Pubblichiamo un articolo d'intervento che la sezione della CCI in Spagna (Acción Proletaria) ha messo su Internet in un Forum sull'autonomia del proletariato [www. alasbarricadas.org, in lingua spagnola].
All'origine di questo forum c'è la riproduzione da parte di un compagno, che noi non conosciamo, di un articolo-bilancio scritto da noi (1) a proposito di un incontro sull'autonomia operaia e l’intervento che noi vi abbiamo fatto. Questo incontro, che ha avuto luogo a Barcellona, ha provocato un dibattito appassionante, profondo e leale. Tutti i partecipanti condividevano la stessa volontà di farla finita con il sistema capitalista che sta provocando alla grande maggioranza dell'umanità tante sofferenze e di ogni tipo (economiche, psichiche, morali, ecologiche). Ma è sulla questione “chi può essere il motore di una così gigantesca trasformazione sociale?” che il dibattito si situa. In sintesi, due risposte sono apparse in maniera chiara: per gli uni, è la classe operaia, il proletariato. Per gli altri, tra cui un compagno che si fa chiamare Piti (2), è una comunità di individui ribelli, che loro chiamano proletariato.
Chiaramente, noi difendiamo con fermezza la prima risposta. Ed andiamo ad esporre gli argomenti che la giustificano.
La lotta di classe è il motore della storia
Con la dissoluzione graduale del comunismo primitivo tribale, la società umana si è divisa in classi ed il motore della sua evoluzione è stata la lotta di classe.
Questa guerra sociale ha avuto luogo in un contesto storico di modi di produzione successivi (schiavismo, feudalesimo, capitalismo). E' in questo quadro generale che lo sviluppo delle forze produttive ha potuto realizzarsi in maniera contraddittoria.
Questa è la spiegazione più coerente della storia umana. Questo è lo strumento di comprensione che le generazioni attuali potranno utilizzare per farla progredire di fronte ai dilemmi che la situazione attuale del capitalismo ci pone: o la distruzione dell'umanità o la sua liberazione e l'inizio di una nuova tappa storica basata sull'abolizione delle classi sociali, degli Stati e delle frontiere nazionali, per l'unificazione degli esseri umani in una comunità umana che vive ed agisce per ed attraverso essa stessa.
Di fronte a questa spiegazione, di cui il marxismo è il più coerente difensore, sono state opposte una quantità di teorie il cui denominatore comune non è tanto il rifiuto dell'esistenza delle classi - una evidenza che soli i più ottusi osano negare - ma il rifiuto del fatto che la lotta di classe sia il motore della storia.
Come motore alternativo ci hanno proposto Dio, lo Spirito Universale, principi ed altri individui di buona volontà, una minoranza di cospiratori, di illuminati o di predicatori di ogni tipo di sistemi sociali e filosofici, tutti investiti per rendere conto dei mali di questo mondo terreno…
La lotta di classe, nel corso della storia, ha posto di fronte una classe rivoluzionaria portatrice di una nuova organizzazione della vita sociale ed una classe reazionaria attaccata alla difesa dei privilegi e degli interessi legati al vecchio ordinamento. In genere questi conflitti si risolvono con il trionfo della nuova classe rivoluzionaria e la scomparsa più o meno veloce della vecchia classe. Ma questo non è mai deciso in anticipo da chi sa quale determinismo irrevocabile. Ci sono stati dei momenti della storia dove si sono prodotte delle situazioni di blocco nell'evoluzione sociale, dove le due classi principali della società si sono svenate reciprocamente attraverso conflitti sterili, senza via d'uscita. È per ciò che il Manifesto Comunista concepisce la lotta di classe come una guerra sociale "che finirà sempre o con la trasformazione rivoluzionaria della società tutta intera o con la distruzione delle due classi in lotta".
Nessuna classe sociale è strumento cieco di un destino storico prefissato, né l'esecutore forzato di una necessità determinata dall'evoluzione della società. Per liberare la società dagli ostacoli imposti dal vecchio ordinamento, le classi rivoluzionarie hanno bisogno di un certo grado di coscienza e di volontà. Se queste mancano, la necessità obiettiva che esiste solo come potenzialità storica, non potrà realizzarsi e l'evoluzione sociale stagnerà marcendo nel caos e la distruzione.
Nel passaggio dalla vecchia società schiavistica all'ordine feudale che le successe, il fattore determinante fu l'evoluzione obiettiva, mentre la coscienza e l'azione soggettiva hanno giocato un ruolo molto limitato. Nella distruzione del feudalismo e l'avvento del capitalismo le forze obiettive sono state il fattore centrale, ma la coscienza - una coscienza soprattutto ideologica - ha avuto un ruolo importante, soprattutto durante l'ultima tappa, quella della presa del potere politico da parte della borghesia una volta assicurato il dominio economico della società.
Invece, con la rivoluzione che abbatterà il capitalismo il ruolo decisivo spetterà alla coscienza, all'entusiasmo, alla solidarietà, all'eroismo ed alla combattività delle grandi masse proletarie. Senza questa forza soggettiva, senza questo impegno di un gran numero di individui coscienti, la rivoluzione non sarà possibile. Piti insiste sulla necessità della coscienza (necessità "di individui auto-coscienti" come lui la chiama) della solidarietà e della fiducia reciproca (che chiama "comunità di ribelli"). Noi condividiamo questa preoccupazione: per noi, uno dei compiti cruciali di oggi è che le generazioni attuali della classe operaia coltivino e sviluppino, nella lotta, per la lotta e attraverso la lotta, la coscienza, la solidarietà, il loro proprio criterio. Senza uno sviluppo massiccio delle forze mentali e morali, la rivoluzione mondiale non potrà avere luogo.
Piti pensa, però, che la classe operaia non è più la classe rivoluzionaria. Non dice che la lotta di classe è sparita, non nega che questa lotta abbia potuto essere, in altre tappe del capitalismo, il motore del cambiamento storico, ma la sua premessa è perentoria: "Ciò che chiamo il "primo assalto alla società di classe", (parlo dell'inizio del ventesimo secolo e delle sue rivoluzioni: Russia, Kronstadt, Germania, per esempio), ed il "secondo assalto alla società di classe", maggio 68, rivolte autonome in Germania, Autonomia Operaia in Italia, gli scioperi operai in Polonia, il movimento delle assemblee in Spagna. Questi movimenti sono stati sconfitti, l'autonomia operaia è stata sconfitta".
Certo, l'ondata rivoluzionaria mondiale fu sconfitta e ciò lasciò la porta aperta alla più terribile controrivoluzione di tutta la storia umana. È anche vero che l'impulso iniziale delle lotte nel 1968 si è diluito poco a poco finché nel 1989 si è prodotto un forte indietreggiamento della coscienza e della combattività operaia.
Tuttavia, perché Piti trae da questi scacchi la conclusione che la classe operaia ha perso il suo carattere rivoluzionario? Lo spiega basandosi su due elementi: il capitalismo ha vissuto un tale cambiamento che ci troveremmo di fronte ad un nuovo "modello economico" e questo nuovo modello economico porterebbe una tale quantità di cambiamenti sociali da segnare la fine della classe operaia come classe rivoluzionaria. “E' allora, negli anni 1980, che i cambiamenti cominciano. I sindacati, in quanto strumenti di integrazione della classe operaia agiscono direttamente al servizio dei loro propri interessi negoziando col padronato e lo Stato, accettando senza battere ciglio le politiche di tagli sociali e del personale. Ciò disperde tutta una generazione ribelle, una comunità ribelle ereditata dalla tappa precedente, rompe la sua coscienza. La classe operaia è gettata fuori dalle fabbriche, ci sono delle riconversioni industriali ed una terziarizzazione dell'economia (cambiamento del modello economico), e la dislocazione di imprese alla ricerca di una mano d'opera a buon mercato e schiava (…) La tecnologia gioca un ruolo fondamentale, c'è una rivoluzione tecnologica che fa si che molti operai sono obbligati a fare degli stage di formazione. La tecnologia favorisce la mondializzazione dell'economia e l'automatizzazione. Tuttavia, queste nuove condizioni permettono di aumentare il benessere di una minoranza di lavoratori. Appaiono quadri tecnici, operai-proprietari, piccoli imprenditori, ecc. (...) L'epoca attuale è unica e non ci sarà ritorno indietro nel sistema produttivo, non si ritornerà a "l'identità fabbrica".
Un nuovo modello économico?
Durante tutta la sua storia il capitalismo ha vissuto numerosi cambiamenti tecnologici, organizzativi, sociologici... Il capitalismo è un metodo di produzione dinamico, costretto a cambiare continuamente la sua organizzazione, i metodi e i mezzi di produzione... Il Manifesto comunista riconosce che "La borghesia non può esistere senza rivoluzionare continuamente gli strumenti di produzione, i rapporti di produzione, dunque i rapporti sociali. Prima condizione di esistenza di tutte le classi industriali precedenti era invece l’immutato mantenimento del vecchio sistema di produzione. Il continuo rivoluzionamento della produzione, l’ininterrotto scuotimento di tutte le situazioni sociali, l’incertezza e il movimento eterni contraddistinguono l’epoca dei borghesi fra tutte le epoche precedenti".
Ma questo dinamismo significa un cambiamento di natura del capitalismo, una modifica delle basi stesse di questo sistema di sfruttamento?
Il capitalismo è passato per numerose tappe: manifattura, meccanizzazione, grande industria, capitale monopolista, imperialismo, capitalismo di Stato. Il regime di proprietà capitalista si è modificato costantemente (mercanti, proprietà individuale dei padroni dell'industrie; proprietà collettiva attraverso società per azioni; proprietà totalmente statale - come nei sedicenti paesi "socialisti" - o mista ; proprietà multinazionale...); le tecnologie hanno vissuto cambiamenti spettacolari (meccanizzazione, ferrovie, barche a vapore, aviazione, telecomunicazioni, informatica, energia petrolifera o nucleare ecc.); l'organizzazione del lavoro è passata attraverso stadi differenti (estensivo, intensivo, organizzazione scientifica del lavoro e taylorisme, industrie giganti, decentramento, dislocazioni, subappalto, ecc.); il regime di lavoro prende parecchie forme (lavoro a domicilio, lavoro delle donne e dei bambini, lavoro a durata indeterminata, funzionari, lavoro forzato, giornaliero, precario, lavoro a cottimo, occasionale, ecc.). Tuttavia, un filo conduttore attraversa come un legame inalterabile questa molteplicità sempre mutabile:
1) L'espropriazione dei produttori, tale da separare i contadini e gli artigiani dai loro mezzi di produzione e di vita, farli diventare operai ed obbligati a passare sotto le forche caudine del lavoro salariato per provvedere ai loro bisogni;
2) Lo sfruttamento della forza lavoro dell'operaio il cui stipendio tende a coprire la sua riproduzione individuale e quella della sua famiglia, producendo un plusvalore che serve all'accumulazione del capitale;
3) L'accumulazione del capitale. Lo scopo della produzione non è tanto soddisfare i bisogni di consumo della classe dominante ma il reinvestimento del plusvalore che produce nuovo capitale.
Quando Piti rievoca la mondializzazione come un grande cambiamento fondamentale che si produce lungo tutto gli anni 80, bisogna dirgli che ha appena scoperto qualche cosa che ha avuto luogo più di un secolo fa : "Con lo sfruttamento del mercato mondiale la borghesia ha dato un’impronta cosmopolita alla produzione e al consumo di tutti i paesi. (…) Ai vecchi bisogni, soddisfatti con i prodotti del paese, subentrano bisogni nuovi, che per essere soddisfatti esigono i prodotti dei paesi e dei climi più lontani. All’antica autosufficienza ed all’antico isolamento locali e nazionali, subentra uno scambio universale, una interdipendenza universale fra le nazioni. E come per la produzione materiale, così per quella intellettuale. I prodotti intellettuali delle singole nazioni divengono bene comune. L’unilateralità e la ristrettezza nazionali diventano sempre più impossibili e dalle molte letterature nazionali e locali si forma una letteratura mondiale. Con il rapido miglioramento di tutti gli strumenti di produzione, con le comunicazioni infinitamente agevolate, la borghesia trascina nella civiltà persino le nazioni, anche le più barbare. I bassi prezzi delle sue merci sono l’artiglieria pesante con la quale essa spiana tutte le muraglie cinesi, con la quale costringe alla capitolazione la più tenace xenofobia dei barbari. Costringe tutte le nazioni ad adottare il sistema di produzione della borghesia, se non vogliono andare in rovina, le costringe ad introdurre in casa loro la cosiddetta civiltà, cioè a diventare borghesi. In una parola: essa si crea un mondo a propria immagine e somiglianza". Questo passo non è tratto da un testo pro- o anti-mondialista accanito, ma dal Manifesto comunista, scritto nel 1848!
Rivoluzione tecnologica? Sicuramente le telecomunicazioni si sono sviluppate come anche l'informatica e le reti telematiche; si parla di biotecnologia e di cellule staminali; è vero che larghe estensioni di terre agricole cadono sotto il fascino di una speculazione immobiliare che fa spuntare grattacieli imponenti, case intelligenti e filari e filari infiniti di case… vuote. Ma questi cambiamenti "affascinanti" non rappresentano un vero sviluppo; somigliano piuttosto agli ultimi sussulti di una società malata. Peraltro, nessuno di questi cambiamenti può paragonarsi alle trasformazioni radicali che si sono prodotte nella fase ascendente del capitalismo: "Durante il suo dominio di classe appena secolare la borghesia ha creato forze produttive in massa molto maggiore più colossali che non avessero mai fatto tutte insieme le altre generazioni del passato. Il soggiogamento delle forze naturali, le macchine, l'applicazione della chimica all'industria ed all'agricoltura, la navigazione a vapore, le ferrovie, i telegrafi elettrici, il dissodamento d’interi continenti, la navigabilità dei fiumi, popolazioni intere sorte quasi per incanto dal suolo - quale dei secoli antecedenti immaginava che nel grembo del lavoro sociale stessero sopite tali forze produttive?" (Manifesto Comunista).
