In una recente riunione pubblica tenuta dalla nostra organizzazione, dedicata all’analisi delle prospettive che si aprivano per la lotta di classe dopo il gennaio scorso, una compagna che vi era intervenuta ci ha posto il quesito di quale ruolo concreto pensavamo di svolgere nella lotta di classe.
Questa domanda, come ci ha confermato la stessa compagna, se la pongono anche altri compagni ed, in una certa forma, gli stessi Nuclei Leninisti Internazionalisti che, attraverso una lettera di un loro militante, ci rimproveravano di esserci troppo rinchiusi nel nostro “milieu” assegnando una scarsa importanza all’intervento nella classe operaia.
La domanda della compagna o il “rimprovero” dei N.L.I. hanno ovviamente una base reale, cioè una nostra diversa impostazione, rispetto alla stragrande maggioranza dei gruppi politici, nei riguardi della lotta di classe.
E’ costume di moltissimi gruppi politici, primi fra tutti quelli che scendono trionfalmente in campo come il partito della classe operaia, avere un timore reverenziale per quest’ultima. Lo dimostrano due cose: la tendenza ad intervenire sotto falsi panni di comitato, gruppo operaio, ecc.[1] e la deleteria tattica del gradualismo, che significa ad esempio denunciare i sindacati come nemici della classe solo quando questa se ne è resa conto.
La spiegazione di questo atteggiamento sta nell’idea che la classe sia un corpo amorfo capace tutt’al più di azioni rivendicative ed ostile alla politica, e che solo col mascheramento da “struttura di base” e con “iniezioni di coscienza a piccole dosi” si possa ottenere qualcosa. Infatti si pensa che, con questo accostamento “morbido”, gli operai possano essere lentamente conquistati all’idea della rivoluzione, ma passo dopo passo, digerendo una posizione alla volta e senza avere lo shock che a procurargli questa evoluzione sia un’organizzazione rivoluzionaria.
Questo modo di concepire l’intervento, rivolto verso l’evoluzione di specifiche situazioni piuttosto che verso l’insieme della classe, ha come necessaria conseguenza il localismo, e quindi l’identificazione del proprio intervento politico o con una fabbrica, o con il movimento dei disoccupati, o altro ancora. E’ sorprendente, a questo proposito, come sia facile in molti casi associare un dato gruppo politico al suo settore preferito di intervento (CIM/disoccupati; AGIT-PROP/Italsider; ecc.). Sempre in questa chiave, sono comprensibili, anche se non accettabili, le reiterate richieste su quanti operai abbiamo e su quale settore controlliamo.
La questione per noi si pone in tutt’altri termini. Pur non sottovalutando l’importanza della continuità dell’intervento in certi settori, il nostro obiettivo non è comunque ritagliarci una fetta di classe operaia da conquistare. La questione non si pone al livello di far maturare dei singoli operai propinandogli le nostre posizioni, ma piuttosto far sì che la classe nel suo insieme tragga tutte le conseguenze della sua attuale collocazione sociale ed economica nella società, si liberi delle false alternative e dei falsi tutori e rompa col quadro della società borghese.
Questo obiettivo fondamentale non si può conseguire cercando dì convincere gli operai uno ad uno. I tempi della storia non ce lo consentono. D’altra parte la dinamica con cui si sviluppa la coscienza di classe rende inefficace una tale pratica.
La classe, corpo collettivo vivente, vive oggettivamente già tutte le contraddizioni risolvendo le quali perverrà alla coscienza della necessità di abolire il capitalismo. Ma è nel cammino tortuoso fatto di lotte aperte e di fasi di riflusso che le contraddizioni si risolveranno, non gradualmente, una dopo l’altra, ma un po’ alla volta tutte quante assieme, contestualmente. In questo processo di maturazione ogni nuovo elemento di comprensione non rimarrà isolato, ma servirà a rimuovere ambiguità ed errori su altri piani della coscienza di classe. Così il rifiuto della politica dei sacrifici, la sensazione che questa crisi non ha termine, il ruolo apertamente antioperaio dei sindacati ufficiali e l’idea che ci voglia qualcosa di diverso per difendere i propri interessi costituiscono un insieme compatto su cui la classe sta attualmente riflettendo e maturando.
Conseguentemente il nostro intervento non solo si rivolge alla classe nel suo insieme, ma ricopre l’intera gamma di problemi che si pongono oggi nella lotta di classe. Contrari ad ogni gradualismo, il nostro intervento si caratterizza per denunciare con chiarezza i limiti e gli errori delle lotte presenti e prospettare la via che c’è da percorrere per il futuro. Convinti sostenitori dell’esistenza di più gruppi rivoluzionari, siamo molto critici verso le ammucchiate fatte per “meglio intervenire”, verso gli “intergruppo”, le “azioni in comune”, che dovendo esprimere il minimo comune denominatore delle posizioni politiche dei vari gruppi, finiscono per tagliare le gambe un po’ a tutti.
Vediamo adesso come questi due diversi modi di intendere l’intervento nella classe si sono tradotti praticamente durante le lotte degli ultimi mesi.
Durante gli scioperi dell’ottobre ’82 a Napoli, seguiti dall’introduzione in massa della cassa integrazione all’Italsider, un compagno di Programma Comunista che lavora in questa fabbrica ci ha rimproverato di aver venduto tra gli operai il nostro opuscolo “I sindacati contro la classe operaia”. Questo compagno, che era stato alla testa di quelle lotte, diceva che il nostro intervento provocava una radicalizzazione immatura.
