La crisi finanziaria è al centro dell’attenzione dei mezzi di informazione. Ogni occasione aiuta ad oscurare il movimento internazionale della classe operaia, che è la sola che può dare una soluzione alla crisi. La International Labour Organisation dice che nei paesi industrializzati i salari diminuiranno dello 0,5% nel 2009. Basandosi su passate ricerche il Rapporto Globale sui Salari mostra che per ogni perdita dell’1% del Prodotto Interno Lordo pro capite, i salari scendono dell’1,55%. La recessione tocca duramente i lavoratori. Il Direttore generale dell’ILO ammette che “Per 1,5 miliardi di salariati nel mondo le difficoltà aumenteranno “. In particolare “una crescita debole o negativa dell’economia, combinata con le oscillazioni dei prezzi dell’energia e dei generi alimentari, eroderanno i salari reali di molti lavoratori, in particolare quelli a più basso reddito e le famiglie più povere “. Inoltre la ILO prevede che questa crisi finanziaria globale farà almeno 20 milioni di nuovi disoccupati. Già a novembre l’economia americana ha perso 533.000 posti di lavoro, la perdita mensile di lavoro più alta dal 1974; in più in questo momento le “tre grandi” compagnie automobilistiche americane, la Ford, la GM e la Chrysler sono sull’orlo del collasso, e sono andate con il cappello in mano a Washington, a chiedere disperatamente che il governo le aiuti. In Gran Bretagna, i dati sulla disoccupazione sono i peggiori da 11 anni. La stessa storia può essere raccontata per il mondo intero. Per la classe operaia la crisi era arrivata molto tempo prima che le banche collassassero e le borse andassero in panico. I lavoratori stanno lottando già da almeno cinque anni contro l’impatto della crisi economica. Queste lotte non sono ancora di massa, ma sono già significative, e già si scontrano con le manovre dei sindacati e la repressione dello Stato.
Chi controlla le lotte?
In Italia il governo ha pianificato il taglio di più di 130.000 posti di lavoro nella scuola (due terzi dei quali insegnanti), cosa che ha portato a una ondata di proteste durate parecchie settimane fra ottobre e novembre. Vi sono state centinaia di occupazioni di scuole ed università, centinaia di manifestazioni, ogni tipo di riunioni, lezioni tenute dai professori sulle pubbliche piazze, aperte a tutti. Contrariamente alle accuse del governo, secondo il quale si trattava di una manovra della sinistra, le proteste non erano guidate da partiti. Le occupazioni hanno coinvolto professori e studenti. Le manifestazioni attiravano genitori, insegnanti, studenti e altri lavoratori. Alla fine di ottobre c’è stata una manifestazione di massa a Roma. Anche volendo considerare esagerate le stime degli organizzatori (secondo cui erano scese in strada più di un milione di manifestanti), sicuramente sono state coinvolte centinaia di migliaia di persone di diversi settori.
Durante le proteste nella scuola ci sono stati scioperi in altri settori, sia privati che pubblici; in particolare, all’inizio di novembre, la giornata di sciopero generale dei trasporti, che ha coinvolto treni, bus e metropolitane. Vi sono stati scio-peri non ufficiali del personale Alitalia. L’Herald Tribune diceva in proposito: “Gli stessi sindacati si sono dissociati dallo sciopero”, e riportava questa citazione di un analista: “la mia impressione è che questi scioperi selvaggi sono semi-spontanei e dovuti a una piccola minoranza, il che sembra evidenziare che i diversi sindacati hanno un sempre minore controllo sui propri iscritti”. Qui c’è un franco riconoscimento del fatto che a) la funzione dei sindacati è controllare gli operai, non lottare per essi, e b) c’è una crescente difficoltà a portare a termine questo loro compito. Questo descrive una situazione che non è caratteristica della sola Italia, ma ha una rilevanza mondiale.
I sindacati di fronte alla crisi
All’inizio di novembre, in Germania, 600.000 lavoratori della meccanica sono stati coinvolti in scioperi a scacchiera, dimostrazioni e riunioni. Con azioni diverse in diversi posti o in differenti aziende in giorni diversi le energie dei lavo-ratori sono state disperse e impedita la possibilità di una lotta unita. Questa è stata la strategia del sindacato IGMetall durante la trattativa che coinvolgeva 3,6 milioni di lavoratori. L’IGMetall ha minacciato uno sciopero ad oltranza a sostegno della richiesta di un aumento salariale dell’8%, ma alla fine ha concordato un trattamento per 18 mesi con un aumento del 2,1% da febbraio, seguito da un altro 2,1 a partire da maggio. Avendo limitato il potenziale di lotta dei lavoratori fin dall’inizio, “Bethold Huber, segretario generale dell’IGMetall, ha detto che il risultato era ‘ bello‘ vista la ‘difficile situazione storica’” (Financial Times, 12/11/08). La scusa che i lavoratori devono fare sacrifici a causa della “difficile situazione” del capitalismo sarà sicuramente usata a ripetizione nel prossimo futuro.
Sull’onda delle proteste in Italia, a metà novembre gli studenti medi lasciarono le aule e in 100.000 diedero luogo a manifestazioni in più di 40 città della Germania. La rabbia per le condizioni in cui lavorano (classi sovraffollate, penuria di insegnanti, pressione intensa per gli esami, ecc.) mostra che il sistema educativo non è riuscito a prepararli ad accettare passivamente le loro future condizioni, quando lavoreranno per un salario.
Le lotte attraversano l’Europa
Ad ottobre c’è stata un’ondata di scioperi in Grecia, culminati in una giornata di sciopero generale che ha coinvolto il settore pubblico, trasporti ecc., nonché centinaia di migliaia di lavoratori del settore privato. Grazie al controllo dei sindacati le rivendicazioni, partite da quello che effettivamente tocca i lavoratori (salari, pensioni) vengono indirizzate sulle campagne costruite dalla classe dominante, come le privatizzazioni e l’opposizione agli aiuti del governo alle principali banche. Va rimarcato che c’è stato anche uno sciopero generale dei lavoratori del commercio, ma il giorno dopo. Ancora una volta i sindacato dividono e controllano.
C’è stata anche un’ondata di occupazioni di scuole, circa 300 in tutta la Grecia nel mese di ottobre. Il governo ha contestato la legalità delle occupazioni e arrestato gli studenti coinvolti. Proteste simili c’erano state nel 2005, al momento dell’introduzione di una nuova legge.
In Francia a novembre, ci sono state 4 giornate di sciopero all’Air France, e uno sciopero nazionale delle ferrovie di 36 ore. Ad ottobre c’era stato uno sciopero nazionale in Belgio, che ha coinvolto diversi settori che protestavano per l’aumento dei prezzi.
La Cina non fa eccezione
C’era una volta una stupida speculazione secondo cui l’economia cinese potrebbe non seguire il resto del capitalismo mondiale, o almeno resistere all’approfondimento della crisi. In realtà un’economia così dipendente dalle esportazioni era destinata a soffrire non appena i suoi clienti avrebbero cominciato a venir meno. Lungi dal rimanere immune dalla crisi finanziaria, a metà novembre “La Cina ha messo su un pacchetto di enormi stimoli fiscali allo scopo di evitare che la propria economia sprofondi il prossimo anno.” (Financial Times, 10/11/08). Il piano prevede un insieme di progetti finalizzati ad incrementare la domanda interna per compensare il declino delle esportazioni. Con un valore di circa un quinto del Prodotto Interno cinese, questo pacchetto rivaleggia con le misure introdotte dagli Stati in Europa e negli USA.
Il 29 ottobre scorso il Financial Times riportava già che “ Ci sono segni crescenti del fatto che l’economia cinese do-vrebbe crescere meno di quanto previsto, con una serie di grandi compagnie industriali che annunciano tagli alla produzione a partire dal prossimo week end.” Questo, a sua volta, dovrebbe essere messo nel contesto delle statistiche ufficiali che prevedono per la prima metà dell’anno almeno 67.000 chiusure di aziende. Il numero potrebbe arrivare alle sei cifre entro la fine dell’anno. Con i milioni di lavoratori che hanno lasciato le campagne per le città, non c’è da meravigliarsi se il ministero cinese delle Risorse Umane e della Sicurezza Sociale abbia dichiarato che la situazione dell’impiego in Cina è “spaventosa”. Questo è lo stato reale dell’economia e già vi sono state estese risposte.
“La Cina ha ordinato alla polizia di assicurare la stabilità durante la crisi finanziaria globale, dopo che migliaia di persone hanno attaccato la polizia e gli uffici governativi in una città del nord est a causa di un piano di spostamento dei residenti. Dopo decadi di solida crescita economica, la Cina sta combattendo una inedita caduta nella domanda dei suoi prodotti che ha causato chiusura di fabbriche, suscita proteste e fa crescere il timore di rivolte popolari.” Vi sono già state “proteste di lavoratori nelle regioni del paese più votate alle esportazioni, dove migliaia di fabbriche sono state chiuse nei mesi scorsi, provocando il timore che la crisi finanziaria globale possa causare più ampie proteste popolari.” (Reuters, 19/11/08).
Oggi in Cina vi sono proteste contro l’aumento dei prezzi e la disoccupazione. Con le future perdite di posti di lavoro già previsti in milioni è facile capire perchè lo Stato cinese si preoccupa per la stabilità sociale. Il fatto che il capitalismo cinese si affidi alla polizia mostra come esso non si aspetti di trovare una risposta economica agli effetti della crisi globale, e si prepara a ricorrere, come sempre, alla repressione contro le lotte dei lavoratori. Questo non esclude la possibilità che la classe dominante permetta un certo sviluppo di sindacati “indipendenti”, dal momento che questi sono molto più efficaci nell’assorbire il malcontento sociale rispetto ai sindacati ufficiali.
La crisi del capitalismo è mondiale. Ma lo è anche la risposta della classe operaia. Quello che ci vuole innanzitutto è che i lavoratori diventino coscienti della reale dimensione e del significato delle loro lotte, perché esse contengono il seme di una sfida globale a questo traballante ordine sociale.
Car, 06/12/08
Pubblichiamo qui di seguito la traduzione della presa di posizione sui massacri in Medio Oriente e nella striscia di Gaza apparsa sul nostro sito Internet in inglese il 31/12/2008. In seguito gli avvenimenti sono evoluti nello stesso senso della nostra denuncia: uso sistematico di un terrore brutale contro la popolazione bombardata da terra, da mare e dal cielo e entrata delle truppe israeliane a Gaza dalla sera del 3 gennaio. Ma, al tempo stesso, abbiamo visto anche manifestarsi in modo crescente l’indignazione della popolazione mondiale davanti allo scatenarsi di quest’atrocità e di fronte all’ipocrisia delle grandi potenze. Un sentimento di solidarietà si è affermato anche verso la popolazione palestinese che è in ostaggio in questo conflitto tra frazioni della classe sfruttatrice. Come rivoluzionari, denunciamo tutti coloro che pretendono di deviare questa solidarietà di classe sul putrido piano del nazionalismo, della difesa di una patria contro un’altra, quando l’unico mezzo che può liberare l’umanità dall’imperialismo della guerra e della barbarie, è invece lo sviluppo dell’internazionalismo rivoluzionario fino all’abolizione di tutte le nazioni, di tutte le frontiere e la costruzione di una vera comunità umana: il comunismo.