Il modo di produzione capitalista non si definisce essenzialmente per le tecnologie, le forme di organizzazione dell'impresa o del lavoro... Queste possono girare come una giostra perché sono solamente l'involucro che copre un meccanismo: i rapporti di produzione fondati sul lavoro salariato e l'estrazione di plusvalore. Questi meccanismi centrali non sono cambiati affatto. Costituiscono sempre i pilastri che tengono su tutto l'edificio. Piti che critica tanto la società dello spettacolo, è vittima dell'effetto ottico tipico del capitalismo: di fronte all'immobilismo rigido delle società precedenti, il capitalismo appare come uno spettacolo incessante di cambiamenti, che però lasciano le fondamenta intatte.
Queste forme non sono neanche determinanti per la dinamica reale del capitalismo. Questo cerca costantemente e disperatamente una massa sempre più grande di plusvalore ed un mercato sempre più grande a misura dei suoi bisogni di accumulazione. Quando il capitalismo si impadronisce del mercato mondiale all'inizio del ventesimo secolo, questa dinamica inesorabile lo fa entrare nella fase storica di decadenza e di degenerazione. Questa è la fase della società attuale, con le sue guerre senza fine, la sua barbarie, le sue crisi e le sue convulsioni economiche, il suo totalitarismo statale e la sua decomposizione ideologica e morale. Questi cambiamenti di cui tanto si parla (tecnologia, finanze, servizi) sono superficiali, ma ci si dimentica totalmente questo "cambiamento" estremamente significativo e determinante per la vita quotidiana delle enormi masse umane. Il cambiamento tra il periodo ascendente del capitalismo e la sua fase di decadenza, che si è sviluppata lungo tutto il 20° secolo, ci permette di comprendere la terribile sofferenza, il profondo sconforto che le migliaia di esseri umani subiscono, ci aiuta a capire la realtà di una società in agonia, ci dà la forza e la coscienza per lottare verso la costruzione di una nuova società. Al contrario, l'altra visione ci acceca con una "modernità" ed un "progresso" che nascondono il terribile inferno in cui vive la maggior parte dell'umanità.
Acción Proletaria (16 mai 2005)
1. Acción Proletaria nº 181 "Parlano di autonomia operaia per far passare meglio il loro messaggio sulla fine del proletariato" (articolo in spagnolo).
2. Piti è uno dei compagni che è intervenuto in questo Forum per difendere una posizione che definisce come "neo-situationnista".
Dopo il volantino che abbiamo pubblicato l’8 novembre scorso (1) sul nostro sito web (www.internationalism.org [5]), l’articolo che segue insiste sulla trappola costituita dagli scontri avvenuti nelle periferie francesi per la classe operaia di tutto il mondo. Questa insistenza non è affatto superflua visto che dobbiamo purtroppo segnalare come molti compagni siano rimasti affascinati dalle fiamme dei roghi e dall’uso della violenza, quasi fossero questi degli obiettivi in sé della lotta. Peggio ancora quando si pensi che questo stesso fascino viene esercitato su organizzazioni che pretendono di essere l’“avanguardia” del proletariato, come nel caso di Battaglia Comunista o della formazione bordighista n+1. E’ anche per questo che in questo numero abbiamo voluto inserire, assieme ad un’ulteriore denuncia del modo in cui la borghesia sfrutta questi scontri per dividere la classe operaia, un editoriale sulle vere lotte che avvengono nel mondo (e che spesso non sono note per il black-out dei media) e ancora l’articolo sulla Polonia ’80, che rievoca le principali lezioni tratte da una delle lotte più significative della fase di ripresa proletaria dopo la fine degli anni ’60. Per finire vogliamo ricordare la pubblicazione di un altro articolo pubblicato sul nostro sito web (2) che non ha trovato posto in questo giornale. Si tratta di un articolo che racconta e denuncia la carneficina di immigrati marocchini alla frontiera spagnola operata dalla polizia del governo Zapatero. A riprova del fatto che per gli immigrati non c’è regime democratico che tenga, di destra o di sinistra che sia. Ma anche a dimostrare che la sorte degli immigrati è un calvario continuo, da quando cercano di entrare nei paesi “ricchi” (vedi la carneficina di immigrati marocchini, ma anche quella dei vari profughi affogati nelle acque del Tirreno e dello Ionio) fino alla loro vita quotidiana fatta di stenti, miseria e ricatti una volta raggiunto il suolo del paese ospite. Ma se le miserie degli immigrati non sono diverse da quelle di tutta la classe operaia, perché questi possano avere una prospettiva che non sia la disperazione, occorre che facciano riferimento all’unica classe che ha come prospettiva una società diversa, il comunismo. Che facciano riferimento alla lotta del proletariato.
Per tre settimane consecutive gli scontri nelle periferie francesi sono stati al centro dell’attualità. Migliaia di giovani, provenienti in gran parte dagli strati più poveri della popolazione, hanno gridato la loro collera e la loro disperazione a colpi di Molotov e di sassi (vedi il volantino pubblicato sul nostro sito internet dal titolo: “Di fronte alla disperazione, solo la lotta di classe porta all’avvenire”).
Le prime vittime di queste distruzioni sono gli operai. Sono infatti le loro vetture che sono state incendiate. Sono i loro luoghi di lavoro che sono stati chiusi, ponendo diverse centinaia di questi in cassa integrazione. Un operaio intervistato per il telegiornale delle 20 ha magistralmente riassunto la perfetta assurdità di questi atti in questi termini: “Questa mattina ho trovato sul parabrezza della mia vettura bruciata questo manifesto. C’è scritto sopra ‘Sarkozy, fottiti’. Ma non è Sarkozy che si è fottuto, ma io!”
Anche se l’esplosione di collera dei giovani delle periferie è del tutto legittima, la situazione sociale che questa ha creato rappresenta un pericolo reale per la classe operaia. Come reagire? Bisogna schierarsi a favore dei moti o per lo Stato “repubblicano”? Per la classe operaia questa è una falsa alternativa in quanto sono entrambe delle trappole da evitare. La prima alternativa consiste nel vedere, attraverso la rivolta disperata di questi giovani, un esempio di lotta da seguire. Ma il proletariato non può incamminarsi su questo cammino di auto-distruzione. D’altra parte anche la “soluzione” gridata alta e forte dappertutto dalla borghesia è essa stessa une impasse.
Profittando della paura suscitata da questi avvenimenti, la classe dominante, con il suo governo, il suo Stato e il suo apparato repressivo, si presenta oggi come il garante della sicurezza delle popolazioni e in particolare dei quartieri operai. Ma dietro i suoi bei discorsi che vorrebbero apparire “rassicuranti”, il messaggio che essa cerca di far passare è carico di minacce per la classe operaia: “Lottare contro l’ordine repubblicano, cioè lo Stato capitalista, significa comportarsi da mascalzoni, da gentaglia”.
La borghesia utilizza la paura per rafforzare il suo arsenale repressivo…
Incapace di risolvere il problema di fondo – quello della crisi economica - la borghesia preferisce naturalmente nasconderlo e sfruttare a proprio profitto il lato spettacolare dei moti: le distruzioni e le violenze… E, su questo piano, possiamo dire che i giornalisti hanno saputo fare del loro meglio per alimentare questa campagna della paura.
Sono andati a cercare l’informazione nel cuore delle città, pubblicando centinaia di immagini di vetture in fiamme o bruciate, moltiplicando le testimonianze delle vittime, realizzando delle inchieste sull’odio di questi giovani per tutta la società.
Non si contano i reportage che mostrano queste bande di giovani in azione durante la notte, con il casco in testa ricoperto a sua volta di un cappuccio che maschera il viso.
E ancora abbiamo potuto vedere in primo piano i lanci di bottiglie Molotov e di sassi, gli scontri con le forze dell’ordine e, tra l’altro, l’intervista di uno dei partecipanti agli scontri che sfogava in diretta la sua collera: “Esistiamo, e la prova sono le macchine che bruciano” (Le Monde del 6 novembre) e ancora “finalmente si parla di noi”.
La borghesia ha sfruttato a meraviglia la violenza disperata dei giovani delle periferie per creare un clima di terrore. Per essa questa è un’occasione ideale per giustificare il rafforzamento del suo arsenale repressivo. La polizia può in effetti concedersi il lusso di apparire come la protettrice degli operai, il garante del loro benessere e della loro sicurezza. Il dibattito tra il partito socialista e l’UMP su questo punto ha dato il “la”. Per la destra, la soluzione evidentemente è quella di dare più mezzi alle forze dell’ordine rafforzando le unità di intervento tipo CRS. Per la sinistra la soluzione è la stessa, ma con un diverso approccio. Il PS ha proposto il ritorno della polizia di zona: altrimenti detto, più poliziotti nei quartieri! E’ proprio per questo che questi due grandi partiti borghesi si sono pronunciati a favore dello Stato d’emergenza.
Tutte queste misure di rafforzamento dell’apparato repressivo non potranno mettere fine alle violenze nelle periferie. Al contrario, se esse possono essere efficaci nell’immediato e per qualche tempo, esse prima o poi finiranno per alimentare la tensione e l’odio di questi giovani nei confronti delle forze dell’ordine. Gli uomini politici lo sanno molto bene. In realtà, ciò a cui mira la borghesia con il rafforzamento del controllo poliziesco dei quartieri “sensibili” non sono le bande di adolescenti inoperose ma la classe operaia. Facendo credere che lo Stato repubblicano voglia proteggere i proletari contro gli atti di vandalismo dei loro figli o quelli dei loro vicini, la borghesia si prepara di fatto alla repressione delle lotte operaie quando queste costituiranno una vera minaccia per l’ordine capitalista. La proclamazione dello Stato d’emergenza, per esempio, ha l’obiettivo di abituare la società, a banalizzare il controllo permanente, la presenza continua della polizia e le perquisizioni legali nei quartieri operai.
…e per dividere la classe operaia
La dimensione più ripugnante della propaganda attuale è quella che consiste nel designare gli immigrati come dei capri espiatori.
Per il fatto che i partecipanti alle sommosse sono in parte figli di immigrati, gli operai immigrati sono stati insidiosamente accusati di minacciare “l’ordine pubblico” e la sicurezza delle popolazioni perché incapaci di badare ai loro figli, di dare loro una “buona educazione” trasmettendo loro dei valori morali. Sono questi genitori “irresponsabili” o “dimissionari” che sono stati indicati come i veri colpevoli. E la palma del razzismo spetta sicuramente al ministro del lavoro, Gérard Larcher, per il quale la poligamia sarebbe “una delle cause delle violenze urbane” (Libération del 17 novembre)!
Ma le stesse forze di sinistra hanno apportato il loro piccolo contributo all’operazione, mettendo avanti, con l’ipocrita copertura di un discorso umanitario, le pretese difficoltà della società francese ad integrare popolazioni di “diversi orizzonti culturali” (per riprendere la loro terminologia). I due più grandi sociologi attuali sulla questione delle periferie, Didier Lapeyronie e Laurent Mucchilie, che si collocano dal punto di vista politico nell’ambito della sinistra radicale, insistono infatti sul fatto che, agli occhi dei giovani provenienti dall’immigrazione, “la promozione a scuola è riservata ai ‘bianchi’, i servizi pubblici non sono più per niente dei vettori di integrazione […] e il motto della Repubblica […] è percepito come la maschera di una società di ‘bianchi’.”(Libération del 15 novembre). I proletari immigrati avrebbero dunque un problema specifico che non avrebbe niente a che vedere con il resto della classe operaia.
Indicando i lavoratori immigrati come i veri responsabili delle violenze urbane, la borghesia cerca così di montare gli operai gli uni contro gli altri, di creare una divisione tra francesi e immigrati. Essa sfrutta la rivolta cieca dei giovani delle periferie allo scopo di mascherare la realtà: la pauperizzazione crescente dell’insieme della classe operaia, quale che sia la sua nazionalità, le sue origini o il suo colore. Il problema della miseria, della disoccupazione, dell’assenza di prospettive non sarebbe la conseguenza dell’insormontabile crisi economica del capitalismo, ma si limiterebbe a un problema “di integrazione” o di “cultura”! Demonizzando così i genitori dei giovani partecipanti agli scontri, la classe dominante trova una giustificazione per attaccare i “fautori dei disordini” di oggi ma che, in realtà, servono per attaccare domani tutta la classe operaia. E’ per esempio il caso della soppressione dei sussidi per le famiglie dei “delinquenti”. E che dire delle misure di espulsione immediata degli stranieri presi durante i moti? Il ministro dell’Interno, Nicolas Sarkozy, ha chiesto ai prefetti di espellere “senza esitare dal nostro territorio nazionale” gli stranieri condannati nel quadro delle violenze urbane delle tredici ultime notti, “compresi quelli che hanno un permesso di soggiorno” (Libération del 9 novembre). Ma la classe operaia non deve farsi illusioni. Questa misura non rimarrà una eccezione riservata ai soli “piccoli mascalzoni”. Queste espulsioni territoriali per ‘disturbo dell’ordine pubblico’, lo Stato repubblicano non esiterà a utilizzarle in futuro contro l’insieme della classe operaia quando questa svilupperà le sue lotte: per fare fallire uno sciopero e la sua unità obbligando gli operai che “hanno un permesso di soggiorno” a riprendere il lavoro sotto il ricatto di essere “ricondotti alle frontiere”.
