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Nella Ruhr, nel cuore della Germania, più di 80.000 lavoratori hanno invaso le strade e bloccato le strade per protestare contro l'annuncio di licenziamenti nelle miniere. Il 21 e 22 settembre, al di fuori di qualunque consegna sindacale (il che è significativo in un paese apprezzato per la "disciplina" dei "partner sociali"), i minatori della regione di Dortmund hanno scioperato spontaneamente, trascinando con sé le loro famiglie, i loro bambini, dei disoccupati e dei lavoratori di altri settori, chiamati a manifestare la loro solidarietà.
Quando le notizie delle dimostrazioni sono state rese note dai giornali, una gran quantità di persone sono scese in piazza per esprimere il loro sostegno e la loro solidarietà. Ma la borghesia era pronta a questa esplosione di collera e i sindacati si erano ritagliati dei margini di trattativa come ad esempio la riduzione del numero di licenziamenti.
Ma la cosa sorprendente è che i minatori, dopo un paio di giorni di lotta, sono tornati al lavoro. Questo ritorno al lavoro, lungi dal significare una caduta di combattività, esprime piuttosto sia il fatto che i lavoratori stanno ancora cercando di capire quanto profondi siano gli attacchi che stanno subendo ed anche un segno di maturità nella misura in cui hanno voluto evitare di bruciare le loro risorse in azioni inutili e ostinate.
Questo movimento esprime un passo avanti non solo a livello di combattività ma anche a livello di coscienza. Soprattutto in relazione alla riflessione sulla natura della crisi, sull'importanza centrale della questione sociale e della posizione del proletariato come classe nella società antagonista agli interessi del capitale. Possiamo così vedere come alcuni degli aspetti del riflusso della coscienza dei lavoratori in seguito al collasso del blocco dell'est cominciano visibilmente ad invertirsi.
Questo movimento, assieme alle notizie frammentarie ma insistenti su episodi di lotta di classe un pò ovunque nel mondo, conferma che siamo ormai entrati pienamente nella ripresa delle lotte, anche se molti sono i problemi che restano.
LA RIPRESA DELLA LOTTA DI CLASSE
Oggi più che mai la sola forza che può intervenire contro la catastrofe economica è la classe operaia. E' infatti la sola classe sociale capace di frantumare le barriere nazionali, settoriali e di categoria dell'"ordine capitalista". E' viceversa la divisione all'interno del proletariato, rafforzata dalla decomposizione attuale della società, a mantenere queste barriere, a lasciare campo libero alle misure "sociali" in tutte le direzioni prese nei vari paesi.
L'interesse della classe operaia, di tutti quelli che subiscono ovunque lo stesso sfruttamento e gli stessi attacchi da parte dello Stato capitalista, del governo, dei padroni, dei partiti e dei sindacati, è l'unità più ampia possibile del massimo numero di persone, nell'azione e nella riflessione, per trovare i mezzi per organizzarsi e per sviluppare una direzione nella lotta contro il capitalismo.
Il fatto che gli operai di Germania, dopo aver subito l'anno scorso per dei mesi le manovre sindacali, reagiscano adesso alla stangata che subiscono, è un segno del risveglio della combattività del proletariato internazionale. Questo avvenimento, il più significativo del momento, non è isolato. Nello stesso momento hanno luogo altre manifestazioni in Germania, tra le altre: 70.000 operai contro il piano di licenziamenti alla Mercedes, diverse decine di migliaia a Duisburg contro 10.000 licenziamenti nella metallurgia. In diversi paesi aumenta il numero di scioperi che, sebbene siano spesso canalizzati dai sindacati grandi e piccoli, mostrano tuttavia che è finita la passività. Quello che dobbiamo attenderci è una lenta e lunga serie di manifestazioni operaie, di scontri tra proletariato e borghesia, a livello internazionale.
La ripresa internazionale della lotta di classe nelle condizioni di oggi non è facile. Numerosi fattori contribuiscono a frenare e finanche ad impedire lo sviluppo della combattività e della coscienza del proletariato:
- La decomposizione sociale, che corrompe le relazioni tra i membri della società e rimuove i riflessi di solidarietà, che spinge al "ciascuno per sé" e alla disperazione, che genera un sentimento di impotenza di fronte alla costituzione di un essere collettivo, di una classe dagli interessi comuni di fronte al capitalismo.