Dopo due anni di strangolamento economico di Gaza - senza benzina e senza medicine, blocco delle esportazioni e divieto agli operai di lasciare Gaza per trovare lavoro dall’altro lato della frontiera israeliana-, dopo avere trasformato tutta la striscia di Gaza in un vasto campo di prigionia, dal quale palestinesi disperati hanno tentato di fuggire cercando invano di passare la frontiera con l’Egitto, la macchina militare israeliana sta sottoponendo questa regione molto popolata e impoverita a tutta la barbarie dei suoi bombardamenti aerei. Centinaia di loro sono già morti e gli ospedali straripanti non possono fare fronte all’inondazione continua ed incessante di migliaia di feriti. Le dichiarazioni di Israele che dicono che lo Stato prova a limitare le morti civili sono solo una sinistra burla dato che ogni obiettivo “militare” è situato vicino ad abitazioni civili; e quando le moschee e l’università islamica sono state apertamente scelte come obiettivi, cosa resta della distinzione tra civili e soldati? Il risultato è là: obiettivi civili, la maggior parte bambini uccisi o storpiati e un grande numero terrorizzati e traumatizzati a vita dalle incursioni incessanti. Mentre scriviamo quest’articolo, il primo ministro israeliano Ehud Olmert descrive quest’offensiva come una prima tappa. I carri armati attendono dunque alla frontiera ed un’invasione totale della striscia di Gaza non è esclusa.
La giustificazione di Israele per quest’atrocità - sostenuta dall’amministrazione Bush negli Stati Uniti - è che Hamas continua a lanciare razzi sui civili israeliani in violazione di una presunta tregua. La stessa argomentazione è stata utilizzata per sostenere l’invasione del Libano due anni fa. Ed è vero che nello stesso tempo Hezbollah e Hamas si nascondono dietro le popolazioni palestinesi e libanesi e le espongono cinicamente alla rivalsa israeliana, presentando l’uccisione di alcuni civili israeliani come un esempio della “resistenza” all’occupazione militare israeliana. Ma la risposta di Israele è tipica di ogni potenza occupante: punire tutta la popolazione per l’attività di una minoranza di combattenti armati. Lo Stato israeliano lo fa con il blocco economico imposto dopo che Hamas ha cacciato Fatah dal controllo dell’amministrazione di Gaza; lo ha fatto in Libano e lo sta facendo con i bombardamenti su Gaza. È la logica barbara delle guerre imperialiste, nelle quali i civili servono alle due parti opposte come schermi ed obiettivi, e finiscono quasi invariabilmente per morire in gran numero, più dei soldati in uniforme.
E come in tutte le guerre imperialiste, le sofferenze inflitte alla popolazione, la distruzione delle case, degli ospedali e delle scuole, ha il solo risultato di preparare il terreno a futuri episodi di distruzioni. Il fine dichiarato da Israele è di schiacciare Hamas ed aprire la porta ad una direzione palestinese più “moderata” a Gaza, ma anche gli ex-ufficiali dei servizi segreti israeliani (almeno uno dei più… intelligenti) possono vedere la futilità di una tale argomentazione. Rispetto al blocco economico di Gaza, l’ex-ufficiale del Mossad Yossi Alpher dichiarava: “L’assedio economico di Gaza non ha portato nessuno dei risultati politici attesi. Non ha orientato i palestinesi verso un odio contro Hamas, ma è stato probabilmente controproducente. Non è altro che una inutile punizione collettiva”. Ciò è ancora più vero delle incursioni aeree. Come dice lo storico israeliano Tom Segev: “Israele ha sempre creduto che fare soffrire i civili palestinesi li renderebbe ribelli ai loro capi nazionali. È dimostrato che questa dichiarazione si avvera sempre più falsa” (le due citazioni sono estratte dal Guardian del 30 dicembre 2008). Gli Hezbollah in Libano si sono rafforzati con gli attacchi israeliani del 2006; l’offensiva contro Gaza avrà probabilmente lo stesso risultato per Hamas. Ma che esso si sia rafforzato o indebolito non farà altro che continuare a rispondere con altri attacchi contro la popolazione israeliana, e se non è con razzi, sarà con bombe umane.
Gli “interessati” capi mondiali, come il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, o come il papa, ci hanno ripetuto che tali azioni di Israele servono soltanto ad infiammare l’odio nazionalistico e ad alimentare “la spirale della violenza” in Medio Oriente. Niente di più vero: il ciclo del terrorismo e della violenza di stato in Israele/Palestina brutalizza le popolazioni ed i combattenti dei due lati e crea ancora nuove generazioni di fanatici e “di martiri”. Ma ciò che il vaticano e le Nazioni Unite non ci dicono è che questa discesa agli inferi nell’odio nazionalista è il prodotto di un sistema sociale che è ovunque in piena decadenza. La storia non è diversa in Iraq dove sciiti e sunniti si scannano, nei Balcani dove i serbi fanno la stessa cosa contro gli albanesi ed i croati, in India e Pakistan con i conflitti tra indù e musulmani, o anche in Africa dove la miriade di guerre con le divisioni etniche più violente sarebbe troppo numerosa da enumerare. L’esplosione di questi conflitti attraverso il mondo è l’espressione di una società che non ha più futuro da offrire all’umanità. E ciò che neppure ci dicono è l’implicazione delle potenze mondiali democratiche ed umanitarie in questi conflitti, si sente appena parlare di divisione tra di loro. La stampa britannica non ha taciuto il sostegno della Francia alle bande assassine hutu in Ruanda nel 1994. È meno eloquente sul ruolo svolto dalla Gran Bretagna ed i servizi segreti americani nelle divisioni sciite/sunnite in Iraq. In Medio Oriente il sostegno dell’America ad Israele e quello dell’Iran e della Siria ad Hezbollah e Hamas sono evidenti, ma il ruolo di sostegno giocato “sottomano” da Francia, Germania, Russia ed altre potenze non è meno reale.
Il conflitto in Medio Oriente ha caratteristiche e cause storiche particolari, ma può essere compreso nel contesto globale di una macchina capitalista che è pericolosamente fuori da qualsiasi controllo. La proliferazione di guerre su tutto il pianeta, la crisi economica incontrollabile e la catastrofe ambientale accelerata fanno evidentemente parte di questa realtà. Ma mentre il capitalismo non ci offre alcuna speranza di pace e di prosperità, esiste una fonte di speranza nel mondo: la rivolta della classe sfruttata contro la brutalità del sistema, una rivolta espressa in Europa in queste ultime settimane nei movimenti dei giovani proletari in Italia, in Francia, in Germania e soprattutto in Grecia. Sono movimenti che, per la loro stessa natura, hanno messo avanti la necessità della solidarietà di classe ed il superamento di tutte le divisioni etniche e nazionali. Sono stati un esempio che può essere seguito in altre regioni del pianeta, quelle che sono devastate dalle divisioni nell’ambito della classe sfruttata. Non è un’utopia: già negli anni passati gli operai del settore pubblico di Gaza si sono messi in sciopero contro il mancato pagamento dei salari quasi simultaneamente con quelli del settore pubblico in Israele in lotta contro gli effetti dell’austerità, essa stessa prodotto diretto dell’economia di guerra di Israele spinta al suo parossismo. Questi movimenti non erano coscienti l’uno dell'altro, ma mostrano la comunanza oggettiva di interessi nelle file operaie dei due lati della divisione imperialista.
La solidarietà con le popolazioni che soffrono nelle zone di guerra del capitalismo non significa scegliere “il male minore” o sostenere il settore capitalista “più debole” come gli Hezbollah o Hamas contro le potenze più aggressive come gli Stati Uniti o Israele. Hamas ha già mostrato di essere una forza borghese di oppressione contro gli operai palestinesi - specialmente quando ha condannato gli scioperi nel settore pubblico come atto contro “gli interessi nazionali” e quando, mano nella mano con Fatah, ha sottoposto la popolazione di Gaza alla lotta mortale di una fazione contro l’altra per il controllo della regione. La solidarietà con chi vive direttamente la morsa della guerra imperialista è il rigetto dei due campi belligeranti e lo sviluppo della lotta di classe contro tutti i dirigenti e gli sfruttatori del mondo.
World Revolution, organo della CCI in Gran Bretagna (31 dicembre 2008)
L’esplosione di collera e la rivolta delle giovani generazioni proletarizzate in Grecia non sono per niente un fenomeno isolato o particolare. Queste trovano le loro radici nella crisi mondiale del capitalismo e scontrandosi con la repressione violenta mettono a nudo la vera natura della borghesia e del suo terrore di Stato. Esse si trovano in linea diretta con le mobilitazione su un terreno di classe delle giovani generazioni in Francia contro il CPE del 2006 ed la LRU (1) del 2007, dove gli studenti ed i liceali si riconoscono innanzitutto come proletari che si rivoltano contro le loro future condizioni di sfruttamento. Del resto, l’insieme della borghesia dei principali paesi europei l’ha molto ben compreso confessando i suoi timori di contagio di simili esplosioni sociali di fronte all’aggravamento della crisi. Infatti, in modo significativo, la borghesia francese ha sospeso precipitosamente il suo programma di riforma dei licei. D’altra parte, già si sta esprimendo con forza il carattere internazionale della contestazione e della combattività studentesca e soprattutto degli studenti medi.
Tra ottobre e novembre, in Italia, si sono svolte massicce manifestazioni dietro lo slogan “Noi non vogliamo pagare la crisi” contro il decreto Gelmini contestato a causa dei tagli di bilancio nella scuola e le sue conseguenze: in particolare la soppressione di 87.000 posti di insegnante e di 45.000 posti fra bidelli, tecnici e personale di segreteria (ATA), ed anche per la riduzione dei fondi pubblici per l’università.
In Germania, il 12 novembre, 120.000 liceali sono scesi nelle strade delle principali città del paese, con slogan tipo “Il capitalismo è crisi” a Berlino o assediando il parlamento provinciale ad Hannover.
In Spagna, il 13 novembre, centinaia di migliaia di studenti hanno manifestato in più di 70 città contro le nuove direttive europee (direttive di Bologne) sulla riforma dell’insegnamento superiore ed universitario che generalizza la privatizzazione delle facoltà e moltiplica gli stage nelle imprese.