Pawel (17 novembre)
1. Tumulti nelle periferie francesi: di fronte alla disperazione, solo la lotta di classe porta all’avvenire.
2. Crisi dell’emigrazione alla frontiera Spagna-Marocco: l’ipocrisia della borghesia democratica.
Gli scontri che sono scoppiati in Francia tra la fine di ottobre e per tutta una buona metà del mese di novembre scorso sono stati senza dubbio, indipendentemente dal giudizio che si possa dare su di loro, un evento di primo piano sullo scenario mondiale. La nostra organizzazione ha già preso posizione tramite un volantino del 9/11/2005 e un articolo del 17/11[1] [8] mettendo in evidenza come: “gli atti di violenza ed i saccheggi che vengono commessi, notte dopo notte, nei quartieri poveri, non hanno niente a che vedere, né da vicino né da lontano con una lotta della classe operaia.” O ancora che: “quello che sta avvenendo in questo momento in Francia non ha niente a che vedere con la violenza proletaria contro la classe sfruttatrice: le principali vittime delle violenze attuali sono gli operai. E, al di là di quelli che subiscono direttamente le conseguenze dei danni provocati, è l’insieme della classe operaia del paese che è toccata: la campagna mediatica intorno agli avvenimenti attuali maschera di fatto tutti gli attacchi che la borghesia scatena in questo momento anche contro i proletari, così come le lotte che questi cercano di condurre per farvi fronte.”
Naturalmente, vista l’importanza che tali avvenimenti rivestono, sicuramente ci saranno ulteriori riflessioni da parte nostra, anche in riferimento critico a quelle di altre formazioni politiche o rispetto a discussioni presenti tra elementi in ricerca. Se oggi torniamo su questo tema a breve distanza dalla pubblicazione dell’ultima presa di posizione è per reagire all’atteggiamento politico assunto dal BIPR[2] [9] su questo problema, atteggiamento che noi consideriamo sbagliato e molto pericoloso. Per chiarire quello che vogliamo dire ripercorriamo, in senso temporale, l’evoluzione delle prese di posizione del BIPR. Giusto un giorno dopo di noi, il BIPR pubblica una sua presa di posizione in lingua inglese sui moti in Francia che, in generale, è molto somigliante nei contenuti al nostro volantino, anche negli esempi che fa. Riportiamo qui di seguito i passaggi più significativi:
“Questi avvenimenti hanno la loro origine nella povertà e nell’umiliazione quotidiana che questi giovani provano. La maggior parte di loro sono stati espulsi dal sistema scolastico così come dal mondo del lavoro. Essi non hanno futuro se non quello di continuare a vegetare nei ghetti che sono divenuti queste periferie. E’ la crisi del capitalismo che, con il suo approfondirsi, sviluppa queste esplosioni di collera e di violenza. Ma queste rivolte non hanno alcuna prospettiva per la classe operaia. La gran parte di questi giovani non ha mai avuto a che fare con il mondo del lavoro. Essi hanno solo un istinto di classe piuttosto debole e in ogni caso molto confuso. La loro rivolta non ha niente in comune con quelle che abbiamo visto, ad esempio, in Argentina alla fine del 2001 dove i lavoratori affamati si sono organizzati per assalire e svuotare dei supermercati. Niente in comune con i più recenti episodi a New Orleans dove il proletariato bloccato dall’esercito in una città devastata è stato costretto a saccheggiare per sopravvivere. I rivoltosi in Francia distruggono i veicoli dei loro vicini proletari, danno fuoco alle scuole frequentate dai loro fratelli e sorelle, bruciano i supermercati locali, ecc. Queste rivolte, che sono un’espressione della difficoltà che i proletari vivono nelle grandi metropoli capitaliste, non hanno attualmente alcun contenuto politico di classe. (…) Questi movimenti esprimono anche tristemente una mancanza di prospettiva di classe. Essi sottolineano ancora più fortemente la reale necessità che i rivoluzionari contribuiscano alla ricreazione delle condizioni perché la lotta, dal livello delle rivendicazioni immediate, raggiunga un livello politico. In breve, esse mostrano la necessità indispensabile del partito rivoluzionario; un partito che sia veramente comunista, internazionale e internazionalista. Queste rivolte causate dalla disperazione possono solo andare avanti attraverso lo sviluppo di reali lotte di classe, sotto la guida politica del partito rivoluzionario.”
E’ perciò che siamo rimasti piuttosto sorpresi dalla critica fatta di sfuggita dai compagni di Battaglia Comunista[3] [10] alla CCI per il fatto che questa avrebbe espresso una posizione piuttosto “pessimista”, laddove viceversa a noi risultava che le posizioni fossero quasi sovrapponibili. Ma la sorpresa è aumentata quando abbiamo letto, sul forum di Battaglia[4] [11], la presa di posizione di un suo militante in completa contraddizione con quella del BIPR. Ecco quello che dice il compagno, il 7 novembre scorso, in risposta a dei frequentatori del forum più moderati nei confronti degli avvenimenti francesi:
“Sicuramente però siamo dinnanzi ad un fatto epocale, una vera e propria rivolta degli ultimi, del proletariato giovanile emarginato e, dopo decenni di attacchi da parte del capitale. Che84[5] [12], non prendere distanze da questi giovani che hanno riportato il proletariato in maniera spontanea e istintiva negli scontri di strada come forse non succedeva dall’ottocento. Non ti fare abbabbiare dalla propaganda borghese. Questi non sono terroristi. Questa è la nostra classe che sta reagendo alle sue spaventose condizioni di esistenza e lo fa con gli strumenti che ha a disposizione... benzina, bande giovanili, scontri notturni. Sono disperati. Siamo in ritardo ma dobbiamo porci il problema di come incanalare questo potenziale profondamente anticapitalista all’interno di una progettualità rivoluzionaria”. (intervento del 7 novembre 2005).
Abbiamo atteso che Battaglia correggesse questo intervento attraverso la pubblicazione della presa di posizione del BIPR citata prima. Ma questo testo, pubblicato in inglese adesso anche su Revolutionary Perspectives - organo della CWO - e sulle pagine web in lingua francese del BIPR, non è mai apparso in lingua italiana. Invece a sorpresa (nostra) e dopo parecchi giorni è comparso, il 18/11/2005, un comunicato del solo PCInt (Battaglia) dove scompaiono i toni più decisi della presa di posizione del BIPR anche se non si trovano le tesi più sbilanciate espresse sul forum:
“Siamo di fronte ad episodi di rivolta, a forme di una ribellione purtroppo cieca e indiscriminata, in qualche caso anche organizzata in “bande”. (…) Chiaramente non si può (…) ridurre il tutto ad un movimento di “teppaglie” o di “delinquenti comuni” che fanno della violenza l’unico fine.”
Abbiamo dovuto attendere ancora del tempo perché Battaglia superasse finalmente gli ultimi indugi e finisse per sposare la tesi inizialmente difesa sul forum attraverso un articolo[6] [13] che resterà nella storia per le assurdità che vi sono riprodotte. Per il momento basterà riportare quanto segue:
“La crisi del capitalismo e le risposte date dalla borghesia in questi ultimi decenni hanno prodotto un cambiamento significativo nella composizione del proletariato. Cogliere tutti gli aspetti di questa diversa composizione significa evitare di commettere gravissimi errori politici, tali da non comprendere fino in fondo le ragioni e le modalità con le quali si è espressa la rivolta parigina. E’ metodologicamente sbagliato definire i giovani protagonisti della rivolta come dei sottoproletari che, in quanto tali, non meritano l’attenzione delle avanguardie rivoluzionarie (…) La rivolta della periferia parigina è l’espressione del conflitto sociale di un settore del proletariato che in questi ultimi anni è cresciuto enormemente soprattutto tra le nuove generazioni. (…) Sottoproletario è colui che si rifiuta di entrare nel mondo del lavoro pur avendo la possibilità di entrarvi, non colui che subisce una scelta imposta dal capitale. Per Marx, vagabondi, prostitute, delinquenti (…) Al contrario i giovani parigini che si rivoltano e bruciano le macchine fanno tutto ciò in quanto esclusi dal mondo del lavoro e pertanto reclamano di entrare a farvi parte. Il cambiamento nella composizione del proletariato si riflette inevitabilmente nelle modalità in cui si manifesta lo scontro di classe. Chi si aspetta che il conflitto sociale debba avvenire sempre e solo negli stessi termini di trenta o cinquanta anni fa non ha compreso fino in fondo le modificazioni intervenute all’interno del proletariato. (…) Lo schema classico in base al quale lo scontro sociale parte da una base economico-sindacale per crescere sul piano politico, per le nuove generazioni di proletari precari ed esclusi dal mondo del lavoro non è più del tutto vero, poiché il conflitto sociale si manifesta potenzialmente su un terreno immediatamente politico, ma affinché ciò accada, e l’esperienza francese sta lì proprio a rimarcarlo, occorre la presenza del partito rivoluzionario.”
Ciò detto, vogliamo fare alcune osservazioni. Anzitutto, quando Battaglia dice che sarebbe sbagliato definire “i giovani protagonisti della rivolta come dei sottoproletari”, precisando che “sottoproletario è colui che si rifiuta di entrare nel mondo del lavoro pur avendo la possibilità di entrarvi, non colui che subisce una scelta imposta dal capitale”, di fatto tende a identificare il sottoproletariato con la sua parte peggiore, quella che Marx definiva dispregiativamente lumpen-proletariat (il proletariato degli stracci): un settore che rifiuta di entrare nel mondo del lavoro e che vive di piccoli furti, di piccoli rackets o di piccoli traffici illeciti: droga, contrabbando, prostituzione, ecc. Ma questo significherebbe marchiare negativamente quei settori sociali particolarmente sviluppati nei paesi del terzo mondo che costituiscono la massa di « senza riserve », composta di elementi senza lavoro salariato regolare e che vivono di espedienti facendo piccoli lavori alla giornata e che ottengono delle miserabili entrate vendendo per strada cibo per poveri e piccoli oggetti senza gran valore. In secondo luogo va detto che quella di BC è una maniera sbagliata di porre il problema. I rivoluzionari attribuiscono una grandissima attenzione ad ogni forma di rivolta sociale, qualunque ne siano i protagonisti o le prospettive. Allo stesso modo il proletariato, e noi al suo interno, non siamo «indifferenti» alle condizioni di vita abominevoli (fame, oppressione, repressione, ecc.) di cui sono vittime dei settori considerevoli della società non appartenenti al proletariato. Ma accordare un’attenzione non vuole dire considerare tutte queste manifestazioni di violenza sociale come lotte del proletariato o che queste manifestazioni abbiano una qualunque potenzialità di mettere in discussione lo sfruttamento capitalista. In realtà, questa maniera di porre il problema da parte di BC è una maniera di evitare i veri problemi. D’altra parte il problema non è tanto sociologico, ma riguarda piuttosto le modalità della lotta. Anche se i partecipanti agli scontri fossero stati tutti proletari doc – e non lo sono - questo non avrebbe spostato il giudizio su queste lotte di un’acca perché è il loro contenuto cieco, privo di ogni prospettiva, l’avanzare sotto la spinta della rabbia contro tutto e non di un proposito di lottare per qualcosa, che fa la differenza.
Battaglia, assieme alle altre componenti del BIPR, insiste molto sulla necessità della costruzione del partito. Anche la CCI considera che il partito è un organo indispensabile per la classe (altrimenti, la CCI non consacrerebbe tanti sforzi alla questione dell’organizzazione nelle sue discussioni e negli articoli della sua stampa). Tuttavia, vi è una tendenza nel BIPR (che ritroviamo anche nelle formazioni bordighiste) a fare della necessità del partito LA QUESTIONE n°1 (quando non si tratta della SOLA QUESTIONE) quando si tratta di tirare le lezioni di una qualunque situazione con la quale sia confrontata la classe operaia. Per quanto ci riguarda su questa questione noi ci ispiriamo molto più agli scritti di Marx o di Lenin i quali non ritenevano necessario concludere ognuno dei loro articoli con «occorre il Partito» o con la frase «se il Partito fosse stato presente, le cose sarebbero andate in maniera diversa».
Ed è appunto a proposito di questa ultima maniera di porre il problema a proposito dei moti in Francia che noi non siamo per niente d’accordo con BC. In effetti BC dice che la presenza del partito all’interno di questi movimenti avrebbe potuto imprimergli una dinamica diversa. In realtà, il partito non è un omino con il flauto magico che si porta dietro dei sorci senza anima, ma l’avanguardia che agisce all’interno della classe e che ha una efficacia nel suo intervento maggiore o minore in funzione della diversa maturità con cui si presenta il movimento della classe. Ora, i rivoltosi francesi, per bocca dello stesso BIPR, avevano una consapevolezza pressoché nulla di quello che facevano[7] [14], per cui strombazzare che il partito risolve tutto è un modo per tranquillizzare la propria coscienza e basta.[8] [15] Ma tant’è, visto tanto parlare di partito, ci chiediamo allora cosa avrebbero percepito i rivoltosi francesi da questo PCInt se fosse stato presente in Francia, come avrebbero interpretato questi messaggi contraddittori l’uno rispetto all’altro. E, per non andare troppo lontano, gli stessi frequentatori del forum di Battaglia lo sanno che la stessa organizzazione (il BIPR) in Italia prende una posizione e in Gran Bretagna o in Francia ne prende un’altra[9] [16]? Alla fine vogliamo porre una domanda esplicita a Battaglia e al BIPR: secondo voi qual è il messaggio da dare agli elementi influenzati dai moti in Francia, tentati dagli scontri di piazza. Che dire: andate e partecipate all’incendio e alla distruzione di tutto quello che trovate in giro, oppure andate e portate le parole d’ordine rivoluzionarie, o cos’altro ancora? E agli stessi lavoratori italiani o inglesi o francesi cosa diciamo: prendete la benzina e andate a bruciare le scuole e le macchine o cosa altro? E sì perché, mentre dalla presa di posizione del BIPR (ma che sembra difesa realmente solo dalla CWO e dalla sezione francese), “queste rivolte non hanno alcuna prospettiva per la classe operaia” o ancora “non hanno attualmente alcun contenuto politico di classe”, da quello che dice Battaglia nel suo forum o nella sua presa di posizione “italiana”, “Siamo dinnanzi ad un fatto epocale. (…) Questa è la nostra classe che sta reagendo alle sue spaventose condizioni di esistenza e lo fa con gli strumenti che ha a disposizione... benzina, bande giovanili, scontri notturni.”; “La rivolta della periferia parigina è l’espressione del conflitto sociale di un settore del proletariato che in questi ultimi anni è cresciuto enormemente”.[10] [17] Naturalmente torneremo presto sull’argomento perché queste contraddizioni all’interno del BIPR, se mostrano nell’immediato la completa incapacità di questa formazione a costituire un chiaro e coerente punto di riferimento rivoluzionario (figuriamoci di partito!!) all’interno di una qualunque situazione sociale, nascondono ancora ulteriori pesanti scivoloni sul piano programmatico, segnatamente sulla questione della natura della classe e della lotta di classe, che esprimono una pericolosissima deriva che può portare Battaglia ad abbandonare progressivamente il marxismo. Ma di questo ci occuperemo prossimamente.
