsi a questa sinistra estensione della barbarie, sviluppando le sue lotte e rimettendo in causa il sistema capitalistico mondiale fino alle sue fondamenta: il proletariato.
RN, 9 settembre 1996
1) La Germania è costretta alla prudenza a causa del pericolo costituito dalla propagazione dell’incredibile caos russo, ma il fatto che la Polonia e la ex Cecoslovacchia siano più “stabili” rappresenta per essa una zona tampone, una sorta di diga di fronte a questo pericolo, e così essa ha le mani più libere per tentare di realizzare il suo obiettivo storico: l’accesso in Medio oriente, appoggiandosi all’Iran e alla Turchia, e per fare pressione sulla Russia al fine di allentare i legami di questa con gli Stati Uniti. La molto “democratica” Germania si nutre dunque del caos russo per difendere i suoi appetiti imperialisti.