Molti tra loro si riconoscono con la lotta degli studenti in Grecia. Numerose manifestazioni e riunioni di solidarietà contro la repressione che subiscono gli studenti in Grecia si sono svolte in parecchi paesi, anche queste represse brutalmente.
L’ampiezza di questa mobilitazione di fronte alle stesse misure statali non ha niente di sorprendente. La riforma del sistema educativo intrapreso a livello europeo significa condannare le giovani generazioni operaie ad un avvenire senza sbocchi ed alla generalizzazione della precarietà e della disoccupazione.
Il rifiuto e la rivolta delle nuove generazioni di proletari scolarizzati di fronte a questo muro della disoccupazione ed a questo oceano di precarietà che il sistema capitalista in crisi riserva loro suscitano dovunque la simpatia dei proletari di ogni generazione.
I mezzi di informazione agli ordini della propaganda menzognera del capitale hanno continuamente cercato di deformare la realtà di ciò che è successo in Grecia dopo l’omicidio del 6 dicembre scorso del giovane Alexis Andreas Grigoropoulos di soli 15 anni sparato da un poliziotto. Hanno presentato gli scontri con la polizia limitati ad un solo pugno di autonomi anarchici, studenti dell’ultra sinistra appartenenti a famiglie agiate, o a teppisti emarginati. Continuamente la televisione ha trasmesso immagini di scontri violenti con la polizia e soprattutto immagini di sommosse di giovani incappucciati che bruciano automobili, mandano in frantumi vetrine di banche o di negozi, e saccheggiano magazzini.
Questo è proprio lo stesso tipo di falsificazione della realtà che si era visto durante la mobilitazione anti-CPE del 2006 in Francia, che veniva assimilata alle sommosse nelle periferie dell’anno precedente. Ed ancora al rozzo modo di paragonare gli studenti che lottavano contro la LRU nel 2007 in Francia ai “terroristi” ed anche ai “khmer rossi”!
Pure se il centro delle agitazioni è iniziato nel “Quartiere latino” greco Exarchia, è difficile oggi fare ingoiare una tale pillola: com’è che questi sollevamenti insurrezionali sarebbero opera di bande di teppisti o di attivisti anarchici dal momento che essi si sono estesi velocemente come il vento all’insieme delle principali città del paese e fino alle isole (Chios, Samos) e in località turistiche come Corfù o Heraklion, capitale di Creta?
Tutte le condizioni erano riunite affinché la sopportazione di una larga parte dalle giovani generazioni operaie, prese dall’angoscia e private di avvenire, esplodesse in Grecia, dove si produce al massimo quel vicolo cieco che il capitalismo riserva alle giovani generazioni operaie: quando quelli che sono chiamati “la generazione 600 euro” entrano nella vita attiva, hanno l’impressione di essere truffati. La maggior parte degli studenti devono cumulare due lavori quotidiani per sopravvivere e potere continuare gli studi: sono piccoli lavori non dichiarati e sottopagati; anche in caso di impieghi meglio rimunerati, una parte del loro stipendio non è dichiarata e ciò limita nettamente i loro diritti sociali; in particolare si trovano privati di assicurazione sociale; le loro ore di straordinario non sono pagate e spesso sono incapaci di lasciare il domicilio dei loro genitori o parenti prima dei 35 anni in mancanza di redditi sufficienti per potersi pagare un tetto. Il 23% dei disoccupati in Grecia sono giovani, il tasso di disoccupazione dai 15 ai 24 anni è ufficialmente del 25,2%. Secondo l’espressione usata in un articolo in Francia (2): “Questi studenti non si sentono più protetti da niente: la polizia spara loro addosso, la scuola li intrappola, l’impiego li abbandona, il governo mente loro”. La disoccupazione dei giovani e le loro difficoltà ad entrare nel mondo del lavoro hanno creato e diffuso un clima di inquietudine, di collera e di insicurezza generalizzata. La crisi mondiale sta determinando nuove ondate di licenziamenti massicci. Nel 2009 è prevista una nuova perdita di 100.000 impieghi in Grecia, che corrisponde ad un incremento del 5% della disoccupazione. Allo stesso tempo, il 40% dei lavoratori guadagna meno di 1.100 euro lordi e la Grecia ha il tasso più elevato di lavoratori poveri tra i 27 Stati dell’UE: il 14%.
Del resto in strada non sono scesi solo i giovani, ma anche gli insegnanti mal pagati e molti salariati, in preda agli stessi problemi, alla stessa miseria ed animati dallo stesso sentimento di rivolta. La brutale repressione del movimento di cui l’omicidio di questo adolescente di 15 anni è stato l’episodio più drammatico, ha solamente amplificato questa solidarietà dove si è mescolato un malcontento sociale generalizzato. Come viene riportato da uno studente, anche molti genitori di alunni sono stati profondamente scioccati e disgustati: “I nostri genitori hanno scoperto che i loro figli possono morire in strada in questo modo, sotto le pallottole di un poliziotto” (3) e hanno preso coscienza del deterioramento di una società dove i loro figli non avranno il loro stesso livello di vita. Durante le numerose manifestazioni, sono stati testimoni di violenti pestaggi, di arresti brutali, di spari ad altezza d’uomo da parte dei poliziotti antisommossa, (i MAT), con le loro armi di servizio.
Gli occupanti del Politecnico, luogo di forte contestazione studentesca, non sono i soli a denunciare il terrore di Stato: questa collera contro la brutalità della repressione si ritrova in tutte le manifestazioni con slogan del tipo: “Pallottole per i giovani, denaro per le banche”. Ancora più chiaramente, un partecipante al movimento ha dichiarato: “Non abbiamo lavoro, né denaro, uno Stato in fallimento con la crisi, e tutto quello che c’è come risposta è dare armi ai poliziotti”.(4)
Questa collera non è nuova: gli studenti greci si erano già largamente mobilitati nel giugno 2006 contro la riforma delle università la cui privatizzazione determinava l’esclusione degli studenti con possibilità economiche più modeste. Anche la popolazione aveva manifestato la sua collera contro l’incuria governativa all’epoca degli incendi dell’estate 2007 che avevano provocato 67 morti, un governo che non sempre ha indennizzato le numerose vittime che avevano perso le loro case o i loro beni. Ma sono soprattutto i salariati che si erano mobilitati massicciamente contro la riforma del regime pensionistico all’inizio del 2008 con due giornate di sciopero generale molto seguite: in due mesi, ogni volta, le manifestazioni hanno mobilitato più di un milione di persone contro il taglio della pensione anticipata per le professioni usuranti e la rimessa in causa del diritto delle operaie di andare in pensione a 50 anni.
Di fronte alla collera dei lavoratori, lo sciopero generale del 10 dicembre inquadrato dai sindacati è servito da contromossa per cercare di deviare il movimento, richiedendo, con il Partito “socialista” e quello “comunista” alla testa, le dimissioni dell’attuale governo ed elezioni legislative anticipate. Questo non è riuscito a canalizzare la collera e ad arrestare il movimento, malgrado le molteplici manovre da parte dei partiti di sinistra e dei sindacati per tentare di bloccare la dinamica d’estensione della lotta e malgrado gli sforzi di tutta la borghesia e dei suoi mezzi di comunicazione per isolare i giovani dalle altre generazioni e dall’insieme della classe operaia, spingendoli negli scontri sterili con la polizia. Durante queste giornate e queste notti, gli scontri sono incessanti: le violente cariche poliziesche, a forza di manganelli e di granate lacrimogene, si traducono in decine di arresti e pestaggi.
Sono proprio le giovani generazioni operaie quelle che esprimono con maggiore chiarezza il sentimento di disillusione e di scoraggiamento rispetto ad un apparato politico reazionario e corrotto. Dal dopoguerra, tre famiglie si dividono il potere e da più di trent’anni, le dinastie dei Caramanlis, a destra, e dei Papandreu, a sinistra, regnano alternativamente e da soli sul paese a forza di tangenti e scandali. I conservatori sono arrivati al potere nel 2004 dopo un periodo di super intrallazzi dei socialisti negli anni 2000. Molti rigettano l’inquadramento di un apparato politico e sindacale completamente discreditato; “Il feticismo del denaro si è impossessato della società. Allora i giovani vogliono una rottura con questa società senza anima e senza prospettive” (5). Oggi, con lo sviluppo della crisi, questa generazione di proletari non solo ha sviluppato la coscienza dello sfruttamento capitalista che vive sulla sua pelle, ma esprime anche la coscienza della necessità di una lotta collettiva, adottando spontaneamente dei metodi e una solidarietà DI CLASSE. Piuttosto che cadere nella disperazione, tale generazione prende fiducia dalla sicurezza di essere portatrice di un altro avvenire e mette in campo tutta la sua energia per insorgere contro la putrefazione della società che la circonda. I manifestanti rivendicano fieramente il loro movimento così: “Noi siamo un’immagine del futuro di fronte ad un’immagine molto oscura del passato”.
Se la situazione ricorda il maggio ‘68, la coscienza della posta in gioco va ben oltre.
Il 16 dicembre, gli studenti irrompono per alcuni minuti negli studi della televisione governativa NET e distendono sotto gli schermi uno striscione con su scritto: “Smettetela di guardare la televisione. Tutti in strada!” e lanciano questo appello: “Lo Stato uccide. Il vostro silenzio li arma. Occupazione di tutti gli edifici pubblici!” La sede della polizia antisommossa di Atene viene attaccata ed un suo furgone incendiato. Queste azioni sono subito denunciate dal governo come un “tentativo di rovesciamento della democrazia” e vengono anche condannate dal PC greco (KKE). Il 17, l’edificio che è la sede del principale sindacato del paese, la Confederazione Generale dei Lavoratori in Grecia, GEEE, ad Atene, viene occupato da lavoratori che si proclamano insorti e che invitano tutti i proletari a fare di questo sito un luogo di assemblee generali aperte a tutti i salariati, agli studenti ed ai disoccupati (vedi la loro dichiarazione pubblicata di seguito). Stendono uno striscione di fronte all’Acropoli con il quale invitano a partecipare ad una manifestazione di massa l’indomani. In serata, una cinquantina di bonzi e di addetti al servizio d’ordine sindacale tentano di riprendersi i locali, ma vengono messi in fuga dai rinforzi di studenti, in maggioranza anarchici, dell’Università di Economia, anch’essa occupata e trasformata in luogo di riunione e di discussione aperta a tutti gli operai che vengono a dare man forte agli occupanti gridando a squarciagola “Solidarietà!”. L’associazione degli immigrati albanesi, tra gli altri, diffonde un testo che proclama la propria solidarietà con il movimento dal titolo “Questi giorni sono anche i nostri!” Appelli ad uno sciopero generale a tempo indeterminato a partire dal 18 si moltiplicano. I sindacati sono costretti a proclamare uno sciopero di tre ore nei servizi pubblici per questo giorno.