4 dicembre 2005
Ezechiele
[1] [18] Si tratta dei testi: “Tumulti nelle periferie francesi: di fronte alla disperazione, solo la lotta di classe porta all’avvenire”, pubblicato sul nostro sito web, e di “Francia: la borghesia utilizza gli scontri nelle periferie contro la classe operaia”, pubblicato, oltre che sul web, sul n° 143 del nostro giornale.
[2] [19] BIPR: Bureau Internazionale per il Partito Rivoluzionario, organizzazione internazionale che raggruppa Battaglia Comunista in Italia, la Communist Workers Organisation in Gran Bretagna, Bilan et Perspectives in Francia, Internationalist Notes nell’America del nord e Circulo Comunista Internacionalista in America del sud.
[3] [20] In occasione di una loro riunione pubblica a Napoli.
[4] [21] Al forum si può accedere tramite il sito di Battaglia che è: www.internazionalisti.org [22]
[5] [23] Che 84 è lo pseudomino che si è dato uno dei compagni che frequenta il forum di Battaglia Comunista.
[6] [24] “Sulla rivolta parigina”, testo pubblicato sul sito di BC il 25/11/05.
[7] [25] “Violenza che è sembrata fine a se stessa, non avendo il movimento dei rivoltosi dichiarato alcun obiettivo da raggiungere né di tipo economico né tanto meno di tipo politico. Una sommossa proletaria, nella sua componente sociologica, che si è espressa con le caratteristiche tipiche delle rivolte sottoproletarie. Che la rivolta assumesse queste caratteristiche è la logica conseguenza del totale disarmo ideologico subito dal proletariato in questi decenni. Un disarmo così profondo tale da non far percepire ai diversi settori del proletariato la coscienza di appartenere ad un’unica classe sociale” (BC, Sulla rivolta parigina).
[8] [26] Per tutto il Medio Evo, gli alchimisti hanno cercato invano la «Pietra filosofale » che avrebbe permesso loro di trasformare il piombo in oro. E’ solo quando la borghesia ha stabilito il suo dominio sulla società e il capitalismo ha trionfato sugli altri modi di produzione che la chimica (come le altre scienze naturali) è divenuta una disciplina razionale e non più mistica. La scienza è stata allora capace di compiere dei prodigi ben superiori a quelli che prevedevano gli alchimisti. Ma essa ha rinunciato a voler trasformare il piombo in oro. Evidentemente BC (con i vari epigoni della Sinistra italiana) non ha tirato ancora questa lezione della storia. Chiusa nel suo misticismo, essa confonde chimica con alchimia e sogna ancora la Pietra filosofale, il PARTITO, che potrebbe trasformare il piombo in oro.
[9] [27] Per quanto riguarda le altre sedicenti sezioni del BIPR, quella nord-americana e quella sud-americana, sembra che la cosa non riguardi loro visto che sul sito non è comparsa la minima ombra di posizione sugli avvenimenti francesi.
[10] [28] Noi non svilupperemo qui una questione molto semplice che BC non pone ma che vale la pena d’essere posta (come l’ha fatto la CCI nelle sue prese di posizione), ovvero quale sia il settore della società che ha tirato i maggiori vantaggi dai moti ciechi di ottobre-novembre in Francia. La risposta è altrettanto semplice: non è certamente la classe operaia, la quale deve fare i conti con:
a) una distrazione rispetto alle sue lotte;
b) il rafforzamento delle misure contro gli operai immigrati e un’intensificazione delle campagne xenofobe (con il suo corrispondente “di sinistra” e “democratico” sui “diritti degli immigrati”, la necessità di avere più lavoratori “sociali”, sulla denuncia del “liberalismo”, che hanno tutti per obiettivo quello di fare appello a un “buon capitalismo”);
c) un rafforzamento della repressione e delle campagne sull’ordine pubblico (in seguito ai moti, la borghesia ha fatto accettare senza difficoltà l’applicazione dello stato d’emergenza: domani, sarà molto più facile fare appello a una tale misura di fronte a delle vere lotte operaie.
Le vere lotte su un terreno di classe, anche quando vengono sconfitte, possono costituire una esperienza produttiva (anche per i proletari che non vi hanno partecipato direttamente) in termini di solidarietà, di rafforzamento della fiducia in sé, della comprensione delle trappole tese dalla borghesia e delle manovre sindacali. Invece, niente di tutto ciò dagli ultimi moti. D’altra parte è proprio per questo che il black-out che normalmente accompagna le lotte operaie importanti nella stampa internazionale ha lasciato il posto ad un vero scatenamento mediatico sulle sommosse e sugli incendi.
Sono ormai più di due anni che l’esercito americano ha preso il controllo dell’Iraq. E sono ugualmente più di due anni che il caos si sviluppa implacabilmente su tutto il paese. Circa 120.000 morti nella popolazione, 2000 soldati americani uccisi e 18.000 feriti, senza contare le distruzioni di abitazioni o di edifici pubblici: l’Iraq conosce una delle peggiori situazioni della sua storia, dopo la II Guerra mondiale e la guerra contro l’Iran. Ma, oltre alle devastazioni che si abbattono sugli Iracheni, questa guerra ha per effetto di attizzare ulteriormente le tensioni imperialiste di piccoli e grandi paesi, ed è l’insieme del Medio e vicino Oriente che è entrato irrimediabilmente in un periodo di instabilità più esplosiva che mai. Il triplo attentato di Amman in Giordania, che era stata finora risparmiata, ha segnato in maniera chiara la dinamica attuale di estensione di questa instabilità.
L’intervento americano ha così aperto la via ad una fase di accelerazione verso la barbarie militare, verso l’aggravarsi di tutti i conflitti aperti o latenti in una regione da sempre piena di pericoli.
La situazione dell’Iraq è quella di un paese devastato, in pieno marasma economico e sociale e in una situazione da vigilia di guerra civile. Il “nuovo Iraq” “prospero” e “democratico” annunciato dall’amministrazione Bush, è una rovina. La guerriglia permanente contro le forze di occupazione e la continuazione dei molteplici attentati perpetrati ignobilmente contro i civili iracheni, rendono completamente illusoria ogni idea di ricostruzione. Inoltre le divisioni tra cricche sunnite, sciite e curde, che prendono in ostaggio popolazioni provate e scombussolate, si sono violentemente acuite. E’ questo che si può prevedere per lo stato iracheno, attraversato come è dalle peggiori lacerazioni. Al nord, i Sunniti e i vecchi baasisti, sostenuti attivamente dalla Siria, fanno una continua pressione sui Curdi attraverso assassini allo scopo di cacciarli verso i confini della Turchia e dell’Iran. A Bagdad e al sud predominano invece le lotte tra frazioni sciite e sunnite. Omicidi, attentati e minacce sono il destino quotidiano delle relazioni tra queste due frazioni che si straziano reciprocamente per il controllo del potere.
Una tale situazione non poteva che aumentare gli appetiti imperialisti dell’Iran e della Siria. Quest’ultima fa già da base arretrata ai terroristi sunniti e ad altri ex-uomini di fiducia di Saddam Hussein, marcando così la sua volontà di intervenire in difesa dei suoi interessi nella mischia irachena. Un tale contesto, con la sua recente esclusione dall’altopiano del Golan, una delle sue rivendicazioni territoriali fondamentali, non ha potuto che attizzare ancora di più le sue velleità guerriere in direzione dell’Iraq.
Per quanto riguarda l’Iran, che gioca a braccio di ferro con gli Stati Uniti e i paesi europei sulla questione della costituzione di un armamento nucleare, il marasma esistente in Iraq e la posizione di forza degli Sciiti nel governo, in particolare nelle forze di sicurezza, è una vera fortuna. Esiste, sul breve periodo per lo Stato iraniano, una via aperta verso un’influenza determinante e preponderante in tutto il vicino Oriente e il rafforzamento di una posizione strategica sul Golfo Persico e le zone petrolifere. E’ questa prospettiva che lo spinge ad andare impettito di fronte alle grandi potenze; d’altra parte il ritorno in forze della frazione più retrograda e di “duri” del regime annunciano un’involuzione verso uno stato di guerra.
L’esodo delle popolazioni curde che si avviano verso il nord costituisce a sua volta un ulteriore fattore di instabilità di questa regione dell’Iraq che aveva conosciuto, nonostante la guerra, una calma relativa.
Infine, l’attentato che si è prodotto nel cuore di Amman e che tutta la borghesia internazionale si è affrettata a “denunciare”, è venuto a ricordarci che non un territorio, non una sola regione saranno risparmiati dalle forze distruttrici messe in moto in questo momento. Questo attentato-suicidio è tanto più significativo per il fatto che esso colpisce, attraverso la Giordania, gli interessi americani e fanno un legame diretto tra la questione dell’Iraq e quella del conflitto israelo-palestinese. Questo piccolo paese ha giocato in effetti un ruolo tampone determinante tra Israele e i gruppi palestinesi, l’OLP in particolare, che esso ha ospitato fino ai dirottamenti aerei dell’inizio degli anni ‘70, per conto dell’imperialismo americano. Si tratta dunque di un indefettibile alleato degli Stati Uniti e della Gran Bretagna che è attualmente sotto il fuoco dei terroristi, così come l’Arabia Saudita che subisce, a partire dall’ultima guerra in Iraq, gli attacchi ripetuti dei membri di Al Qaida.
Così, basta guardare una carta geografica per comprendere l’estensione del disastro che si sviluppa nel vicino e nel Medio Oriente.
In questa situazione occorre ancora prendere in considerazione la scalata guerriera portata avanti da Sharon che non può che portare ad un aggravamento delle tensioni con i Palestinesi e i diversi gruppi armati come Hamas, ma anche tra quest’ultimo e Al Fatah. Inoltre, la politica guerriera d’Israele, propinata sotto la maschera di un disimpegno dalla striscia di Gaza che è destinata a trasformarsi in un enorme ghetto, ha per obiettivo di controllare meglio e di attaccare il territorio della Cisgiordania, regione strategica importante per Tel-Aviv, ma anche, dietro a ciò, di dispiegare più mezzi in direzione del Libano.
In questa situazione è chiaro che l’amministrazione americana prova le più grandi difficoltà per continuare a giustificare il suo intervento e il mantenimento della sua presenza militare in Iraq. Quella della lotta contro il terrorismo ha fatto il suo tempo, nella misura in cui l’ondata di attentati non è mai rifluita, né in Iraq in presenza della prima potenza mondiale, né nel resto del pianeta. E piuttosto che l’instaurazione della “democrazia” e della “pace”, è il caos che regna sovrano. E’ per questo che l’amministrazione Bush si trova presa tra il fuoco delle critiche che subisce da parte dei suoi avversari all’interno della “comunità internazionale”, Francia e Germania in testa, e di quelle provenienti dalla stessa borghesia americana. Oltre ai democratici, sono gli stessi elettori di Bush, quelli del partito repubblicano, che cominciano a recalcitrare di fronte all’impopolarità crescente della politica guerriera americana. Il calo di popolarità di Bush negli Stati Uniti, i dibattiti che si sono aperti al Senato, a maggioranza repubblicana, sulla necessità per l’America di cominciare a ritirare le sue truppe dall’Iraq dal 2006, o ancora sulla questione della tortura di prigionieri di Guantanamo, le manipolazioni ormai accertate sulle prove fabbricate sull’esistenza di armi di distruzione di massa in Iraq, mostrano l’impasse nella quale si trova attualmente la borghesia d’oltre oceano.
La logica dell’occupazione si trova un giorno dopo l’altro ridotta a niente.
E, malgrado certi tentativi di dimostrazione della forza militare, che si è potuta vedere ad esempio attraverso l’offensiva di settembre contro i bastioni ribelli del nord dell’Iraq, l’impotenza degli Stati Uniti in Iraq è sempre più manifesta.
Così il Pentagono viene preso tra due fuochi:
- quello della pressione di una opinione pubblica che esprime la sua inquietudine di fronte all’inutilità dell’operazione militare in Iraq, pressione che lo spinge a partire il più rapidamente possibile;
- quello di una situazione di catastrofe sociale esistente in Iraq che contraddice completamente gli annunci di ripristino della pace e della stabilità “democratica” promesse prima dell’intervento militare e che erano le maggiori giustificazioni dell’intervento stesso.
Questa posizione difficile in cui si trovano gli Stati Uniti non può che far piacere alle potenze che si sono opposte alla guerra in Iraq, in quanto serve loro come base per le loro critiche alla prima potenza mondiale e per giustificare i loro propri intrighi imperialisti sotto il pretesto di offrire i loro buoni uffici. E’ questo che abbiamo visto per esempio in occasione dell’attentato di Amman, dove la Francia, attraverso la voce di Villepin, si è data da fare per proporre il suo aiuto alla Giordania, cercando in realtà di utilizzare questi attentati per invadere il campo degli americani.
