Passata l’ennesima ubriacatura di propaganda elettorale, fatte sedimentare tutte le polemiche della vigilia, ci ritroviamo un quadro politico che ha meravigliato anche i più preparati esperti politologi e prodotto stati di sconcerto, se non di vera demoralizzazione, in non pochi compagni. Cosa è successo dunque? Anzitutto le elezioni sono andate, come ampiamente previsto, a Silvio Berlusconi e alla sua alleanza di destra, e su questo non ci piove vista la situazione che si era creata nell’ultima fase politica con la caduta del governo Prodi per motivi interni alla coalizione. Sull’altro versante il Partito Democratico, pur risultando perdente nei confronti del PdL, è riuscito non solo a tenere, ma ad accrescere la sua influenza elettorale visto che, sommando i voti ottenuti dalle sue componenti politiche alle precedenti elezioni, abbiamo 27,9% nel ’96, 32,1% nel 2001, 31,3% nel 2006 e 34,0% nel 2008 (1). Ricordiamo che la determinazione di Veltroni a correre da solo – ed in particolare senza la sinistra “radicale” – era stata dettata dalla necessità di ritrovare una credibilità di partito dopo il fiasco completo del governo Prodi, la sua inconcludenza per l’eccessiva litigiosità e per gli attacchi senza risparmi portati contro le condizioni di vita degli strati sociali più deboli.
Chi ha veramente perso è la sinistra “radicale” che ha perso non solo due terzi del suo elettorato, ma anche la faccia. Se la riduzione della sinistra era attesa, quello che non era atteso è l’entità di questo tracollo. Cos’è dunque che fa la differenza? Anzitutto le astensioni, che con questa tornata elettorale hanno avuto l’impennata più forte di tutta la storia della Repubblica con un incremento del 3,5%. Da questo punto di vista occorre rilevare che, come riportato dai sondaggi effettuati, questo incremento di astensioni è principalmente di sinistra. Per cui mentre l’elettorato di destra si è mantenuto ed anche rafforzato, quello di sinistra ha perso probabilmente qualcosa vicino ad un milione di voti, ovvero di uomini e donne che, dopo aver sempre votato a sinistra, oggi ormai stanchi di essere “rappresentati” da questi partiti, si sono astenuti dal voto (2). Ma indubbiamente per una parte importante la vittoria preponderante di Berlusconi è dovuta anche a spostamenti dell’elettorato da sinistra a destra e - in particolare - dalla sinistra “radicale” alla destra, particolarmente alla Lega di Bossi.
Lo scenario che si apre a questo punto è inedito perché queste elezioni, oltre a dare la vittoria a Berlusconi, hanno segnato la fuoriuscita dal Parlamento di formazioni politiche che hanno segnato la storia d’Italia. Non c’è più un partito “socialista” e non c’è più un partito “comunista”. Il Partito “Socialista” era già morto di fatto con il crollo del muro di Berlino e quello che era rimasto era solo un fantasma del passato. Ma la sinistra radicale, attraverso Rifondazione in particolare, era la continuità storica del vecchio partito “comunista”, ovvero di quel partito di stampo stalinista che tante nefaste responsabilità ha avuto nella storia d’Italia. Adesso il PD risulta essere la forza più di sinistra nel parlamento, eppure è solo un partito di centro!
La reazione del “popolo di sinistra”
Dal punto di vista psicologico questo fatto ha scosso molta gente. Subito dopo le elezioni c’erano tanti che si domandavano: “e adesso …?”. Altre persone, più o meno “di sinistra”, invece si interrogavano sull’accaduto e se la prendevano “con gli altri”, quelli che si erano astenuti o che avevano votato a destra, se le cose erano andate in un certo modo.
Occorre dunque riconoscere che, nonostante tutto, l’illusione del voto e della democrazia parlamentare è qualcosa che ha una presa ancora molto forte sui proletari in Italia. Nonostante la disillusione per i partiti e per la politica, dare ad un risultato elettorale tanta importanza è sintomatico di questo peso, tanto più che questi commenti vengono finanche da chi si era astenuto dal votare e che si è lanciato tuttavia a criticare gli altri lavoratori per non essersi comportato come lui, astenendosi. Un commento molto diffuso è stato infatti: “Perché non hanno disertato tutti quanti le urne?” come se fosse facile mettere d’accordo milioni di elettori a fare o non fare una certa cosa. E poi, quand’anche la percentuale di astensioni fosse stata più alta, quale risultato si sarebbe raggiunto? “Dare un segnale ai politici! Dare loro una lezione!”. E qui si sconta ancora una volta l’inganno del parlamentarismo pensando che, oggi come oggi, la politica della borghesia possa essere decisa o solo vagamente orientata dalla “volontà popolare”. Come abbiamo mostrato in un recente articolo (3), oggi il potere sta tutto nelle mani degli esecutivi ed ogni governo non fa quello che gli viene suggerito dal “popolo sovrano” ma quello che richiede la difesa del capitale nazionale.