- La valanga della disoccupazione, che provoca 10.000 licenziamenti al giorno nella sola Europa occidentale e che è destinata ad estendersi, viene avvertita, in un primo tempo, come un colpo di bastone che paralizza i lavoratori.
- Le manovre multiple e sistematiche dei sindacati, del sindacalismo ufficiale e di "base", che trattengono la classe operaia nel corporativismo e le divisioni, permettendo così di contenere e di inquadrare il malcontento operaio.
- I temi della propaganda borghese, da quelli classici delle sue frazioni di sinistra che pretendono di difendere gli "interessi operai" a quelli delle campagne ideologiche ripetute in seguito alla caduta del "muro di Berlino" sulla "morte del comunismo" e la "fine della lotta di classe", contribuiscono a mantenere la confusione sulle possibilità reali di lottare in quanto classe operaia. Rinforzano tra gli operai i dubbi sull'esistenza di una prospettiva per la loro emancipazione rispetto alla distruzione del capitalismo.
Questi ostacoli il proletariato li dovrà affrontare nello sviluppo stesso delle sue lotte. Il capitalismo mostra sempre più il fallimento generale ed irreversibile del proprio sistema. La brutale accelerazione della crisi, moltiplicando in poco tempo le sue conseguenze disastrose contro la classe operaia, ha certo sulle prime l'effetto di uno shock, ma costituisce anche un terreno favorevole ad una mobilitazione sul terreno di classe, intorno alla difesa degli interessi fondamentali del proletariato. L'intervento attivo delle organizzazioni rivoluzionarie, che sono parte attiva della lotta di classe e che difendono la prospettiva del comunismo, contribuirà poi a che la classe operaia trovi i mezzi per organizzare e orientare questo scontro nel senso dei suoi interessi e quindi nel senso degli interessi di tutta l'umanità.
LA FINE DEI "MIRACOLI"
Ormai da parecchio nessuno osa più parlare di "miracolo economico" nel cosiddetto terzo mondo visto il livello di miseria raggiunto in quest'area del mondo. Il continente africano è ormai praticamente quasi del tutto abbandonato a sé stesso. In Asia la vita umana vale meno di quella di un animale nella maggior parte delle regioni. Di anno in anno le carestie toccano regioni sempre più ampie, coinvolgendo decine di milioni di persone. In America latina epidemie di malattie che erano completamente scomparse stanno facendo stragi.
D'altra parte la prosperità e il benessere promessi, all'indomani del crollo del blocco dell'Est, proprio alle popolazioni di questi paesi sono ben lungi dall'arrivare. Di fatto le iniezioni di "capitalismo liberale" fatte allo stalinismo agonizzante non hanno salvato dal fallimento economico questa forma estrema di statalizzazione puramente capitalista che si è nascosta per sessanta anni dietro la menzogna di "socialismo" o di "comunismo". Anche lì la povertà aumenta in maniera vertiginosa e le condizioni di vita sono sempre più catastrofiche per l'immensa maggioranza della popolazione.
Anche nei paesi "sviluppati" i "miracoli economici" sono ormai finiti. La piaga della disoccupazione e gli attacchi alle condizioni di vita della classe operaia su tutti i fronti riporta brutalmente in primo piano la crisi economica. Mentre la propaganda del "capitalismo trionfante" sul "fallimento del comunismo" non cessa di martellare che non c'è "niente di meglio che il capitalismo", la crisi economica mostra sempre di più che il peggio è davanti a noi.
I FORTI ATTACCHI CONTRO LA CLASSE OPERAIA
La crisi mette a nudo le contraddizioni fondamentali di un capitalismo non solo incapace di assumere la sopravvivenza della società ma responsabile peraltro della distruzione delle stesse forze produttive, prima tra tutte quella del proletariato.