Il mondo che la borghesia prepara all’umanità si può misurare alla luce degli orrori che si producono in Iraq e nella regione del Medio Oriente, ma anche nel resto del pianeta, e le sue menzogne sono formulate in ragione dei colpi che questa ci prepara.
L’irrazionale fuga in avanti del capitalismo nel caos e la barbarie guerriera trascina il mondo alla rovina. Solo il rovesciamento e la distruzione di questo sistema potrà permettere di costruire un’altra società, il comunismo.
Mulan (19 novembre)
1. Perché ritornare ad una critica delle posizioni di Cervetto?
Da qualche tempo molti compagni ci scrivono per chiederci cosa pensiamo di Lotta Comunista (LC), quali sono le nostre critiche o ancora come mai la consideriamo un gruppo controrivoluzionario visto che questa “si richiama alla Sinistra Comunista”, “difende le posizioni di Lenin” e “mostra un rigore politico non indifferente”. Si tratta in genere o di compagni simpatizzanti di Lotta Comunista che, pur criticandone degli aspetti, considerano tuttavia questo gruppo come un punto di riferimento o ancora di suoi ex militanti che, pur essendo usciti da LC con divergenze anche importanti sia sul piano organizzativo che di analisi, continuano a fare riferimento alle posizioni storiche di LC, cioè a quelle del suo fondatore, Arrigo Cervetto. Che questa necessità di capire se LC risponde o no alle esigenze della lotta di classe emerga in questo momento, non ci sembra strano. Tutto quello che sta succedendo nel mondo, l’accelerazione storica che stiamo vivendo a tutti i livelli (blocchi imperialisti che scompaiono, pezzi interi di economia che crollano, scontri imperialisti incessanti e devastanti, miseria e precarietà dilagante nel cuore del capitalismo, ecc.), non solo fanno aumentare il disgusto per questa società, ma anche la necessità di avere una chiarezza su tutto questo per capire quale può essere la risposta, in che direzione muoversi. Chiarezza e risposte che, a nostro avviso, non possono venire da un gruppo che in sostanza dice che nulla è cambiato da cento anni a questa parte, e che si limita a fare studi sulla componentistica di questo o quel settore produttivo o a riproporre una visione economicista del mondo, mentre continua la nefasta politica di sostegno (“critico”) al sindacato, una delle più subdole armi della borghesia contro i lavoratori. Questa incapacità di LC a dare una risposta ai problemi che oggi la classe ha di fronte non dipende da un suo venir meno alle posizioni ed alla politica originaria di Cervetto, ma proprio da queste posizioni e da questo metodo che non sono mai stati della Sinistra comunista e nei fatti, come vedremo, neanche dello stesso Lenin.
L’azione politica di LC non si limita però a essere inefficiente per la classe operaia. Proprio perché questo gruppo si fa passare come continuità della tradizione storica del movimento operaio, mentre ne deforma i contenuti e gli insegnamenti, costituisce un ostacolo a quel processo di maturazione politica della classe ed in particolare della nuova generazione di elementi alla ricerca di una prospettiva di classe. Come diceva Lenin nel Che fare? criticando il socialdemocratico Kricevski, uno dei difensori dell’economicismo di Bernstein “… si può immaginare cosa più superficiale di un giudizio su tutta una tendenza basato su ciò che dicono di se stessi coloro che la rappresentano?”.
Per questi motivi riteniamo importante sviluppare, a partire da questo articolo, una critica di fondo di LC che parta dalle origini, cioè dal metodo e dalle posizioni di Cervetto, cogliendone gli aspetti essenziali: costruzione del partito, coscienza di classe, rapporto partito-classe, sindacato. I testi cui faremo principalmente riferimento nella discussione sono i due testi di base di Cervetto “Lotte di classe e partito rivoluzionario” (del 1966) e “Tesi sullo sviluppo imperialistico, durata della fase controrivoluzionaria e sviluppo del partito di classe” (del 1957).
In questo primo articolo vedremo quale partito secondo Cervetto bisogna costruire.
2. Quale partito per la rivoluzione comunista mondiale?
L’opuscolo “Lotte di classe e partito rivoluzionario” si propone, come dice lo stesso Cervetto nella prefazione, “di mettere in chiaro le linee fondamentali della concezione leninista del partito”. La stessa prefazione si conclude con l’affermazione che “La necessità di affrontare il problema del partito rivoluzionario studiando seriamente Lenin è oggi più che mai attuale. La costruzione del partito leninista in Italia incontra sul suo cammino questo passo obbligato” (sottolineato da noi). Questo breve passaggio sulla “costruzione del partito leninista in Italia” è tutto un programma. Infatti, nella misura in cui nell’opera di Cervetto (e di LC dell’epoca) non troviamo riferimenti a processi di costruzione dell’avanguardia in altri paesi del mondo, ci viene da chiederci: perché proprio (e solo) in Italia? Possibile che la costruzione del partito che dovrà guidare la rivoluzione mondiale, della classe operaia mondiale, debba nascere proprio e solo in Italia? Ma vediamo meglio da dove viene fuori questa posizione più volte reiterata da Cervetto e mai smentita da LC. Cervetto spiega, nelle sue Tesi del ’57, che “Dato l’attuale livello del mercato mondiale, per cui vastissime zone sono ancora nella prima fase di costruzione del capitalismo (stiamo parlando del ’57, ndr), non si pone ancora concretamente il problema rivoluzionario dell’avvento dell’economia socialista su scala internazionale. (…) Affinché queste condizioni si presentino concretamente occorre che il settore ad economia arretrata (cioè i 2/3 del mondo secondo Cervetto, ndr) superi tutto il primo stadio dell’industrializzazione. (…) Praticamente il problema della rivoluzione socialista su scala internazionale si presenterà all’ordine del giorno solo quando lo sviluppo economico delle zone arretrate sarà giunto al punto da raggiungere una certa autosufficienza e da non poter più assorbire l’importazione di merci e di capitali provenienti dalle potenze imperialiste”. “E’ quindi nel quadro di una valutazione d’ordine internazionale che la Sinistra Comunista deve delineare una propria azione politica” e dove? In Italia naturalmente, visto che “il programma di azione della Sinistra Comunista” sta essenzialmente in tre punti: analizzare la situazione italiana da cui deriva “la tattica verso il PCI” (1) di “lotta contro la direzione del PCI”; “organizzare una propria corrente sindacale nella CGIL” conducendo “trattative con i compagni anarchici”; “organizzare su scala nazionale tutta una serie di gruppi che dalla base locale si coordinino provincialmente e regionalmente sino a formare comitati provinciali e regionali collegati strettamente con il Centro”.
Tralasciamo la critica alla megalomania di chi identifica la Sinistra Comunista al proprio gruppo se non alla propria persona, quando il movimento operaio con questo termine ha sempre inteso l’insieme delle correnti e dei gruppi usciti dalla III Internazionale, che hanno mantenuto saldi i principi ed il metodo marxista contro la degenerazione o il tradimento dei vecchi partiti operai.
La questione centrale è che, dietro la montagna di parole su metodo leninista, analisi scientifica, scienza della rivoluzione, ecc., c’è una assenza totale di metodo marxista e di visione storica. E’ sorprendente come nei testi di Cervetto non ci sia mai un benché minimo riferimento a come si è posta la questione del partito nel movimento operaio ed a quali sono state le risposte date nelle diverse fasi storiche. Se si vuole usare il metodo marxista, come lo stesso Lenin ha fatto, non si può affrontare la questione del partito se non situandola nel contesto economico e sociale della fase storica in cui ci si trova e facendo riferimento all’esperienza del movimento operaio maturata nelle differenti tappe della lotta di classe. Se il partito è un fattore indispensabile per lo sviluppo rivoluzionario della classe, esso è al tempo stesso un’espressione dello stato reale di questa ad un momento dato della sua storia e delle condizioni oggettive esistenti.
Ora, presentare il capitalismo della fine degli anni 60 come un sistema che deve ancora sviluppare a pieno le proprie potenzialità per cui non sarebbe all’ordine del giorno il suo abbattimento, manifesta una completa incomprensione di cosa è il capitalismo. L’estensione del modo di produzione capitalista a livello globale non è sinonimo di industrializzazione di ogni singolo angolo della terra, ma significa che i meccanismi di produzione e di distribuzione delle merci ed i rapporti di produzione che ne derivano governano l’intera economia mondiale. Ma soprattutto lo sviluppo del capitalismo non può avvenire in maniera omogenea perché il modo di produzione capitalista si basa sulla concorrenza. Questo comporta che, ad un certo stadio del suo sviluppo, quando iniziano a venir meno in maniera consistente i mercati dove il plusvalore inglobato nelle merci deve essere realizzato per poter essere reinvestito in nuovi cicli produttivi, lo sviluppo dei capitali nazionali più forti può avvenire solo a scapito di quelli più deboli. Affermare, come fa LC ancora nel 1995 che “Se a cavallo degli anni ’60 circa i due terzi della popolazione del mondo erano immersi nell’arretratezza, oggi si può stimare che quella condizione riguardi circa un terzo dell’umanità”, significa scambiare il crollo economico di interi paesi (dall’ex Unione sovietica, alle famose “tigri asiatiche” e per ultima l’Argentina), lo smantellamento di intere aree industriali dei paesi avanzati, l’incapacità crescente di integrare nel ciclo produttivo parti significative della forza lavoro - tutti effetti della senilità del capitalismo derivanti dalla sua crisi storica - per manifestazioni di crescita adolescenziale (2).
Tornando dunque all’impostazione di Cervetto va detto che questa è clamorosamente sbagliata su due diversi piani. Sia perché un partito costruito su base nazionale, oggi come oggi, non sarebbe più in grado di rispondere alle esigenze politiche del momento, sia perché l’aspirazione alla dimensione internazionale nel lavoro dei rivoluzionari è stato presente sin dagli albori del movimento operaio. Vediamo cosa ci insegna la storia della nostra classe.
Nel 1848 si costituisce la Lega dei Comunisti, primo vero partito del proletariato moderno, sulla base della parola d’ordine “Proletari di tutti i paesi, unitevi. I proletari non hanno patria” che proclama la sua natura di organizzazione internazionale. Nel 1864 nasce l’Associazione Internazionale dei Lavoratori, la I Internazionale che, fondata a partire dall’iniziativa degli operai della Francia e dell’Inghilterra, raggruppa migliaia di lavoratori dei paesi industrializzati o in via di sviluppo, dall’America alla Russia. Benché il proletariato fosse in piena fase di sviluppo, così come il capitalismo, le due organizzazioni politiche della classe, anche se originatesi in paesi specifici, si pongono immediatamente sul piano internazionale perché, come spiega chiaramente già “Il Manifesto”, l’internazionalismo è non solo una possibilità per la classe operaia, che non ha nessun interesse nazionale da difendere, ma è una necessità che le impone la natura del suo compito rivoluzionario. E tutta la lotta condotta da Marx e dal Consiglio Generale all’interno della I Internazionale contro la visione federalista degli anarchici ha alla base questa comprensione di fondo.
La II Internazionale nasce nel 1889, nella fase di pieno sviluppo del capitalismo in cui il riformismo assume un peso preponderante perché il proletariato può effettivamente lottare per ottenere dei miglioramenti reali e duraturi delle sue condizioni di vita e di lavoro. In questa situazione l’Internazionale è essenzialmente una federazione di partiti nazionali che lottano nei rispettivi paesi con programmi diversi (sul piano del parlamentarismo, del sindacalismo, delle riforme sociali, ecc). La possibilità di una politica per le riforme non solo determina il tipo di organizzazione politica della classe (partiti di massa), ma effettivamente restringe l’orizzonte della lotta proletaria nel quadro nazionale. Eppure anche nella II Internazionale una minoranza, tra cui R. Luxemburg, si batte perché le decisioni prese dai congressi di questa siano applicate dai differenti partiti nei rispettivi paesi.
Come sin dall’inizio del movimento operaio, la prospettiva internazionale è stata sempre presente nelle diverse organizzazioni politiche della classe, ma date le condizioni oggettive di sviluppo del capitalismo e di crescita numerica, politica e sociale del proletariato, in questa fase era possibile e necessaria la formazione di partiti di massa che agissero a livello nazionale per favorire questa crescita perché le battaglie per la giornata lavorativa di 10 ore, per il voto, per il sindacato, i proletari le facevano scontrandosi contro la propria borghesia nazionale.
La prima guerra mondiale del 1914 e l’esplosione della prima ondata internazionale rivoluzionaria il cui punto più alto è la rivoluzione proletaria in Russia nel ’17, mostrano il cambiamento di fase storica avvenuto nello sviluppo del capitalismo: il sistema di produzione capitalistico entra nella sua fase di decadenza e si apre l’epoca delle guerre e delle rivoluzioni nella quale si pone l’alternativa comunismo o barbarie. La III Internazionale (1919), costituitasi intorno alle Frazioni ed alle minoranze di sinistra uscite dalla II Internazionale, tra le quali quella bolscevica, sulla base della comprensione che “Una nuova epoca è nata. Epoca di disgregazione del capitalismo, del suo crollo interno. Epoca della rivoluzione comunista” (1° Congresso), riafferma con fermezza l’internazionalismo proletario concependosi non come federazione di partiti nazionali, ma direttamente come organizzazione politica internazionale del proletariato. E proprio Lenin, all’interno dell’IC, si batterà contro le “particolarità” di alcuni partiti che servivano da paravento per il loro opportunismo e difenderà di fronte a R. Luxemburg la necessità di formare un partito mondiale prima ancora che si consolidassero, o si formassero, in ogni paese i partiti comunisti. Se Lenin, nonostante le difficoltà che il passaggio di epoca storica rappresentava per le avanguardie rivoluzionarie dell’epoca, è stato capace di portare tutta una battaglia, all’interno della socialdemocrazia russa prima e nell’IC dopo, per la costruzione di un partito internazionale e centralizzato, che potesse parlare con una sola voce a tutti i proletari del mondo e dare loro delle indicazioni politiche chiare, è perché Lenin è partito sempre da un’analisi storica e dagli interessi generali e storici del proletariato come classe, rifacendosi di continuo a quanto il movimento operaio aveva espresso e stava esprimendo.