Nella mattinata del 18, un altro liceale di 16 anni che partecipava ad un sit-in presso la sua scuola in una periferia di Atene viene ferito da una pallottola. Lo stesso giorno, diverse sedi di radio o di televisione vengono occupate da manifestanti, particolarmente a Tripoli (nel Peloponneso), Chania e Tessalonica. Il palazzo della Camera di Commercio viene occupato a Patrasso dove si verificano nuovi scontri con la polizia. La gigantesca manifestazione ad Atene viene repressa con estrema violenza: per la prima volta vengono utilizzati dalle forze antisommossa dei nuovi tipi di arma: dei gas paralizzanti e delle granate assordanti. Un volantino diretto contro il “terrore di Stato” porta la firma “delle ragazze in rivolta” e circola a partire dall’Università di Economia. Il movimento percepisce confusamente i suoi limiti geografici: ed è per tale motivo che accoglie con entusiasmo le manifestazioni di solidarietà internazionale in Francia, a Berlino, a Roma, a Mosca, a Montreal o a New York e se ne fa eco: “questo sostegno è molto importante per noi”. Gli occupanti del Politecnico indicono “una giornata internazionale di mobilitazione contro gli omicidi di Stato” per il 20 dicembre, ma per vincere l’isolamento di questo sollevamento proletario in Grecia, l’unica via, la sola prospettiva è lo sviluppo della solidarietà e della lotta di classe a scala internazionale che si esprime sempre più chiaramente di fronte alla crisi mondiale.
Iannis (19 dicembre)
1. La legge Pécresse, riguardante le Libertà e Responsabilità delle Università (LRU), che prevede come obiettivo il raggiungimento nei prossimi cinque anni, da parte di tutte le università, dell’autonomia nel bilancio e nella gestione delle risorse umane.
2. Marianne n° 608, 13 dicembre: “Grecia: le lezioni di una rivolta”.
3. Libération del 12/12/2008.
4. Le Monde de 10/12/2008.
5. Marianne, articolo già citato.
"Dagli incidenti sul lavoro agli omicidi a sangue freddo
lo Stato del capitale uccide
Nessuna condanna
Liberazione immediata degli arrestati
SCIOPERO GENERALE
L'autorganizzazione degli operai
sarà la tomba dei padroni
Assemblea generale degli operai insorti"
Bisogna sottolineare che uno scenario identico, con occupazione ed Assemblee Generali aperte a tutti, si è verificato anche ad Atene presso l'Università di Economia.
Noi torneremo ulteriormente e più in dettaglio sugli avvenimenti che si sviluppano dal 6 dicembre in tutta la Grecia. Per il momento, con la pubblicazione di questa dichiarazione, vogliamo essenzialmente partecipare a rompere il menzognero "cordone sanitario" mediatico che accerchia queste lotte e che le presenta come delle semplici sommosse violente animate da alcuni giovani devastatori anarchici che terrorizzerebbero la popolazione. Questo testo, al contrario, mostra chiaramente la forza del sentimento di solidarietà operaia che anima questo movimento e che unisce differenti generazioni di proletari!
O determineremo noi stessi la nostra storia o questa sarà determinata senza di noi.
Noi, lavoratori manuali, impiegati, disoccupati, interinali e precari, locali o immigrati, noi non siamo telespettatori passivi. Dall'omicidio di Alexandros Grigoropoulos, la sera di sabato 6, partecipiamo alle manifestazioni, agli scontri con la polizia, alle occupazioni del centro città come dei suoi dintorni. Abbiamo lasciato parecchie volte il lavoro ed i nostri obblighi quotidiani per scendere in strada con gli studenti liceali, universitari ed altri proletari in lotta.
ABBIAMO DECISO DI OCCUPARE L'EDIFICIO DELLA CONFEDERAZIONE GENERALE DEI LAVORATORI IN GRECIA (GSEE)
- Per trasformarlo in uno spazio di libera espressione ed un punto di incontro per i lavoratori.
- Per dissipare i miti alimentati dai mezzi di comunicazione sull'assenza dei lavoratori negli scontri, sulla rabbia di questi ultimi giorni che sarebbe opera soltanto di 500 "incappucciati", "hooligans" o altre storie assurde, sulla presentazione dei lavoratori da parte dei telegiornali come vittime di questi scontri, mentre la crisi capitalista provoca, in Grecia e nel mondo, innumerevoli licenziamenti che la stampa ed i suoi dirigenti considerano un "fenomeno naturale".
- Per smascherare il ruolo vergognoso della burocrazia sindacale nel lavoro di sabotaggio contro l'insurrezione, ma anche più in generale. La Confederazione generale dei lavoratori in Grecia (GSEE), e l'intera macchina sindacale che la sostiene da decine e decine di anni, sabota le lotte, contratta la nostra forza lavoro in cambio di briciole, perpetuando il sistema di sfruttamento e di schiavitù salariata. L'atteggiamento della GSEE di mercoledì scorso si commenta da solo: la GSEE ha annullato la manifestazione degli scioperanti già programmata, ripiegando precipitosamente su un breve assembramento in piazza Syntagma, assicurandosi nello stesso tempo che i partecipanti si disperdessero rapidamente, per paura che fossero contagiati dal virus dell'insurrezione.
- Per aprire questo spazio, per la prima volta, come una continuazione dell'apertura sociale creata dalla stessa insurrezione, spazio che è stato costruito con il nostro contributo ma dal quale fino a questo momento siamo stati esclusi. Durante tutti questi anni, abbiamo affidato il nostro destino a dei salvatori di ogni razza, e abbiamo finito per perdere la nostra dignità. Come lavoratori, dobbiamo cominciare ad assumerci le nostre responsabilità e smettere di riporre le nostre speranze in dei capi "saggi" o dei rappresentanti "competenti". Dobbiamo cominciare a parlare con la nostra propria voce, dobbiamo incontrarci, discutere, decidere ed agire per conto nostro. Contro gli attacchi generalizzati che subiamo, l'unica soluzione è la creazione di collettivi di resistenza "di base".
- Per propagare l'idea dell'autorganizzazione e della solidarietà sui posti di lavoro, del metodo dei comitati di lotta e dei collettivi di base, per abolire le burocrazie sindacali.
Per tutti questi anni, abbiamo subito la miseria, la rassegnazione, la violenza sul lavoro. Ci siamo assuefatti a contare i nostri feriti ed i nostri morti - i cosiddetti "incidenti sul lavoro". Ci siamo abituati ad ignorare che gli immigrati, nostri fratelli di classe, venivano uccisi. Siamo stanchi di vivere con l'ansia di assicurarci un salario, di pagare le tasse e di garantirci una pensione che adesso sembra un sogno lontano.
Così come lottiamo per non abbandonare le nostre vite nelle mani dei padroni e dei rappresentanti sindacali, ugualmente non abbandoneremo gli insorti arrestati nelle mani dello Stato e dei meccanismi giuridici!
LIBERAZIONE IMMEDIATA DEI DETENUTI!
RITIRO DELLE ACCUSE CONTRO I FERMATI!
AUTORGANIZZAZIONE DEI LAVORATORI!
SCIOPERO GENERALE!
L'ASSEMBLEA GENERALE DEI LAVORATORI NEGLI EDIFICI LIBERATI DELLA GSEE, MERCOLEDI' 17 DICEMBRE ALLE ore 18.
1. Secondo un nostro lettore, notizia non controllata, l'occupazione è stata tolta alcuni giorni dopo.
Nel precedente articolo sul movimento degli studenti apparso il 5 novembre scorso sul nostro sito web[1] mettevamo già in evidenza come questo traesse la sua maggiore forza non tanto dalla sua specificità di movimento di studenti quanto piuttosto dal riconoscimento, ampiamente presente al suo interno e testimoniato proprio dalla parola d'ordine diffusa a livello nazionale "Noi la crisi non la paghiamo", di costituire la nuova generazione di proletari e, in questo senso, di essere sottoposti, già a livello di formazione, alle esigenze di ristrutturazione del capitale. D'altra parte il contesto generale in Italia e nel mondo è così fortemente segnato dalla gravità della crisi economica - con delle conseguenze già palesi a livello di degradazione delle condizioni di vita dei proletari - che la borghesia parla ormai essa stessa apertamente di crisi, nella misura in cui ha bisogno di preparare i proletari agli attacchi più forti che dovranno ancora venire. La popolazione è ben cosciente di questi attacchi e quello di cui si parla sempre più in giro è quale prospettiva abbiamo di fronte, qual è il futuro di questa nuova generazione. In questo scenario che fa da sfondo, gli studenti non potevano non sentire i tagli al settore della scuola e dell'università come interventi strettamente legati agli attacchi contro i salari, i licenziamenti ma anche ai servizi sociali, la sanità, ecc.
La dimensione internazionale e internazionalista del movimento
Quello che si è prodotto nelle ultime settimane ci ha mostrato che il movimento di lotta che si è sviluppato in Italia è solo un aspetto di un fenomeno più generale e perciò molto più consistente che si sta producendo a livello europeo. Contemporaneamente alle lotte degli studenti in Italia ce ne sono stati altri in Grecia (di cui diamo notizia in questo stesso giornale), ed ancora in Francia (dopo le lotte contro il CPE del 2006 e contro la LRU del 2007, sono gli studenti liceali che sono attualmente all'attacco)[2], in Germania, in Irlanda e in Spagna. In Irlanda c'è stata la più grossa manifestazione di tutti i tempi con oltre 70.000 manifestanti a Dublino, con occupazione di università e scuole e una mobilitazione partita da insegnanti e studenti universitari. Università occupate dalla fine di novembre anche in Spagna con manifestazioni di decine di migliaia di persone, soprattutto a Barcellona e Madrid, con estensione molto capillare della lotta.[3] E' evidente che tutto ciò non è casuale ma è il frutto, da una parte, della necessità della borghesia, a livello internazionale, di scaricare almeno parte della crisi riducendo i costi dell'istruzione, dall'altra del consolidamento della ripresa della lotta di classe a livello internazionale. Peraltro questa dimensione internazionale del movimento diventa sempre più internazionalista nel senso che i singoli movimenti prendono coscienza l'uno dell'altro e tendono a riconoscersi sempre più come parte di una sola dinamica. Ciò si è mostrato in numerose occasioni anche nel movimento degli studenti in Italia, dove c'è stata ad esempio una forte solidarietà nei confronti del movimento greco in occasione dell'assassinio di Alexis, che si è tradotta sia con prese di posizione di assemblee che, nel caso degli studenti delle università siciliane di Palermo e di Catania, con l'occupazione dei reciproci consolati: "Oggi, 11 dicembre, il movimento studentesco catanese ha occupato il consolato greco a Catania per ribadire la propria solidarietà nei confronti delle lotte e delle mobilitazioni che in questi mesi hanno coinvolto studenti e lavoratori in Grecia e che hanno vissuto drammatici episodi di repressione. Le loro rivendicazioni sono le nostre rivendicazioni, la crisi è unica, ha un carattere internazionale e la risposta non può che essere unica e internazionale." (dal Comunicato del Movimento Studentesco Catanese "Catania - Occupazione Consolato Greco" dell'11 dicembre 2008).[4]
C'è, ancora, una certa consapevolezza di non essere un fenomeno episodico ma di fare parte di un processo storico e internazionale che ha portato gli studenti ad interrogarsi sulle recenti lotte degli studenti francesi contro il CPE e a prendere da loro il meglio delle loro esperienze, tra cui quella organizzativa:
"Per vincere, è necessario organizzarsi e coordinarsi, come insegna la vittoria degli studenti francesi (...). In Francia gli studenti vinsero anche perché si diedero un coordinamento di lotta nazionale, costruito attraverso un percorso democratico che prevedeva l'elezione di delegati delle varie realtà di lotta. Dobbiamo seguire lo stesso esempio: ogni scuola o facoltà in mobilitazione elegga, attraverso assemblea, un numero di delegati proporzionale al numero dei partecipanti (un delegato ogni 50 studenti riuniti in assemblea). I delegati si faranno portavoce delle proposte emerse in assemblea e decideranno con gli altri delegati i momenti successivi della lotta. Solo con l'organizzazione e la democrazia si vince." (dal documento "Costruiamo un coordinamento nazionale delle lotte studentesche", del 6 dicembre 2008).[5]
I momenti di vita e il rafforzamento politico del movimento
Nel precedente articolo accennavamo anche al pericolo che la borghesia potesse lavorare su alcune debolezze del movimento per minarlo dall'interno e abbiamo fatto riferimento in particolare a:
a) la questione di un preteso apoliticismo del movimento;
b) la falsa idea che la responsabilità fosse tutta di Berlusconi e delle destre in genere;
c) il pericolo di rimanere infognati nell'antifascismo;
d) il pericolo di essere fagocitati da sindacati e partiti della falsa sinistra.
A distanza di oltre due mesi possiamo oggi dire che non solo il movimento non ha ceduto alle lusinghe borghesi, ma si è irrobustito in maniera ammirevole, come vedremo qui di seguito.
Anzitutto ricordiamo che, negli scorsi due mesi, ci sono state delle mobilitazioni di piazza che non si vedevano da tempo per numero di partecipanti e per combattività, come quella del 7 novembre, con manifestazioni in tutte le città e la presenza di centinaia di migliaia di persone, quella del 14 novembre, che ha visto una grande manifestazione centrale a Roma di tutto il mondo dell'istruzione con una presenza di oltre 200-300 mila persone ed infine la partecipazione allo sciopero generale del 12 dicembre, con ampia presenza del movimento degli studenti.
Ma, al di là di queste scadenze che hanno interessato contemporaneamente tutto il movimento, quotidianamente gli studenti e i giovani precari del mondo dell'istruzione, assieme ad una parte non trascurabile delle "vecchie guardie", ovvero quelli che avevano fatto il ‘77 o addirittura il ‘68, hanno dato luogo ad assemblee, manifestazioni locali, sit-in, occupazioni, conferenze pubbliche, lezioni per strada, spettacoli, esperienze di approfondimento, controinformazione, feste ecc. costruendo giorno per giorno una nuova consapevolezza del proprio essere e dei rapporti con la società. E' stata questa la scuola politica che ha plasmato nel tempo il movimento e che ha prodotto gli elementi di maturazione che ha raggiunto col tempo. Diversi gli sviluppi che vanno segnalati, primo tra tutti proprio quello che riguarda lo slogan che ha caratterizzato fin dall'inizio tutto il movimento e rispetto al quale, ad esempio, gli studenti di Scienze Politiche di Milano affermano giustamente che dichiarare semplicemente: "Noi la crisi non la paghiamo non è sufficiente" perché occorre pure chiedersi "chi è che paga questa crisi?", se le banche e gli speculatori di ogni tipo o la povera gente:
"Il nodo centrale è quindi il seguente: è corretto continuare questa mobilitazione in una dimensione prettamente studentesca, se i fondi che verranno provvisoriamente trovati per placare il malcontento degli universitari saranno tagliati da altri (e altrettanto importanti) settori sociali che ugualmente ci riguardano, assieme alle nostre famiglie, come lavoratori e come cittadini? No. E' suicida. (...) Infatti, se il ruolo delle istituzioni statuali, seppur pubbliche, è sempre più declinato al sostenimento delle imprese private a costo di ingenti costi sociali, è sbagliato ritenere che l'università - un istituto che riproduce il sistema generale di sfruttamento attraverso meccanismi determinati di a) selezione e di b) manipolazione - sia un' isola felice slegata dalla struttura economica che la determina." (da "Noi la crisi non la paghiamo non è sufficiente: chi paga questa crisi?" dell'Assemblea Studenti di Scienze Politiche di Milano, 11 novembre 2008).[6]
Ma si va anche oltre nella stessa lettura della crisi analizzata correttamente come crisi storica del sistema capitalista e non come evento episodico prodotto da errori contingenti di speculatori maldestri:
"Non è quindi un caso che il perno della discussione in tutte le assemblee sia stata la lettura della crisi economico-finanziaria. Differentemente da tutti quelli che hanno sprecato fiumi di inchiostro sostenendo che la "crisi" è solo "crisi della finanza", noi siamo convinti della necessità di ribadire che si tratta sì di crisi, ma di una crisi di accumulazione capitalistica che viviamo da almeno trent'anni, e di cui la recente deflagrazione finanziaria è soltanto l'ultimo, violento, momento di svolta. (...) Mettere in discussione il capitalismo significa quindi prima di tutto chiarire che non può esistere un lato 'buono' di un sistema fondato su sfruttamento ed oppressione (...) Condannare il capitalismo rapace degli speculatori e delle banche, lasciando intendere che ve ne sia uno buono da difendere, o uno "sostenibile", significa mistificare la realtà, e cedere le proprie armi critiche al nemico". (dal Documento politico dell'Assemblea Nazionale del 13-14 dicembre tenuta a Tor Vergata,Roma).[7]
Il riferimento ai lavoratori e alle loro lotte è ugualmente una costante nel movimento, anche se con un sistematico distinguo tra la classe dei lavoratori e le loro pseudo rappresentanze politiche e sindacali, verso le quali si esprime una decisa diffidenza ed estraneità, e non per caso:
"è per noi fondamentale ribadire la nostra ostilità nei confronti delle leggi bipartisan che hanno consentito in questi anni il processo di precarizzazione del lavoro, dal pacchetto Treu, alla legge 30. A maggior ragione vale la pena ribadirlo laddove, a partire dal mese di gennaio, 400.000 precari non saranno riassunti." (da Sapienza in mobilitazione, "Appello della Sapienza, verso lo sciopero generale del 12 dicembre", del 5 dicembre 2008).[8]
C'è in questi ragazzi una grande fierezza e una forte determinazione a lottare che non potrà che fare bene al resto della classe operaia. D'altra parte questo movimento ha ricevuto numerosi segni di simpatia da parte della popolazione, che si possono riassumere nella scritta riportata su uno striscione steso tra due finestre di una casa a Roma durante la manifestazione del 14 novembre che diceva "studenti, voi siete la nostra ultima speranza".
Se il rapporto con i sindacati e i partiti di sinistra è di sfiducia, gli studenti non hanno fatto l'errore di disertare le manifestazioni che queste forze di falsa sinistra promuovevano consci dell'importanza di esprimere un'influenza sugli altri proletari presenti al loro interno:
"La potenza dell'Onda è stata capace, dunque, di parlare alla società tutta e di trasformare tanto lo sciopero generale dei sindacati di base del 17 ottobre, quanto lo sciopero generale della scuola del 30 ottobre, in qualcosa di straordinario e di diverso dalle cose di sempre. Proprio l'autonomia del movimento studentesco ha reso possibile un'estensione senza pari delle mobilitazioni e una grande radicalità nei contenuti e nelle pratiche di lotta. (...) Per quanto riguarda il 12, invece, pensiamo che sia naturale per l'Onda mantenere lo stesso stile assunto durante i precedenti scioperi generali: un corteo autonomo che sappia però interloquire con tutti i lavoratori e attraversare, materialmente e non solo simbolicamente, le manifestazioni sindacali. Questo non toglie che è nostro interesse parlare con quei tanti lavoratori che pur essendo iscritti alla Cgil vedono nell'Onda e nella sue rivendicazioni un'opportunità di cambiamento radicale valido per tutti." (da Sapienza in mobilitazione, "Appello della Sapienza, verso lo sciopero generale del 12 dicembre", del 5 dicembre 2008).[9]
La prospettiva del movimento
Come abbiamo visto il movimento con il tempo non solo si è esteso ma si è anche irrobustito politicamente. Le assemblee che si sono tenute a Roma il sabato pomeriggio e la domenica successivi alle due manifestazioni nazionali del 14 novembre e del 12 dicembre sono state occasioni in cui si è saputo tesaurizzare il tempo e l'esperienza acquisita a livello territoriale:
"La due giorni di intensi dibattiti si è articolata in due momenti di confronto assembleari sull'autorganizzazione, e in due tavoli di lavoro plenari, che hanno affrontato il rapporto fra "Scuola e Università, Capitale e Lavoro" e fra "Università e movimenti sociali". (...) L'obiettivo di tutti i partecipanti all'assemblea è dunque quello di lavorare nella prospettiva di un confronto stabile tra lavoratori e studenti (che sono lavoratori in formazione, lavoratori di oggi e di domani), assolutamente svincolato dalle pratiche concertative di alcuni sindacati e partiti. (...) In conseguenza di ciò, partendo dalle nostre specificità locali, abbiamo deciso di creare una rete di realtà studentesche che abbia un respiro nazionale, ma che guardi anche alle proteste che si sviluppano, contro le medesime riforme e attacchi, su un piano internazionale." (dal Documento politico dell'Assemblea Nazionale del 13-14 dicembre tenuta a Tor Vergata,Roma).[10]
Noi non sappiamo quale sarà il futuro immediato di questo movimento, che ha programmato un successivo incontro nazionale per la primavera prossima. Ma siamo sicuri che già quello che ha prodotto lascerà un terreno fertile per il futuro della lotta di classe.
7 gennaio 2009 Ezechiele
[1] https://it.internationalism.org/node/662 [10]
[2] Vedi notizie e articoli sulla pagina in lingua francese del nostro sito.
[3] Vedi anche radio onda d'urto del 16/12/2008 (www.radiondadurto.org/agenzia/2008-12-16-13-19_sauro-manif-europa.mp3 [11]).
[4] www.informa-azione.info [12]
[5] www.montegargano.it/news/Costruiamo-un-coordinamento-nazionale-delle-lot... [13].
[6] spomilano.noblogs.org [14]
[7] clic.noblogs.org/post/2008/12/30/assemblea-nazionale-documento-politico-stilato-al-termine-della-due-giorni-di-discussione [15]
[8] www.flickr.com/groups/fotoattivismo/discuss/72157610765210754/ [16]
[9] www.flickr.com/groups/fotoattivismo/discuss/72157610765210754/ [16]
[10] clic.noblogs.org/post/2008/12/30/assemblea-nazionale-documento-politico-stilato-al-termine-della-due-giorni-di-discussione [15]
La borghesia brasiliana, scontrandosi con i movimenti che sfuggono al suo controllo, in realtà al controllo dei sindacati, utilizza in modo grottesco il suo apparato repressivo, la polizia, per intimidire i lavoratori. Il 16 ottobre a Puerto Alegre (RS), nel sud del Brasile, ha represso violentemente una manifestazione di impiegati di banca facendo uso di gas lacrimogeno, di proiettili di gomma e ferendo circa 10 persone. Come se la repressione mattiniera non fosse bastata, anche la "13a marcia dei Senza"(1), che, lo stesso giorno e nella stessa città, ha mobilitato una decina di migliaia di persone, ha subito una repressione poliziesca che ha provocato numerosi feriti.
Prima di ciò, i dirigenti delle banche avevano già cominciato a prendere delle misure contro l'attuale sciopero degli impiegati di banca perseguitandone e licenziando dei leader, per contenere lo sviluppo del movimento.
La solidarietà di classe: una necessità
È necessario sottolineare che l'attuale lotta degli impiegati di banca va al di là delle classiche rivendicazioni economiche poiché la sua rivendicazione essenziale è quella dell'omogeneizzazione del trattamento degli impiegati. Le banche, e soprattutto quelle federali, hanno creato un abisso tra le condizioni degli impiegati già a lavoro da tempo e quelle degli assunti dal 1998, sopprimendo certi "vantaggi" che comunque erano stati strappati lottando. Più della rivendicazione di un semplice compenso economico, si tratta dunque di un gesto importante di solidarietà tra lavoratori: non si può accettare un trattamento differenziato, come se alcuni lavoratori fossero inferiori, mentre effettuiamo tutto lo stesso lavoro, negli stessi locali, e sottomessi alle stesse pressioni.
E sia chiaro che se alcuni tra noi beneficiano di "vantaggi" che sono il frutto della lotta, tutti ne devono beneficiare, qualunque sia il momento in cui sono stati assunti. Allo stesso modo, questo sciopero cerca di ricuperare ciò che ci è stato tolto, e questa volta a tutti, come i premi annui, ecc. Tutte queste conquiste economiche sono state il prodotto delle nostre lotte di resistenza ma in seguito esse sono state annullate dai padroni con la complicità dei loro "partner sindacali".
Vogliamo anche delle migliori condizioni di lavoro, la fine dell'oppressione morale, la fine degli obiettivi di vendita dei prodotti e dei servizi imposti dalle banche; che, tutte, hanno provocato tante malattie tra i lavoratori del settore bancario. Lo ripetiamo, non vogliamo essere trattati differentemente gli uni dagli altri. Non possiamo essere d'accordo con un taglio dei nostri "vantaggi" che sono il prodotto delle nostre lotte e non di regali fatti dai padroni del settore pubblico o privato.
La rivendicazione delle stesse condizioni di lavoro e delle stesse remunerazioni per quelli che sono assunti ora costituiscono un atto di solidarietà tra le differenti generazioni di lavoratori di questo settore. Questa stessa solidarietà noi la dobbiamo manifestare con azioni verso coloro che sono state vittime della repressione statale. Non possiamo rinunciare ad unirci ed essere solidali con tutti coloro che lottano per non lasciarsi schiacciare dalle necessità del capitalismo in crisi, con tutti coloro che la borghesia ha represso o sta per reprimere a causa della loro partecipazione nelle lotte.
Queste lotte e la repressione dello Stato non sono fatti che riguardano soltanto gli impiegati di banche, ma coinvolgono l'insieme dei lavoratori, con o senza lavoro.
1. Movimento che riunisce differenti categorie di emarginati sociali, il Movimento dei Senza terra, il Movimento dei Senza tetto, il Movimento dei Senza lavoro. Come indica il suo nome, quest'ultimo è costituito essenzialmente da proletari senza lavoro. Il movimento dei Senza tetto raggruppa elementi dei differenti strati non sfruttatori della società che si organizzano per occupare alloggi vuoti. Anche il movimento dei Senza terra è costituito da differenti strati non sfruttatori della società di provenienza cittadina, senza lavoro, e che sono organizzati all'interno di questa struttura per l'occupazione di terre da coltivare. Questa struttura è solidamente controllata dallo Stato, in particolare dal primo mandato di Lula da presidente.
Anzitutto questo ha permesso di ricredibilizzare il gioco elettorale e il ritorno sulla scena della mistificazione “democratica” allo scopo di mascherare provvisoriamente il fallimento del capitalismo, per gli Stati Uniti come per il mondo intero. Questa elezione non si appoggia solo sul sostegno unanime di tutta la borghesia (tutti i capi di Stato senza eccezione si sono pubblicamente rallegrati di questa elezione e si sono caldamente felicitati nei confronti dell’“eroe eletto”) ma ha anche condotto verso le urne milioni di Americani diseredati, così come neri o membri di minoranze di immigrati che non avevano mai preso parte ad un voto nella loro vita. Queste elezioni hanno fatto montare un’enorme ondata di speranze di cambiamento delle loro condizioni di vita miserabile per milioni di sfruttati e di oppressi grazie ad una gigantesca operazione pubblicitaria che vanta il miraggio della “unione nazionale”, così cara alla borghesia. Quest’ultima ha preparato il terreno per ottenere un risultato equivalente ad un maremoto: occorreva aumentare il prestigio degli Stati Uniti intorno ad un candidato ideale, giovane, dinamico, capace di unire e per giunta nero: Obama.
Questa vittoria riguarda soltanto la borghesia e, contrariamente a quanto vorrebbero farci credere, non è di nessuna “comunità nera” né degli strati più poveri della società e neanche delle pretese “classi medie”. Infatti non cambierà in niente la sorte delle diecine di milioni di proletari e di sfruttati che, più che mai, non raccoglieranno che ulteriore “sangue, sudore e lacrime”, secondo la vecchia espressione consacrata da Churchill. Non cambierà la mostruosità del mondo capitalista. Con la vittoria d' Obama occorreva soprattutto “cancellare” l’immagine catastrofica degli Stati Uniti dopo gli otto anni di presidenza Bush (definito come il peggiore presidente della storia degli Stati Uniti): fare credere alla rinascita, al cambiamento, sostituire l’equipe dei “neo-con repubblicani” superati dagli eventi e segnati dal fallimento delle loro “dottrine ultra-liberali”. Il “campo democratico” aveva ben compreso questo bisogno di cambiare look all’imperialismo americano permettendosi, in occasione delle primarie, di eliminare la candidatura di Hillary Clinton che, benché facesse balenare un’altra “novità assoluta”, una donna presidente degli Stati Uniti, ha puntato troppo sulla sua esperienza di vecchia volpe dell’apparato e della politica, essendo incapace di suscitare uno slancio suscettibile di incanalare un’aspirazione profonda ad un rinnovo del personale politico. Inoltre, sull’altro fronte, quello dei “repubblicani”, si è fatto di tutto per non vincere con la coppia Mc Cain-Palin, con la scelta di un vecchio arnese di 72 anni, “eroe” del Vietnam, un uomo del passato, non del futuro, rapidamente “affondato” da una parte dalla sua appartenenza allo stesso “campo repubblicano” di Bush (nonostante le distanze prese nei confronti di quest’ultimo) e soprattutto confrontato con i suoi limiti (i suoi spropositi continui di uomo superato rispetto al crack finanziario ed economico). Infine, la scelta come vice di un’ultra-reazionaria, “creazionista”, completamente non credibile, ha costituito un vero elemento di dissuasione. Le adesioni massicce e spettacolari alla causa di Obama nello stesso campo repubblicano (come, tra i più famosi, quello dell’ex-responsabile della difesa nazionale in occasione della guerra in Iraq durante il mandato di Bush padre, Colin Powell) sono stati ugualmente elementi determinanti che esprimono un cambiamento di strategia della borghesia americana più cosciente delle sfide del periodo.
Questo cambio di facciata degli USA sottolinea la capacità di adattamento di una grande potenza declinante che, per preservare la sua credibilità e rompere il pericoloso isolamento nel suo dominio imperialista, deve cessare di apparire sempre nello stesso ruolo di grande gendarme cattivo del mondo. E’ una mossa necessaria per convincere il mondo intero a condividere il peso della crisi. Nel capitalismo, “non vi è un salvatore supremo, né Dio, né Cesare, né tribuno, il mondo deve cambiare le sue basi …”[1]. La “folle speranza” suscitata da “l’effetto Obama” non può che condurre ad una terribile e rapidissima disillusione. Con l’effetto boomerang degli attacchi, dei fallimenti, della disoccupazione, della miseria, della prosecuzione della politica guerriera, della recessione e dell’indebitamento che bussano alla porta, il ritorno alla realtà sarà duro. Questo tentativo di “cambiare pelle” non può comunque salvare la pelle del capitalismo, né impedire agli Stati Uniti d’essere la prima potenza ad essere travolta drammaticamente nella peggiore crisi mondiale di questo sistema. Solo lo sviluppo internazionale della lotta di classe può offrire una reale speranza per l’avvenire dell’umanità.
W (21 novembre)
Da quando gli Usa hanno usato le atrocità dell’11 settembre per giustificare la propria barbarie militare in Afghanistan e Iraq, questo paragone ha un preciso significato: contiene la minaccia implicita che lo status di vittima dell’India sarà usato per giustificare una maggiore pressione, o per rinnovare il conflitto, contro il Pakistan.
Non solo gli Stati Uniti avevano già avvertito l’India di potenziali attacchi, ma i servizi segreti indiani avevano avuto, in numerose occasioni, attraverso proprie fonti, informazioni della possibilità di attacchi a Mumbai. Possiamo immaginare che lo Stato indiano abbia lasciato condurre gli attacchi per giustificare una futura aggressione - che inoltre regge il confronto con il comportamento degli Stati Uniti nel settembre 2001.
Da un lato, se cerca pretesti per la guerra, lo Stato indiano può già contare su un certo numero di attacchi dinamitardi in tutta una serie di città indiane negli ultimi sei mesi, tra cui Nuova Delhi, Jaipur, Bangalore, Ahmedabad e Guwahati che sono costati la vita quest’anno a più di 400 persone. L’atto terroristico di Mumbai è stato dunque solo l’ultima espressione, anche se la più drammatica, di un conflitto fra l’India ed il Pakistan che è continuato, in una forma o nell’altra, fin da prima dell’indipendenza dalla Gran Bretagna. In particolare l’India ed il Pakistan hanno combattuto per il Kashmir nel 1947, il 1965 ed il 1971 e anche dopo gli attacchi aerei dell’India nel maggio 1999 contro gli insorti mussulmani. Dopo, ci sono stati continui incidenti per parecchi anni, incluso l’attacco al parlamento indiano, nel dicembre 2001, in cui morirono 14 persone. Ciò ha condotto alla mobilizzazione del 2002 delle forze armate di entrambe le potenze nucleari per affrontarsi alla loro frontiera, sull’orlo di una guerra totale.
Il conflitto non è stato intrapreso solo dalle forze armate “ufficiali” dei due paesi ma anche dai gruppi terroristi creati spesso dagli stessi servizi segreti. In particolare l’ISI (servizi segreti del Pakistan) ha creato inizialmente il Lashkar-e-Taiba e il Jaish-e-Mohammed per farli operare nel Kashmir; e, anche se lo Stato pakistano ha proscritto formalmente questi gruppi nel 2002, essi agiscono ancora con l’approvazione di importanti fazioni della classe dirigente pakistana. Non è sorprendente che lo Stato indiano (e i mezzi di comunicazione di tutto il mondo) abbiano accusato questi gruppi di responsabilità negli attacchi di Mumbai. In definitiva, chiunque sia stato responsabile degli attacchi, si stava comportando in continuità con la storia brutale e barbara che ha segnato il conflitto.
Per quanto riguarda gli Stati Uniti, questi non sono affatto disinteressati agli eventi. Una delle priorità di Barack Obama riguardo alla politica estera (in continuità con Bush e con il ministro della difesa Gates, che Obama vuole mantenere) è l’offensiva contro le forze che combattono in Afghanistan e che sono stanziate in Pakistan. Avendo bisogno dell’assistenza del Pakistan nella ‘guerra contro il terrore', Washington non vuole che le forze pakistane abbandonino le loro attuali posizioni per andare ai confini del Kashmir. Tutto ciò che peggiora i rapporti tra il Pakistan e l’India insidia la strategia degli Stati Uniti nella zona. È anche difficile, per gli Stati Uniti, fare pressioni sulla classe dirigente indiana perché questa può rispondere che gli Stati Uniti non si sono trattenuti dall’attaccare al-Qaeda o i Talebani.
Alcuni commentatori hanno suggerito che l’India non attaccherà il Pakistan poiché ciò rinforzerebbe la posizione dell’esercito all’interno di quello Stato molto fragile e che c’è almeno una certa possibilità di dialogo con la classe dirigente pakistana nella sua attuale configurazione. Altri hanno insistito che il conflitto imperialista aperto é inevitabile, prima o poi, e che le cose sono già fuori dal controllo dei politici indiani e pakistani.
Una cosa che è certa è il pericolo inerente alla situazione. Entrambi i paesi hanno armi nucleari. Entrambi hanno forze armate che già sono mobilitate, non solo per il Kashmir: il Pakistan lotta nel suo nord-ovest e Baluchistan e l’India nel Nagaland ed in alcuni stati contro l’insurrezione dei Naxalite (ndr: maoisti). Per di più, entrambi i paesi hanno collegamenti con potenze imperialiste molto più forti: l’India sta sviluppando un’alleanza con gli Stati Uniti ed il Pakistan ha un’antica alleanza anti-indiana con la Cina.
Forse, per il momento, l’India ed il Pakistan, sotto la pressione degli USA, potranno ancora contenere la spinta verso lo scontro militare aperto, ma la spinta imperialista verso la guerra è inevitabile per il capitalismo e, nel caso specifico, potrebbe stravolgere una delle regioni più popolate nel mondo. Gli attacchi a Mumbai sono stati terribili e mostrano che il potenziale massacro che il capitalismo è capace di liberare con il suo arsenale di distruzione è l’espressione dell’incapacità del suo sistema di organizzazione sociale a offrire nient’altro all’umanità se non l’oblio.
Car, 5 dicembre 2008
Era stato raggiunto un punto culminante di malcontento e di rigetto della guerra. Dopo quattro anni di uccisioni di massa, 11 milioni di morti, un numero incalcolabile di feriti, dopo l'estenuante guerra di trincea che stava causando numerosissime perdite per gli attacchi con gas nel Nord della Francia ed in Belgio, con la carestia che stava colpendo la popolazione operaia, dopo questa immonda carneficina senza fine, la classe operaia tedesca fu tanto disgustata dalla guerra da non essere più disposta a sacrificare la propria vita per gli interessi della "nazione". Tuttavia, il comando militare impose il proseguimento della guerra con una brutale repressione e decise di punire spietatamente i marinai che si erano ammutinati.
Come reazione si sviluppò una grande ondata di solidarietà. Iniziata a Kiev, quest'ultima si estese rapidamente alle altre città della Germania. Gli operai deposero i loro arnesi, i soldati si rifiutarono di eseguire gli ordini, gli uni e gli altri formarono immediatamente, come già era avvenuto a gennaio del 1918 a Berlino, consigli di operai e di soldati. Rapidamente, questo movimento si estese alle altre città della Germania. Il 5 ed il 6 novembre, Amburgo, Brema e Lubecca cominciarono a muoversi; il 7 e l'8 novembre, Desdra, Lipsia, Magdeburgo, Francoforte, Colonia, Hannover, Stoccarda, Norimberga e Monaco vennero occupate dai consigli di operai e dei soldati. In una settimana, in tutte le grandi città tedesche sorsero consigli di operai e di soldati.
Ben presto, Berlino ed i suoi consigli diventarono il centro del sollevamento, e, il 9 novembre, decine di migliaia di operai e di soldati si riversarono in strada per manifestare in modo massiccio contro il governo e la sua politica d'accentuazione della guerra. Quest'ultimo, preso di sorpresa, ordinò frettolosamente ai battaglioni "degni di fiducia" di accorrere a Berlino per proteggerla. Ma "la mattina del 9 novembre, le fabbriche vengono disertate con incredibile velocità. Una folle enorme riempie le strade. Dalla periferia, dove si trovano le più grandi fabbriche, grandi manifestazioni convergono verso il centro ... Solitamente, ovunque si riuniscono i soldati, non è necessario lanciare appelli speciali; tutti raggiungono gli operai in marcia. Uomini, donne, soldati, un popolo in armi invade le strade per dirigersi verso le vicine caserme" (R. Mϋller, Rivoluzione di Novembre).
Sotto l'influenza delle grandi masse assembrate nelle strade, gli ultimi resti delle truppe fedeli al governo cambiarono campo, raggiunsero i rivoltosi dando loro le armi. Il quartiere generale della polizia, i grandi uffici stampa, gli uffici telegrafici, i locali del parlamento e del governo, tutti furono occupati lo stesso giorno dai soldati e dagli operai in armi, e furono anche liberati i prigionieri. Molti funzionari governativi si diedero alla fuga. Furono sufficienti poche ore per occupare questi bastioni del potere borghese. A Berlino venne formato un "consiglio d'operai e di soldati", il Vollzugsrat (consiglio esecutivo).
Gli operai tedeschi si erano mesi sulle stesse tracce dei loro fratelli e sorelle di classe della Russia. Questi, infatti, a febbraio del 1917, formarono dei consigli di operai e di soldati che nell'Ottobre 1917 presero con successo il potere. Gli operai tedeschi stavano percorrendo la stessa strada degli operai russi, trionfando sul sistema capitalista attraverso la presa del potere da parte dei consigli operai e di soldati, paralizzando l'apparato del potere borghese, e formando un governo operaio ... La prospettiva era una porta spalancata verso la rivoluzione mondiale, dopo che gli operai russi avevano segnato la prima tappa in questa direzione.
Attraverso questo movimento insurrezionale, gli operai misero in moto le più grandi lotte in Germania. Tutti gli "accordi di pace sociale" sottoscritti dai sindacati durante la guerra furono ridotti in fumo dalle lotte operaie. Attraverso il loro sollevamento, gli operai tedeschi si liberarono dagli effetti della sconfitta d'agosto 1914. Il mito di una classe operaia tedesca paralizzata dal riformismo veniva cancellato. Gli operai tedeschi utilizzavano le stesse armi di lotta che stavano caratterizzando il periodo dell'entrata in decadenza del capitalismo, già precedentemente sperimentate dagli operai russi nel 1905 e nel 1917: scioperi di massa, assemblee generali, formazione dei consigli operai, in breve, l'auto-iniziativa della classe operaia. Al fianco degli operai russi, gli operai tedeschi formarono l'avanguardia della prima grande ondata rivoluzionaria internazionale delle lotte emerse dalla guerra. Già in Ungheria ed in Austria nel 1918 gli operai si erano sollevati dando luogo alla formazione dei consigli operai.
La Socialdemocrazia, ferro di lancia contro il proletariato
Tuttavia, mentre si sviluppavano le iniziative proletarie, la classe dominante non rimase inerte. Gli sfruttatori e l'esercito avevano bisogno di una forza capace di limitare e sabotare il movimento. Avendo fatto esperienza dai fatti russi, la borghesia tedesca, con i capi del comando militare, riuscì a riprendere la situazione in mano. Il generale Groener, comandante supremo dell'esercito, più tardi ammetterà: "Attualmente in Germania non c'è nessun partito che abbia molta influenza sulle masse per ristabilire il potere del governo con il comando militare supremo. I partiti [tradizionali] di destra erano crollati e, naturalmente, era impensabile formare un'alleanza con l'estrema sinistra. Il comando militare supremo non ha avuto altra scelta che formare un'alleanza con la Socialdemocrazia. Noi ci siamo uniti in una lotta comune contro la rivoluzione. Contro il Bolscevismo. Era impensabile restaurare la monarchia. Lo scopo dell'alleanza che noi abbiamo formato la sera del 10 novembre era la lotta totale contro la rivoluzione, per restaurare un governo d'ordine, governo sostenuto dalla potenza delle truppe e per effettuare, al più presto possibile, l'assemblea nazionale" (W. Groener sull' Accordo tra il comando militare supremo e F. Ebert del 10 novembre 1918).
La copertura della "unità" per mascherare gli antagonismi di classe
Al fine di evitare l'errore della classe dominante russa - e cioè la continuazione, dopo febbraio del 1917, della guerra imperialista da parte del governo provvisorio russo, che inasprì così la resistenza degli operai, dei contadini e dei soldati contro il regime, preparando l'insurrezione vittoriosa d'ottobre del 1917 - la classe capitalista tedesca reagì rapidamente e con una certa destrezza. Il 9 novembre, l'imperatore Guglielmo II fu costretto ad abdicare e fu inviato in esilio; l'11 novembre venne firmato un armistizio che contribuì a togliere la spina della guerra dalla carne della classe operaia, che aveva obbligato gli operai ed i soldati a combattere. La borghesia tedesca riuscì in tal modo a tagliare l'erba sotto i piedi al suo nemico di classe. Ma, indipendentemente dall'abdicazione forzata dell'imperatore e dalla firma dell'armistizio, una tappa decisiva nel sabotaggio delle lotte fu raggiunta nell'affidare il potere governativo alla socialdemocrazia. Sempre il 9 novembre, tre capi della SPD (Ebert, Scheidemann, Landsberg), tre capi dell'USPD (Partito Socialdemocratico indipendente)(1) formarono il Consiglio dei commissari del popolo, governo borghese fedele al capitale.
Lo stesso giorno, Liebknecht, il più prestigioso rappresentante della frazione spartachista, davanti a migliaia d'operai, proclamò la "Repubblica socialista" di Germania, chiamando ad una unificazione degli operai tedeschi con gli operai russi; nello stesso tempo il leader del SPD, Ebert, proclamava una "Repubblica tedesca libera" con il nuovo "Consiglio dei commissari dei popoli" alla sua testa. Questo governo (borghese) autoproclamato venne installato per sabotare il movimento. "Giungendo al governo, la Socialdemocrazia va a soccorrere il capitalismo, scontrandosi con la rivoluzione proletaria che avanza. La rivoluzione proletaria dovrà marciare sul suo cadavere". Queste parole di Rosa Luxemburg, nelle sue "Lettere di Spartacus", ottobre 1918, mostravano già dove si trovava il pericolo maggiore. Il 10 novembre, Rote Fahne, (Bandiera Rossa), giornale degli Spartachisti, avvertì: "Per quattro anni, il governo Scheidemann, governo dei socialisti, vi ha spinto negli orrori della guerra; vi ha detto che era necessario difendere la "patria", mentre questa era solo una lotta per puri interessi imperialisti. Ora che l'imperialismo tedesco crolla, tale governo tenta di salvare il salvabile per la borghesia e scacciare l'energia rivoluzionaria delle masse. Nessuna unità con coloro che vi hanno tradito per quattro anni. Abbasso il capitalismo ed i suoi agenti".
Ma, a questo punto, l' SPD tentò di mascherare il vero fronte. Lanciò lo slogan: "Non dovrebbe esserci niente di "fratricida" se un gruppo lotta contro un altro gruppo, se una setta lotta contro un'altra setta, allora avremmo il caos russo, il declino generale, la miseria al posto del benessere. Tutti, dopo un trionfo fantastico che ha visto l'abdicazione dell'imperatore, dovrebbero ora essere testimoni dello spettacolo dell'automutilazione della classe operaia in una lotta fratricida ingiustificata? Ieri ha mostrato la necessità dell'unità interna della classe operaia. In quasi tutte le città estendiamo l'appello all'unità tra "il vecchio SPD e L'USPD nuovamente fondato (...)" (Vorwärts, 10 novembre 1918). A partire da queste illusioni di unità tra l' SPD e l'USPD, l' SPD insisté presso il Consiglio operaio e di soldati di Berlino sul fatto che, poiché il "Consiglio dei commissari dei popoli" era composto di tre membri dell' SPD e dell'USPD, i delegati del Consiglio operaio e di soldati di Berlino avrebbero dovuto trovarsi nelle stesse proporzioni. Esso riuscì persino ad ottenere un mandato dal Consiglio operaio e di soldati di Berlino "per dirigere il governo provvisorio", essendo in realtà quest'ultimo una forza che si opponeva direttamente ai consigli operai. Rosa Luxemburg, più tardi, farà un bilancio delle lotte in questo periodo: "Difficilmente avremmo immaginato che nella Germania che aveva conosciuto il terribile spettacolo del 4 agosto, e che per quattro anni aveva raccolto ciò che era stato seminato in quel giorno, si sarebbe improvvisamente sviluppato il 9 novembre del 1918 una gloriosa rivoluzione, inspirata direttamente dalla coscienza di classe, ed orientata verso un obiettivo concepito con chiarezza. Ciò che si è prodotto il 9 novembre, è stato semplicemente la vittoria di nuovi principi; si stava solo avverando il crollo del sistema imperialista esistente. Era giunto il momento del crollo dell'imperialismo, un colosso dai piedi d'argilla che si sbriciolava dall'interno. La conseguenza di questo crollo era un movimento più o meno caotico, un movimento privo di piano motivato. La sola fonte d'unione, il solo principio esistente e di salvezza era la parola d'ordine "formare consigli operai e di soldati". (Congresso di fondazione del KPD 1918/19).
Sabotaggio politico dei consigli operai da parte dell' SPD
In novembre e dicembre, nel momento in cui si placava lo slancio rivoluzionario dei soldati, nelle fabbriche cominciarono a prodursi parecchi scioperi. Ma questa dinamica non era che all'inizio. E, in quel momento, il movimento dei consigli era ancora fortemente e inevitabilmente diviso. Cogliendo questa opportunità, l' SPD prese l'iniziativa di indire a Berlino il 16 dicembre un congresso nazionale dei consigli operai e dei soldati. Così, mentre il movimento nelle fabbriche non aveva ancora raggiunto il suo pieno slancio, ed il tempo della centralizzazione era ancora immaturo, l' SPD sfruttò l'occasione di un tale congresso nazionale dei consigli per disarmarli politicamente. Inoltre, mise l'accento sull'illusione largamente diffusa all'epoca, secondo la quale il consiglio avrebbe dovuto lavorare seguendo i principi del parlamento borghese. All'apertura del congresso, la delegazione formò delle frazioni (sui 490 delegati, 298 erano membri dell' SPD, 101 dell'USPD, tra questi 10 spartachisti, 100 appartenevano ad altri gruppi). Così, la classe operaia dovette scontrarsi con un congresso autoproclamato dei consigli che pretendeva di parlare in nome della classe operaia ma che lasciava subito tutto il potere tra le mani del governo provvisorio anche questo "autoproclamato".
Scaltramente, il presidium, col pretesto che non erano operai delle fabbriche di Berlino, impedì a leader Spartachisti, come Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg di partecipare ai lavori del congresso, e quindi di prendere la parola(2).
Il congresso pronunciò la "sentenza di morte" quando decise di sostenere l'appello per la formazione di una "assemblea nazionale". Abdicare al potere di fronte al parlamento borghese, era disarmare sé stesso.
Gli Spartachisti intenzionati a fare pressione sul congresso organizzarono una manifestazione di strada massiccia, 250.000 operai solamente a Berlino il 16 dicembre. Tuttavia, alla fine il congresso nazionale permise alla classe dominante di segnare un punto importante. Gli Spartachisti conclusero: "Questo primo congresso distrugge alla fine l'unica conquista, la formazione dei consigli operai e dei soldati, strappando in questo modo il potere alla classe operaia, rigettando il processo rivoluzionario. Il congresso, condannando i consigli operai e dei soldati all'impotenza (attraverso la decisione di rimettere il potere ad una circoscrizione nazionale) ha violato ed ha tradito il suo mandato (...) I consigli operai e dei soldati dovevano dichiarare questo congresso non avvenuto ed i risultati nulli" (Rosa Luxemburg, 20 dicembre 1918). In alcune città, i consigli operai e dei soldati protestarono contro le decisioni del congresso nazionale.
Incoraggiato e rafforzato dai risultati del congresso, il governo provvisorio cominciò a lanciare provocazioni militari. In un attacco del Freikorps a Berlino (truppe controrivoluzionarie create dal SPD), parecchie decine di operai furono ammazzati il 24 dicembre. Ciò provocò l'indignazione degli operai di Berlino. Il 25 dicembre, migliaia di operai si riversarono in strada a protestare. Di fronte al comportamento apertamente controrivoluzionario del SPD, il 29 dicembre, i commissari dell'USPD si ritirarono dal Consiglio dei Commissari.
Il 30 dicembre ed il 1° gennaio, gli Spartachisti fondarono, nel fuoco dell'azione, con i Comunisti internazionali di Germania (IKD), il Partito comunista tedesco (KPD). Tracciando un primo bilancio, ed indicando le prospettive, Rosa Luxemburg, il 3 gennaio del 1919, insistette: "La trasformazione di una rivoluzione del 9 novembre essenzialmente di "soldati" in una rivoluzione chiaramente operaia, la trasformazione di un cambiamento semplice di un regime in un lungo processo di scontro generale economico tra il capitale ed il lavoro esige dalla classe operaia un differente livello di maturità politica, di formazione, di tenacia, (d'accanimento) che è quello che noi abbiamo visto in questa prima fase di lotte". (3 gennaio 1919, Bandiera Rossa). Il movimento doveva allora entrare in una tappa cruciale in gennaio 1919 - e di questo parleremo in un prossimo articolo.
Dino
1. L'USPD era un partito centrista, composto almeno da due ali che si combattevano tra loro: un'ala destra, che tentò di reintegrare il vecchio partito, passato nel campo della borghesia, ed un'altra ala, che si sforzava di raggiungere il campo rivoluzionario. Gli Spartachisti si unirono all'USPD per avvicinarsi a più operai e farli avanzare. In dicembre 1918 gli Spartachisti ruppero con L'USPD per fondare il KPD.
2. Per rafforzare l'isolamento degli operai e dei rivoluzionari tedeschi, su istruzione delle forze del SPD, una delegazione d'operai russi giunta per assistere al congresso venne trattenuta alla frontiera.
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[11] http://www.radiondadurto.org/agenzia/2008-12-16-13-19_sauro-manif-europa.mp3
[12] http://www.informa-azione.info/
[13] http://www.montegargano.it/news/Costruiamo-un-coordinamento-nazionale-delle-lotte-studentesche_14142.html
[14] https://spomilano.noblogs.org/
[15] https://clic.noblogs.org/post/2008/12/30/assemblea-nazionale-documento-politico-stilato-al-termine-della-due-giorni-di-discussione/
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