A parte il fatto che questo giudizio sul nostro intervento getta una certa ombra su quello di Programma (in fabbrica non si era mai parlato del ruolo dei sindacati?), il compagno comunque si sbagliava. Nella successiva fase calda di gennaio, nella manifestazione del 12 in cui i sindacalisti non riuscivano a parlare per le urla della folla inferocita, gli operai sotto il palco hanno colto nel titolo del nostro opuscolo ciò che enucleava e spiegava la situazione del momento e in parecchi insieme a noi hanno sbandierato “I sindacati contro la classe operaia” contro i sindacati.
Una grande vittoria della nostra organizzazione? Gli operai aderivano alle nostre posizioni? Niente di tutto questo, nella maniera più assoluta. Solo la dimostrazione, viceversa, che oggi si può e si deve osare; non si può più essere timorosi nei confronti della classe. Il compagno di Programma sicuramente sarà riconosciuto dai suoi compagni dì lavoro come un grande combattente della classe. Ma qual è il ruolo di avanguardia politica che Programma svolge attraverso di lui?
Ma c’è di più. Nello stesso sciopero di gennaio i vari gruppi politici presenti a Napoli (Programma, CIM, … autonomi ... e trotzkisti della LSR) più l’area di compagni che fanno capo ad alcuni collettivi politici, hanno pensato, dopo la prima manifestazione del 12 che era stata caratterizzata da una decisa combattività, di coordinarsi fra di loro per un intervento comune attraverso un manifesto, un volantino ed uno striscione dietro al quale raggrupparsi. Ora, se il manifesto e il volantino, con la pretesa di mettere tutti assieme, finiva per essere generico e poco efficace, quel che è peggio è che il compattarsi tutti dietro lo stesso striscione nella successiva manifestazione del 18 ha comportato un auto isolamento nei confronti degli stessi operai. Tanto che, quando un gruppo di operai si è separato dal corteo per dar luogo a una propria manifestazione alternativa, questo coordinamento di gruppi lo ha seguito fin sotto la Prefettura dove però lo ha abbandonato per andare a fare una riunione come ... prendere contatti con gli operai. C’è da non crederci!
La nostra organizzazione, che pur dando un contributo di analisi sullo stato dalla lotta di classe in Italia in una prima riunione di questo coordinamento ha ribadito il proprio rifiuto di farvi parte, è intervenuta alla manifestazione con un volantino dal significati titolo “4 ore di sciopero ‘generale’ non servono a niente”. Il fatto che in questo volantino si ponevano le domande a cui ognuno degli operai presenti bene o male stava pensando è stato dimostrato sia dai commenti numerosissimi che abbiamo raccolto, sia dal fatto che ognuno dei militanti della nostra organizzazione ha potuto coagulare intorno a sé parecchi capannelli di operai che discutevano con noi dei problemi del momento e su come andare avanti.
Per ironia della sorte, nelle ultime due occasioni del l° maggio e della giornata di sciopero del 27 maggio a Napoli, la nostra organizzazione, quella che “non si sporcherebbe le mani intervenendo nella lotta di classe” è stata l’unica organizzazione rivoluzionaria presente con un suo volantino e la sua stampa politica, mentre un compagno di Programma, presente il 1° maggio, distribuiva un insulso volantino del ... “Comitato familiari detenuti politici”.
Ancora una volta quindi rispondiamo a quelli che ci chiedono guanti operai abbiamo nella nostra organizzazione (quasi si trattasse di trofei di caccia) che il nostro obiettivo principale non è acquisire qualche operaio in più nella nostra organizzazione (non che la cosa ci dispiaccia, naturalmente), ma svolgere un intervento efficace nei confronti di tutta la classe. Ed i nostri volantini, le riviste che vendiamo, le discussioni che sviluppiamo tra gli operai alle manifestazioni e sotto le fabbriche, pur costituendo solamente un minimo di intervento, ci sembrano tuttavia quanto mai concreti, almeno per le centinaia di operai che, leggendo i titoli dei nostri volantini o parlando con noi hanno detto: “è quello che pensavo anch’io”.
La questione quindi non è intervento nella classe sì, intervento no, ma quale intervento. Le recenti lotte in Italia hanno dimostrato che sono presentì nella classe un processo di riflessione e una serie dì nodi politici da risolvere; per noi l’intervento dei rivoluzionari deve cercare di favorire la maturazione di questa coscienza piuttosto che cercare facili, ma effimeri, successi immediati. Che ci sia molto da fare è evidente, ma si tratta anche di farlo bene.
Ezechiele
[1] Vedi su questo
argomento il nostro articolo “A proposito del ... Comitato di difesa
proletaria” pubblicato sul n°24 di Rivoluzione Internazionale, disponibile
anche come “volantone”.
Grazie ai Consigli ed alla falsa opposizione vertici-consigli, il sindacato è riuscito per una decina di anni a tenere la situazione sotto controllo, recuperando quasi tutte le minoranze che in questa o quella occasione mettevano in discussione il suo ruolo.
Quando poi la crisi ha stretto i freni e lo spazio di contrattazione disponibile per i Consigli di Fabbrica, la parola d’ordine della Sinistra Sindacale è stata: “Solo difendendo la democrazia dei Consigli, gli operai saranno capaci di ritrovare la via della lotta di massa”.