E’ a partire da questi insegnamenti, difesi durante la fase controrivoluzionaria del secondo dopoguerra da esigue minoranze rivoluzionarie, quali Bilan ed Internazionalisme (3), che la nostra organizzazione si è costituita nel 1975 direttamente sul piano internazionale, operando un lavoro di confronto e raggruppamento tra i diversi gruppi e nuclei di compagni sorti in Francia, Gran Bretagna, Italia, USA e Spagna in seguito all’ondata di lotta internazionale della fine degli anni ‘60. Se oggi la CCI è presente in 13 paesi del mondo ed è capace di intervenire simultaneamente verso i proletari di questi paesi e ovunque le sia possibile arrivare, è perché parte dalla convinzione che il quadro internazionale è il punto di partenza per l’attività nazionale piuttosto che un risultato di questa ed a tale scopo si è dotata sin dall’inizio di un organo centrale internazionale che le permette di centralizzare la sua attività e parlare con una sola voce ovunque ed in qualsiasi momento.
Con questo primo articolo abbiamo visto come la visione del partito difesa da Cervetto prescinda completamente dalla dimensione internazionale di questo e, limitandone il concetto al quadro nazionale, si fa debitrice di una visione ottocentesca del partito inadeguata alle esigenze dello scontro rivoluzionario. Ma c’è di più. Come vedremo nel prossimo articolo, il tipo di partito che propone Cervetto, per la sua impostazione e la sua pratica, non solo è inadeguato ai tempi che viviamo, ma è l’espressione di un partito borghese.
Eva 1 dicembre 2005
1. Partito Comunista Italiano, vecchio partito stalinista dalla cui dissoluzione sono nati: Rifondazione Comunista di Bertinotti, i Democratici di Sinistra di Fassino e il Partito dei comunisti italiani di Cossutta e Diliberto.
2. Per l’analisi sulle diverse fasi storiche del capitalismo e sulle conseguenze politiche da esse derivanti, vedi il nostro opuscolo “La decadenza del capitalismo”. Numerosi articoli sulle manifestazioni della crisi economica del capitalismo si trovano sul nostro sito internet in diverse lingue.
3. I compagni della Frazione di Sinistra del PCI in Francia che pubblicavano la rivista “Bilan” e quelli di Internationalisme seppero custodire e sviluppare il patrimonio politico dei vecchi partiti rivoluzionari permettendo alla futura generazione di legarsi a questo filo rosso.
E’ già più o meno un anno che i lavoratori italiani sono bombardati da una campagna elettorale ininterrotta. Come non ricordare le scorse elezioni regionali, e poi le elezioni primarie per “scegliere” il candidato premier per il centrosinistra (si sono inventati anche questo), adesso per le prossime politiche, e già ci hanno promesso che subito dopo bisognerà andare a votare al referendum confermativo della legge costituzionale sulla “devolution”. Insomma non bisogna preoccuparsi, ce ne avremo ancora per un po’. E questo non avviene a caso. Quale che sia l’elezione che abbiamo davanti, perfino le chiaramente inutili elezioni primarie (1), la campagna è sempre la stessa: il popolo “sovrano” è chiamato a scegliere, e lo deve fare bene, e se sbaglia, peggio per lui. Questa è la democrazia! Mica preferireste un altro meccanismo? Magari una bella dittatura che decide tutto lei? Certamente no, e quindi preoccupatevi di partecipare, pensate a chi dovete votare, e, soprattutto, non pensate ad altro. Non pensate ai problemi reali di tutta la classe lavoratrice, che sono quelli di un salario che non basta più ad arrivare alla fine del mese, la precarietà del posto di lavoro, la difficoltà crescente ad assicurarsi una pensione decente, e così via. E meno che mai pensate a poter lottare per difendere le vostre condizioni di vita. Ed infatti le lotte, benché poche e normalmente controllate dai sindacati, sono quasi scomparse dalle pagine dei giornali, perché il messaggio deve essere unico e solo, e cioè quello che abbiamo citato prima.
Non è un caso che al di là delle differenze fra le diverse forze politiche, parlamentari o no, tutte partecipano a questa campagna. Ogni forza invita a votare per sé, naturalmente, ma il messaggio fondamentale è quello di convincere i lavoratori ad andare a votare. In questa attività però sono le forze di sinistra a distinguersi particolarmente, come l’invenzione delle primarie lo dimostra; e questo non fa che confermare il ruolo di queste forze, e cioè quello di essere i migliori mistificatori, nei confronti della classe operaia, rispetto a quello che è questa società. E con che raffinatezza di mistificazioni: chi non ha sentito dire che bisognava andare a votare alle primarie per Bertinotti, perché anche se era chiaro che lui non poteva mai essere il candidato premier del centrosinistra “il numero di voti che avrebbe ricevuto avrebbe poi ‘condizionato a sinistra’ il programma di governo”; e che dire della candidatura di un illustre sconosciuto, come Scalfarotto, che stava lì solo per dare maggiore credibilità alla farsa; ed infine che dire della presenza perfino di un candidato dei no-global, che ha segnato in maniera definitiva la collocazione di questi ex estremisti e disobbedienti nell’arco delle forze istituzionali.
Come non essere colpiti da questa unità così larga? Come non dedurre da questo che la mistificazione elettorale costituisce per la borghesia un potente strumento di distrazione e di freno per la classe operaia, per la sua riflessione autonoma, per le sue lotte? E non costituisce invece per niente un terreno che la classe operaia può utilizzare per difendere i suoi interessi.
E la conferma la troviamo se andiamo a vedere quello che è accaduto in altri paesi a noi vicini: la Francia, che per più di tre mesi, questa primavera, è stata bloccata intorno alla “vitale” questione del referendum sulla costituzione europea, con la sinistra che invitava a votare NO perché “si tratta di una costituzione liberale” e che ha gridato alla “grande vittoria” quando il NO ha prevalso (come se ai proletari francesi fosse entrato qualcosa in tasca); la Germania che ha appena superato un periodo di elezioni anticipate, volute da Schroeder perché il piano di austerità di cui ha bisogno il capitale tedesco richiedeva un governo più forte per farlo passare (e guarda un po’ dalle elezioni è uscito un governo di grande coalizione), nonché di un periodo di camomilla elettorale per non far riflettere gli operai su quello che si stava preparando (praticamente lo smantellamento dello stato sociale, l’aumento dell’IVA, e quindi dei prezzi, e altre misure che colpiscono tutte le tasche dei lavoratori). Insomma, l’uso delle elezioni come arma di avvelenamento ideologico per il proletariato e di distrazione dal terreno delle lotte è una strategia che la borghesia usa coscientemente a livello internazionale, a dimostrazione dell’importanza che essa dà a questa arma di mistificazione.
Va detto che non è stato sempre così. Nel 19° secolo gli operai lottavano e si facevano uccidere per ottenere il suffragio universale. oggi, al contrario, sono i governi e tutti i partiti che mobilitano tutti i mezzi di cui dispongono perché il massimo di cittadini vadano a votare.
Perché? Durante il periodo di ascendenza del capitalismo i Parlamenti rappresentavano il luogo per eccellenza in cui le differenti frazioni della borghesia si affrontavano o si univano per difendere i loro interessi. Nonostante i pericoli e le illusioni che questo poteva trascinare, i lavoratori, in un periodo in cui la rivoluzione proletaria non era ancora all’ordine del giorno, avevano interesse ad intervenire in questi scontri tra frazioni borghesi e, eventualmente, sostenere certe frazioni borghesi contro altre, al fine di migliorare la loro collocazione nel sistema. E’ così che gli operai in Inghilterra hanno ottenuto la riduzione a 10 ore della loro giornata di lavoro nel 1848, che i diritti sindacali siano stati riconosciuti in Francia nel 1884, e così via.
Ma la situazione è diventata completamente diversa dall’inizio del 20° secolo. Il capitalismo è entrato nella sua fase di crisi permanente e di declino irreversibile. Il capitalismo ha conquistato il pianeta e la divisione del mondo tra le grandi potenze è terminato. Ogni potenza imperialista non può appropriarsi di nuovi mercati se non a spese delle altre. Si apre così l’era delle “guerre e delle rivoluzioni”, come affermò l’Internazionale Comunista nel 1919, un’era segnata dai terremoti economici, come la crisi del 1929, dalle due guerre mondiali e dall’irruzione rivoluzionaria del proletariato nel 1917-23 in Russia, Germania, Ungheria, Italia.
Per far fronte alle sue crescenti difficoltà il capitale è costretto a rafforzare costantemente il potere del suo Stato. Sempre più lo Stato tende a rendersi il regolatore dell’insieme della vita sociale e, in primo luogo, nel dominio economico. Questa evoluzione del ruolo dello Stato si accompagna ad un indebolimento del ruolo dell’apparato legislativo in favore dell’esecutivo. Come l’affermò il secondo Congresso dell’Internazionale Comunista:”il centro di gravità della vita politica attuale è completamente e definitivamente uscito dal Parlamento.”
Per i lavoratori non si tratta più di arrangiarsi un posto nel capitalismo ma di rovesciarlo nella misura in cui questo sistema non è più capace di concedere né delle riforme durevoli, né dei miglioramenti nelle loro condizioni.
Per la borghesia il Parlamento è diventato tutt’al più una camera di registrazioni di decisioni prese altrove.
Resta invece determinante il ruolo ideologico dell’elettoralismo. Questa funzione mistificatrice dell’istituzione parlamentare esisteva anche nel 19° secolo, ma era di secondo piano, veniva dopo la sua funzione politica. Oggi, la mistificazione è la sola funzione che resta per la borghesia: essa ha per scopo di far credere che la democrazia è il bene più prezioso, che l’espressione della sovranità del popolo è la libertà di scegliere i propri sfruttatori.
Così non c’è scampo: anche nei prossimi mesi saremo bombardati da queste campagne, tanto più forti perché il governo Berlusconi ha governato così male che i proletari saranno convinti ad andare a votare per liberarsene, per cambiare governo e, quindi, politica. Invece non cambierà nessuna politica, perché, come ha detto il presidente della Camera, Casini (evidentemente portato ad usare un linguaggio di verità vista la probabile sconfitta della sua coalizione): “bisogna finirla con le illusioni e gli illusionismi, viviamo al disopra delle nostre possibilità, bisogna stringere la cinghia”, e questo vale qualsiasi sia la coalizione che vincerà le elezioni, perché ognuna delle forze in campo difende solo gli interessi del capitale. Ed il capitale oggi è un malato in fase terminale, e quello italiano in fase ancora più avanzata, con la competitività ai minimi storici, con un deficit e un debito pubblico che spingeranno il prossimo governo a chiederci di “stringere la cinghia”.
Perciò prima ci liberiamo delle illusioni sulle elezioni, prima cominceremo a imboccare la sola strada che può portare al riscatto dei lavoratori: quella delle loro lotte autonome e di massa.
Helios
1. Chiaramente inutili non solo perché l‘esito era scontato, ma perché oggi come oggi solo Prodi costituisce un punto di equilibrio per la coalizione di centrosinistra e quindi nei fatti l’unico candidato vero a questo incarico.
Mentre le campagne ideologiche della borghesia, che ci martellano da sedici anni, continuano a dirci che la classe operaia è una classe moribonda, che la sua lotta appartiene ad un passato ormai finito, la realtà si incarica di dimostrare che il proletariato è ben vivo e che non ha altra scelta che sviluppare la sua lotta dappertutto nel mondo.
La combattività e l’inizio di una solidarietà operaia si sono già manifestate in Europa con lo sciopero all’aeroporto londinese di Heathrow questa estate (vedi articolo in Rivoluzione Internazionale 142). La paura di una larga mobilitazione operaia ha spinto il governo Blair a ritirare una parte dell’attacco sulle pensioni nel settore pubblico destinato a decurtare le pensioni facendo passare progressivamente da 60 a 65 anni, tra il 2006 ed il 2013, l’età pensionistica. Tuttavia l’accordo concluso con i sindacati prevede che dal 2006 i nuovi lavoratori assunti nella sanità, nell’educazione ed il personale dell’amministrazione centrale saranno sottomessi a questo attacco. Dopo lo sciopero nazionale del 4 ottobre in Francia che ha portato in strada più di un milione di lavoratori, indetto da tutti i sindacati per far sfogare il malcontento sociale, il 7 ottobre in Belgio il sindacato “socialista” FGTB ottiene una forte mobilitazione che paralizza gran parte dell’attività economica del paese. La preoccupazione è quella di incanalare la protesta contro il governo che inizia a far passare un nuovo attacco sulla Sicurezza sociale e porta da 58 a 60 anni l’età richiesta per richiedere una pensione. E il 28 ottobre le due grandi centrali sindacali del paese, insieme, chiamano ad una nuova mobilitazione generale per la prima volta dopo 12 anni.
Negli Stati Uniti lo sciopero di 18.500 meccanici di Boeing, votato dall’86% all’appello dell’IAM (International Association of Machinist and Aerospace Workers), dura dal 2 al 29 settembre (lo sciopero precedente in questo stesso settore nel 1995 fu fatto lentamente usurare per 69 giorni prima di concludersi con una pesante sconfitta). Gli operai hanno di nuovo rifiutato il contratto collettivo proposto dalla direzione che in particolare voleva abbassare il tasso di valorizzazione annuale delle pensioni in rapporto ai due anni precedenti, mentre le quote per la copertura sociale sono più che triplicate dal 1995 e la direzione si è ben guardata dal dare la minima garanzia sulla sicurezza del posto di lavoro. La collera è stata ancora più forte perché intanto i profitti dell’impresa sono triplicati negli ultimi 3 anni. L’impresa mirava anche ad ottenere una diminuzione dei rimborsi per le spese mediche imponendo la soppressione di ogni copertura medica nel periodo di pensionamento per i nuovi contratti di impiego. Gli operai hanno rifiutato nettamente questa manovra di divisione tra “nuovi” e “anziani”, tra giovani e vecchi. Si sono anche opposti al tentativo della direzione di contrapporre gli interessi tra gli operai attraverso la proposta di introdurre delle misure differenti tra le tre grandi fabbriche di produzione (quella di Wichita nel Kansas si trova sfavorita rispetto a quella di Seattle, nello Stato di Washington, o quella di Portland nell’Oregon), ed hanno preteso che le proposte fossero le stesse per tutti i meccanici. Alla fine la direzione ha accettato di versare dei premi eccezionali ai salariati, di non toccare per il momento i rimborsi e le pensioni, ma come contropartita gli operai hanno visto ridursi la valorizzazione dei loro salari ed hanno dovuto accettare degli aumenti sulle quote per le prestazioni sociali. Ma la cosa che colpisce è il black-out quasi totale che ha circondato questo sciopero, in particolare in Europa. Lo scopo è stato impedire che la classe operaia di qui prendesse coscienza che c’è una classe operaia sfruttata e che lotta, anche negli Stati Uniti, per difendere i propri interessi di classe.
Allo stesso modo, gli scioperi che ci sono stati tra giugno ed agosto in Argentina non hanno avuto alcuna pubblicità in Europa, contrariamente a tutto il battage orchestrato intorno alla rivolta sociale del 2001 intrisa di interclassismo (vedi in particolare gli articoli della Revue Internazionale 109, del 2002 117 e 119 del 2004). Le lotte dell’estate scorsa costituiscono l’ondata di lotta più importante da 15 anni ad oggi, in particolare nella regione industriale di Cordoba. Questa ha toccato gli ospedali, le fabbriche di prodotti alimentari, catene di supermercati, i lavoratori della metropolitana di Buenos Aires, i lavoratori della municipalità di diverse province. Nel corso di queste lotte gli operai hanno chiaramente espresso in diverse circostanze la volontà di cercare solidarietà. Nella metropolitana della capitale tutto il personale ha spontaneamente fermato il lavoro dopo la morte accidentale di due operai della manutenzione. Nella provincia di Santa Cruz, al sud del paese, lo sciopero degli impiegati municipali ha coinvolto la presenza massiccia di operai di altri settori e della maggioranza della popolazione. A Caleta Olivia anche gli operai del settore petrolifero si sono messi in sciopero al loro fianco per delle rivendicazioni salariali simili. A Neuquen gli operai dei servizi della sanità si sono uniti spontaneamente ad una manifestazione di professori delle scuole e sono stati confrontati ad una forte repressione poliziesca. La reazione della borghesia è stata estremamente brutale. Gli operai del centro ospedaliero pediatrico di Garrahan, che invece di reclamare aumenti salariali proporzionali ad ogni categoria professionale hanno preteso un aumento uguale per tutti, sono stati oggetto di una campagna di denigrazione di una violenza inaudita. Sono stati presentati come dei “terroristi” capaci di far morire dei bambini per la difesa dei propri interessi particolari e sono stati deliberatamente esclusi da ogni negoziazione. Inoltre i piqueteros dell’estrema sinistra del capitale gli si sono appiccicati alle sottane per comprometterli nelle loro impopolari azioni di commando. Attraverso questa repressione, il successo di queste manovre e la messa in avanti del prossimo circo elettorale, questa ondata di lotte è poi nettamente rifluita. Ma ha confermato che il proletariato addirizza dappertutto la testa e si afferma come una classe in lotta. Abbiamo già ricordato nella nostra stampa lo sciopero degli operai della Honda in India o quello nelle miniere di oro in Africa del sud (vedi Revolution Internazionale n° 360, di settembre, e n° 361, di ottobre). Ma un altro esempio edificante ci viene dalla Cina, a proposito della quale persiste ancora la grande menzogna e la vasta truffa ideologica “di un regime comunista”. Un ONG di Hong Kong ha recensito non meno di 57.000 conflitti del lavoro nel 2004 implicanti 3 milioni di salariati, che hanno investito il settore privato e non più solamente le fabbriche di Stato come negli anni ’90.
Malgrado tutti i limiti ancora presenti ed il moltiplicarsi delle manovre sindacali per sabotarle, le lotte operaie non appartengono ad un passato ormai finito.
No, la classe operaia non è morta! Essa non ha altra scelta che battersi e nello sviluppo delle sue lotte porta più che mai il solo futuro possibile per tutta l’umanità.
W (22 ottobre 2005)
Sei mesi fa, il 2 maggio 2005, moriva a Milano il compagno di Battaglia Comunista Mauro Stefanini jr. Se noi oggi torniamo a rendere omaggio alla memoria del compagno, dopo averlo fatto sulla nostra stampa e di persona in occasione della cerimonia di commemorazione svoltasi alla Calusca di Milano il 28 maggio scorso, è perché una militanza politica spesa per la causa del proletariato non è una qualsivoglia attività altruistica e generosa che si compie in qualche ritaglio di tempo libero, ma è un’attività nobile e appassionante che permea completamente la vita di un militante e che costituisce un patrimonio per l’organizzazione di appartenenza e per tutto il movimento operaio. E Mauro era un militante nobile e appassionato. La lettera (1) scritta dalla sua compagna Franca ai militanti del partito ci conferma dei tratti che noi conoscevamo bene, ma ci piace riportare alcuni passaggi di questa lettera perché pensiamo che esprimano bene lo spessore umano del compagno. Anzitutto Franca ricorda che Mauro “era quasi immune dalle sindromi depressive che ci affliggono a seguito di delusioni, risaliva sempre velocemente la china e ciò faceva di lui una persona giovane”. Questa qualità, secondo il comune modo di pensare, sarebbe il semplice risultato di innate inclinazioni personali, per cui quasi per caso taluni sarebbero più ottimisti, mentre talaltri più tendenti alla depressione. Ora, fermo restando il peso esercitato da questa società che spinge tutti verso la depressione, per un militante comunista tenere la rotta senza farsi travolgere dalle “delusioni” e difficoltà del momento non è una semplice questione di natura caratteriale, ma è il risultato di una fiducia che il militante matura, all’interno della propria organizzazione, nei confronti della classe operaia e del suo destino storico. Come recita il Manifesto di Marx ed Engels, i rivoluzionari sono gli elementi della classe che, attraverso un processo eterogeneo di maturazione della coscienza all’interno del proletariato, arrivano per primi a “comprendere le condizioni, l’andamento e i risultati generali del movimento proletario”. Questo vantaggio dà loro una forza incredibile, e Mauro, bisogna dirlo, aveva una grande forza, sorretto da una convinzione che gli era stata trasmessa dai genitori, e particolarmente dal padre, Luciano (detto Mauro, da cui Mauro jr per il figlio), militante della Frazione italiana. (2)
Successivamente la compagna Franca fa cenno alla grande passione di Mauro per i viaggi: “Viaggiare era per lui un modo naturale e completo di esistere (…). Nel viaggio c’era sempre l’obiettivo della visita a un compagno, la ricerca di una libreria per il nostro materiale politico e il godimento delle bellezze artistiche e paesaggistiche”. In queste poche parole c’è tutto il Mauro che conosciamo. Un compagno con cui abbiamo discusso e polemizzato infinite volte nelle decine di anni di conoscenza, frequentazione e confronto politico, ma che al tempo stesso aveva ben chiara la necessità di non rimanere chiusi su sé stessi ma di aprirsi all’esterno per conquistare alla causa nuove risorse militanti. Da questo punto di vista gli abbiamo visto giocare, all’interno di Battaglia Comunista e del BIPR, un ruolo pionieristico verso nuove aree politiche e/o geografiche che un’organizzazione deve necessariamente svolgere se vuole avere un futuro. Era lui in Battaglia il “ministro degli esteri”, il compagno che tesseva rapporti con nuovi compagni, soprattutto all’estero, era lui che era stato recentemente il promotore di una serie di riunioni pubbliche tenute da Battaglia in varie città d’Europa (Berlino, Parigi, …). Ancora una volta non si tratta semplicemente di amore per i viaggi, che può essere condiviso da qualunque altra persona ma, come giustamente precisa la compagna Franca, di sfruttare ogni occasione per “la visita a un compagno, la ricerca di una libreria per il nostro materiale politico”, e questa è proprio l’espressione dello spirito militante che impregna un compagno pienamente cosciente della responsabilità di costruire il “partito” e di trasmettere l’esperienza politica accumulata alle nuove generazioni. Le parole di Franca ci evocano ancora un altro ricordo di Mauro, la sua passione per Napoli che lui, da settentrionale, amava moltissimo, e che rimirava con grande interesse ogni volta che aveva l’occasione di venire in questa città per una riunione pubblica o altro. Una volta, ritornando da una riunione pubblica di BC tenuta in questa città, si fermò letteralmente per strada, preso dalla bellezza di piazza del Gesù, rivolgendo ai compagni della CCI di Napoli le felicitazioni per la città in cui vivevano. Ecco, Mauro era anche questo.
Ma c’è anche il Mauro delle polemiche, a volte molto aspre, tra Battaglia Comunista e la CCI, ed essendo Mauro uno dei membri del Comitato Esecutivo della sua organizzazione dal 1970, praticamente tutta la storia delle relazioni tra i nostri due gruppi si è concretizzata attraverso dei rapporti tra militanti di organizzazioni diverse in cui, come rappresentante di BC, Mauro era praticamente sempre presente. Questi rapporti sono stati a volte costruttivi e incoraggianti, come nella prima fase delle conferenze internazionali della seconda metà degli anni ’70 o in occasione delle lotte dei lavoratori della scuola della seconda metà degli anni ’80, quando dei nostri militanti si sono ritrovati a lottare fianco a fianco con Mauro per perseguire gli stessi obiettivi, a volte meno fino a divenire molto difficili, come alla fine delle stesse conferenze internazionali (3) quando Battaglia decide di liberarsi della nostra presenza politica con il pretesto che noi avremmo avuto una posizione debole sulla questione del partito o, ancora nell’ottobre dello scorso anno, quando Battaglia e tutto il BIPR, ritenendo di poter dare credito a degli individui senza scrupoli che hanno fatto credere loro le peggiori nefandezze sul nostro conto, si sono fatti loro stessi veicolo di una propaganda oscena di denigrazione nei confronti della nostra organizzazione. E’ evidente che non è questo l’ambito in cui possiamo sviluppare i motivi che sono stati alla base di questi scontri, che noi abbiamo sempre attribuito all’opportunismo innato di Battaglia Comunista (4) - che le proviene a sua volta dal “peccato originale” che aveva costituito la formazione su basi opportuniste del “Partito” nel 1945. E se Mauro aveva potuto beneficiare pienamente, nella sua formazione di militante, dell’esperienza e del bagaglio di lotta di suo padre Luciano all’interno della Frazione italiana, aveva tuttavia ricevuto anche in eredità l’opportunismo che aveva presidiato alla costituzione, alla fine della seconda guerra mondiale, dell’organizzazione nella quale egli ha sempre militato. Se ricordiamo queste cose non è per attenuare i meriti di Mauro, che evidentemente come militante di Battaglia e membro del suo Comitato Esecutivo Nazionale, era pienamente corresponsabile e probabilmente convinto sostenitore di questa politica. Quello che vogliamo dire è che noi apprezziamo e stimiamo il militante Mauro al di là degli errori, anche importanti, che lui con la sua organizzazione ha potuto compiere perché questi errori li ha compiuti all’interno di un percorso che aveva come obiettivo quello della costruzione del partito e della rivoluzione comunista. E a tale proposito vogliamo ricordare che, anche rispetto a queste occasioni di frizione politica tra le nostre organizzazioni, Mauro aveva una maniera sua di affrontare il problema per cui sapeva distinguere chiaramente tra i disaccordi politici e i sentimenti camerateschi verso i militanti delle altre organizzazioni della Sinistra comunista.
Tra molti altri esempi, possiamo citare l’atteggiamento che lui ha avuto in occasione di uno dei suoi ultimi viaggi all’estero, forse l’ultimo. Alla riunione pubblica del BIPR a Parigi del 2 ottobre 2004, il confronto anche duro tra la nostra organizzazione e BC non ha impedito a Mauro di fermarsi, dopo la riunione, a discutere con alcuni compagni della CCI in modo molto fraterno, cosa che, dal nostro punto di vista, è normale tra compagni che, pur con profonde divergenze, si battono per uno stesso fine, ma bisogna riconoscere che questo tipo di atteggiamento non viene sempre condiviso da tutti i militanti all’interno della Sinistra comunista.
Per concludere, vogliamo ribadire che Mauro è stato un grande combattente della classe operaia e merita certamente un posto di riguardo nella storia del movimento operaio. Non abbiamo esitazione ad affermare che ammiriamo quella che è stata la sua dedizione per il lavoro di partito, che resta come esempio per le generazioni di militanti del futuro partito mondiale. Come combattente Mauro è stato l’autore di molti degli articoli di polemica scritti contro la CCI, contro le nostre posizioni. Certamente noi non condividiamo molte delle posizioni difese da Mauro in questi articoli, non ne condividiamo la ricorrente critica di idealismo fatta ad ogni piè sospinto all’interno di questi articoli. Ma lo abbiamo sempre rispettato perché sapevamo che lui ci credeva. Oggi che Mauro non c’è più noi ci auguriamo che le “sue qualità di militante comunista, interessato e appassionato alla causa del proletariato, (...) la sua grande capacità oratoria e di grande redattore, le sue qualità umane, per le quali godeva della nostra più sincera simpatia, il calore umano che lui sapeva offrire ai compagni con cui colloquiava, il sentimento di fratellanza e tutta la sua umanità” (5), possano essere trasmesse alle nuove generazioni di militanti.