Un altro giudizio che si è sentito molto in giro è sui lavoratori che sarebbero dei traditori per aver votato a destra, ed in particolare la Lega. O ancora: “Chi ha sempre votato a sinistra e adesso vota Lega è diventato qualunquista perché non ha più un’ideologia”. Queste osservazioni meritano un’attenta riflessione. Infatti, nonostante l’apparente ovvietà, queste riflessioni sono non solo sbagliate, ma esprimono per di più una comprensione della situazione completamente rovesciata. Chi pensa che votare per la Sinistra sia meglio che votare per la Lega esprime l’illusione che questa sinistra possa realmente fare ancora qualcosa per i lavoratori. Ma di quale sinistra parliamo? Di quella sinistra che trae origine dal vecchio PCI stalinista dove Togliatti, nominato ministro della Giustizia nell’immediato dopoguerra, dava la caccia ai cosiddetti sbandati, cioè la povera gente che tornava dalla guerra sfinita e demoralizzata, da una parte per riarmarla e mandarla di nuovo a combattere contro i “nuovi nemici” tedeschi, dall’altra trattandoli come teppaglia quando si lasciavano andare a qualche furto di generi alimentari (4). O ancora di quella sinistra che, tutte le volte che ha avuto responsabilità di governo, non ha mai tradito una sola volta la ragion di Stato, sottoscrivendo tutte le misure più infami contro i lavoratori, gli immigrati, la povera gente. Se Cofferati è noto come il sindaco sceriffo, Bassolino come il ras della Campania, D’Alema come il capo di governo che ha fatto la guerra alla Serbia bombardando le povere famiglie di Belgrado, tutti i governi di sinistra sono noti per aver dato le più grandi mazzate economiche ai lavoratori, ecc. ecc., possiamo ancora meravigliarci se la gente non vota più a sinistra? In realtà, se i lavoratori hanno scelto di votare al di fuori di ogni schema è proprio perché cominciano finalmente a capire che non c’è più nessun partito “ufficiale” che riesca a garantire loro una qualsivoglia prospettiva. E se il voto è andato alla Lega è perché questa, nella sua propaganda elettorale, ha toccato delle corde su cui molti lavoratori del nord sono sensibili (il salario, la sicurezza, la concorrenza per il posto di lavoro, ecc.). E’ vero che resta l’illusione che la Lega possa garantire qualcosa ai lavoratori. Ma per lo meno il voto non è più ammantato da alcuna ideologia.
Quali sono le prospettive?
Un’ultima considerazione va fatta su quale sarà il futuro della politica italiana. Con Berlusconi che ha una salda maggioranza che ruolo potrà avere la sinistra “radicale” nella politica italiana dei prossimi anni visto che non sta né al governo né in parlamento? Le forze di “sinistra borghese”, ovvero i vari partiti e partitini di sinistra più i sindacati, confederali e di base, hanno la funzione di tenere buona la rabbia operaia, di far credere ai proletari che c’è chi pensa a loro e per loro. Nella misura in cui queste strutture, oltre ad essere ampiamente screditate, non riescono neanche più a giocare un ruolo di opposizione in parlamento semplicemente perché non ci stanno, è evidente che si pone un problema serio per la borghesia. Il ruolo di falsa opposizione che la sinistra ha finora giocato in parlamento sarà espresso d’ora in poi nelle piazze, tanto più che adesso al governo ci sta un Berlusconi contro il quale si può dire quello che si vuole perché sembra fatto apposta per lasciare sfogare liberamente i proletari.
E’ in questa fase che occorrerà fare tesoro di tutte le nefandezze prodotte dalla sinistra borghese e non cedere alle lusinghe della piazza. I lavoratori devono tirare fino in fondo le lezioni di questi anni di sacrifici e comprendere che la loro emancipazione non può derivare che dalla loro lotta autonoma dalle arpie sia di destra che di sinistra.
Ezechiele, 25 aprile 2008
1. A proposito della vittoria di Berlusconi e del relativo successo di Veltroni vedi l’analisi sviluppata nei numeri scorsi di Rivoluzione Internazionale n°151, 153 e 154.
2. “A Torino l’astensionismo è stato superiore del 5% rispetto alle Politiche del 2006, ma il calo più significativo si registra nei quartieri simbolo della città operaia. A Mirafiori Sud, in particolare, la partecipazione al voto è scesa dall’82,63% al 76,42%. «Già una volta non ero andato a votare, dopo la vicenda Mani Pulite. Così come allora, non ho fiducia in nessuno, non avevo voglia di esprimere la mia preferenza per uno dei due schieramenti. E’ un moto di ribellione contro il sistema» dice l’operaio Capello. E aggiunge: «Hanno detto tutti, durante la campagna elettorale, che bisogna ridurre le tasse e aumentare i salari perché tutti cavalcano temi che si pensa facciano presa nell’elettorato di base. Ma in fabbrica la sensazione diffusa era quella di sentirsi presi in giro. Tanto la busta paga resta sempre uguale, dicevano i miei colleghi. E sarà così, vedrete. Ci vorrebbe un volto davvero nuovo … per ora è tutto desolante e triste»”. (da Liberazione del 15 aprile 2008).