Oggi che la crisi raddoppia di intensità gli Stati "democratici" sono presi alla gola, devono levarsi la maschera. Piuttosto che offrire una qualunque prospettiva, anche lontana, di prosperità e di pace, il capitalismo schiaccia ulteriormente le condizioni di vita della classe operaia e fomenta la guerra. Le residue illusioni che si mantengono tra i lavoratori delle grandi concentrazioni industriali dell'Europa occidentale, dell'America del nord e del Giappone sui "privilegi" che gli si fa credere di avere ancora per tenerli buoni, tendono a crollare in seguito agli attacchi che ricadono su questo settore di proletariato.
La menzogna della "ristrutturazione" dell'economia, che è servita da giustificazione nelle precedenti ondate di licenziamenti nei settori "tradizionali" dell'industria e dei servizi, fa ormai acqua da tutte le parti. Infatti è nei settori dell'industria già "modernizzati", come l'automobilistica o l'aeronautica, nei settori "di punta" come l'elettronica e l'informatica, nei servizi più "vantaggiosi" delle banche e delle assicurazioni, nel settore pubblico già ampiamente "sgrassato" nel corso degli anni '80, nei settori delle poste, della salute e della scuola, che ricadono i numerosi piani di riduzione degli effettivi, di cassa integrazione e di licenziamenti, che toccano centinaia di migliaia di lavoratori.
Nessun settore scappa alle "esigenze" della crisi economica generale dell'economia mondiale. La necessità per ogni unità capitalista ancora in attività di "ridurre i propri costi" per reggere alla concorrenza si manifesta a tutti i livelli, dall'impresa più piccola a quella più grande, fino allo Stato cui compete la responsabilità della difesa della "competitività" del capitale nazionale. Nei paesi più "ricchi", essi stessi trascinati nella recessione, la disoccupazione aumenta ormai in maniera vertiginosa. Non esiste in tutto il mondo capitalista nessuna regione in cui l'economia abbia buona salute.
In media un lavoratore su cinque è disoccupato nei paesi industrializzati. E un disoccupato su cinque lo è da più di un anno, con sempre minori possibilità di ritrovare un impiego. L'esclusione totale di ogni mezzo normale di sussistenza diviene un fenomeno di massa: i "nuovi poveri" e i "senza fissa dimora" si contano ormai a milioni, ridotti alle peggiori privazioni nelle grandi città.
La disoccupazione di massa che si sviluppa oggi non costituisce una riserva di mano d'opera per una futura ripresa dell'economia. Non vi sarà alcuna ripresa che permetterà al capitalismo di integrare o reintegrare nella produzione la massa crescente di decine di milioni di disoccupati dei paesi "sviluppati". Anzi finanche il minimo vitale alla loro sussistenza viene sempre più messo in discussione. La massa di disoccupati di oggi non costituisce più l'"esercito di riserva" del capitalismo, quello di cui parlava Marx nel secolo scorso. Questa va infatti a ingrossare la massa di tutti quelli che sono già completamente esclusi da ogni accesso a delle condizioni di esistenza normali, come nei paesi del "terzo mondo" o dell'ex blocco dell'est. Essa è concretamente la manifestazione della tendenza alla pauperizzazione assoluta provocata dal fallimento definitivo del modo di produzione capitalista.
Per quelli che mantengono ancora un lavoro, gli aumenti di salario sono ridicoli e comunque erosi dall'inflazione, quando non sono del tutto bloccati. Sempre più frequenti sono poi le riduzioni nette di salario. A questo attacco diretto al salario si aggiungono poi gli aumenti dei vari contributi, tasse e imposte, degli affitti delle case, dei trasporti, della sanità e per tasse e libri scolastici. La realtà di oggi è che una parte crescente delle entrate delle famiglie deve essere consacrata al sostegno di figli o di parenti senza lavoro.
La classe operaia deve combattere energicamente questa situazione. I sacrifici reclamati agli operai oggi, da ogni Stato, in nome della solidarietà "nazionale", non faranno che produrre altri sacrifici domani perché non esiste "uscita dalla crisi" nel quadro del capitalismo.