Questa storia è riuscita ad imbrogliare gli operai finché non hanno lottato. Il Gennaio 1983, con la sua ondata di lotte a livello nazionale, rappresenta uno spartiacque netto rispetto a tutto questo, segnando l’inizio della fine dei mito dei Consigli. Nonostante tutte le declamazioni “rivoluzionarie” dei delegati dei CdF (“il sindacato siamo noi operai!”), gli operai hanno visto con i loro occhi che non sono stati i consigli di fabbrica a scatenare l’esplosione operaia, ma l’iniziativa operaia a costringere molti CdF alla corsa al recupero. I Consigli non sono stati la testa e il cuore della sfida operaia all’apparato sindacale, ma la lunga mano dell’apparato sindacale, pesantemente calato sulle lotte operaie.
Che cosa significa tutto questo, che il sindacalismo di base ha ormai fatto il suo tempo? Sarebbe una gran bella cosa, ma non è il caso di farsi illusioni: quanto più gli operai imparano dalle sconfitte e si fanno furbi, tanto più il capitalismo ha bisogno di servi capaci di farsi passare per difensori degli operai e di riportare la lotta operaia nelle secche del sindacalismo. Tutto quello che succederà - ed è importante averlo ben chiaro - è che per acquistare credibilità di fronte agli operai i sindacalisti di base saranno sempre più costretti a lavorare sia dentro che fuori i sindacati ufficiali e, se necessario, anche fuori e contro i sindacati ufficiali.
Basta guardare all’evoluzione di una forza come D.P., nata per portare a votare anche quei compagni che si schifavano di votare PCI. Oggi D.P. continua in questo suo nobile compito di raccattapalle del tennis parlamentare, ma la sua vera funzione non la svolge al Parlamento (dove non è stata neanche presente in questa legislatura) ma in organismi come il Comitato Cassa Integrati dell’Alfa[1].
In che modo con questo comitato si sono ingabbiati gli operai? Separandoli dagli altri, facendogli credere che ci possano essere interessi di settori di operai diversi da quelli di tutti gli altri. Ma se la trappola ha funzionato, è solo perché esso si è presentato come totalmente autonomo ed indipendente rispetto alla stessa ala sinistra dei sindacato, classica dimostrazione di come quando gli operai sono incazzati con il sindacato ufficiale, c’è quello di riserva pronto a presentargli una nuova trappola.
Oggi non è raro trovare militanti di DP che, senza battere ciglio, dichiarano che il sindacato attuale “si è fatto istituzione” (è un modo elegante di dire che si è integrato nello Stato) e che non ci si può fare nessuna illusione di recuperarlo.
Quello che ci preoccupa veramente è che nell’attuale situazione, che vede un grande risveglio di attività da parte della classe e un crescente distacco dai sindacati ufficiali, anche se portandosi tuttavia appresso ancora tante debolezze, anche i gruppi proletari si trovano in ritardo rispetto ai tempi, ed invece di rispondere alle reali esigenze della lotta di classe ne raccolgono ed esaltano le illusioni, finendo per fare un ottimo servizio alla borghesia.
Un giornale come Operai Contro[2] è un buon esempio della tendenza a sbandare per l’illusione di poter acchiappare più operai con un’organizzazione più formalizzata:
“Perché non associare i primi operai che si sono resi conto che non possono fare più affidamento su nessuno in un’organizzazione con propri statuti, regole di partecipazione, un proprio sistema di finanziamento, un metodo di lavoro comune in cui le poche ore che ogni operaio può mettere a disposizione per l’attività rendono al massimo la possibilità di esprimere il modo di vedere degli operai su ogni questione sociale con precisione e continuità?” (Operai Contro n°11).
Dopo tante chiacchiere sulla “organizzazione politica degli operai”, quello che si finisce per proporre è un’organizzazione che faccia il lavoro che il sindacato non fa più, e cioè un nuovo sindacato di classe. A parte gli aspetti caricaturali di tessere e bollini, additando come prospettiva il fatto che “gli operai che eletti entreranno a far parte dei CdF non andranno più scoperti in modo individuale a sostenere lo scontro, ma si saranno prima accordati con gli altri ed avranno deciso la posizione da tenere” (O.C. n.9). Operai Contro non fa che dare nuova vita alle declinanti illusioni degli operai sulla possibilità di difendere i loro interessi all’interno dei CdF. Nel momento in cui tutta una serie di avanguardie di fabbrica inizia a porsi delle domande sui limiti di una lotta che non rompa con il sindacato, Operai Contro li richiama indietro, agli eterni progetti di una “forza organizzata” che a livello nazionale faccia “sentire il suo peso” nei CdF. In altre parole un’ennesima edizione dell’Opposizione Operaia, come se non ci bastassero tutte quelle già proposte da DP e soci.
La tendenza a “coprire gli spazi” lasciati liberi dal sindacato trova una delle sue espressioni più chiare e consapevoli nel giornale Agit-Prop[3].
“Senza una rete nazionale di comitati, senza una educazione a condurre in termini di classe la lotta sindacale - si, compagni, anche quella manca o è limitata a causa del riformismo straccione e l’insipienza dei rivoluzionari - la spontaneità delle masse mostra la corda e non è in grado di opporre niente (...) Per noi rivoluzionari, per noi operai di avanguardia si apre uno spazio enorme: la difesa degli interessi elementari rimane sempre più affidata a noi, e noi dobbiamo assumerla come uno dei nostri compiti necessari oggi. Chi non capisce questo è inutile che si tinga le penne di rosso violetto. Non serve a nessuno e meno che mai al proletariato.” (Agit Prop III, n°0, Marzo-Aprile 83).