3. Vedi l’articolo “L’avvenire non si trova nella scheda elettorale ma nella lotta di classe” sul nostro sito web.
4. Vedi gli articoli "Breve storia del PCI (ad uso dei proletari che non vogliono più credere a niente ad occhi chiusi) 1921-1936 [1]" su Rivoluzione Internazionale n° 63, “Breve storia del PCI (ad uso dei proletari che non vogliono più credere a niente ad occhi chiusi) 1936-1947 [2]” e "QUANDO IL PCI ERA AL GOVERNO... Circolare n° 3179 del 29 aprile 1946 [3]" su Rivoluzione Internazionale n°64 e l’opera di Arturo Peregalli: “Togliatti guardasigilli 1945-1946”, Edizione Colibrì.
Il ritiro di Air France rende ancora più drammatica la situazione dell’Alitalia e, soprattutto, di quelli che vi lavorano. Il prestito di 300 milioni, che l’uscente governo Prodi ha stanziato per dare un po’ di ossigeno all’azienda, viene utilizzato come giustificazione alla menzogna che una possibilità di salvaguardare i posti di lavoro per tanti proletari forse c’è. In realtà la prospettiva è che come minimo ci sarà un drastico ridimensionamento, perché più passano i giorni più le perdite aumentano e quindi un nuovo potenziale acquirente non potrà che offrire una soluzione ancora più dura di quella che aveva offerto Air France, esattamente come era peggiorata l’offerta di quest’ultima a distanza di soli pochi mesi dal primo piano presentato.
Quello che resta da chiarire è come si è arrivati a questo e perché.
Il caso Alitalia è da diversi punti di vista estremamente indicativo della situazione attuale dell’economia e dei rapporti tra le classi. Innanzitutto dimostra quanto sia precaria la situazione economica mondiale, per cui anche una grande azienda sostenuta dallo Stato può arrivare al fallimento. Nel capitalismo un’azienda, non importa di quale settore si occupi, può continuare a sopravvivere solo se è competitiva rispetto alle sue concorrenti. E quello del trasporto aereo è un settore che, negli ultimi decenni, ha visto un certo sviluppo di traffici, ma anche la nascita di tante nuove compagnie, in particolare le low cost, che hanno creato grande concorrenza e grandi sconvolgimenti: quello che sta succedendo oggi all’Alitalia è già accaduto ad altre grandi compagnie del settore, come i colossi americani Delta Airlines e TWA, o le compagnie di bandiera Sabena, belga, e Swissair, svizzera, tutte ridimensionate e/o vendute. Deve essere quindi chiaro che l’Alitalia, dal punto di vista borghese, non può continuare ad andare avanti e l’alternativa, sempre dal punto di vista borghese, è tra il piano di un compratore, tipo Air France, che assicura la sopravvivenza della compagnia, e il fallimento puro e semplice, che significa libri contabili in tribunale, commissariamento e smantellamento della compagnia (con la possibilità residua di un recupero di piccole parti dell’ex compagnia, come è avvenuto per Sabena e Swissair). Certo, sia l’una che l’altra ipotesi significano gravi conseguenze per i lavoratori, ma questa è la legge del capitalismo, e chi cerca di far credere che si possa affrontare, nel capitalismo, la crisi economica senza attaccare i lavoratori, mente; ed infatti l’altra offerta presentata inizialmente, quella della cordata Air One, era anche peggiore di quella di Air France.
Ed i primi ad aver sparso queste menzogne, ed illudere i lavoratori, sono stati i sindacati che, pur conoscendo benissimo la situazione, hanno fatto finta fino alle fine di volersi battere per una soluzione che salvaguardasse i lavoratori. E lo scopo di queste menzogne era, illudendo i lavoratori, impedire che fra essi si facesse strada una riflessione su come potersi difendere veramente dagli attacchi che si preparavano; nel frattempo invece i sindacati fingevano di poter trattare condizioni migliori per i lavoratori e contemporaneamente lavoravano per tenerli buoni e, soprattutto, divisi: a Milano mettevano al centro la difesa dell’aereoporto di Malpensa (e quindi dei lavoratori della Sea che lo gestisce), a Roma dicevano che il salvataggio di Malpensa non doveva mettere a repentaglio i posti di lavoro a Fiumicino; in questa maniera si finiva per far mettere i lavoratori in concorrenza impedendo loro di unirsi nella lotta, tutti assieme, in difesa del proprio posto di lavoro.
Una volta che i lavoratori si consegnano mani e piedi ai sindacati, alla fine non solo si arriva ad una sconfitta sul piano materiale immediato, ma si diffonde anche una certa demoralizzazione, come dimostrato dal fatto che interi comparti di lavoratori si sono dichiarati, di fronte all’abbandono delle trattative da parte dell’Air France, pronti ad accettare i sacrifici che questa proponeva, pur di chiudere la questione.