DI FRONTE AD UNA CRISI IRREVERSIBILE E' INDISPENSABILE LA LOTTA DI CLASSE
Ormai anche quelli che si fanno difensori della menzogna del buon funzionamento del capitalismo hanno più di un problema a giustificare la loro posizione. Ora che le statistiche mostrano dei valori di crescita assolutamente ridicoli, non osano neanche più parlare di "ripresa economica". Tutt'al più parlano di una "pausa" nella recessione, avendo cura di precisare che "se una ripresa interverrà, questa sarà molto debole e molto lenta...". Questo linguaggio prudente mostra come la classe dominante sia ancora più sguarnita oggi rispetto alle precedenti recessioni degli ultimi 25 anni.
Nessuno osa più prevedere l'"uscita dal tunnel". Quelli che non vedono il carattere irreversibile della crisi e credono nell'immortalità del modo di produzione capitalista non possono che ripetere che "ci sarà necessariamente una ripresa economica poiché vi è sempre stata una ripresa dopo ogni crisi". Questa formula, che ricorda il vecchio adagio del contadino secondo cui "dopo la pioggia, viene sempre il sereno", la dice lunga sull'incapacità assoluta della classe capitalista di padroneggiare le leggi della propria economia.
Ultimo esempio in ordine di tempo: lo sfaldamento dello SME (Sistema monetario europeo) per tutto un periodo di quest'anno fino al suo crollo nel corso dell'estate. L'impossibilità per gli Stati dell'Europa occidentale di dotarsi di una moneta unica costituisce un brutale colpo di arresto al progetto di costruzione di una "unità europea" che doveva, secondo i suoi difensori, essere un esempio della capacità del capitalismo di instaurare una cooperazione economica, politica e sociale. Dietro le turbolenze monetarie dell'estate, quello che è emerso è ancora una volta la legge incontenibile dello sfruttamento e della concorrenza capitalista secondo cui:
- è impossibile per il sistema capitalista costituire, a qualunque livello, un insieme armonioso e prospero;
- la classe che trae il suo profitto dallo sfruttamento della forza lavoro è condannata ad essere divisa dalla concorrenza.
Mentre all'interno di ogni singola nazione le borghesie affilano le loro armi contro la classe operaia, sul piano internazionale si moltiplicano i motivi di disaccordi e di scontri. "L'intesa tra i popoli", il cui modello doveva essere quello tra i grandi paesi capitalisti, cede il passo ad una guerra economica senza quartiere. Il mercato mondiale è ormai da tempo saturo. E' divenuto troppo stretto per permettere il normale funzionamento dell'accumulazione del capitale, l'allargamento della produzione e dei consumi necessari alla realizzazione del profitto, motore di questo sistema.
Ma a differenza dei dirigenti di una semplice impresa capitalista che, in caso di fallimento, mettono la chiave sotto la porta, procedono alla liquidazione dell'azienda e vanno a cercare altrove i profitti che sono venuti a mancare, la classe capitalista nel suo insieme non può pronunciare il proprio fallimento e procedere alla liquidazione del modo di produzione capitalistico. Ciò significherebbe pronunciare la propria scomparsa, cosa che nessuna classe sfruttatrice sarebbe capace di fare. La classe dominante non si ritirerà dalla scena sociale in punta di piedi dicendo "ho fatto il mio tempo". Essa difenderà viceversa fino alla fine, con le unghie e con i denti, i suoi interessi e privilegi.
Tocca alla classe operaia distruggere il capitalismo. In conseguenza della sua collocazione nei rapporti di produzione capitalisti, essa è la sola capace di bloccare la macchina infernale del capitalismo decadente. Non disponendo di alcun potere economico nella società, senza interessi particolari da difendere, il proletariato non ha altro da vendere al capitalismo se non la propria forzalavoro. Esso è pertanto la sola forza portatrice di una prospettiva di nuovi rapporti sociali liberati dalla divisione in classi, dalla penuria, dalla miseria, dalle guerre e dalle frontiere.
L'unica prospettiva che resta per l'umanità è quella di una rivoluzione comunista internazionale, prospettiva su cui la classe si incamminerà cominciando a fornire oggi una risposta di massa agli attacchi feroci del capitalismo, primo passo di una lotta storica contro la distruzione sistematica delle forze produttive oggi in atto a livello mondiale.
settembre 93 OF