In questo caso l’illusione consiste nel fatto che ci si possa inserire in una logica di lotta sindacale, mantenendo però la capacità di delimitarsi rispetto alla sinistra del capitale, DP inclusa, cogliendo ogni “occasione per mostrare ai lavoratori quale razza nefasta di conciliatori piccolo-borghesi essi siano”. Ancora una volta si procede recitando versetti di Lenin tipo Vangelo, attribuendo ai sindacati una natura operaia immutabile, appena guastata da “l’esercito di 50.000 funzionari che hanno una precisa base sociale nell’aristocrazia operaia”. Gli operai non avrebbero che da strapparsi alla influenza di questo manipolo di “aristocratici!” e la via al sindacato di classe sarebbe aperta. Il fatto che negli ultimi 60 anni non si sia riusciti a costruire un solo sindacato che non si integrasse immediatamente nelle strutture dello Stato, non turba minimamente i redattori di Agit-Prop. Se Lenin ha detto che funziona, prima o poi deve funzionare.
Per quanto grandi siano i limiti e ritardi dei gruppi provenienti dalla tradizione della Sinistra Comunista, ed in particolare della Sinistra Italiana, bisogna riconoscere che l’accelerazione del movimento sociale non è stata senza effetto per loro. Se si fa una panoramica su questa corrente si vede che nel giro di due o tre anni non è rimasto più nessuno a sostenere la riconquista dei sindacati confederali sia pure come ipotesi improbabile. Se per alcuni di questi gruppi questo riconoscimento (con 60 anni di ritardo) sembra essere venuto un po’ come una subitanea folgorazione (Rivoluzione Comunista ha scoperto la definitiva integrazione dei sindacati nell’economia di guerra dello Stato borghese in data 22 gennaio 1983), per altri si è accompagnato con lo sforzo di elaborare un’analisi credibile del cambiamento di natura dei sindacati. In particolare i Nuclei Leninisti Internazionalisti hanno cercato di trovare un nuovo equilibrio integrando le posizioni classiche della Sinistra Comunista Italiana con le osservazioni di Trotskij sulla natura dei sindacati nell’epoca della decadenza del capitalismo[4].
Piccole revisioni di questo tipo potrebbero mantenere la barca a galla, se la controrivoluzione fosse così gentile da restare ferma dove era mezzo secolo fa. Ma anche i gruppi della sinistra del capitale sentono il vento e si adeguano. Chi - in particolare Programma Comunista -pensa di avere fatto chissà quale audace salto rivoluzionario dichiarando che “in prospettiva” il suo lavoro si svolgerà sempre fuori dai sindacati attuali, non ha che da andarsi a leggere le Tesi sindacali di un gruppo chiaramente controrivoluzionario come il trotzkista GOR[5]:
“Quando soltanto una minuscola parte degli operai di avanguardia vive nei sindacati, allora la lotta per una tendenza sindacale costituisce una parte quasi insignificante della nostra battaglia complessiva”. (Il Comunista n.10, marzo 83) con tutti gli scossoni ed i riarrangiamenti subiti in questi anni, le posizioni della maggioranza dei gruppi rivoluzionari in Italia (e nel mondo) non sono sufficienti a costituire una chiara barriera contro 1’infiltrazione nel movimento operaio di un nuovo sindacalismo di base, cento volte più pericoloso di quello precedente, perché capace di vestire panni anti-sindacali, quando occorra. Perché questa manovra della borghesia sia sventata è indispensabile che dovunque la voce dei comunisti possa raggiungere settori operai, si esprima già da oggi con una denuncia implacabile di quello che domani apparirà chiaro agli occhi di milioni di operai.
Beyle
[1] Vedi “II Comitato Cassintegrati Alfa... facente funzioni di sindacato” in Rivoluzione Internazionale n°29.
[2] Operai Contro, c.p. 17168, 20170, Milano Leoncavallo.
[3] “Agit-Prop, giornale per l’organizzazione comunista operaia rivoluzionaria”, c/o Centro di Documentazione via D’Aquino 158, 74100 Taranto.
[4] Vedi l’articolo su “I Nuclei e la questione sindacale” in Rivoluzione Internazionale n. 26 e 28.
[5] Gruppo Operaio Rivoluzionario c/o L. Fucchi, C.P. 1022, 10100 Torino. La sua natura controrivoluzionaria è definita dallo spartiacque decisivo del disfattismo rivoluzionario: il GOR è per la difesa incondizionata dell’URSS e per il sostegno critico dell’invasione dell’Afghanistan.
Dall’inizio del secolo, la tattica della lotta di classe quotidiana e rivendicativa non è variata in niente.
Sempre alla caccia del minimo incidente tra salariati e padroni, i militanti hanno cercato soprattutto di stabilire una scala di rivendicazioni economiche che potessero essere comprese dalle “pance operaie”.
Ci spiegheremo meglio. Per i militanti i lavoratori possono comprendere solo i problemi legati alla sopravvivenza quotidiana, mentre non sentono nessun problema sociale o politico.
Poiché questo stadio della lotta di classe non supererà mai la fase capitalista della società attuale - dato che le rivendicazioni non esprimono in realtà che una contrattazione tra chi possiede la forza lavoro, gli operai, e chi la compra, i padroni, mercato normale in un’economia di scambio capitalista - sembra non esistere alcun mezzo per far comprendere alla massa operaia la relazione che deve fare tra la lotta economica quotidiana e il suo scopo politico e sociale.
I nostri bravi militanti si rifanno allora, come ad una formula magica, al principio secondo il quale attraverso delle lotte quotidiane, fatalmente, la classe arriverà a capire - sempre attraverso la sua “pancia” - i problemi politici di classe.
Questa tattica non solo esprime un’incomprensione della lotta di classe, ma non riesce nemmeno a tener conto né dei periodi di lotta né delle situazioni contingenti.
La lotta quotidiana contiene in se tutti gli elementi che permettono di denunciare gli abusi della società capitalista attuale, ma soprattutto di rivelare e far comprendere alla classe operaia sia le leggi dell’economia borghese che quelle che la condurranno a scavare la propria fossa. Nella lotta quotidiana molto spesso si mettono avanti solo gli elementi che denunciano gli abusi della presente società. Insistendo su questo piano, nel lavoro di propaganda giornaliero, non si va oltre il livello delle “pance operaie”.
Ciò che è comprensibile per i lavoratori è la loro condizione di vita. Ogni giorno essi si rendono conto della propria miseria. Se ci si limita a mostrare loro solo l’aspetto esteriore dell’abuso che causa la loro miserabile condizione, essi saranno sì portati a riflettere con la propria testa, ma non coglieranno il fatto che, e qui non c'è nessuna fatalità che potrà guidarli, nella società capitalista la loro condizione resterà sempre misera quali che possano essere gli aggiustamenti dei soprusi.
Engels aveva ragione nel dire che il servo era capace di riconoscere la parte del suo lavoro che spettava al signore, mentre all’operaio, quando alla fine di una giornata di lavo ro riceve il salario, risulta impossibile sapere se è stato pagato per otto o quattro ore.
Questo aspetto del sistema capitalista è una vera arma contro il proletariato, soprattutto quando è lo Stato a diventare il capitalista. Se 1’avanguardia si piega al livello della lotta sindacale, si batte e si difende sul terreno capitalista. E su questo terreno è sicuramente battuta perché la borghesia, attraverso i suoi partiti, è capace di offrire di più sul piano verbale e nominale (aumento dei salari, lavoro a cottimo, efficienza, nel sistema capitalistico sono sinonimi di aumento del costo della vita ad un valore superiore).
Un’arma temibile contro la borghesia è al contrario l’azione dell’avanguardia quando, pur denunciando in ogni lotta gli abusi del sistema di produzione e mettendo avanti la necessità di lottare contro la condizione di miseria degli operai, spiega - a chiare lettere e con forza - che il sistema attuale è gravido di nuove miserie per i lavoratori, e non per il solo spirito di lucro dei padroni ma perché il sistema prepara la propria tomba dal punto di vista economico, e quindi sociale e politico; quando spiega che il compito della classe operaia non è quello di lasciarsi trascinare nella voragine capitalista, ma al contrario quello di reagire contro la miseria ponendo la sola soluzione di classe: la Rivoluzione.
E’ su quest’ultimo aspetto della lotta quotidiana che 1’avanguardia deve basare il suo lavoro di propaganda e di agitazione. Il proletariato è pienamente capace di comprendere sia la portata politica della sua lotta che quella economica. Questa comprensione non è funzione del livello intellettuale delle masse, ma di due fattori ugualmente importanti, benché il seconde dipenda dal primo:
Ecco perché diciamo che i militanti oggi non tengono affatto conto del periodo e della congiuntura del momento.
Da tempo conosciamo organizzazioni, quali il PCInternazionalista, l’Union Communiste e la Frazione Francese della Sinistra Comunista[1], che fanno l’esperienza quotidiana di raccattare qualche operaio su delle parole d’ordine economiche per vederli poi disinteressarsi e sparire quando queste organizzazioni si svelano politicamente. Un fatto dunque dovrà essere acquisito: se gli operai non comprendono l’aspetto politico delle loro lotte, può darsi che il nostro metodo sia sbagliato, ma il loro lo è sicuramente dato che attraverso delle semplici rivendicazioni economiche non sono riuscite a radicalizzare i pochi operai che vi si sono avvicinati.
Certo, “il nostro metodo poteva essere sbagliato” soprattutto se non si tiene conto della situazione oggettiva presente. Il problema attuale - e ogni lotta politica è assurda e opportunista se non ne tiene conto - non può essere quello di disputare l’influenza sulle masse lavoratrici ai partiti che hanno tradito la classe, ma di organizzare e formare gli elementi più avanzati nella classe operaia.
Non è un desiderio che noi esprimiamo, ma una conseguenza di un fatto da nessuno ignorato: la classe operaia si trova in una situazione di riflusso che la consegna, legata mani e piedi, alla borghesia.
Si può non accettare questa situazione, gettarsi contro la corrente e tentare di far sentire la voce rivoluzionaria in ogni lotta del proletariato.
Si può anche credere di avere molta volontà ed essere molto forti per dare il colpo di timone alla situazione di riflusso. Così ragionano i gruppi trozkisti e simili.
Poiché la loro influenza sulle masse è quasi nulla, utilizzano delle astuzie da Sioux, nascondendosi, rivelandosi il meno possibile, addolcendo le loro parole d’ordine politiche, credendo così di essere ascoltati dalla classe e all’ultimo momento si rivelano ... davanti a una sala vuota. Con pazienza, ricominciano da capo, ma addolcendo ancora di più l'azione politica e quotidiana, fino al giorno in cui, senza rendersene conto, invece di raddrizzare il timone, si ritrovano piuttosto trascinati dalla corrente in riflusso.
Il risultato, nel primo caso, è la formazione di nuclei di operai coscienti che si raggruppano e si organizzano in ogni fabbrica: la loro azione alla luce del giorno può, alla lunga, risvegliare le masse dalla loro apatia, grazie al lavoro di propaganda politica nelle lotte economiche.
Nel seconde caso, si è così pressati nel tentativo di trasformare i propri desideri in realtà, che si cade nell’opportunismo.
Tra queste due vie noi scegliamo la prima, la sola rivoluzionaria.
Pertanto la nostra azione quotidiana deve orientarsi verso l’analisi economica e politica degli avvenimenti e della situazione in generale.
Il problema delle cosiddette tappe che dovremmo far superare agli operai è un falso problema. Noi non siamo degli educatori e la classe operaia non è un’immensa classe di bambini. Soni i gruppi opportunisti che si danno come compito di sperimentare questa o quella parola d’ordine transitoria, un po’ alla maniera degli istituti Gallup. Questi gruppi riempiono i loro giornali di parole d’ordine di azione per darsi l’illusione di dirigere vasti movimenti di classe che esistono solo nella loro immaginazione. Illusione che continua ad esistere solo in ragione del loro accresciuto opportunismo.
Seconde noi questo metodo non fa avanzare di un passo il movimento operaio nel periodo attuale e non risolve nessuno dei problemi che sono alla base di ogni maturità storica delle masse lavoratrici.
Alla Renault o in qualsiasi altra fabbrica, se si dovessero presentare dei movimenti rivendicativi degli operai, noi metteremo 1’accento sull’aspetto politico del problema, piuttosto che lottare, demagogicamente, per giocare al rialzo sulle rivendicazioni economiche.
Il nostro è un lavoro di propaganda; dobbiamo dimostrare agli operai che il regime capitalista non può che ridurre sempre di più il loro livello di vita. Le rivendicazioni, anche soddisfatte, provocano, a breve scadenza, delle manovre finanziarie che le riduco no a niente.
La lotta degli operai diventa non una lotta per una soddisfazione immediata, ma una volontà costante di opporsi alla fame che la borghesia, malgrado la sua “filantropia”, non può non offrire ai lavoratori.
Questa opposizione in se stessa sarà sterile se al contempo non si fa comprendere la necessità per la classe operaia di passare dalla opposizione difensiva all’offensiva rivoluzionaria.
Il lavoro è lungo e duro: si tratta di tessere il piano della propaganda rivoluzionaria. Questo piano non si può affettare come un salame, ma forma un tutto indivisibile. E’ la sola garanzia di un lavoro effettivo e positivo.
Sadi
[1] L’Union Communiste, scissione del trotzkismo, visse fino alla fine della guerra con alterne vicende politiche. La Frazione Francese della S.C. era l’affiliata francese del PCInt. subito dopo la sua fondazione. Per ulteriori notizie vedi “La Sinistra Comunista d’Italia”, disponibile al nostro indirizzo (n.d.r.).
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Cari compagni, dal vostro documento emergono alcune ben precise critiche al Gruppo Operaio Fiat su cui siamo in buona parte d’accordo e che si possono cosi puntualizzare:
1. il coordinamento dei gruppi operai di fatto non esiste; ogni gruppo non sa cosa fa o che pensa un altro gruppo. Questo coordinamento esiste solo a livello di alcuni individui che lavorano nei vari gruppi. Non è un caso, aggiungiamo noi, che questi individui fanno parte di “Operai e Teoria”;
2. il giornale “Operai Contro”, gestito ufficialmente dal Coordinamento, “sta sempre più diventando il posto dove i compagni più preparati politicamente ci fanno gli articoli teorici sulle grandi questioni, mentre gli altri ci scrivono le corrispondenze dalle fabbriche”;
3. esiste una forte disomogeneità politica nel gruppo operaio Fiat che “viene a galla con chiarezza non appena nel giornale cominciano ad apparire articoli che non sono solo più la critica alla piattaforma sindacale ma arrivano a prendere posizioni più générali, tipo le lotte in Polonia, in cui si afferma che l’ala radicale di Solidarnosc è quella marxista-leninista e di fatto si appoggia questo sindacato attaccando solo l’ala moderata di Walesa. Oppure l’articolo sulla Palestina in cui di fatto si appoggia l’O.L.P. (...);
4. “il problema della crescita politica dei compagni è una questione di cui tutto il coordinamento deve farsi carico, perché non si tratta di studiare e di sapere delle cose, si tratta soprattutto di confronto, di discussione, ecc.”;
5. “non deve più succedere che su avvenimenti così importanti, come le lotte nazionali, una parte dei compagni non sa che posizione prendere, altri invece lo sanno benissimo e infatti prendono posizione sul giornale, ma è una posizione che non fa gli interessi degli operai, ma entra nelle fabbriche e fa agli operai stessi un pessimo servizio.”;
6. “di fatto si agisce come uno dei tanti e tanto disprezzati gruppi politici con la differenza che al nostro interno non c'è la stessa omogeneità che esiste in un gruppo a cui la gente aderisce sulla base di una piattaforma”.