Questa sconfitta è il risultato della santa alleanza della borghesia: Stato (che non solo ha agito con l’Alitalia come qualsiasi altro padrone, ma ha scatenato le sue forze di repressione contro i lavoratori, quando questi, come i lavoratori dell’Atitech a Roma al momento del confronto Air France-Sindacati, hanno provato a far sentire la loro voce) e sindacati che hanno lavorato tra i lavoratori per consegnarli disarmati al piano padronale.
Ma il fatto che la situazione dell’Alitalia sia caratteristica della situazione attuale non significa che per i lavoratori non c’era nessuna possibilità di imporre un’altra soluzione: la lotta degli studenti francesi, che in quanto futuri proletari si sono battuti contro il progetto di Contratto di primo Impiego (CPE), arrivando a far ritirare il provvedimento, lo dimostra. Ma questo è stato possibile perché gli studenti hanno scelto la via della lotta autonoma, della ricerca della solidarietà non solo al loro interno, ma con l’insieme del mondo del lavoro, occupato e non, riuscendo, con questa impostazione, ad attrarre le simpatie degli altri lavoratori e la loro solidarietà, per cui il governo ha preferito ritirare il progetto CPE, piuttosto che rischiare una discesa in lotta di più categorie di lavoratori.
Anche all’Alitalia si poteva scegliere la strada di un’azione comune di tutti i settori di lavoratori (di terra e di volo), che mettendo al centro un obiettivo chiaro e comprensibile per tutti i lavoratori del paese, la difesa del posto di lavoro, e non quello dell’azienda o della sua “italianità”, come hanno predicato sindacati e politici, avrebbero certo attirato le simpatie del resto dei lavoratori, se non la loro solidarietà attiva. Ma questo solo i lavoratori potevano farlo, e non i sindacati, che hanno come ottica quella della compatibilità degli interessi dei lavoratori con quelli delle aziende, che sono invece inconciliabili perché solo l’aumento dello sfruttamento dei primi può salvaguardare i profitti delle seconde.
Se quindi i lavoratori dell’Alitalia sono stati sconfitti e demoralizzati - almeno questa sembra, purtroppo, la conclusione di questa vicenda - non è perché non può che andare così, ma solo perché hanno lasciato le cose in mano a quegli specialisti della sconfitta che sono i sindacati.
Prendere coscienza di questa dinamica è la sola strada che può trasformare una sconfitta immediata in prospettiva di una vittoria futura.
Helios, 23/04/08
La danza della morte del capitalismo
Lungi dalle parole rassicuranti di Prodi sul risanamento dei conti dell’azienda Italia e dalle spacconate di tutta la fase di propaganda elettorale di un Berlusconi, la gente sa che l’inflazione reale su generi essenziali come alimenti, gas ed elettricità sono ben al di sopra delle cifre ufficiali, così come la disoccupazione reale potrebbe essere tre o quattro volte quello che le statistiche governative proclamano. Se si prende l’esempio dell’aumento del prezzo del petrolio si vede che non ha una ricaduta soltanto sui singoli automobilisti ma ha un impatto sul costo di ogni prodotto che venga trasportato da veicoli che camminano su strada. La ragione per cui la gente è preoccupata è a causa del fatto che i prezzi vanno alle stelle, i servizi vengono tagliati e i lavori diventano più insicuri.
Ma i problemi che noi soffriamo in Italia non sono solo locali. L’economia nazionale è intimamente interconnessa con quella mondiale e, sebbene il nostro paese possa avere delle debolezze strutturali che tendono a penalizzarlo su certi piani, il problema è più profondo ed è dovuto ad una vera crisi dell’economia mondiale. La recessione negli Stati Uniti in particolare ha un impatto attraverso il mondo intero. In Giappone per esempio ogni recupero della sua economia dipende dalla sua capacità di esportare in America, la qual cosa non si verifica quando il valore del dollaro sta sprofondando e con una popolazione già massicciamente in debito e alla ricerca di spiccioli da raschiare in giro per pagare le sue ipoteche.
Quelle a cui assistiamo oggi sono dunque le convulsioni di un sistema in uno stato cronico di crisi, dove il capitalismo può guadagnarsi soltanto momenti momentanei di “salute” adottando misure suicide come il volo in ulteriori debiti che possono solo peggiorare la prospettiva della successiva caduta catastrofica.
La recessione americana: non c’è da chiedersi se c’è, ma solo quanto è profonda
La grande domanda che gira tra i media americani è se l’economia sia in recessione. Il National Bureau of Economic Research (ufficio nazionale di ricerca economica) (NBER) è un rispettato gruppo di parecchi economisti che fornisce risposte a tali domande, ma solo dopo che si è avuto un prolungato periodo di declino nell’attività come prova che possa essere esaminata. Altri economisti sono preparati per annunciare una recessione, ma spesso solo per minimizzare la sua importanza.
I dati recentemente annunciati dagli USA sulla disoccupazione sembrano mettere fuori ogni dubbio la presenza di una recessione. Questi mostrano le perdite di posti di lavoro per tre mesi consecutivi, con la caduta di 80.000 posti che è la più grande dal marzo del 2003. 2,6 milioni di posti di lavoro si sono persi nel settore manifatturiero negli ultimi due anni. Il New York Times del 4 aprile scorso dichiarava: “L’economia sta soffrendo gli effetti del collasso del settore degli alloggi, dello sgretolamento del credito e di un sistema finanziario in tumulto. Ciò induce la gente e gli investitori a esporsi di meno, a comprimere le spese, gli investimenti di capitali e le assunzioni. Queste cose a loro volta indeboliscono ulteriormente l'economia attraverso quello che è diventato un circolo vizioso.”
L’ex presidente della Federal Reserve Alan Greenspan ha una veduta a più lungo termine: “L’attuale crisi finanziaria negli Stati Uniti deve essere giudicata come la più lacerante dalla fine della seconda guerra mondiale”. In realtà la classe dominante sta guardando indietro al crollo del 1929 e alla grande Depressione degli anni ‘30 per trarre gli insegnamenti per oggi.
Per esempio, quando il ministro del Tesoro degli Stati Uniti Henry Paulson ha rivelato una revisione della regolazione del settore finanziario - la più grande dagli anni ‘30 – questa è stata accolta favorevolmente come una risposta allo “scricchiolio del credito” e al tumulto dei mercati. Paulson ha detto che non era una risposta alla situazione immediata ma una rettifica necessaria da lungo tempo. Le misure attuali danno ampi poteri alla Federal Reserve ed includono l’istituzione di una nuova struttura che dovrà assumere il ruolo dei cinque regolatori di operazioni bancarie esistenti. Come per altri aspetti del piano, l’effetto è di un ulteriore rafforzamento del ruolo di intervento dello Stato nell’economia. Lo Stato è l’unica forza nella società capitalista che può impedire che l’economia esca fuori da ogni controllo.
Con la Bear Stearns, per esempio, non è stata la prima volta che la Fed ha forzato una banca ad un matrimonio forzato con una istituzione finanziaria in fallimento. Un paio di mesi fa la Bank of America Corp. ha acconsentito di comprare la Countrywide Financial Corp, il più grande prestatore di fondi contro ipoteca degli Stati Uniti in seguito agli incoraggiamenti dalla Fed. Il problema di questa politica è che molte banche hanno già problemi di credito per proprio conto mentre altre sono già impegnate in operazioni di assorbimento di aziende.
La crisi attuale non sarà limitata al settore finanziario, ma si estenderà al resto dell’economia, con effetti sul commercio, i posti di lavoro e gli stipendi, e non solo negli Stati Uniti, ma nel mondo intero. In America, come in Italia e ovunque nel mondo, i livelli reali di disoccupazione e di inflazione non sono rivelati nelle statistiche ufficiali. Tuttavia, ci sono alcune drammatiche cifre che ci mostrano come la classe operaia negli Stati Uniti stia già soffrendo per la crisi dell’economia capitalista, al di là dei numeri di perdite di case, di tagli dei posti di lavoro e di aumenti dei prezzi. Come viene descritto dal New York Times del 31 marzo scorso: “Spinto da una miscela dolorosa di licenziamenti e di aumenti dei prezzi di alimenti e combustibili, il numero di Americani che ricevono i buoni pasto è proiettato verso i 28 milioni durante quest’anno, il livello più alto da quando il programma di aiuti decollò negli anni ‘60.” Questa proiezione proviene da una fonte ufficiale, il Congressional Budget Office.
Il collegamento fra la crisi e la lotta di classe
La crisi economica ha subito, a livello internazionale, una accelerazione importante. Dopo anni di bugie su uno sviluppo senza precedente la classe dominante adesso deve ammettere l’esistenza della crisi. Le sole opzioni aperte al capitalismo si trovano nell’intervento dello Stato e nel ricorso al debito. Non possiamo predire ogni particolare di che cosa si profila davanti a noi, ma possiamo vedere quello che viene minacciato. Vi è un’accumulazione enorme di pressioni inflazionistiche, che è qualcosa che non abbiamo visto negli anni ‘30. Vi è la minaccia del crollo di settori interi di alcune economie. Ed anche se le borghesie di diversi Stati sono capaci di cooperare ad alcuni livelli, ogni paese rimane tuttavia in competizione con ogni altro e non va a salvare le imprese in fallimento dei suoi rivali.
La natura sempre più simultanea della crisi a livello internazionale significa che diventa sempre meno credibile quello che alcuni propagandisti possono indicare come possibili motori capaci di trascinare il resto dell’economia al di fuori del pantano: i limiti di quello che possiamo attenderci dall’India e dalla Cina si stanno velocemente palesando.
Noi siamo testimoni di lotte della classe operaia che sono una risposta ad attacchi simili in diversi paesi: al posto di lavoro, ai servizi, ai salari, ai prezzi e alle pensioni. Nella misura in cui la crisi mostra sempre più chiaramente il legame tra le varie economie, c’è la possibilità che gli operai possano vedere i loro interessi internazionali comuni e capire che l’economia capitalista non può garantire i bisogni basilari della vita dell’umanità. La classe operaia è spinta è spinta in una lotta per la sopravvivenza contro gli effetti della crisi del capitalismo.
In questo periodo esistono lotte di lavoratori in tutte le parti del mondo, in Germania, in Grecia, in sud America, in Asia, lotte riportate sui mass-media ma molto più spesso ignorate da questi, lotte di resistenza contro gli attacchi ai salari, alle pensioni, alle condizioni di vita … La classe operaia si dovrà rendere sempre più conto che questo sistema non ha più nulla da offrire e, al tempo stesso, che per farla finita con questo occorre una risposta di classe unita e internazionale.
Car, 4/4/8
Con il seguente comunicato, Internacionalismo - sezione della CCI in Venezuela, analizza gli eventi in Sud America a seguito della presenza di truppe colombiane in territorio ecuadoriano.
Gli eventi
Nelle prime ore di sabato 2 marzo l'esercito colombiano bombarda un accampamento delle FARC situato nel territorio dell’Ecuador, a pochi chilometri dal confine colombiano. L'obiettivo della missione è eliminare il capo guerrigliero soprannominato Raúl Reyes, un importante membro del segretariato delle FARC, che viene ucciso con 16 guerriglieri. Il presidente della Colombia (Álvaro Uribe), che ha seguito l’intera operazione durante la notte, avvisa dell’azione il presidente dell'Ecuador (Rafael Correa), che reagisce in modo calmo dopo avere ascoltato le spiegazioni del presidente colombiano.
La domenica, Correa ha un cambiamento d’umore e decide di espellere l’ambasciatore della Colombia dall'Ecuador, ordinando un rinforzo della presenza militare sul confine con la Colombia. Il lunedì, l’Ecuador decide di rompere i rapporti diplomatici con la Colombia, accusando il presidente Uribe d’essere “un guerrafondaio”; successivamente il capo della polizia della Colombia ha dichiarato che i documenti trovati sui computer dei guerriglieri indicavano che c’erano collegamenti fra le FARC ed i governi dell'Ecuador e del Venezuela [1].
Domenica 3 marzo, Chavez, nella sua esibizione in televisione chiamata “Aló, Presidente”, dopo avere accusato Uribe d’essere “un gangster e un lacché imperialista” e minacciato di inviare un caccia bombardiere Sukhoi se il presidente colombiano avesse deciso di effettuare un’azione simile sul territorio venezuelano, ordina il ritiro del personale dell’ambasciata di Bogotá e la mobilitazione di 10 battaglioni militari verso il confine con la Colombia. Il lunedì, il presidente venezuelano dichiara l’espulsione dell’ambasciatore della Colombia; e quello stesso giorno (anche se non in maniera ufficiale), il governo venezuelano ordina la chiusura del confine con la Colombia [2].
Come prevedibile, questa situazione ha generato tensioni nella regione e preoccupazione presso la popolazione, principalmente sul confine colombiano - venezuelano.
Chavez intensifica le tensioni
La reazione del governo del Venezuela è stata sproporzionata, dato che la Colombia non ha effettuato alcun genere di azione militare sul territorio venezuelano. Tutti i commentatori sottolineano che la reazione del Venezuela è stata più estremista di quella dell’Ecuador, il paese “invaso”.
Si è ipotizzato che Chavez, dopo la prima reazione moderata di Correa (che condivide il progetto Chavista “della rivoluzione bolivariana”), abbia messo sotto pressione il presidente dell’Ecuador per rompere i rapporti con la Colombia e mostrare un fronte unito contro le aggressioni di Uribe.
Questa reazione esagerata del Venezuela non sorprende per niente. Il governo gauchista di Chavez ha sviluppato una strategia politica per posizionarsi come potenza regionale, basata sul potere che gli viene dal petrolio, e con esso, sfrutta un diffuso anti-americanismo usando i problemi sociali e politici dei paesi della regione e le difficoltà geopolitiche degli USA. nel mondo. Questa posizione ha condotto il Venezuela a sostenere politicamente e finanziariamente i gruppi e i partiti di sinistra nella regione, di cui alcuni sono già al potere, come è il caso di Evo Morales in Bolivia o Correa nell’Ecuador. La reazione di Chavez e la sua pressione sull’Ecuador non sono una sorpresa, poiché le operazioni della Colombia hanno rivelato l’aiuto che entrambi i paesi danno ai guerriglieri colombiani, consentendo la messa in opera di accampamenti sui loro territori per eludere i militari colombiani. La decisione del governo del Venezuela di mobilitare le truppe al confine con la Colombia era una risposta alla possibilità di attacco degli accampamenti dei guerriglieri in territorio venezuelano da parte dell’esercito colombiano.
Chavez ha avuto disaccordi politici e diplomatici continui con la Colombia che, con la scusa della lotta alla guerriglia e al traffico della droga attraverso il Piano Colombia iniziato nel 2000, è stata trasformata nella base militare più importante degli USA nella regione.
Cercando di destabilizzare il governo colombiano, Chavez ha dato un sostegno sempre più aperto alle organizzazioni guerrigliere (FARC ed ELN); inoltre dà un supporto politico (e forse finanziario) al Polo Democratico Alternativo, un partito gauchista colombiano che difende il progetto bolivariano contro il partito di Uribe al potere.
Il confronto Chavez-Uribe si è mantenuto più o meno in un equilibrio instabile fino a novembre dell’anno scorso, quando Chavez è stato considerato come mediatore possibile per “lo scambio umanitario” di vari ostaggi nelle mani delle FARC [3] con militanti di quella stessa organizzazione. Non dovremmo dimenticarci che la decisione inesplicabile del governo colombiano di utilizzare Chavez come mediatore per lo scambio di ostaggi con militanti delle FARC può fare parte di una strategia della borghesia degli USA per conoscere meglio le manovre delle FARC e di indebolirle geo-politicamente, come sta accadendo ora.
È vero che i guerriglieri sono stati indeboliti dalle azioni decise di Uribe [4], situazione che spiega l’insistenza di Chavez a difenderli come forza combattente, cosa che aprirebbe le porte alla loro trasformazione in un partito politico. La recente azione della Colombia in Ecuador potrebbe fare parte della necessità di ostacolare questa ultima opzione e mettere fine al processo unilaterale della restituzione degli ostaggi a Chavez e rendere pubblici i collegamenti del governo venezuelano con le FARC. Il governo colombiano, grazie ai suoi servizi segreti (sostenuti da tecnologia militare americana altamente avanzata), ha denunciato molte volte l’esistenza di campi della guerriglia nei paesi limitrofi della Colombia, specialmente in Venezuela e in Ecuador. Infatti, alcuni mesi fa, il presidente Uribe aveva già denunciato che il capo guerrigliero Raúl Reyes stava nascondendosi nel territorio ecuadoriano. Si potrebbe giurare che il governo della Colombia stava giusto aspettando l’occasione favorevole per eliminarlo [5].
Le borghesie statunitense e colombiana conoscono bene l’indebolimento di Chavez sul piano interno, rivelato dalla sua sconfitta al referendum del 2 dicembre scorso, il cui obiettivo era di renderlo eleggibile un numero infinito di volte. Le masse che avevano riposto in lui tutte le loro speranze cominciano a non credergli più. E’ per questo che il governo di Chavez cerca senza sosta di trascinare la popolazione in una campagna aggressiva contro il nemico esterno (gli USA o, più recentemente, la Colombia), al fine di distogliere l’attenzione delle masse dai loro problemi reali di tutti i giorni (penuria dei beni di prima necessità, criminalità, disoccupazione, …).
La strategia geopolitica degli USA è stata quella di lasciare che il chavismo si discreditasse progressivamente da solo, per cui il governo americano ha evitato di cadere nelle continue provocazioni; una situazione che ha portato Chavez a raddrizzare il tiro della sua aggressività nazionalista verso Uribe. La borghesia americana e i suoi alleati più coscienti nella regione sanno che i grossi profitti petroliferi non basteranno a saziare la voracità della borghesia bolivariana (la boliborghesia), che ha bisogno di enormi quantità di risorse per i suoi affari legali e illegali (frutto dell’alto livello di corruzione che regna tra le fila bolivariane); allo stesso tempo, mantenere una politica antiamericana (ai tempi della guerra fredda sostenuta dall’URSS) costa molto caro. Allo stesso tempo il prosieguo di una politica populista richiede grosse spese, motivo dell’indebolimento di questa politica nel 2006 (con grosse conseguenze per i settori più poveri della popolazione).
A causa del malessere sociale [6], il confronto con la Colombia e le mobilitazioni militari non hanno trovato il sostegno della popolazione del Venezuela. Gli appelli di Chavez, dell’Assemblea Nazionale e dei grandi burocrati del chavismo alla mobilitazione della popolazione alle frontiere sono stati ascoltati con indifferenza, con ostilità, o anche con l’idea che i due governi avrebbero fatto meglio a trovare un altro mezzo per risolvere i loro conflitti. Il governo ha beneficiato dell’appoggio dell’ex burocrate Lina Ron, che ha messo i suoi 2.000 partigiani al servizio del “comandante”! Questi fanno parte dei partigiani assoldati da Chavez che li utilizza per reprimere l’opposizione e le masse operaie che protestano o lottano per le loro condizioni di vita. D’altra parte, nel caso del Venezuela, le frazioni di opposizione della borghesia e i loro partiti hanno serrato i ranghi contro Chavez, mentre la borghesia colombiana faceva fronte unico attorno ad Uribe.
C’è un ulteriore fattore importante che gioca contro le tendenze belliciste del chavismo: la divisione delle forze armate, un riflesso della divisione che le diverse frazioni della borghesia hanno trasmesso alla popolazione civile. Anche se in maniera non aperta, è evidente che ci sono settori militari che sono in disaccordo con il tipo di relazioni che il governo intrattiene con la guerriglia: questa ha attaccato le forze armate venezuelane in più occasioni, facendo un gran numero di morti civili e militari. Secondo le dichiarazioni dell’ex ministro della difesa Raul Baduel, che dallo scorso anno è passato all’opposizione, e che proviene dalle forze armate, il governo non ha il sostegno delle classi medie, quelle che hanno la responsabilità delle truppe.
La dinamica della decomposizione
Anche se differenti paesi [7] e la stessa OAS cercano di minimizzare le tensioni nella regione, è evidente che è interesse del Venezuela prolungare la crisi. Perciò la pressione sull’Ecuador continua: nel momento in cui scriviamo questo comunicato, il presidente Correa ha appena fatto una visita a Caracas, occasione per lui e Chavez di ravvivare le fiamme del conflitto. Dopo di ciò Correa andrà in Nicaragua, occasione che servirà al presidente Daniel Ortega per rompere le relazioni diplomatiche con la Colombia.
E’ possibile che il conflitto non andrà oltre i grandi discorsi fatti dalle due parti. Tuttavia esiste un contesto di decomposizione che rende impossibile predire quello che può accadere:
- gli USA, con il loro piano Colombia, hanno introdotto nella regione dei motivi di instabilità che sono irreversibili: la Colombia è stata equipaggiata militarmente e dispone di forze armate ben addestrate, che, secondo gli specialisti, sono quattro volte superiori a quelle del Venezuela e dell’Ecuador riunite, disponendo inoltre del sostegno della tecnologia militare più avanzata. Una situazione che crea uno squilibrio nella regione;
- con la decisione di Uribe di denunciare davanti alla Corte di Giustizia internazionale Chavez per finanziamento ai gruppi terroristi, è possibile che la Colombia utilizzi i recenti avvenimenti per rafforzarsi e proseguire la denuncia di Chavez, discreditando il suo prestigio a livello internazionale; per esempio, la denuncia pubblica del sostegno del governo venezuelano alle FARC e la messa in campo di prove dell’esistenza di campi della guerriglia in territorio venezuelano;
- i chavisti, nella loro fuga in avanti, possono utilizzare qualsiasi mezzo per giustificare un confronto militare con la Colombia. In una sua recente dichiarazione, Chavez ha minacciato di nazionalizzare molte imprese colombiane.
Internacionalismo, marzo 2008
NOTA: venerdì 7 marzo, durante la riunione nella repubblica dominicana dei dirigenti dei diversi paesi dell’America latina, Uribe, Chavez, Correa ed Ortega non hanno cessato di abbracciarsi, cosa che è stata interpretata come possibile fine del conflitto. Noi sappiamo che i politici hanno l’abitudine di abbracciarsi anche se stanno tirando un pugno di nascosto ai loro avversari. Secondo noi Uribe ha chiaramente svelato i suoi piani contro i suoi avversari, che non avevano altra scelta che cercare di ostacolarlo. Può anche darsi che le tensioni diminuiscano provvisoriamente, ma la situazione di conflitto esiste sempre. Chavez ha bisogno di un nemico esterno; per sostenerlo, l’Ecuador ha deciso, per il momento, di non riprendere le sue relazioni con la Colombia.
1. Alcune delle prove trovate riguardano il trasferimento di 300 milioni di dollari e di armamenti dal Venezuela per le FARC. Nella stessa prova inoltre era precisato che le FARC avevano dato 50.000 dollari a Chavez nel 1992, quando questo era in prigione dopo il fallimento del suo colpo di Stato.
2. La Colombia è il secondo partner commerciale del Venezuela, subito dopo gli Stati Uniti. Il 30% delle importazioni del paese transitano attraverso la frontiera con la Colombia, tra cui un parte importante di generi alimentari. La chiusura della frontiera provocherebbe un aggravamento della penuria di prodotti alimentari nel paese, già molto pesante dalla fine del 2007. Questa è una espressione dell’irrazionalità della fuga in avanti del chavismo.
3. Tutta la questione dello scambio “umanitario” è stata accompagnata da una quantità di ipocrisie da parte delle diverse frazioni della borghesia, ognuna delle quali cerca di sfruttare la situazione (in particolare Chavez e le FARC) per la difesa dei propri interessi; molti paesi hanno preso parte a questa farsa “umanitaria” (fra cui la Francia). E tutti sono molto poco interessati alla sorte degli ostaggi, che, peraltro, sono in gran parte appartenenti ad istituzioni borghesi (Parlamento, partiti politici, ecc.). Dobbiamo denunciare con fermezza lo sfruttamento dei sentimenti delle masse in favore degli interessi geopolitica della borghesia.
4. La forza numerica delle FARC è caduta da 17.000 unità a 11.000 da quando Uribe è diventato presidente nel 2002. Quasi 7.000 guerrigilieri sono morti e più di 46.000 elementi delle FARC, dell’ELN (Esercito di Liberazione Nazionale) e delle AUC (Forze Unite di autodifesa della Colombia) sono state smobilitate (fonte El Nacional, 3/09/07).
5. