L’inflazione crescente rende i bisogni basilari sempre più fuori dalla portata di una grossa parte dell’umanità. Il segretario dell’ONU Ban Ki-moon afferma che, “il drammatico aumento dei prezzi del cibo nel mondo è diventato una sfida di proporzioni globali”. Con il prezzo del riso aumentato del 74% in un anno (217% in due anni), il grano del 130% (136%), il mais del 31% (125%) e la soia dell’87% (107%), la maggior parte della popolazione mondiale è ridotta a vivere di stenti. Negli 82 paesi più poveri, dove dal 60 al 90% del budget delle famiglie è speso in cibo, questo aumento dei prezzi significa che molte persone soffriranno la fame, e moriranno. Già adesso 100.000 persone muoiono ogni giorno di fame nel mondo.
Oltre alle statistiche esistono altre prove della crescente fame nel mondo. Rivolte, dimostrazioni e scioperi per il cibo si succedono in Africa (Burkina Faso, Camerun, Costa d’Avorio, Egitto, Etiopia, Guinea, Madagascar, Mauritania, Marocco e Senegal), in Asia (Bangladesh, Indonesia, Pakistan, Filippine, Tailandia, Uzbekistan, Vietnam e Yemen) e nelle Americhe (Bolivia, Brasile, Haiti, Messico e Perù.)
Nel novembre scorso il governo degli Stati Uniti ha stimato che, nel 2008, 28 milioni di persone sarebbero rientrate nel programma di food stamp (1). La stima è stata rivista a gennaio perché le richieste erano già arrivate a 27,7 milioni, e si noti che solo il 65% dei possibili candidati ne avevano fatto richiesta. È vero che la situazione negli Usa non è la stessa dei paesi più devastati, ma se si pensa che dietro il food stamp esiste una rete di 200 banche del cibo regionali, circa 30.000 chiese e mense per poveri, allora si capisce cosa è la “prosperità” americana.
Molte spiegazioni, ma nessuna soluzione
Il capo del Programma Alimentare Mondiale dell’ONU, descrivendo la crisi come uno “tsunami silenzioso” che minaccia di lasciare più di 100 milioni di persone affamate, dice “Questa è la nuova faccia della fame – i milioni di persone che sei mesi fa non rientravano nella categoria degli affamati urgenti adesso ci rientrano”. Ammessa la crisi, la borghesia cerca di darne varie spiegazioni e suggerisce qualche miglioramento. La FAO punta il dito sui bassi livelli degli stock mondiali a seguito di raccolti sotto la media, su colture fallimentari, sulla crescente richiesta di sussidi per i cereali che producono biocarburanti, sui bassi livelli di produzione dei paesi dell’OCSE, sulla crescente domanda da paesi come India e Cina; e infine sui cambiamenti climatici.
“Paesi confrontati ad un’eccezionale insufficienza nel rapporto produzione/distribuzione come risultato di colture fallite, disastri naturali, blocco delle importazioni, sospensione della distribuzione, eccessive perdite nei raccolti, o altri tipi di interruzioni nelle forniture.
Paesi con una diffusa carenza di accesso, dove la maggior parte della popolazione è incapace di acquistare alimenti nei mercati locali, a causa di stipendi molto bassi, dei prezzi eccezionalmente alti dei generi alimentari, e dell’impossibilità di questi di circolare all’interno del paese.
Paesi con una seria insicurezza alimentare localizzata, dovuta alla presenza di rifugiati, alla concentrazione di persone senza abitazione, o aree in cui ai cattivi raccolti si combina la povertà pregressa.”
Se si cerca tra i fattori che minano la possibilità di una agricoltura sostenibile, è chiaro che la guerra ne influenza numerosi. Gli embarghi, il blocco della distribuzione e della circolazione interna, l’esodo o il continuo spostamento delle popolazioni da un posto ad un altro sono la conseguenza di conflitti passati o in corso. E questo crea un circolo vizioso. Quando il capo del FMI metteva in guardia sull’inedia totale e sulle terribili conseguenze se i prezzi degli alimenti fossero continuati a salire, disse: “come sappiamo, come abbiamo imparato dal passato, questo tipo di questioni a volte sfociano in una guerra.” Le guerre sono dei fattori che favoriscono la crisi alimentare, che a sua volta aumenta il rischio di guerra.
Non ci sorprende che la FAO parli di “crisi” e di “assistenza esterna”. Essa può pensare solo in termini di risposte alle emergenze immediate, ad azioni a breve termine per un problema che nel capitalismo non ha nessuna soluzione di lungo termine. Può solo concepire “aiuti esterni” perché, nell’anarchia della produzione capitalistica, i paesi poveri non hanno nessuna possibilità di uscire dalla loro attuale situazione, e contano sugli aiuti che i paesi ricchi gli inviano per sopravvivere.
Quando organizzazioni come la FAO, il FMI, la Banca Mondiale, il WTO ecc., si incontrano per parlare della crisi alimentare, riescono solo a proporre varie forme di aiuto, sussidi e prestiti. Ci sono a volte campagne per modificare qualche modello di produzione, ma questi possono solo avere effetti minimi sulla situazione complessiva. Il 2008, per esempio, è stato dichiarato l’anno internazionale della patata. La FAO enfatizza le qualità nutrizionali della patata e come questa sia stata trascurata quale potenziale risorsa di reddito. Ma nessun diversivo di questo tipo può risolvere il problema alla base, tanto meno i cosiddetti modelli di commercio “equo e solidale”, che comunque lasciano in piedi lo sfruttamento.
La realtà è che l’aumento dei prezzi degli alimenti, così come quello dei carburanti, non è altro che un diretto prodotto della crisi economica internazionale. Non è all’interno del capitalismo che si possono trovare gli strumenti per affrontare e risolvere la crisi alimentare , perché è il capitalismo stesso che la genera. Per questo non possiamo credere a nessuna soluzione che lasci intatte le regole del capitalismo. Questo sistema deve essere smantellato a livello mondiale e sostituito con un altro sistema di produzione nel quale il cibo e tutti gli altri beni necessari alla vita siano prodotti e distribuiti sulla base delle esigenze degli uomini, senza denaro né profitto.
Al summit sull’alimentazione di Berna, Ban Ki-moon metteva in guardia sullo “spettro della fame diffusa, sulla malnutrizione e sul malcontento sociale ad un livello senza precedenti.”
È lo spettro di una lotta di classe in crescita che disturba la classe dominante.
Car, 29/4/08
(da World Revolution n.314, pubblicazione della CCI in Gran Bretagna)
1. Il Food Stamp Program, organizzato dal Dipartimento dell’agricoltura degli Stati Uniti, aiuta le persone senza reddito o con un reddito basso ad acquistare alimenti aventi valore nutritivo. I buoni alimentari non sono contanti. Si tratta di una carta elettronica utilizzabile come una carta di credito per acquistare viveri.
Sono ormai passati due mesi pieni dalle elezioni politiche 2008 che hanno decretato l’espulsione dal parlamento italiano di qualunque rappresentanza di partiti di “sinistra borghese” (verdi, Rifondazione, ecc.) ed è venuto il momento di fare un bilancio “a freddo”, una volta digerito almeno in parte il clamore dell’evento.
Nell’editoriale dello scorso numero del giornale mettevamo in evidenza che “… dal punto di vista psicologico questo fatto ha scosso molta gente. Subito dopo le elezioni c’erano tanti che si domandavano: “e adesso …?”. Altre persone, più o meno “di sinistra”, invece si interrogavano sull’accaduto e se la prendevano “con gli altri”, quelli che si erano astenuti o che avevano votato a destra, se le cose erano andate in un certo modo.”
Nello stesso articolo facevamo inoltre la previsione che “il ruolo di falsa opposizione che la sinistra ha finora giocato in parlamento sarà espresso d’ora in poi nelle piazze, tanto più che adesso al governo ci sta un Berlusconi contro il quale si può dire quello che si vuole perché sembra fatto apposta per lasciare sfogare liberamente i proletari.” In questo articolo ci proponiamo di esaminare come è evoluta la situazione.
1. Il governo Berlusconi mostra i muscoli
Dalle prime mosse del 4° governo Berlusconi si è percepita un’atmosfera nuova, quella impressa da un governo di destra convinto e deciso ad essere tale. Le prime dichiarazioni lo avevano annunciato e le misure prese rispetto all’utilizzo dei militari per fare fronte alla questione sicurezza, all’introduzione del reato di clandestinità per contrastare l’immigrazione clandestina e la totale militarizzazione degli impianti di discarica come deterrente contro le proteste sociali lo hanno pienamente confermato. E’ chiaro che Berlusconi ha fatto carriera, ha imparato il mestiere, ma soprattutto la schiacciante vittoria sulla pallida sinistra gli permette di non esitare più negli affondi contro la classe operaia. Naturalmente Berlusconi è sempre Berlusconi e non smette di curare i suoi affari personali, come dimostrato dall’emendamento che ha tirato fuori dal cappello e costruito completamente ad personam per bloccare tutta una serie di processi, compresi guarda caso quelli contro di lui. Sintomatico di questo atteggiamento nuovo è il piano finanziario presentato di recente da Tremonti in cui, di tutti i problemi relativi al potere di acquisto delle famiglie e dei redditi che erano stati sbandierati durante la campagna elettorale non se ne parla più, mentre invece viene varata una manovra di ben 34,8 miliardi di euro, con 24 di tagli agli enti locali e 6 alla sanità e improntata a “meno costi, più libertà e più sviluppo”, come cita lo slogan del Ministro. Ma meno costi significa licenziare, ed ecco che il ministro Brunetta è pronto a puntare il dito sui cosiddetti fannulloni del pubblico impiego meritevoli di un più facile licenziamento. Così, nella sola scuola, sono già programmati 100.000 licenziamenti. Non è un caso che sempre Tremonti abbia detto: “Prima lo sviluppo poi potremo redistribuire la ricchezza. Se lo sviluppo funziona e c’è un aumento di ricchezza, questa sarà poi oggetto di una politica di equa divisione” (1). Ci vuole un bel cinismo a chiedere alla povera gente che non arriva alla quarta settimana del mese con lo stipendio di fame che riceve di continuare ad aspettare, sotto la pressione ideologica che ti fa apparire un fannullone o un parassita se protesti, ed è oltretutto vergognoso parlare di una “politica di equa divisione” di una ricchezza prodotta che è invece tutto frutto del sudore della fronte dei lavoratori e che arriva in quote percentualmente sempre più basse nelle tasche di chi lavora. Ma Berlusconi ha anche il tempo e l’ardire di fare il populista, cancellando l’ICI sulla prima casa, parlando (ma solo parlando) di eliminazione dei ticket sui medicinali, varando la Robin tax, che crea una maggiore tassazione di società petrolifere, banche e assicurazioni per togliere ai ricchi e dare ai poveri. Il fine dichiarato è quello di finanziare una carta prepagata da 400 euro che arriverà a un milione e duecentomila pensionati con mensili minimi e utilizzabile per cibo e utenze (2). E gli altri 4 milioni di poveri chi li sostiene? E tutte le famiglie ai margini dell’indigenza? Naturalmente a questi quesiti non ci sono risposte perché, il governo Berlusconi, come pure il precedente governo di “centro-sinistra” Prodi, è del tutto incapace di dare una qualsivoglia prospettiva alla gente.
2. Le reazioni nella classe operaia e i tentativi di recupero della “sinistra borghese”
La situazione che si vive nella classe operaia in Italia in questo momento è particolarmente importante. Infatti si sovrappongono sentimenti diversi, dallo scontento accumulato per le condizioni difficili in cui vive alla sfiducia crescente in questo o quel governo a risolvere a fondo le questioni. Come già detto nel precedente articolo (3) lo stesso contributo al voto di destra – in particolare alla Lega - attribuibile a settori di classe operaia è stato esso stesso espressione della perdita delle illusioni per i partiti sedicenti operai, anche se nell’immediato questo non si traduce in coscienza positiva di una alternativa di classe. Di fatto la situazione attuale vede nel proletariato in Italia un certo stordimento dovuto al fatto che, dopo una lunga sofferenza per una crisi di identificazione in una sinistra in cui tendeva a credere sempre di meno, vede che questa sinistra adesso viene profondamente punita e umiliata dai risultati elettorali. Questo evidentemente non può che dare i capogiri alla classe operaia perché, se è vero che il discredito di questa sinistra è forte, è anche vero che trovarsi da un momento all’altro senza alcuna rappresentanza di sinistra nel parlamento, oltre che nel governo, è qualcosa che non si era mai visto. E’ in questo contesto difficile e promettente al tempo stesso che si avanzano i tentativi della sinistra borghese per rifarsi una verginità e ridarsi una dignità. In queste ultime settimane infatti abbiamo assistito ad una serie incredibile di iniziative e di appelli da parte di tutte le possibili sfumature della sinistra borghese che tutte hanno toccato un tasto a cui sono molto sensibili in questo momento i proletari: ricominciare da capo sulla base dei nostri interessi, ritrovando l’unità e l’identità dei comunisti. Di questa lunga serie di iniziative abbiamo selezionato solo alcune delle più significative:
· l’intervento di Bertinotti che, con “Le ragioni di una sconfitta” (4), se la prende con “L'esperienza del governo Prodi (…) che ha fatto traboccare il vaso della crisi della sinistra. Esso ha pesato persino più di quanto si fosse pure diffusamente pensato a sinistra”, pur non lesinando qualche bordata ai compagni di viaggio: “A questo risultato ha certo concorso la sua disarticolazione interna, la sua divisione in partiti con culture di governo e di lotta assai diverse tra loro” per quindi riproporre un soggetto unico della sinistra;
· l’appello di Diliberto “Comuniste e comunisti cominciamo da noi” (5) in cui si dà la responsabilità a “l’emergere in settori dell’Arcobaleno di una prospettiva di liquidazione dell’autonomia politica, teorica e organizzativa dei comunisti in una nuova formazione non comunista, non anti-capitalista, orientata verso posizioni e culture neo-riformiste”, si prendono le distanze da “l’idea del soggetto unico della sinistra di cui alcuni chiedono ostinatamente una “accelerazione”, nonostante il fallimento politico elettorale” per quindi rivolgere un appello “ai militanti e ai dirigenti di Rifondazione, del PdCI, di altre associazioni o reti, e alle centinaia di migliaia di comuniste/i senza tessera che in questi anni hanno contribuito nei movimenti e nelle lotte a porre le basi di una società alternativa al capitalismo, perché non si liquidino le espressioni organizzate dei comunisti ed anzi si avvii un processo aperto e innovativo, volto alla costruzione di una “casa comune dei comunisti”;
· il Coordinamento dei Comunisti, che ha poi dato luogo al Movimento per la Costituente Comunista (6), secondo il quale le elezioni hanno “confermato il disconoscimento da parte dei lavoratori e delle lavoratrici dei partiti della sedicente Sinistra Radicale. (…) Il PRC, il PdCI, i Verdi hanno dimostrato la propria incapacità a difendere gli interessi degli sfruttati (…).” Per poi proporre alla fine “un processo unitario di costruzione di una Costituente Comunista indipendente a livello locale e nazionale, fuori e contro il bipolarismo”.
· La Costituente dei Comunisti Rivoluzionari (7), a sua volta, riconosce che alcuni (tra loro) avevano creduto che fosse possibile esercitare una pressione sul governo Prodi. “Ma la pressione di Rifondazione e PdCI – se c’è stata – non ha portato ad alcun effetto e viceversa abbiamo pagato la presenza al governo con la rinuncia a costruire lotte contro il governo che sostenevamo. (…) C’è chi, come Bertinotti e Vendola, propone una “costituente della sinistra” che superi il comunismo e dia vita, nei fatti, ad una forza socialista. C’è chi, come Ferrero e Grassi, propone di rilanciare Rifondazione Comunista. C’è chi, come Diliberto e Giannini, propone una “costituente dei comunisti”. Si tratta di proposte diverse ma accomunate da uno stesso riferimento di fondo: l’idea che si debba, prima o poi, tornare a governare con la borghesia “progressista”, col PD di Veltroni e D’Alema, nazionalmente come nelle giunte locali. (…) Noi (diciamo invece) mai più al governo!”
Questa miriade di costituenti, comitati e coordinamenti, che vengono fuori tutti da quella stessa Rifondazione e da quello stesso PdCI che adesso tutti criticano, somigliano tanto ai topi che fuggono dalla nave che affonda e che fino a qualche minuto prima aveva costituito il loro riparo sicuro. Ha ragione un lettore che, leggendo uno di questi appelli, si è così espresso:
“Tutti fanno appelli all’unità ma ognuno vorrebbe che gli altri si riunissero sotto la propria iniziativa già bella e confezionata. Dire che la storia ha azzerato i gruppi dirigenti sconfitti di PRC e PdCI è una pia illusione. Dite che “non pensiamo affatto di poter essere autosufficienti” ma poi nemmeno voi fate niente di concreto per confrontarvi sul serio con gli altri. Tutti fanno appelli, tutti invocano l’unità, ma nessuno risponde a nessuno ed urliamo tutti nel deserto…” (8).
Di fatto tutta questa frenesia della sinistra si spiega in un solo modo: cercare di spostarsi a sinistra, su un piano di maggiore demarcazione dai presunti responsabili dello sfascio, per cercare di recuperare un controllo sulla classe operaia. Ma, benché confusa, nella classe emergono con sempre maggiore insistenza e chiarezza delle espressioni di condanna per questa sinistra e la convinzione che si debba ricominciare su tutt’altra base:
“Forse potranno riavere qualche seggio ma essi sono fuori dai sentimenti profondi della parte più sensibile del giovane proletariato, giudicati quali spregevoli eunuchi del riformismo alla rovescia, scarti buoni solo per il bidone della spazzatura della storia.” (P., 26 maggio 2008) (9).
“Non sopporto questo sistema, non mi identifico con nessuno che pretende di rappresentami, perché in realtà nessuno mi rappresenta. Dietro i sorrisi, la musichetta anni '80, l’ostentato ottimismo c’è tanta paura, precarietà, preoccupazione, depressione, ansia, panico... e chi più ne ha più ne metta.” (S., maggio 2008) (9).
Queste voci nitide di classe che si levano all’interno di una situazione di esitazione e di incertezza, relative soprattutto a capire cosa fare in futuro, non devono essere disperse, non devono cadere nel nulla. Devono viceversa unirsi e fare corpo con quella dei rivoluzionari e partecipare a quel lavoro di chiarificazione e di solidarizzazione all’interno della classe operaia che è così importante per preparare le grandi lotte che si preparano davanti a noi.
Ezechiele, 23 giugno 2008
1. Ticket, fannulloni e card per poveri “Così faremo ripartire l’Italia”, La Repubblica, 19 giugno 2008.
5. www.comunistiuniti.it/2008/04/17/appello/#more-3 [3]
6. www.coordinamento-comunisti.it [4]
7. www.costituenterivoluzionaria.org [5]
8. L’intervento è presente sul sito www.coordinamento-comunisti.it [4]
9. Dalla corrispondenza di nostri lettori e simpatizzanti.
A più di sette mesi dallo scoppio dell’emergenza rifiuti in Campania nulla è stato risolto, anzi la situazione è peggiorata. Tonnellate di spazzatura continuano ad invadere le città campane, 2.500 solo a Napoli, e vanno in putrefazione sotto un sole cocente, un paradiso per ratti e scarafaggi; le settemila tonnellate di false eco balle continuano a troneggiare nelle campagne mentre le vecchie discariche, abusive e non, continuano a disperdere nel terreno chissà quali e quante sostanze nocive.
E cosa ha saputo fare lo Stato? Ben poco e quel poco nel disprezzo assoluto dell’ambiente e della salute della popolazione:
- si è continuato a stipare spazzatura in discariche ormai stracolme come in quella di Pianura;
-sono stati fermati gli impianti di Cdr per metterli a norma in modo da produrre delle vere eco balle, poi il nuovo governo ha deciso che, nel frattempo, questi impianti possono essere anche trasformati in siti di trasferenza, cioè dove viene accumulata la spazzatura in attesa che, in un futuro a venire, vengano trattati. Intanto i lavori per un impianto di compostaggio già in costruzione nella zona di Caserta (impianto da 6 milioni di euro e capace di trattare 30.000 tonnellate al giorno di rifiuto organico) sono stati interrotti perché sotto uno dei due capannoni destinati alla lavorazione dell’umido e sulla piazzola per il deposito del compost ultimato si è deciso di stoccare, non si sa per quanto tempo, una ventina di migliaia di tonnellate di balle. In altre parole, si blocca la realizzazione di strutture necessarie ad una futura gestione idonea dei rifiuti per riuscire a tamponare l’equivalente di appena 3 giorni di consumi campani, perché non si sa dove mettere la spazzatura;
- sono stati creati dei siti di stoccaggio provvisorio sempre nelle aree già altamente a rischio e invece di seguire una procedura a norma, che prevede che i rifiuti vengano prima pretrattati e stabilizzati in modo da renderli inerti e poi depositati fra strati di terreno, le tonnellate di rifiuti sono state ammassate su piattaforme di cemento senza alcuna stabilizzazione e senza essere ricoperti di terreno. Per di più in alcuni siti hanno accumulato tanta di quella spazzatura che il peso (o la base in cemento così mal progettata e realizzata) ha fatto incrinare le piattaforme di cemento per cui il percolato sta andando a finire nel sottosuolo;
- per quanto riguarda la costruzione di nuove discariche, l’esperienza ha ormai dimostrato che quando le discariche vengono approntate in tutta fretta, come ora quella di Chiaiano e di Serre, i lavori vengono fatti male, lo strato di argilla che dovrebbe garantire l’impermeabilizzazione non viene steso bene e questo si traduce nel fatto che alla fine queste discariche perdono, inquinando tutto il sottosuolo;
- è prevista la costruzione di nuovi inceneritori, ma intanto quello di Acerra è fermo. La Fibe, che lo ha gestito fino ad ora, si è fatta i conti in tasca e tra i tanti processi a suo carico e la difficoltà a gestire una situazione come questa, ha preferito tirarsi indietro. Gli altri imprenditori non hanno proprio voluto partecipare alla gara di appalto per questa “patata bollente”;
- in quanto alla raccolta differenziata, veramente non si sa se piangere o ridere di fronte alle grandi pensate del governo: per decenni non si è riusciti a metter su neanche le infrastrutture più elementari per la differenziata a Napoli ed adesso cosa si vuol fare? Sensibilizzare i bambini con tante iniziative nelle scuole e mandare 1.000 volontari della Protezione civile a Napoli (che ha più di 1 milione di abitanti), per due settimane, a fare la differenziata porta a porta! Certo, utilizzare le migliaia e migliaia di disoccupati “locali” che chiedono lavoro, non si può. Bisognerebbe pagarli!
Nonostante le assicurazioni di Berlusconi, le popolazioni campane hanno tutti i motivi per essere preoccupate perché, al di là delle tante chiacchiere che si stanno sentendo, il dato di fatto è che di fronte ad un tale disastro, le cui cause non sono certo né locali né contingenti1, quello che lo Stato riesce a fare è solo mettere delle toppe che nell’immediato danno un po’ di respiro, ma nel complesso non fanno che peggiorare la situazione.
Berlusconi ci assicura che entro luglio le strade saranno liberate dalle tonnellate di spazzatura, ma a quale prezzo? Gettando tutto in maniera indifferenziata nelle discariche, nei siti di stoccaggio provvisori e nello stesso inceneritore di Acerra per tre anni, comprese le sostanze altamente pericolose, sostanze che secondo le normative europee richiedono uno smaltimento speciale per la loro elevata tossicità. Poi magari fra qualche anno scoppierà un nuovo “scandalo” con tanto di statistiche ufficiali sull’aumento in queste zone della mortalità per tumori, delle malformazioni natali, delle malattie ai polmoni ed al fegato.
Oltre al danno anche la repressione e la militarizzazione
In effetti c’è però una cosa che il nuovo governo ha fatto, riscuotendo il consenso di tutta la borghesia: dal capo dello Stato Napolitano che nel suo discorso per l’anniversario del 2 giugno ha detto “basta con le intolleranze, basta con le ribellioni”, al governo ombra della sinistra che ha spinto perché il decreto sull’emergenza rifiuti fosse varato subito senza “perdere tempo con emendamenti”.
Questo governo ha mostrato il pugno di ferro. Cosa che il precedente governo avrebbe potuto fare solo con un ulteriore discredito della sua immagine di governo “di sinistra”.
Il 24 maggio a Chiaiano, la polizia carica ripetutamente con manganelli e lacrimogeni una manifestazione contro la nuova discarica dove c’erano persone anziane, donne, intere famiglie che già da anni subiscono sulla propria pelle le conseguenze del degrado ambientale. Bilancio: una decina di manifestanti finiti in ospedale tra i quali uno con le gambe fratturate perché per le manganellate ricevute sulle mani è caduto da un muro di dieci metri sul quale si era aggrappato. Un altro perché “Pensavo di mettermi in salvo - racconta - avrei voluto dire agli agenti che, se mi avessero sfiorato, mi sarei lanciato nel vuoto. Non ho avuto tempo, mi hanno spinto e sono caduto. Ho un bimbo di due anni, dovrò essere operato. Non potrò lavorare per molto tempo, chi mi ripagherà?” (La Repubblica, 24 maggio); tre persone processate per direttissima e condannate agli arresti domiciliari con l’accusa di partecipazione a episodi di guerriglia con l’aggravante del raid “collettivo”. Padre e figlio carrozzieri ed un ragazzo attivista dei centri sociali.
Commento del neo ministro degli Interni Maroni: “Azioni ingiustificabili le aggressioni alle forze dell’ordine” (La Repubblica , 25 maggio).
Ed oltre alla violenza e l’incriminazione anche la colpevolizzazione: “non bisogna chiudersi in visioni tipo ‘smaltire l’immondizia va bene ma da un’altra parte’. Se tutti dicono così, i rifiuti rimarranno nelle strade e sarà una catastrofe” (Napoletano, citato da La Repubblica, 31 maggio), oppure “…è chiaro che non fa piacere una discarica sul proprio territorio, ma è un principio di democrazia, di equità, che i rifiuti vengano gestiti nel territorio in cui sono prodotti” (Maroni, idem).
Ma non basta. Subito dopo con il nuovo Decreto di legge sull’emergenza rifiuti si sancisce che “I siti, le aree e gli impianti comunque connessi all’attività di gestione dei rifiuti costituiscono aree di interesse strategico nazionale”, cioè questi diventano zone militari. Il che significa non solo che Berlusconi può mandare l’esercito dove gli pare, visto che ormai la Campania è tutta una discarica, ma anche che “chiunque si introduce abusivamente nelle aree di interesse strategico nazionale ovvero impedisce o rende più difficoltoso l’accesso autorizzato alle aree medesime è punito a norma dell’articolo 682 del codice penale”. Tradotto: chiunque osa fare manifestazioni, picchetti o semplicemente sostare non solo davanti alle discariche ma entro un ampio raggio verrà arrestato immediatamente e tenuto in galera da tre mesi a un anno come minimo.
Essendo zone militari la stessa magistratura ha ora meno poteri di controllo e questo, come ci spiega Berlusconi “per evitare che provvedimenti di un singolo magistrato facciano saltare il circuito” (La Repubblica, 31 maggio), cioè il procedere dell’accumulo indiscriminato dei rifiuti.
E naturalmente ci si sbarazza anche delle limitazioni che potrebbero venire da tecnici ed esperti del settore, chiamati fin’ora a fare le valutazioni di impatto ambientale, decretando che da adesso in poi sarà il consiglio di ministri, su proposta del capo del governo, a decidere dove e come smaltire i rifiuti.
Insomma la gestione dei rifiuti diventa un “affare di Stato” in cui neanche gli esponenti locali della stessa classe dirigente, come ad esempio i sindaci, o un suo organismo come la magistratura possono interferire, perché la priorità in questo momento è porre un freno al dilagare dell’immagine di uno Stato inefficiente, di una classe dirigente corrotta e collusa con la camorra. Bisogna a tutti i costi dare una parvenza di ritorno alla normalità, ad un “vivere civile”. Infatti quello che preoccupa di più la borghesia è il fatto che questa sua incapacità a dare una risposta reale alle più basilari esigenze di vita della stragrande maggioranza della popolazione campana possa far generare una riflessione, e non solo a livello locale, sul fatto che se si è costretti a vivere così non è per colpa di questo o quel politico, dell’amministrazione di destra o di quella di sinistra, ma di un sistema che è capace solo di spremerti fino all’osso, di toglierti letteralmente la salute senza ormai riuscire a darti più nulla in cambio.
Se l’impiego della militarizzazione e della repressione rispondono nell’immediato all’esigenza di ridare credibilità alla classe dirigente e ristabilire una certa calma sociale, è vero però che questi alla lunga possono costituire un ulteriore elemento di discredito verso la classe dirigente e di riflessione. E’ significativo infatti che proprio a Chiaiano, dopo le cariche della polizia, i commenti erano del tipo “non solo ci fanno ammalare di cancro, ma ci prendono anche a manganellate e ci mettono in galera” oppure, alla notizia dell’impiego dell’esercito “adesso mandano l’esercito contro di noi, ma perché non lo hanno mandato prima contro la camorra?”. Il pericolo, per la borghesia naturalmente, è che si possa fare il legame tra questo degrado ambientale ed il degrado crescente che siamo costretti a subire sul piano economico e su quello delle condizioni di lavoro.
Un legame che è indispensabile per capire che il problema dei rifiuti è ben più grave e vasto di quello che si sta vivendo in Campania perché la sua origine è la stessa delle morti sul lavoro, della disoccupazione, del precariato, della mancanza di futuro: il sistema economico capitalista, la cui sola legge è quella del profitto2, ed alla quale si sacrifica ciecamente tutto, anche la vita degli esseri umani e di tutto il pianeta.
Eva, 22 giugno 2008
1. Sulle cause dell’Emergenza rifiuti vedi in nostri articoli “Emergenza rifiuti in Campania: di chi è la responsabilità”, CCIonline, it.internationalism.org [8], “Emergenza rifiuti in Campania: un sintomo del degrado del capitalismo” e “L’emergenza rifiuti è solo in Campania: una “zuppa di plastica” nell’oceano Pacifico” in Rivoluzione Internazionale n.154, sempre sul nostro sito.
2. Idem
Mai tanti paesi sono stati toccati simultaneamente da lotte e ciò testimonia la forza e la combattività operaia a scala internazionale. Anche in Italia, dove non ci sono episodi di lotte estese, ci sono state una serie di scioperi, lotte e proteste, in situazioni locali menzionate magari qui e lì in qualche piccolo trafiletto nella stampa o su internet, ma che fanno parte della dinamica alla ripresa dello sconto di classe che si sviluppa nel mondo. Come ad esempio la lotta degli operai della Fiat di Pomigliano D’Arco, vicino Napoli che per più di un mese hanno fatto manifestazioni, picchetti e assemblee davanti ai cancelli della fabbrica per opporsi al “trasferimento” di 316 operai in altra zona, perché giustamente percepito come anticamera al licenziamento, e al licenziamento di uno di loro che “dava fastidio” alla direzione.
In Europa
- Belgio: a marzo, scioperi alla Ford di Genk, alla Posta di Mortsel contro i contratti a tempo, sciopero del trasporto pubblico a Bruxelles e scioperi selvaggi in un gruppo petrolchimico BP e nell’impresa logistica Ceva contro dei licenziamenti.
- Grecia: 3 giorni di sciopero generale di 24 ore all’inizio dell’anno contro la riforma delle pensioni (riduzione delle pensioni dal 30 al 40.%, incitamento a lavorare oltre i 65 anni per gli uomini e 60 anni per le donne, soppressione dell’andata in pensione anticipata)2 e contro la riforma della sicurezza sociale (fusione di fondi, riduzione del numero di fondi assistenza con soppressione dei vantaggi in favore dei lavoratori con attività usurante). Questi scioperi hanno paralizzato le principali attività del paese: trasporto, banche, stazioni, telecomunicazioni, ferrovie, ecc. L’ultimo, il 19 marzo, ha raggruppato milioni di persone nelle strade.
- Irlanda: sciopero di 40.000 infermieri per più di 15 giorni fin da inizio aprile per rivendicare più del 10% di aumento salariale ed una riduzione del tempo di lavoro a 35 ore, mentre i piloti di Aer Lingus lottano contro le loro future condizioni di lavoro con l’apertura di un nuovo terminal a Belfast. Il 4 aprile sciopero selvaggio contro le direttive sindacali di 25 conducenti di autobus a Limerick per chiedere un nuovo contratto salariale.
- Russia: alcune miniere di bauxite sono state occupate da 3.000 lavoratori per più di una settimana. Reclamavano un aumento salariale del 50% ed il riconoscimento di diritti sociali precedentemente soppressi. Questo movimento ha suscitato una viva simpatia nel paese e l’appoggio della popolazione locale. La direzione ha concesso il 20% di aumento salariale ed ha riconosciuto una parte di diritti sociali.
- Svizzera: a Bellinzona (Ticino), un mese di sciopero di 430 operai di reparti meccanici contro la soppressione di 126 impieghi a CFF Cargo che è terminato il 9 aprile con il ritiro del piano di ristrutturazione (dopo la manifestazione del 7, a Berna, dove è stata manifestata la solidarietà di altri lavoratori).
- Turchia: la guerra in Kurdistan non ha impedito uno sciopero massiccio nei cantieri di Tuzla sul mar di Marmara di 43.000 operai. In seguito ad una manifestazione repressa dalla polizia, il 28 febbraio, molte migliaia di operai hanno scioperato per 2 giorni ed il sit-in davanti al cantiere è stato ancora una volta caricato dalla polizia (pestaggi e 75 arresti). “Le nostre vite hanno meno valore dei loro cani” hanno gridato con rabbia gli scioperanti, dimostrando volontà di battersi per la loro dignità! Gli operai non hanno ripreso il lavoro se non dopo la liberazione degli scioperanti arrestati ed dopo aver avuto dalla direzione la promessa di accettare alcune rivendicazioni (miglioramento delle condizioni di igiene e sicurezza, garanzia su contributi sociali e salario, limitazione del lavoro a 7 ore e mezzo al giorno...).
In Africa
- Algeria: 3 giorni di sciopero “illegale” nella funzione pubblica dal 13 aprile (1,5 milioni di salariati) per un aumento del salario di base ed contro una nuova gabbia salariale; il 10 aprile, sciopero di 207 magazzinieri in una fabbrica di cemento ad Hammam Dalaâ nella regione di M'sila con una lista di 17 richieste contro le loro condizioni di lavoro.
- Camerun: molti scioperi a ripetizione tra novembre 2007 e marzo 2008 contro le condizioni di lavoro inumane nei palmeti della Socapalm legati ad un gruppo belga ed al francese Bolloré.
- Swaziland: fine marzo, minaccia di 16.000 operai tessili di mettersi in sciopero per ottenere salari migliori e indennità in questo vecchio “bantustan” (regione autonoma) del Sudafrica.
- Tunisia: 6 e 7 aprile, 30 anni dopo lo sciopero generale e l’esplosione di rabbia del gennaio 1978 nella stessa regione, duramente represso (più di 300 morti), nuova repressione ed ondata di arresti nella zona mineraria del bacino di Gafsa contro operai mobilitati fin da gennaio contro la perdita di lavoro nella regione; sciopero contro le condizioni di lavoro il 10 marzo nella società di telemarketing di Teleperformance che impiega 4.000 persone.
In America
- Canada: sciopero selvaggio a Olymel (Vallée Jonction). Meno di un anno dopo la ratifica da parte dei sindacati di una convenzione che accettava il taglio del 30% dei salari ed il loro blocco per 7 anni in cambio di una promessa sul mantenimento del lavoro, un gruppo di 320 operai di una fabbrica di intaglio è sceso in sciopero spontaneamente in seguito ad una multa ad un operaio che è arrivato tardi sul posto di lavoro. La direzione fa intervenire il sindacato per chiedere la ripresa del lavoro e per non determinare un rallentamento della produzione; subito dopo, il 70% degli operai decide in Assemblea Generale uno sciopero selvaggio ed illimitato a partire dal 20 aprile.
- Stati Uniti: sciopero degli sceneggiatori di Hollywood e di 5.000 lavoratori della catena televisiva MTV; sciopero a Detroit (Michigan) ed a Buffalo (Stato di New York) di 3.650 operai dal 26 febbraio presso la Axle & Manufacturing Holding (fabbricante di componenti della General Motors e Chrysler) su appello del sindacato UAW contro una riduzione dei salari e dei benefici sociali; arresto del lavoro contro il proseguimento della guerra in Iraq ed in Afganistan annunciato il 1° maggio dagli scaricatori di porto della costa Ovest.
- Messico: 11 gennaio, sciopero nella più grande miniera di rame del paese a Cananea (provincia di Sonora nel nord del paese) per il miglioramento dei salari e delle condizioni di salute e sicurezza dei minatori. Questo sciopero è dichiarato illegale ed una repressione violenta della polizia e delle forze speciali della sicurezza si abbatte sui lavoratori (tra i 20 ed i 40 feriti, molti arresti). Dopo il riconoscimento da parte del tribunale della legalità dello sciopero, il 21 gennaio un nuovo sciopero coinvolge 270.000 minatori.
- Venezuela: lo sciopero massiccio dei siderurgici (seconda attività industriale del paese nella provincia della Guyana sull'Orénoque) è duramente represso dal presunto “campione del socialismo del 19° secolo” Chavez .
In Asia
- Cina: 17 gennaio, rivolta degli operai del Maersk nel porto di Machong. Soltanto in questa regione (dal delta del Fiume delle Perle al sud-est del paese in un perimetro molto industrializzato – 100.000 imprese, 10 milioni di operai - compresi tra Canton, Shenzhen ed Hong-kong), dall’inizio dell’anno scoppia almeno uno sciopero al giorno di più di 1.000 operai!
- Emirati: Dopo avere ceduto ad una parte delle rivendicazioni della massiccia rivolta degli operai e degli immigrati di Dubaï3, si scatena su questi una repressione che deve servire da “esempio”: condanna a 6 mesi di prigione dura ed espulsione a posteriori di 45 operai per “incitamento allo sciopero”. Ma questa lotta non è stata senza effetti: 1.300 lavoratori edili dell’Emirato vicino, il Barein, che subiscono le stesse condizioni di sfruttamento, prossime alla schiavitù, si sono messi in sciopero per una settimana all’inizio di aprile. Tale era grande il rischio di contagio nella regione che ottenuto rapidamente un aumento salariale. La mano d’opera straniera rappresenta più di 13 milioni di persone nei sei emirati del Golfo.
- Israele: a marzo, sciopero selvaggio degli addetti ai bagagli della compagnia El Al; sciopero per i salari degli impiegati alla borsa di Tel-Aviv che, fin dal febbraio scorso, perturbano quotidianamente i mercati finanziari per protestare contro le ore supplementari e la precarietà.
(da Révolution Internationale n. 390)
1. Sul nostro sito www.internationalism.org [10] si possono trovare articoli, volanti ed altro sulle lotte in Francia, in Spagna ed altri paesi.
2. Bisogna dire che il governo conservatore era stato rieletto a settembre 2007 con la promessa che non avrebbe toccato i trattamenti pensionistici.
3. Vedi “Lotte operaie a Dubaï”, su Rivoluzione Internazionale n. 154
Pubblichiamo qui di seguito un articolo inviatoci dai compagni del gruppo Internasyonalismo delle Filippine. Questo articolo ci mostra l’ipocrisia dalla classe dirigente filippina, sia al potere che all’opposizione, di fronte alla sofferenza della popolazione colpita da una crisi alimentare che non deriva dagli scarsi raccolti, ma dalla sete insaziabile dell’economia capitalista per il profitto a qualunque costo. Un costo che nell'immediato viene pagato dalla classe operaia e da masse poverissime colpite dal massiccio aumento dei prezzi degli alimenti, ma che, a lungo termine, sarà pagato dall’intera umanità per la cinica irresponsabilità della classe capitalista che sempre più rovina il sistema ecologico da cui dipende la produzione alimentare.
L’articolo si concentra sul ruolo della produzione dei bio-combustibili e sulla degradazione delle regioni risicole super sfruttate. Secondo noi va aggiunto un altro elemento: il ruolo giocato dalla diversificazione del capitale speculativo dai mercati interni degli Stati Uniti ed europei nel mercato delle materie prime - ed in particolare nel mercato dei “futures” per gli alimenti. Secondo Jean Ziegler, il Relatore speciale delle Nazioni Unite per il diritto al cibo, mentre l'uso del grano per la produzione del bio-combustibile è il principale responsabile per l’aumento dei prezzi degli alimenti, il 30% dell’'aumento può essere direttamente attribuito alla speculazione sui mercati delle materie prime1.
Solo recentemente i media hanno posto l’attenzione sulla crisi alimentare mondiale, ma questa si sta sviluppando costantemente da decenni. Anche se le rivolte per il cibo, da Haiti al Bangladesh, dal Pakistan all’Egitto, hanno posto all’attenzione mondiale l’ascesa dei costi dei prodotti di base, queste sono tutte il diretto risultato di anni di devastazioni accumulate dal capitalismo. Per un certo tempo i governi nazionali, come quello del regime di Arroyo, hanno cercato di ignorare i segni della crisi incombente, anche quando il prezzo del riso nei mercati pubblici è aumentato vertiginosamente raggiungendo il valore più alto degli ultimi 34 anni nelle Filippine. Il presidente filippino ha persino fatto una battuta arguta dicendo che non c’era scarsità di riso perché è “un fenomeno fisico che la gente si metta in coda sulla strada per comprare il riso. Vedete le code oggi?”2.
Il mondo è nel pieno di un aumento senza precedenti del prezzo degli alimenti, come non si vedeva da decenni. Gli aumenti interessano la maggior parte dei generi alimentari, specialmente i principali alimenti come mais, riso e frumento. Secondo la FAO tra marzo 2007 e marzo 2008 i prezzi del grano sono aumentati dell’88%, oli e grassi del 106% e i prodotti caseari del 48%. Un rapporto della Banca Mondiale ha precisato che in 36 mesi (fino a febbraio 2008), i prezzi di tutti gli alimenti sono aumentati dell’83% e ritiene che la maggior parte dei prezzi degli alimenti rimarrà ben al di sopra dei livelli del 2004 fino al 2015 come minimo3.
In Tailandia la qualità di riso più consumata, che veniva venduta cinque anni fa a 198 dollari la tonnellata, è stata quotata a più di 1.000 dollari la tonnellata il 24 aprile 2008 e secondo i commercianti e gli esportatori continuerà ad aumentare a causa della difficoltà nei rifornimenti4. Lo stesso fenomeno si ripete dappertutto. Nelle Filippine il prezzo del riso, dal prezzo al dettaglio di 60 centesimi di dollaro al chilo di un anno fa, è aumentato oggi fino a 72 centesimi. Ed in un paese dove 68 milioni dei suoi 90 milioni di abitanti vive con meno di 2 dollari al giorno, questo si è trasformato in un incubo dalle proporzioni orribili5.
La crisi alimentare mondiale è il risultato inevitabile della crisi permanente del capitalismo dalla fine degli anni ‘60. Varie economie nazionali hanno combattuto per rimanere a galla in un mondo di intensa competizione e di speculazione capitalista in un mercato mondiale già saturo. Di conseguenza i governi hanno adottato politiche economiche che si sono orientate verso l'incoraggiamento dello sviluppo di industrie che potevano iniettare più dollari nelle rispettive economie piuttosto che di quelle che potevano soddisfare le esigenze della popolazione. Questo, insieme ad un uso insostenibile delle risorse naturali e l’assalto al profitto di una produzione industriale che aggrava l’inquinamento e l’emissione di gas serra dappertutto, pone l’umanità di fronte alla sua distruzione a causa dell’intruglio delle ricette capitaliste.
L’uso di azoto e della super aerazione dei terreni per aumentare le produzioni agricole capitaliste hanno distrutto la produttività totale dei fertili centri agricoli di una volta. E mentre è vero che l’applicazione di metodi avanzati in agricoltura all’inizio della rivoluzione verde ha determinato dappertutto aumenti nella resa, in seguito abbiamo visto cadute graduali nella produzione in molte parti del mondo. Secondo un rapporto dell’Istituto di Scienza nella Società di Londra: “In India, la produzione di grano per unità di fertilizzante utilizzato è diminuita di due terzi durante gli anni della Rivoluzione Verde. E lo stesso è accaduto altrove. Fra il 1970 e il 2000, la crescita annuale nell’utilizzo di fertilizzante sul riso asiatico è stata da 3 a 40 volte maggiore della crescita della produzione di riso. Nel centro di Luzon, nelle Filippine, la produzione di riso è aumentata del 13% durante gli anni 80, ma è stata ottenuta al prezzo di un aumento del 21% nell’uso di fertilizzante. Nelle Pianure Centrali, la produzione è aumentata soltanto del 6.5%, mentre l'uso del fertilizzante è aumentato del 24% e gli antiparassitari del 53%. Nella parte ovest di Giava, un aumento della produzione del 23% è stato ottenuto con un aumento del 65% e 69% di fertilizzanti e antiparassitari rispettivamente.
Comunque è il calo assoluto del rendimento, malgrado gli alti usi di fertilizzante, che alla fine ha bucato la bolla della Rivoluzione Verde. Negli anni ‘90, dopo gli aumenti spettacolari nei primi anni della Rivoluzione Verde, i rendimenti hanno cominciato a diminuire. A Luzon Centrale la produzione di riso è aumentata costantemente negli anni ‘70, ha avuto un picco all'inizio degli anni ‘80 e da allora sta diminuendo gradualmente. Modelli simili sono emersi per la produzione di riso e frumento in India e nel Nepal. Dove i rendimenti attualmente non stanno diminuendo, il tasso di crescita sta rallentando velocemente o resta uguale, come documentato in Cina, Corea del Nord, Indonesia, Myanmar, Filippine, Tailandia, Pakistan e Sri Lanka. Dal 2000, i rendimenti sono caduti ulteriormente, fino al punto in cui in sei su sette anni passati, la produzione mondiale di grano è stata inferiore al consumo”6.
La caccia al profitto di un sistema decadente che è preso dalla propria rete di contraddizioni ha provocato la distruzione della naturale fertilità del terreno fino all’esaurimento. Mentre è vero che l’economia mondiale continua a produrre più cibo dei bisogni mondiali, molto di ciò che è prodotto e distribuito con il commercio globale capitalista deperisce prima di raggiungere il mercato e quando arriva, milioni di persone non possono permettersi di comprarlo. In ultima analisi, il punto finale di questa crisi è l’impoverimento della classe lavoratrice e l’assoggettamento della maggior parte dell’umanità ad una grande povertà e alla miseria. La preoccupazione principale del capitalismo dopotutto è l’accumulazione di plusvalore e mai la soddisfazione dei bisogni della società.
La “crisi del riso” nelle Filippine
Secondo Arturo Yap, Segretario del Ministero dell’Agricoltura delle Filippine, “Non abbiamo una crisi alimentare ma, piuttosto, una crisi del prezzo del riso. Tutti noi stiamo cercando soluzioni innovative nei nostri paesi - come affrontare non solo la questione del rifornimento ma anche la questione dei prezzi, come [essere sicuri] che le famiglie povere possano mangiare”. Ha detto che ci sono 5 motivi critici dietro l’attuale situazione del “riso” nelle Filippine che il governo deve far presente: in primo luogo, c’è un’offerta in gran parte influenzata da una aumentata richiesta che deriva da un aumento della popolazione; in secondo luogo, gli effetti del cambiamento di clima; in terzo luogo, la grande richiesta di combustibili biologici; in quarto luogo, la conversione continua dei terreni agricoli ad usi differenti; e per concludere, c’è una negligenza nel sistema di irrigazione.
Ad una prima occhiata, queste presunte cause della crisi filippina del “riso” possono sembrare valide in sé. Ma in effetti, dietro tutto questo c’è l’innegabile verità che il quadro stesso da cui tutte le cause elencate vengono fuori è la causa fondamentale delle stesse e questo è il quadro internazionale della produzione capitalista.
In primo luogo, il rifornimento - che dicono sia influenzato dall’aumento della richiesta a causa della crescita della popolazione - è solo un pretesto perché la produzione capitalista è diretta più verso la produzione di plusvalore che per i bisogni dell’umanità.
In secondo luogo, l’effetto del cambiamento del clima sulla produzione agricola è un risultato diretto della struttura capitalista della produzione. Per esempio, non è l’industrializzazione in sé ad essere responsabile dei cambiamenti di clima, ma “la ricerca del massimo profitto da parte del capitalismo e l’indifferenza che ne deriva verso i bisogni dell’ambiente ed dell’uomo tranne quando questi coincidono con lo scopo di accumulare di ricchezza”7.
Non c’è dubbio che c’è stata una degradazione terribile dell’ambiente a causa del sistema capitalista mondiale spinto dalla ricerca implacabile per i profitti e l’espansione economica. Ma tutti gli Stati borghesi, incluso quello filippino che riconosce il pesante costo della degradazione ambientale, sono gli stessi Stati che proteggono i rispettivi capitali nazionali nel fare profitto e i loro burattini politici nel sabotare la ricerca e lo sviluppo di energia alternativa per una produzione industriale più rispettosa dell'ambiente.
In terzo luogo, il cosiddetto effetto negativo della grande richiesta di bio-combustibili sulla produzione agricola è di per sé un risultato di tutte le politiche statali, compresa quella del governo Arroyo, che cercano energia alternativa per non dipendere dalle forniture estere. In più, abbassare il prezzo del combustibile, per i presunti fini “sociali”, aumenta anche la capacità di ogni Stato per la produzione militare e la guerra. Non sono tanto le preoccupazioni ambientali che determinano la politica dello sviluppo dei bio-combustibili, ma la necessità di ogni capitale nazionale di proteggersi contro gli alti prezzi del greggio nel mercato mondiale e anche di “aiutare” la preparazione militare di tutte le borghesie. È interessante notare che fin dalla seconda guerra mondiale, i bio-combustibili sono stati utilizzati negli sforzi militari sia dell’Asse che degli Alleati, come la Germania nazista e gli Stati Uniti. Nel caso delle Filippine, la logica nell’orientare i prodotti agricoli dalla tavola ai bisogni dell’industria dei bio-combustibili è conforme agli sforzi del governo filippino per produrre raccolti redditizi che possano aiutarlo nella sua ricerca di maggiori entrate in dollari.
In quarto luogo, la continua trasformazione dei terreni coltivabili ad usi diversi come campi da golf, centri commerciali, complessi industriali, è un risultato diretto delle politiche di governo nell’agricoltura, particolarmente nelle Filippine. Il vecchio Programma decennale di Riforma Agraria Globale (CARP) del governo filippino è stato sia un fallimento che una catastrofe. Non solo il CARP è un programma mistificatorio e reazionario della borghesia filippina sostenuto da alcune organizzazioni di sinistra, ma non è neanche un programma economicamente valido. Nel periodo in cui la dura concorrenza capitalista nel mercato mondiale distrugge i piccoli produttori agricoli per l’alto costo delle loro produzioni e per i debiti, gli agricoltori sono o obbligati ad abbandonare le loro fattorie o devono subire le condizioni precarie imposte dai contratti delle grandi corporazioni, una pratica che è prevalente nella regione di Mindanao delle Filippine8.
Quanto al perenne problema della negligenza nel sistema di irrigazione nelle Filippine, questo è più una questione di cattiva gestione di governo e di corruzione, espressione della decomposizione delle forme ideologiche nella decadenza capitalista, dove l’auto-indulgenza e la mentalità dell’ “ognuno per sé” regna suprema.
Come ci si può attendere da uno Stato borghese, confrontato ad una crisi di grande ampiezza nella fase della decadenza capitalista, lo stato filippino sotto il regime di Arroyo ha risposto alla crisi con l’intervento attivo dello Stato, sostenuto e ferocemente voluto da tutte le formazioni di sinistra delle Filippine nell’ambito della richiesta di una legge che conceda aumenti salariali. Man mano che la morsa della crisi si intensifica, aumentano gli sforzi mistificatori della borghesia per contenerla. La Sinistra e la Destra del capitale sono d’accordo nel seminare l’illusione che “solo lo Stato” può salvare gli operai ed i più poveri dalle fitte della fame e della miseria. Questi ignorano completamente che lo Stato, che loro incoraggiano ad intervenire di più, è lo stesso organo che impone la dittatura borghese che sta proteggendo la fonte stessa della schiavitù e della sofferenza, il capitalismo. Cercando di essere più “radicali” nella forma e nella sostanza, varie correnti di sinistra hanno fatto pressione per un controllo assoluto ed aggressivo dello Stato sulla società.
La “critica” della sinistra che quello che lo sta facendo Stato “non basta” - “aumentando” il budget per l’agricoltura, dando “sussidi per il riso” ai “più poveri" e facendo concorrenza ai commercianti privati nell’acquisto e nella vendita del riso - e che lo Stato manca di “volontà politica”, mostrano chiaramente che la sinistra vuole un controllo assoluto da parte dello Stato. Arrivano persino al punto di brandire il loro antico dogma della dittatura del partito e del totalitarismo - controllo totale dello Stato come nei cosiddetti paesi socialisti che loro hanno difeso come “ciò che restava” della Rivoluzione di Ottobre.
Non c’è soluzione alla crisi del sistema capitalista
La Destra e la Sinistra del capitale sono d’accordo nel mettere avanti programmi mistificatori per nascondere il fatto che non c’è una soluzione alla crisi del sistema. La contraddizione fra le forze produttive ed i rapporti di produzione è già al massimo. Nessun intervento riformista e provvisorio dello Stato può alterare il fatto che qualsiasi soluzione formulata nei bastioni del capitalismo può condurre solo al peggioramento della crisi e alla distruzione dell’ambiente. Ogni effettiva soluzione significherà soltanto un fardello molto più pesante per la classe operaia e per le masse lavoratrici. Anche se lo Stato esercitasse il controllo assoluto della vita economica della società, la crisi continuerebbe ad intensificarsi come conseguenza della saturazione del mercato mondiale e dell’incapacità della popolazione di assorbire l’eccessiva produzione dei prodotti nel contesto di una sistema che basa la sua esistenza sulla della concorrenza e del profitto. La storia ha già dimostrato che il capitalismo di Stato ed il totalitarismo sono la futile reazione del capitale di fronte ad una crisi permanente che continua a peggiorare. La caduta dell’URSS e dell’Europa Orientale negli anni ‘90 lo testimonia.
La soluzione della crisi non è all’interno del sistema morente ma a di fuori di questo. È nelle mani dell’unica classe rivoluzionaria che è portatrice del seme della futura società comunista: la classe operaia. La soluzione non è all’interno dei bastioni del capitalismo, né è nel percorso delle riforme e della trasformazione pacifica del capitalismo al socialismo. La soluzione non è il controllo assoluto dello Stato sulla vita economica della società, ma nella distruzione del capitalismo in sé, con il suo Stato che lo serve come strumento di dominio.
La soluzione della crisi alimentare è distruggere il sistema di produzione basato sul mercato e sul profitto e stabilire un sistema basato sulla produzione assoluta per i bisogni umani. Ed il primo passo in questa direzione e verso la trasformazione rivoluzionaria della società non è nell’approccio giuridico e riformista di varie organizzazioni di sinistra, né è attraverso un intervento assolutista dello Stato. Non è attraverso il percorso pacifico e “legale” delle “lakbayan” (marce di protesta) propagandate dalle formazioni di sinistra nelle Filippine. Non è neanche attraverso il sindacalismo. La risposta è nelle mani della classe operaia sul suo proprio terreno (9), la stessa che subisce gli attacchi del capitale, attraverso i suoi propri organi unitari di lotta, le assemblee operaie, prefigurazione dei consigli operai.
Operai di tutto il mondo, unitevi! È soltanto attraverso il percorso di unità di classe che si può arrivare all’inevitabile culmine del movimento proletario: la rivoluzione proletaria mondiale.
Internasyonalismo, 7 maggio 2008
1. Rapporto pubblicato su Environment News Service e sul sito United Nations site.
2. Gil C. Cabacungan Jr., “Arroyo avvisato sulla crisi del riso”, Philippine Daily Inquirer, 24 marzo, 2008.
3. “La tendenza all’aumento del prezzo del cibo a livello internazionale è continuata e si è accelerata nel 2008. I prezzi all’esportazione di grano americano sono cresciuti da 375 $/ton in gennaio a 400 $ a marzo, e il prezzo all’esportazione del riso della Tailandia è aumentato da 365 $/ton a 562. Questo si aggiunge ad un aumento del 181% del prezzo globale del grano nei 36 mesi precedenti febbraio 2008, e ad un aumento dell’83% del prezzo del cibo nello stesso periodo. (...) L’aumento visto nei prezzi alimentari non è un fenomeno temporaneo ma probabilmente persisterà nel medio termine. Ci si attende che i prezzi degli alimenti resteranno alti nel 2008 e 2009 e poi cominceranno a scendere perché la richiesta e la domanda risponderanno ai prezzi alti; probabilmente i prezzi della maggior parte degli alimenti resteranno molto al di sopra del livello del 2004 fino al 2015. (Rising Food Prices: Policy Options and World Bank Response, p. 2, grassetto nostro).
4. “Bangkok, 24 Aprile – il Benchmark Thai sul prezzo del riso è aumentato più del 5% fino al valore record di 1,000 $/ ton giovedì, e i commercianti del maggiore esportatore mondiale parlavano di ulteriori guadagni se i compratori di Iran ed Indonesia fossero entrati nel mercato”, (“Reuters, Thai Rice Climbs to New Record Above $1,000 a Tonne, 24/04/2008 – inserito su Flex News).
5. National Statistics Office, 2006 Family Income and Expenditure Survey, data di rilascio: 11 gennaio, 2008.
6. “Beware the New ‘Doubly Green Revolution'", ISIS Press Release 14/01/08.
7. “Caos imperialista, disastro ecologico: il capitalismo in fallimento”, Rivista Internazionale n.129, 2° trimestre 2007, in inglese e francese e spagnolo su www.internationalism.org [12].
8. “La Soyapa Farms Growers Association impiega 360 lavoratori a contratto, adulti e bambini. L’associazione è stata formata con l’iniziativa di Stanfilco 6 anni fa, quando ha convinto i suoi membri a coltivare banane. Non è una cooperativa - ogni coltivatore ha la proprietà del suo proprio pezzo di terra e ognuno ha un contratto individuale per vendere le banane a Dole” (“Banana War in the Philippines” – inserito l’8 luglio 1998 da Melissa Moore su www.foodfirst.org [13]).
9. “che l’emancipazione della classe operaia deve essere l’opera della classe operaia stessa, che la lotta per l’emancipazione della classe operaia non è una lotta per privilegi di classe e monopoli, ma per stabilire eguali diritti e doveri e per abolire ogni dominio di classe.” (Associazione Internazionale degli Lavoratori, Regole Generali, Ottobre 1864).
Giusto un paio di anni fa il presidente cinese Hu Jintao promise una “pacifica” crescita del suo paese nell’arena internazionale. Diversi osservatori e commentatori internazionali si fecero prendere dal doppio linguaggio stalinista e conclusero che una ascesa economica della Cina l’avrebbe resa una potenza più realista e responsabile a tutto vantaggio del mondo intero. Infatti, a partire dal 1990, salvo un paio di notevoli eccezioni, la Cina ha proceduto con passo leggero. Ma il reale volto della pace imperialista della Cina si è palesato l’11 gennaio 2007, quando essa questa ha lanciato uno dei suoi satelliti meteorologici a 850 chilometri dal pianeta, che costituisce una minaccia diretta al predominio americano dello spazio intorno alla terra, e inaugura una nuova corsa agli armamenti. Non a caso gli esperti del Pentagono per l’Aggressione Militare Globale hanno già stabilito che la Cina “ha il più grande potenziale militare per competere con gli USA e delle tecnologie militari di distruzione che potrebbero nel tempo controbilanciare il tradizionale vantaggio degli USA”. I militari USA hanno risposto con i propri test antisatellite e il Pentagono è alle prese con le raccomandazioni di un rapporto del Congresso del 2001 che auspicava lo sviluppo di “nuove capacità militari per operazioni da, in e attraverso lo spazio” (coautore del rapporto, Donald Rumsfeld).
Non ci sarà nessun pacifico sviluppo dell’influenza della Cina, ma il noti e soliti militarismo ed imperialismo. Innanzitutto, il “miracolo economico” del capitale nazionale cinese è basato sul feroce sfruttamento della sua classe operaia e dei contadini e su un export spinto verso un’economia mondiale piena di debiti. La colonizzazione economica che è attualmente in corso contiene un forte fattore geostrategico che proietta la potenza cinese ben oltre i suoi confini. E se parte di questa colonizzazione assicurerà qualche beneficio alle imprese cinesi, a differenza della colonizzazione del 19° secolo essa porterà ad una debole stabilizzazione economica per la sua economia e ancor meno riforme o miglioramenti nelle condizioni della classe operaia. Mao Tse-tung e la sua ideologia non sono di moda oggi, ma il suo slogan “il potere nasce sulla canna di un fucile” è ancora valido per l’imperialismo cinese, come per ogni altro.
Questo è ancora più vero nel dopo ’89 in seguito al collasso del blocco dell’Est e il “via libera” nelle relazioni militari derivato da questo scivolamento nella decomposizione imperialista. Nessuna nazione è fuori da questa situazione. Dopo che la Cina ha ripreso le sue minacce contro Taiwan e ha ripetutamente minacciato il Giappone, sia la diplomazia francese che quella tedesca hanno cercato di sovvertire l’embargo alle armi per l’Esercito Popolare di Liberazione. Un tale sviluppo mostra il contributo che la Cina sta dando all’approfondimento del caos nelle relazioni internazionali. La Cina ha tratto vantaggio dal nuovo disordine mondiale e dalla crisi storica degli USA a mantenere il proprio dominio imperialista sul globo, per sviluppare la propria presenza geostrategica. I suoi appetiti vanno ben al di là di Taiwan o del sedicente “pacifico” Giappone, che essa stessa ha riarmato (ora è classificato fra le cinque potenze militari degli ultimi anni), provocando in questa regione del mondo una corsa al riarmo con connotazioni nucleari.
La politica della Cina tendente fare dei mari dell’Asia il proprio mare nostrum, tenendo a bada il Giappone ed escludendo la presenza militare degli USA, è solo una parte del suo progetto, che attraverso Burma, Africa e Pakistan mira ad estendere la sua potenza militare sul mare Arabico, il Golfo Persico e sul Medio Oriente1. Nella stampa si parla di forniture di armi della Cina ai Talebani e della sua aspirazione politica ad estendersi fino al cortile di casa degli USA, l’America Latina. La Cina, insieme con la Russia, ha inoltre acquisito dei vantaggi nelle ex repubbliche sovietiche là dove gli USA sono retrocessi, per esempio rafforzando le relazioni con l’Uzbekistan. L’Istituto Internazionale di Ricerche per la Pace di Stoccolma ha stabilito di recente che le spese per la difesa della Cina sono seconde solo a quelle degli USA. Lo stesso rapporto esprime anche delle stime sulle sue crescenti capacità di ricatto e sulle sue intrusioni nelle reti informatiche, comprese quelle del governo USA.
Nel sud del paese la Cina sta sviluppando la costruzione di 1850 chilometri di strade, di fiumi (dirottando sezioni secondarie del Mekong) e porti, rafforzando le naturali barriere difensive delle pendici dell’Himalaia. La “strada 3” che unisce direttamente il Kunming Cinese con Bangkok tocca anche le regioni poco abitate delle zone settentrionali del Vietnam e del Laos. Come la ricerca di mercati e risorse naturali, anche le vie di comunicazioni sono un’espressione dell’espansione geostrategica dell’imperialismo cinese.
All’ovest, ai confini con India e Pakistan, sono in corso importanti sviluppi della rete dell’imperialismo cinese. Mentre gli Stati Uniti e l’India costruiscono una crescente collaborazione, il Pakistan si rivolge alla Cina per l’assistenza tecnica e militare. La Cina già sostiene il Pakistan con la tecnologia nucleare, e molti esperti sospettano che il progetto della bomba atomica del Pakistan provenga da essa. Secondo il Dipartimento di studi asiatici del Broking Institute “il programma nucleare pakistano è largamente il risultato delle relazioni cino-pakistane”. Alcune agenzie giornalistiche suggeriscono che i servizi segreti cinesi siano a conoscenza dei trasferimenti di tecnologia nucleare dal Pakistan all’Iran, alla Corea del nord e alla Libia, e delle lunghe relazioni intercorse fra l’Iran e Abdul Quadeer Khano, il cosiddetto padre della bomba atomica pakistana. Uno dei più significativi progetti recenti dei due imperialismi è la costruzione di un grande complesso portuale alla base navale di Gwadar sul Mar arabico, che dà alla Cina un accesso strategico sul golfo persico ed un avamposto navale sull’oceano indiano.
La Cina e i maoisti del NepalLe relazioni fra l’India e la Cina si sono deteriorate dopo che l’India ha dato asilo al Dalai Lama nel 1959 e dopo l’umiliante sconfitta dell’India nella guerra del 1962 per una frontiera contestata e l’aiuto cinese al Pakistan. Inoltre l’India afferma che la Cina occupa 38.000 chilometri quadrati del suo territorio e, da parte sua, Beijing reclama la provincia indiana del nordest dell’Aranchal. E’ in questo contesto di rivalità imperialiste che va situata l’elezione del Partito Comunista del Nepal (PCN, maoista), un gruppo che l’amministrazione americana ha definito “terrorista”. Il precedente regime al potere in Nepal privilegiava le relazioni con l’India, cosa che ora è messa in questione. Il “compagno comandante” Prachanda del PCN ha già dichiarato di voler rivedere i maggiori accordi con l’India, sottolineando la necessità di buone relazioni con la Cina e dando il proprio appoggio a questa sulla questione tibetana. I rifugiati tibetani in Nepal sono ora in pericolo, come nel vicino Butan, dove i maoisti filocinesi sono molto attivi. L’Istituto di Regolamento dei Conflitti di Dheli dice che ci si può aspettare il sorgere di violenze maoiste nell’India stessa, come si aspetta che il nuovo regime nepalese la sostenga con aiuti e rifugi sicuri.
Ogni nazione capitalista parla di pace. Per tutto il 20° secolo ogni nazione capitalista ha esaltato le virtù della “pace”, della “stabilità”, delle “buone relazioni”, ma tutte hanno raggiunto l’ineluttabile irrazionalità dell’imperialismo, e hanno attivamente preparato e fomentato guerre. In particolare oggi, nelle condizioni di un crescente caos imperialista, non vi è nessuna “crescita pacifica” dell’imperialismo cinese e delle sue pedine, ma una preparazione alla guerra.
Baboon, 22/4/08
(da World Revolution n. 314, pubblicazione della CCI in Inghilterra)
1. Sull’imperialismo cinese in Africa vedi World Revolution n. 299.
L’armamento con uranio impoverito è certamente una delle più chiare manifestazioni del cinismo machiavellico della borghesia. L’uranio impoverito è un metallo pesante e denso; caratteristiche che gli conferiscono una durezza eccezionale capace di perforare blindati o penetrare in bunker sotterranei. Questo metallo somiglia al tungsteno ma mentre quest’ultimo, prodotto in gran parte in Cina, è costoso e non infiammabile, l’uranio impoverito è gratuito, nel senso che è sempre disponibile dove esiste una qualsiasi attività di fissione nucleare ed in più brucia ed esplode! È un sottoprodotto dell’attività nucleare. Una scoria che, in un certo senso, la “genialità” capitalista ricicla i vari modi, per usi civili ma, nei fatti, quasi esclusivamente per equipaggiare missili e bombe perforanti. Un missile di questo tipo può così penetrare in un centro di comando sotterraneo dove, esplodendo, uccide e distrugge tutto ciò che vi trova.
Ma il colmo dell’orrore è che questa scoria è estremamente nociva per la sua radioattività. Le polveri prodotte dalla sua combustione ed esplosione sono estremamente leggere e possono dunque essere facilmente inalate. La polemica sull’incidenza dell’uranio impoverito sulla “sindrome della guerra del Golfo”1, gli studi “segreti” sulla situazione in Kosovo o in Afganistan, ha portato a questa conclusione: nessuno può con certezza dire che l’uranio impoverito non ha un’attività radioattiva nociva per l’organismo umano. E allora? Quali conseguenze ne trae la borghesia? Forte di questa grandiosa ignoranza, essa continua a diffondere resti e polveri dell’uranio impoverito su tutti i teatri di scontro imperialista. Al diavolo le conseguenze a lungo termine! Poco importa se nascono e per decenni, perfino secoli, nasceranno bambini malformati o che muoiono di leucemie inspiegabili, nessuno potrà accusare qualcuno poiché “nessuno sapeva”2. Responsabili ma non colpevoli!
Inoltre, come scoria nucleare non si può escludere che l’uranio impoverito sia totalmente privo di altre sostanze che troviamo nei processi di fissione atomica. Come per esempio il plutonio, del quale al contrario si conosce l’estrema nocività!3
E’ evidente che la borghesia non ha bisogno del’'uranio impoverito per seminare morte, malattie e miseria sul pianeta. Come causa primaria della fame nel mondo, la guerra è già abbastanza mortale in quanto tale! E si potrebbero aggiungere le armi chimiche, come i gas velenosi largamente utilizzati dal potere iracheno. Ciò che distingue l’uranio impoverito è soprattutto la sua potenziale capacità d’inquinare radioattivamente, per diversi secoli, vaste zone del pianeta e modificare per numerose generazioni il patrimonio genetico delle popolazioni colpite. Alcuni studi ritengono questi inquinamenti più mortali dei bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki del 1945 che già produssero un importante carico di radioattività.
Questa pesante eredità ci viene lasciata con un cinismo insopportabile e rivoltante da una borghesia che non può che risolvere la questione con un semplice “a priori non è nocivo”, che taglia la testa al toro circa la sua pretesa preoccupazione per l’avvenire del nostro ecosistema. Dietro i bei discorsi della classe dominante sullo “sviluppo sostenibile”, la realtà è profondamente allarmante: più il capitalismo sprofonda nella crisi e nella barbarie, più lo stato del pianeta va in rovina, viene impoverito, modificato, inquinato! Ciò ci mostra con forza l’urgenza dello sviluppo internazionale della lotta di classe, solo mezzo per bloccare questa infernale distruzione.
GD, 20 aprile 2008
(da Révolution Internationale n. 390, pubblicazione della CCI in Francia)
1. Così vengono definite gli inspiegabili aumenti di leucemie, malformazioni ed altre malattie gravi tra gli iracheni ed i veterani americani della guerra del Golfo. Statistiche credibili sono difficili a trovarsi. Da interviste al personale del dipartimento degli Affari dei veterani americani realizzate da parte dell’American Free Press, il numero attuale dei “veterani dell’Era del Golfo” invalidati dal 1991 ammonta a 518.739, allorché “solo” 7.035 feriti sono stati censiti in Iraq. Allo stesso modo, in un rapporto scritto da un ingegnere petrolchimico irlandese si denuncia una crescita quattro volte superiore dei casi di leucemie nelle regioni in cui sono stati utilizzati proiettili contenenti uranio impoverito!
2. Ciò detto, anche “senza sapere”, la prudenza resta come messinscena nei paesi occidentali: il poligono di tiro del Pentagono nell’Indiana (80 ettari), in cui sono stati testati proiettili ad uranio impoverito, sarà certamente trasformato in “zona nazionale di sacrificio” e santuario per l’eternità!
3. 1,6 kg di plutonio possono provocare la morte di otto miliardi di individui!
A partire dall’agosto del 2007, con la crisi dei prestiti ipotecari chiamati “subprimes”, siamo di fronte ad un nuovo episodio delle convulsioni che colpiscono l’insieme del capitalismo mondiale. Le cattive notizie arrivano in sequenza: i tassi di inflazione si impennano (negli Stati Uniti il 2007 è stato il peggiore dal 1990), la disoccupazione aumenta, le banche annunciano perdite di miliardi, le Borse procedono di caduta in caduta, gli indici di crescita per il 2008 sono continuamente corretti al ribasso… Questi dati negativi si ripercuotono concretamente nella vita quotidiana dei lavoratori con tragedie come quella di ritrovarsi senza lavoro o senza casa perché non si possono più pagare i mutui, con pressioni e minacce a ripetizione sul posto di lavoro, con pensioni che perdono valore e fanno della vecchiaia una sofferenza … Milioni di anonimi esseri umani, i cui sentimenti, preoccupazioni ed angosce non sono di interesse per i giornalisti, vengono duramente colpiti.
A quale tappa dello sviluppo del capitalismo siamo?
Di fronte a questa nuova espressione della crisi, cosa ci dicono le personalità e le istituzioni considerate “esperte”? Ce n’è per tutti i gusti: ci sono i catastrofisti che prevedono una fine apocalittica dietro l’angolo; ci sono gli ottimisti che affermano che è tutta colpa della speculazione, ma che l’economia reale va bene… Comunque, la spiegazione più diffusa è che noi saremmo di fronte a una crisi “ciclica”, come tante altre che il capitalismo ha vissuto nel passato, lungo tutta la sua vita. Di conseguenza, ci consigliano, bisogna restare tranquilli, piegare la schiena di fronte alla tempesta fino a quando non tornino le vacche grasse di una nuova prosperità…
Questa “spiegazione” prende come modello una foto ingiallita, deformandola, di quello che avveniva nel 19° secolo e all’inizio del 20°, ma che è inapplicabile alla realtà e alle condizioni del capitalismo del 20° e 21° secolo.
Il 19° secolo fu l’epoca dell’espansione e della crescita del capitalismo, che si estendeva come una macchia d’olio sul mondo intero. Tuttavia esso era periodicamente scosso dalla crisi, come messo in evidenza dal Manifesto comunista: “Nelle crisi commerciali viene regolarmente distrutta una gran parte non solo dei prodotti già creati, ma anche delle forze produttive esistenti. Nelle crisi scoppia un’epidemia sociale che in ogni altra epoca sarebbe apparsa un controsenso: l’epidemia della sovrapproduzione. La società si trova improvvisamente ricacciata in uno stato di momentanea barbarie; una carestia, una guerra generale di sterminio sembrano averle tolto tutti i mezzi di sussistenza; l’industria, il commercio sembrano annientati, e perché? Perché la società possiede troppa civiltà, troppi mezzi di sussistenza, troppa industria, troppo commercio. Le forze produttive di cui essa dispone non giovano più a favorire lo sviluppo della civiltà borghese e dei rapporti della proprietà borghese; al contrario, esse sono diventate troppo potenti per tali rapporti, sicchè ne vengono inceppate; e non appena superano questo impedimento gettano nel disordine tutta la società borghese, minacciano l’esistenza della proprietà borghese. I rapporti borghesi sono diventati troppo angusti per contenere le ricchezze da essi prodotte”. Questa entrata periodica della società capitalista in fasi di crisi aveva due cause principali che sono presenti anche oggi. Innanzitutto la tendenza alla sovrapproduzione – come la descrive il Manifesto – che porta la fame, la disoccupazione e la miseria, non perché c’è una penuria di beni (come avveniva nelle società precedenti), ma per il contrario, per eccesso di produzione (!), perché ci sono troppe industrie, troppo commercio, troppe risorse! In secondo luogo perché il capitalismo funziona in una maniera anarchica attraverso una concorrenza feroce che getta gli uni contro gli altri. Questo provoca una ripetizione di momenti di disordine incontrollato. Tuttavia, poiché c’erano nuovi territori da conquistare per il lavoro salariato e la produzione mercantile, si finiva, presto o tardi, per superare questi momenti grazie a una nuova espansione della produzione che estendeva e approfondiva i rapporti capitalisti, in particolare nei paesi dell’Europa e dell’America del nord. A quest’epoca i momenti di crisi erano come i battiti di un cuore sano e le vacche magre lasciano il posto ad una nuova epoca di prosperità. Ma già allora Marx percepiva in queste crisi periodiche qualche cosa di più di un semplice ciclo eterno destinato a sboccare sempre nella prosperità. Egli ci vedeva le espressioni di contraddizioni profonde che minano il capitalismo fino alle sue radici precipitandolo verso la sua rovina.
All’inizio del 20° secolo il capitalismo raggiunge il suo apogeo, si è esteso sull’intero pianeta che per la maggior parte si trova sotto il dominio del lavoro salariato e della produzione mercantile. Entra quindi nella sua fase di decadenza: “All’origine di questa decadenza si trova, come per gli altri sistemi economici, il crescente conflitto tra le forze produttive e i rapporti di produzione. Concretamente, nel caso del capitalismo, il cui sviluppo è stato condizionato dalla conquista dei mercati extra-capitalisti, la prima Guerra mondiale costituì la prima manifestazione significativa della sua decadenza. Con la fine delle conquiste economiche e coloniali nel mondo da parte degli Stati capitalisti, questi ultimi furono portati a confrontarsi in una disputa per accaparrarsi il mercato gli uni a spese degli altri. Da allora, il capitalismo è entrato in un nuovo periodo della sua storia definito dall’Internazionale Comunista nel 1919 come epoca di guerre e rivoluzioni”1. I tratti essenziali di questo periodo sono:
- da un lato, l’esplosione delle guerre imperialiste, espressione della lotta a morte tra i differenti Stati capitalisti per estendere la loro influenza a spese degli altri e della lotta per il controllo di un mercato mondiale diventato sempre più stretto, che non può più costituire uno sbocco sufficiente per una tale abbondanza di rivali;
- dall’altro, una tendenza praticamente cronica alla sovrapproduzione, sicché le convulsioni e le catastrofi economiche si moltiplicano.
In altri termini, quello che caratterizza globalmente il 20° e il 21° secolo è la tendenza alla sovrapproduzione – temporanea e facilmente superabile nel 19° – che diventa cronica, sottomettendo l’economia mondiale a un rischio quasi permanente di instabilità e distruzione. Inoltre la concorrenza – tratto congenito del capitalismo – diventa estrema e, scontrandosi con un mercato mondiale che tende costantemente alla saturazione, perde il suo carattere di stimolo all’espansione mentre sviluppa il suo carattere negativo e distruttore di caos e scontro. La guerra mondiale del 1914-18 e la grande depressione del 1929 costituiscono le due espressioni più spettacolari della nuova epoca. La prima fece più di 20 milioni di morti, causò sofferenze orribili e provocò un trauma morale e psicologico che ha segnato generazioni intere. La seconda fu un crollo brutale con tassi di disoccupazione del 20-30% e una miseria atroce che colpì le masse lavoratrici dei paesi cosiddetti “ricchi”, Stati Uniti in testa. La nuova situazione del capitalismo sul terreno economico e imperialista provocò cambiamenti importanti sul piano politico. Per assicurare la coesione di una società colpita dalla tendenza cronica alla sovrapproduzione e a violenti conflitti imperialisti, lo Stato, ultimo bastione del sistema, interviene massicciamente in tutti gli aspetti della vita sociale, soprattutto i più sensibili: l’economia, la guerra e la lotta di classe. Tutti i paesi si orientano verso un capitalismo di Stato che prende due forme: quella che viene chiamata bugiardamente “socialista” (una statizzazione più o meno completa dell’economia) e quella detta “liberale”, la cui base è l’unione più o meno aperta tra la borghesia privata classica e la burocrazia di Stato.
Questo richiamo breve e schematico delle caratteristiche generali dell’epoca storica attuale del capitalismo deve servirci per situare la crisi di oggi, analizzandola con la dovuta riflessione, lontano sia dal catastrofismo allarmista e immediatista che, e soprattutto, dalla demagogia ottimista della “crisi ciclica”.
40 anni di crisi
Dopo la seconda guerra mondiale il capitalismo, almeno nelle grandi metropoli, riuscì a vivere un periodo più o meno lungo di prosperità. Lo scopo di questo articolo non è analizzarne le cause2, ma quello che è certo è che questa fase (contrariamente a tutte le chiacchiere dei governanti, dei sindacalisti, degli economisti e anche di certi che si dicevano “marxisti”, che ci raccontavano che il capitalismo aveva superato definitivamente le crisi) ha cominciato a chiudersi a partire dal 1967. Innanzitutto con la svalutazione della sterlina, poi con la crisi del dollaro nel 1971 e la prima cosiddetta “crisi del petrolio” del 1973. A partire dalla recessione del 1974-75 si apre una nuova fase in cui le convulsioni si moltiplicano. Facendo una rapido riassunto si può citare: la crisi inflazionista del 1979 che toccò i principali paesi industrializzati; la crisi del debito del 1982; il crollo alla Borsa di Wall Street del 1987seguita dalla recessione del 1989; la nuova recessione del 1992-93 che provoca la sbandata di tutte le monete europee; la crisi delle “tigri” e dei “dragoni” asiatici del 1997 e la crisi della “nuova economia” del 2000-2001. E’ possibile spiegare questa successione di episodi convulsivi utilizzando lo schema delle “crisi cicliche”? No! La malattia incurabile del capitalismo è la scarsità drammatica di mercati solvibili, un problema che si è aggravato costantemente per tutto il 20° secolo e che è riapparso violentemente a partire dal 1967. Ma contrariamente al 1929, il capitalismo di oggi ha affrontato la situazione armato del meccanismo dell’intervento massiccio dello Stato, che ha cercato di accompagnare la crisi per evitare un crollo incontrollato.
Qual è lo strumento principale che lo Stato utilizza per cercare di arginare la crisi ed evitare, almeno nei paesi centrali, i suoi effetti più catastrofici? L’esperienza ci mostra che questo strumento è stato il ricorso sistematico al credito. Grazie a un indebitamento, che nel giro di qualche anno è diventato abissale, gli Stati capitalisti hanno creato un mercato artificiale che ha offerto, a livelli diversi, uno sbocco a una sovrapproduzione in continuo aumento. Per quaranta anni l’economia mondiale è riuscita ad evitare un crollo fragoroso ricorrendo a dosi sempre più massicce di indebitamento. L’indebitamento è per il capitalismo quello che l’eroina è per il drogato. La droga dell’indebitamento fa sì che il capitalismo si mantenga ancora in piedi appoggiandosi sul braccio del mostro statale – “liberale” o “socialista” che sia. Con la droga si raggiungono momenti di euforia in cui si ha l’impressione di essere nel migliore dei mondi possibili3, ma sempre più frequentemente arrivano i periodi contrari, i periodi di convulsione e di crisi, come quello che stiamo vivendo dall’estate 2007. Man mano che aumentano le dosi la droga ha un effetto minore sul drogato. Ci vuole una dose sempre più grande per sentire uno stimolo sempre più debole. Ecco quello che accade al capitalismo oggi! Dopo 40 anni di iniezioni della droga “credito” su un corpo pieno di buchi, l’economia capitalista mondiale ha sempre più difficoltà a reagire e raggiungere un nuovo periodo di euforia.
Ecco quello che sta per succedere attualmente. Nello scorso agosto ci è stato detto che tutto era tornato alla normalità grazie ai prestiti iniettati dalle banche centrali negli organismi finanziari. Da allora sono stati iniettati non meno di 500 miliardi di euro in tre mesi senza che si sia sentito il minimo effetto. L’inefficacia di queste misure ha finito per seminare il panico e il mese di gennaio 2008 è cominciato con una caduta generale delle Borse mondiali4. Per frenare l’emorragia negli Stati Uniti il governo e l’opposizione, mano nella mano con la Federal Reserve (FED) annunciano il 17 gennaio il “miracoloso rimedio” di dare a ogni famiglia un assegno di 800 dollari. Tuttavia questa misura, che nel 1991 fu molto efficace, provoca il lunedì 21 una nuova caduta delle Borse mondiali grave quanto lo sconquasso del 1987. Lo stesso giorno, sotto l’emergenza e con precipitazione, la FED ha ridotto di tre quarti di punto i tassi di interesse realizzando così la più forte riduzione di questo tasso dal 1984. Ma il 23 gennaio, momento in cui scriviamo questo articolo, le Borse del mondo, salvo Wall Street, soffrono un nuovo scivolone.
Quale è la causa di questa sequenza di convulsioni, nonostante l’enorme sforzo di credito realizzato dagli Stati centrali che hanno mobilitato tutti i mezzi a loro disposizione: i prestiti alle banche tra il mese di agosto e novembre, le riduzioni dei tassi di interesse, le riduzioni fiscali? Le banche, utilizzate massicciamente dagli Stati come esche per coinvolgere le imprese e le famiglie in una spirale di debiti, si ritrovano le une dopo le altre in uno stato pietoso, a cominciare dalle più grandi (come la Citigroup), e annunciano perdite gigantesche. Si parla anche di un fenomeno che potrebbe aggravare la situazione: sembra che una serie di società assicurative, la cui specializzazione è rimborsare alle banche i loro crediti “cattivi” legati ai subprimes, hanno ora enormi difficoltà a farlo. Ma c’è un problema ancora più inquietante che percorre, come uno tsunami, l’economia mondiale: il risveglio dell’inflazione. Durante gli anni settanta l’inflazione colpì duramente le famiglie più deboli, ed essa ritorna oggi con virulenza. In realtà le trappole del credito, le misure di capitalismo di Stato non l’avevano eliminata, ma semplicemente ritardata. Tutti temo una sua impennata ed il fatto che i giganteschi prestiti delle banche centrali, le riduzioni fiscali e dei tassi di interesse, riescano solo ad imballare ancora di più il motore senza riuscire a rilanciare la produzione. Il timore generalizzato è che l’economia mondiale entri in una fase detta di “stagflazione”, cioè una pericolosa combinazione di recessione ed inflazione, che significherebbe per la classe operaia e la maggioranza della popolazione una nuova caduta nella disoccupazione e nella miseria associata ad una crescita poderosa dei prezzi per tutti i prodotti di base. A questo dramma si aggiunge, e questo non è che un esempio, quello di due milioni di famiglie americane ridotte all’insolvibilità.
Come la droga, il ricorso disperato al credito mina e distrugge poco a poco le fondamenta dell’economia, rendendola più fragile, provocando nel suo seno processi di imputridimento e di decomposizione ogni volta più esacerbati. Si può dedurre, da questa breve analisi della situazione degli ultimi mesi, che ci troviamo di fronte alla peggiore e più lunga convulsione del capitalismo degli ultimi 40 anni. Lo si può verificare analizzando gli ultimi 4 mesi, non presi isolatamente come fanno gli “esperti” incapaci di vedere più lontano del loro proprio naso, ma tenendo conto degli ultimi 40 anni. E’ quello che vedremo più in dettaglio nella seconda parte di questo articolo che sarà pubblicata sul nostro sito www.internationalism.org [12]. Mostreremo anche fino a che punto la borghesia scarica gli effetti della sua crisi sulle spalle dei lavoratori e tenteremo infine di rispondere alla domanda: Esiste un’uscita alla crisi?
Tratto da Accion proletaria n. 199, pubblicazione della CCI in Spagna.
1. “17° Congresso della CCI, 2007: Risoluzione sulla situazione internazionale”, Rivista Internazionale n. 29.
2. Vedi la “Risoluzione sulla situazione internazionale”, citata prima.
3. Questa sensazione di euforia viene amplificata da tutti i difensori del capitalismo, non solo i politici, i padroni ed i sindacati ma in particolare dai cosiddetti “opinionisti”, cioè i mezzi di informazione che esaltano tutti gli aspetti positivi e sottovalutano o accantonano quelli negativi, il che contribuisce evidentemente a propagare questo sentimento di euforia.
4. Per farsi un’idea, in Spagna, secondo i dati dell’IESE, 89miliardi di euro in 20giorni. Si stima che la caduta delle borse mondiali durante il mese di gennaio è del 15% secondo le stime più ottimiste.
Links
[1] https://it.internationalism.org/en/tag/3/47/economia
[2] https://www.repubblica.it/2008/06/sezioni/politica/bertinotti-ragioni-sconfitta/bertinotti-ragioni-sconfitta/bertinotti-ragioni-sconfitta.html
[3] http://www.comunistiuniti.it/2008/04/17/appello/#more-3
[4] http://www.coordinamento-comunisti.it
[5] http://www.costituenterivoluzionaria.org
[6] https://it.internationalism.org/en/tag/situazione-italiana/politica-della-borghesia-italia
[7] https://it.internationalism.org/en/tag/2/36/falsi-partiti-operai
[8] https://it.internationalism.org
[9] https://it.internationalism.org/en/tag/3/42/ambiente
[10] https://world.internationalism.org
[11] https://it.internationalism.org/en/tag/2/29/lotta-proletaria
[12] http://www.internationalism.org
[13] http://www.foodfirst.org
[14] https://it.internationalism.org/en/tag/2/40/coscienza-di-classe
[15] https://it.internationalism.org/en/tag/4/61/cina
[16] https://it.internationalism.org/en/tag/3/49/imperialismo
[17] https://it.internationalism.org/en/tag/6/106/afganistan
[18] https://it.internationalism.org/en/tag/6/107/iraq