Dalle riflessioni che voi sviluppate appare chiaro un elemento: c'è chi campa sull’isolamento dei vari gruppi operai e sulla disomogeneità che esiste all’interno di ognuno di essi, e si tratta per l’appunto degli individui che fanno capo ad “Operai e Teoria”. Questo gruppo, nato col vessillo della difesa intransigente della classe operaia ma inquinato da pesanti eredità staliniste, ha finito per imporre la propria dominazione gerarchica su questi gruppi soffocandone la discussione interna: in questo modo i gruppi operai che facevano capo al “Coordinamento di Sesto S. Giovanni”, o almeno quello che ne rimane, costituiscono la divisa mimetica con cui “Operai e Teoria” si presenta all’esterno, riproponendo l’ennesimo mascheramento di un gruppo politico dietro una struttura “di base”. Ma attenzione. Non ci si può limitare a criticare 1’atteggiamento opprimente di Operai e Teoria e continuare a difenderne le posizioni politiche. L’operaismo sfrenato con cui si è presentato questo gruppo, le contorsioni sugli strati bassi del proletariato, ecc. hanno finito per essere, bene o male, le vostre posizioni. Qual è il bilancio che ne tirate? Intanto una cosa possiamo dire ai compagni: di andarsi a rileggere le posizioni sviluppate da Operai e Teoria sull’aristocrazia operaia e sul ruolo centrale ed insostituibile degli operai come artefici in prima persona della loro teoria e della loro organizzazione, alla luce del vergognoso “appello agli intellettuali” (intellettuali tra 1’altro di matrice “autonomia”) che appare nel manifesto di convocazione del suddetto convegno (1). Che passi da gigante hanno fatto gli accaniti difensori degli “strati bassi del proletariato” nel giro di qualche anno!
Ma al di là di Operai e Teoria, come potrebbe realmente funzionare un gruppo operaio e un coordinamento di gruppi operai? La vostra risposta appare molto chiara: una struttura operaia, per poter lavorare seriamente, ha bisogno che ogni singolo compagno sappia coprire i vari piani, dallo scrivere “un articolo sulla guerra alla ciclostilatura”. Occorre quindi un processo di maturazione e di omogeneizzazione sui punti politici fondamentali (e citate quasi tutti i punti della nostra piattaforma). In più, perché sia possibile il massimo di discussione e di interazione fra vari gruppi operai, proponete delle riunioni di coordinamento ogni uno o due mesi e la stampa di un regolare bollettino interno. Tutto ciò nella prospettiva “che non ci siamo mai nascosti, di mirare all’unificazione di tutti i gruppi operai in un’unica organizzazione, certo questo non sarà nell’immediato, sarà frutto della discussione, del confronto e della chiarificazione che ci sarà tra i gruppi e all’interno dei vari gruppi”.
Ora, cari compagni, forse non ve ne rendete conto, ma avete fornito tutti gli elementi per caratterizzare “uno dei tanti e tanto disprezzati gruppi politici”: criterio stretto di militante che deve rispondere su tutti i piani; omogeneità politica all’interno del coordinamento su tutte le questioni fondamentali, che corrisponde all’acquisizione di una piattaforma politica comune; strumenti di discussione interna quali bollettini e riunioni periodiche; strumenti di intervento politico quali il giornale, i volantini, ecc. Tutto ciò corrisponde esattamente alla definizione formale di un gruppo politico. Dove sta la differenza dagli altri gruppi politici? Nel fatto che questo sarebbe costituito tutto da operai a partire da esperienze operaie. In questo modo compromettete tutte e due le cose: il concetto di gruppo operaio e quello di gruppo politico.
Se per gruppo operaio si intende una struttura che serve agli operai per incontrarsi, discutere, chiarirsi le idee sui problemi della loro vita di salariati e delle loro lotte, questa struttura non può che essere aperta a tutti gli operai e non può soffrire la restrizione che di fatto voi ponete con la richiesta di una omogeneità politica globale. Ammesso che venga raggiunta questa omogeneità fra tutti voi, infatti, un nuovo compagno a quel punto potrebbe fare parte effettiva del gruppo solo dopo aver raggiunto la stessa omogeneità.
Quindi il vostro concetto di gruppo operaio è niente altro che quello di un gruppo politico col marchio DOC della classe operaia, tradendo invece l’esigenza che ha la classe di propri momenti e luoghi di confronto e dibattito per sviluppare la propria azione di lotta o decantare alcuni elementi di riflessione. Non è una caso che in occasione dei momenti caldi a Torino, Milano, ecc., questi gruppi operai sono stati sistematicamente ignorati e ricoperti dall’onda della lotta operaia.
Ma lo stesso concetto di gruppo politico cui voi volete giungere è falsato in partenza da una pericolosa impronta operaista. Intanto, per coerenza, che ci fa tra di voi un ben noto personaggio, di professione insegnante di scuola? Forse che i professori sono negli strati bassi del proletariato? D’altra parte, per chi si rifà al marxismo e a Marx, tenga presente che il buon Federico Engels era un padrone di industria e il bravo Marx è stato a lungo mantenuto dal primo, e che nessuno dei due è mai stato operaio. Non parliamo poi di Lenin e di tutti gli altri... Tutti i migliori rivoluzionari della storia hanno fatto di tutto tranne che gli operai. Viceversa gli operai tipo Walesa in Polonia o lo storico Noske in Germania risultano essere tra i più infami traditori della classe operaia. Il problema a livello di una singola persona o anche di un insieme limitato di persone (come nel caso di un gruppo politico) non si pone mai a livello di collocazione sociale dei singoli individui, che in sé non costituisce alcuna garanzia, ma di adesione ad un programma politico.
Tiriamo allora le somme. La struttura operaia che voi avete sperimentato, come tante altre, ha avuto, nella sua fase iniziale, una vita reale ed ha costituito un’occasione effettiva di incontro e di discussione tra compagni con esperienze diverse. Ma con 1’andare del tempo, inevitabilmente, questa struttura ha finito col perdere i connotati iniziali per trasformarsi via via in un mezzo gruppo politico.
Adesso voi vi rendete conto di stare a metà strada e volete giustamente portare a termine il processo con la costituzione di una vera organizzazione politica omogenea e con le idee chiare sul da farsi. Sta bene, ma siete sicuri che con le divergenze che vi caratterizzano riuscirete a costituire tutti un’unica organizzazione politica? O ancora, è proprio certo che tutte le persone adatte o disponibili a costituire questa organizzazione si trovino nel gruppo Fiat o anche nel Coordinamento dei gruppi operai? Ma soprattutto, è proprio certo che non si può attingere nulla dai “tanti e tanto disprezzati gruppi politici”, del presente e del passato?
Un requisito preliminare di serietà politica che si impone a chi si accinge a costituire un nuovo gruppo politico è una critica politica precisa dell’inadeguatezza dei gruppi già esistenti. L’avete già svolto questo lavoro? Non ci pare. E se il carattere di novità che volete introdurre sta tutto nel fatto della composizione esclusivamente operaia del gruppo politico, non solo vi legate mani e piedi ad una formula sbagliata, ma compromettete tutto il vostro lavoro.
Noi crediamo infatti che esista una differenza profonda tra gli operai considerati singolarmente e la classe operaia nel suo movimento storico e reale all’interno della società. Chi vive nelle fabbriche sa bene qual è il grigiore e l’apatia, a volte 1’opportunismo, che caratterizzano tanti operai. Eppure sono questi stessi operai grigi, apatici e opportunisti che sono destinati a fare la rivoluzione, e non solo questo, ma anche a dirigerla politicamente e a creare una nuova società. Come si spiega questo miracolo? Che in un caso gli operai atomizzati vivono da soli tutto il peso della società borghese, nell’altro trovano nella lotta e nell’unità della classe la forza di contrapporvisi. Nella costituzione della nostra organizzazione politica noi abbiamo fatto riferimento alla classe come insieme, alle lezioni che ci ha lasciato la sua lotta storica, ed oggi operiamo per la sua riunificazione, processo che può realizzarsi solo nella lotta e attraverso un graduale riconoscimento dei propri unici interessi di classe. Nel fare questo non ci siamo curati di quanti operai fossero presenti nella nostra organizzazione, ma solo del fatto che la nostra piattaforma e il nostro lavoro fossero inseriti nel solco degli interessi immediati e storici del proletariato.
Viceversa sembra che voi nutriate il progetto di formare un’organizzazione politica che si dice operaia perché contiene solo operai. E’ chiaro che voi intendete reclutare non i grigi, gli apatici, ecc., ma quelli dinamici, politicizzati. Va bene. E quand’anche 1’avete fatto cos’è che vi caratterizzerà politicamente: l’estrazione sociale dei singoli membri o non piuttosto una piattaforma politica? E questa piattaforma politica, qualunque essa sia, è forse oggi patrimonio dei singoli operai? Non ci pare, anzi tra gli operai è possibile trovare le posizioni politiche più disparate e, per lo più, questi risultano influenzati dalla ideologia borghese. Per cui dire oggi che la garanzia per un’organizzazione politica proletaria sta nella estrazione sociale operaia dei suoi militanti significa da una parte nascondere i veri problemi (definizione di una piattaforma, di un’analisi politica della situazione attuale, dei compiti del momento) e dall’altra alimentare la falsa illusione, presente tra alcuni di voi, che attraverso un’opera di lento convincimento questo primo nucleo politico di operai possa allargarsi fino a coprire la quasi totalità della classe operaia.
Il processo di unificazione seguirà viceversa una dinamica travolgente che si farà beffe di tutti gli schemi e i piani preparati a tavolino dai più arguti pensatori.
Sia ben chiaro, per finire, che la nostra posizione non ha nulla a che vedere con la calata di braghe di Operai e Teoria nei confronti degli intellettuali dell’autonomia. Nel caso nostro i militanti “intellettuali” hanno tradito la loro classe di origine per schierarsi politicamente e praticamente all’interno del fronte proletario. Nel caso di Operai e Teoria, degli operai rincoglioniti da anni di militanza stalinista, dopo averci recentemente rotto le scatole con il loro fanatismo operaista, propongono una collaborazione a degli intellettua1i non per farli aderire al fronte proletario, ma per utilizzarli come tali, come piccolo borghesi detentori di cultura. La classe operaia non sa che farsene della cultura della borghesia e dei suoi scrivani piccolo-borghesi. La classe operaia non scende a patti con nessuno, se la vuole spuntare.
O troverà al suo interno, con le sue avanguardie, la forza per spezzare la rete che le ha stretto intorno la borghesia, o non ci sarà alleanza tattica che tenga alla sconfitta definitiva.
Marzo ’83 Ezechiele
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