La scomparsa del compagno Mauro è una grande perdita per la classe operaia nel suo insieme e per il BIPR in particolare. Per questo cogliamo l’occasione per esprimere ancora una volta la nostra più sincera solidarietà ai compagni del BIPR, alla compagna Franca e a tutti gli amici e persone care che Mauro ha così precocemente lasciato. Ciao, Mauro.
2 novembre 2005 Ezechiele per la Corrente Comunista Internazionale
1. La lettera è stata pubblicata su BC n. 7/8 di luglio 2005.
2. Ecco una parte del messaggio letto dalla CCI nella giornata di commemorazione del compagno Mauro alla Calusca: “Desideriamo rendere omaggio al combattente comunista che, seguendo la tradizione di suo padre, il compagno Luciano (il quale lottò contro la degenerazione dell’Internazionale Comunista, soffrendo anni di carcere e di esilio) mantenne vive le sue convinzioni comuniste, fu pioniere nella difesa delle posizioni proletarie. Il compagno Luciano ha saputo trasmettere a suo figlio Mauro la tradizione del movimento operaio, che è quella di trasmettere la prospettiva della rivoluzione proletaria alle nuove generazioni, così come fecero ad esempio Carlo Marx e Wilhelm Liebkneck, i cui figli continuarono il compito intrapreso dai genitori. Ugualmente fece il compagno Luciano sapendo trasmettere a suo figlio Mauro la passione per la rivoluzione e per la lotta del proletariato. E’ questo un merito molto importante per il quale il compagno Mauro godeva di una grande simpatia all’interno della CCI In questi momenti di dolore la CCI non può, malgrado le differenze politiche che esistono con Battaglia Comunista, dimenticare le radici comuni che hanno le nostre due organizzazioni e il fatto che il nostro compagno Marc militò con il compagno Luciano nella Frazione comunista d’Italia in Francia e mantenne per tutta la sua vita una grande simpatia per Luciano.”
3. Per un bilancio su questo ciclo di Conferenze, leggi l’articolo “Le conferenze internazionali della Sinistra comunista (1976-1980). Lezioni di una esperienza per il milieu proletario.” pubblicato sulla Rivista Internazionale n. 122 (edizione in lingua inglese, francese o spagnola).
4. Noi abbiamo più volte espresso nei confronti di Battaglia Comunista una critica di opportunismo congenito, legato proprio alle sue stesse origini. Si può leggere a tale proposito l’articolo: “Polemica con il BIPR: una politica opportunista di raggruppamento che conduce solo a degli aborti”, pubblicato sulla Rivista Internazionale n. 121 (edizione in lingua inglese, francese o spagnola).
5. Dal messaggio letto dalla CCI nella giornata di commemorazione del compagno Mauro alla Calusca.
Nella prima parte di questo articolo, pubblicata nel numero scorso del giornale, abbiamo ripercorso i momenti e gli aspetti più significativi dello sciopero di massa scoppiato in Polonia nel 1980. In questa seconda parte vedremo la risposta della borghesia e come l’illusione su di un sindacato “libero” e “combattivo” ha portato alla sconfitta di questa lotta.
La reazione della borghesia: l’isolamento
Si può capire il pericolo che costituivano le lotte in Polonia dalle reazioni dei paesi vicini. Le frontiere tra la Polonia e la Germania dell’Est, la Cecoslovacchia e l’Unione Sovietica furono chiuse immediatamente. Mentre prima gli operai polacchi si recavano spesso nella Germania dell’Est, soprattutto a Berlino, per fare acquisti perché c’erano meno merci nei negozi polacchi che in Germania dell’Est, la borghesia, chiudendo le frontiere, cercò di isolare la classe operaia. Un contatto diretto tra gli operai dei differenti paesi doveva essere evitato ad ogni costo. E la borghesia aveva delle buone ragioni nel prendere una tale misura! Perché nella regione carbonifera vicina a Ostrava in Cecoslovacchia, i minatori, seguendo l’esempio polacco, si erano messi anche loro in sciopero. Nelle regioni minerarie rumene, in Russia a Togliattigrad, gli operai seguivano la stessa strada dei loro fratelli di classe in Polonia. Anche se nei paesi dell’Europa occidentale non c’erano stati scioperi di solidarietà diretta con le lotte degli operai polacchi, operai di numerosi paesi riprendevano le parole d’ordine dei proletari polacchi. A Torino, nel settembre 1980, gli operai in lotta dicevano: “Danzica ci mostra la strada.”
Per la sua prospettiva ed i suoi metodi di lotta, lo sciopero di massa in Polonia ebbe un enorme impatto sugli operai degli altri paesi. Con questo movimento la classe operaia dimostrava, come nel 1953 in Germania dell'Est, nel 1956 in Polonia ed in Ungheria, nel 1970 e nel 1976 di nuovo in Polonia, che nei cosiddetti paesi “socialisti” lo sfruttamento capitalista esisteva come all’Ovest e che i loro governi erano nemici della classe operaia. Malgrado l’isolamento imposto alle frontiere polacche, malgrado la cappa di ferro, la classe operaia polacca, finché restò mobilitata, fu un polo di riferimento a scala mondiale. Scoppiate nell’epoca della Guerra fredda, durante la guerra in Afghanistan, le lotte degli operai della Polonia contenevano un importante messaggio: si opponevano alla corsa agli armamenti ed all’economia di guerra con la lotta di classe. La richiesta dell’unificazione degli operai tra l’est e l’ovest, anche se non era ancora concretamente posta, riemergeva in quanto prospettiva.
Come è stato sabotato il movimento
Il movimento poté sviluppare una tale forza perché si estese velocemente per iniziativa degli stessi operai. L’estensione al di là dei confini delle fabbriche, le assemblee generali, la revocabilità dei delegati, fu l’insieme di queste misure che contribuirono alla loro forza. All’inizio dello sciopero non c’era influenza sindacale, ma ben presto i membri dei “sindacati liberi” (1) si dettero da fare per ostacolare la lotta.
Mentre inizialmente i negoziati venivano condotti di fronte alla classe, dopo un certo tempo venne imposto che fossero necessari degli “esperti” per mettere a punto i dettagli dei negoziati col governo. A mano a mano gli operai finirono per non poter più seguire i negoziati né parteciparvi, gli altoparlanti che trasmettevano le trattative in corso smisero di funzionare per… problemi “tecnici”. Lech Walesa, membro dei “sindacati liberi”, fu incoronato leader del movimento grazie al fatto di esser stato licenziato dai cantieri navali di Danzica. Il nuovo nemico della classe operaia, il “sindacato libero”, infiltratosi nel movimento, cominciò il suo lavoro di sabotaggio. Come prima cosa si dedicò a distorcere le rivendicazioni operaie. Mentre all’inizio le rivendicazioni economiche e politiche erano tra le prime della lista, il “sindacato libero” e Walesa misero al primo posto il riconoscimento dei sindacati “indipendenti”, mettendo in secondo piano le rivendicazioni economiche e politiche. Perseguivano così la vecchia tattica “democratica”: difesa dei sindacati invece che degli interessi operai.
La firma degli accordi di Danzica del 31 agosto segna la fine del movimento, anche se proseguirono alcuni scioperi ancora per qualche giorno in altri luoghi. Il primo punto di questi accordi autorizzava la creazione di un sindacato “indipendente ed autogestito” che prenderà il nome di Solidarnosc. I quindici membri del presidium del MKS (comitato di sciopero interaziendale) costituirono la direzione del nuovo sindacato.
Poiché gli operai avevano chiaro il fatto che i sindacati ufficiali marciavano con lo Stato, la maggior parte di loro pensava che il sindacato Solidarnosc di recente fondazione, forte di dieci milioni di operai, non era corrotto e che avrebbe difeso i loro interessi. Questi proletari non erano passati per l’esperienza degli operai occidentali che per decenni si erano scontrati con i sindacati “liberi”.
Approfittando dell’inesperienza di molti operai della realtà del capitalismo occidentale, Walesa già allora promise: “Vogliamo creare un secondo Giappone e stabilire la prosperità per tutti” assumendo così, con Solidarnosc, il ruolo di pompiere del capitalismo per spegnere la combattività operaia. Queste illusioni in seno alla classe operaia in Polonia non erano niente altro che il peso e l’impatto dell’ideologia democratica su questa parte del proletariato mondiale. Il veleno democratico, già molto potente nei paesi occidentali, assumeva in Polonia una forza maggiore dopo cinquanta anni di stalinismo. E la borghesia polacca e mondiale lo avevano capito molto bene. Sono state queste illusioni democratiche a coltivare il terreno su cui la borghesia e il suo sindacato Solidarnosc hanno potuto condurre la politica anti-operaia e scatenare la repressione.
Nell’autunno 1980, mentre gli operai ripartivano di nuovo in sciopero per protestare contro gli accordi di Danzica, dopo aver constatato che anche con un sindacato “libero” la loro situazione materiale era peggiorata, Solidarnosc cominciava già a mostrare il suo vero volto. Giusto dopo la fine degli scioperi di massa, Walesa andò qua e là in un elicottero dell’esercito per invitare gli operai a cessare urgentemente gli scioperi. “Non abbiamo più bisogno di altri scioperi perché spingono il nostro paese verso l’abisso, bisogna calmarsi”.
Fin dall’inizio Solidarnosc ha cominciato a sabotare il movimento. Ogni volta che era possibile, si impossessava dell’iniziativa degli operai, impedendo loro di lanciare nuovi scioperi.
Nel dicembre 1981 la borghesia polacca riuscì infine a scatenare la repressione contro gli operai. Solidarnosc aveva fatto del suo meglio per disarmare politicamente gli operai preparando così la sconfitta. Mentre durante l’estate del 1980, nessun operaio era stato colpito o ucciso grazie all’autorganizzazione ed all’estensione delle lotte, e perché non c’erano sindacati per inquadrare gli operai, nel dicembre 1981, più di 1200 operai furono assassinati, decine di migliaia messi in prigione o esiliati. Questa repressione militare fu organizzata seguendo un intenso coordinamento tra le classi dominanti dell’Est e dell’Ovest.
Dopo gli scioperi del 1980, la borghesia occidentale offrì a Solidarnosc ogni tipo di assistenza per rafforzarlo contro gli operai. Venne lanciata la campagna dei “pacchi di medicinali per la Polonia” e vennero creati crediti a buon mercato nell’ambito del FMI per evitare che agli operai occidentali venisse l’idea di emulare l’esempio polacco di prendere l’iniziativa delle lotte. Prima dello scoppio della repressione del 13 dicembre 1981 dei piani di azione erano stati coordinati direttamente tra i capi dei governi. Il 13 dicembre, il giorno stesso della repressione, il cancelliere socialdemocratico Helmut Schmidt ed il leader della RDT, lo stalinista per eccellenza Erich Honecker, si incontrarono presso Berlino dichiarando falsamente di “essere all’oscuro degli avvenimenti”. Ma in realtà, non solo avevano sottoscritto la repressione, ma la borghesia polacca aveva potuto beneficiare dell’esperienza dei suoi colleghi occidentali in materia di scontro con la classe operaia.
Dopo un anno di vita, Solidarnosc dimostrò quale terribile sconfitta era riuscito ad imporre agli operai. Dopo la fine degli scioperi del 1980, ancor prima che cominciasse l’inverno, Solidarnosc aveva già dato prova di quale forte pilastro dello Stato era diventato. E se da ex leader di Solidarnosc Lech Walesa è stato eletto presidente della repubblica, è proprio perché aveva mostrato già prima di essere un eccellente difensore degli interessi dello Stato polacco nelle sue funzioni di capo sindacale.
Il significato delle lotte
Anche se sono passati venti anni da allora, e benché molti operai che all’epoca presero parte al movimento di sciopero sono diventati disoccupati o sono stati costretti ad emigrare, la loro esperienza è di un inestimabile valore per tutta la classe operaia. Come la CCI ha scritto già nel 1980, “Su tutti questi punti, le lotte in Polonia rappresentano un grande passo in avanti nella lotta del proletariato a scala mondiale, perché queste lotte sono le più importanti da un mezzo secolo a questa parte". (Risoluzione sulla lotta di classe, 4° congresso della CCI, 1980, Revue Internationale n°26). Esse furono il punto più alto di un’ondata internazionale di lotte. Come abbiamo affermato nel nostro rapporto sulla lotta di classe del 1999, al nostro 13° congresso: “Gli avvenimenti storici di questo livello hanno delle conseguenze a lungo termine. Lo sciopero di massa in Polonia ha fornito la prova definitiva che la lotta di classe è la sola forza che può costringere la borghesia a mettere da parte le sue rivalità imperialiste. In particolare, ha mostrato che il blocco russo - storicamente condannato per la sua posizione di debolezza ad essere “aggressore” in ogni guerra - era incapace di rispondere alla sua crisi economica crescente attraverso una politica di espansione militare. In modo chiaro, gli operai dei paesi del blocco dell’Est (e della stessa Russia), non potevano affatto servire da carne da cannone in una qualsiasi guerra futura per la gloria del “socialismo”. Lo sciopero di massa in Polonia fu un potente fattore nell’implosione del blocco imperialistico russo”. (Revue Internationale n°99, 1999).
Welt Revolution n°101, organo della CCI in Germania,
agosto-settembre 2000.
1. Per l’esattezza non si trattava di un sindacato ma di un piccolo gruppo di operai che, insieme al KOR (comitato di difesa degli operai) costituito da intellettuali dell’opposizione democratica dopo la repressione del 1976, militavano per la legalizzazione di un sindacalismo indipendente.
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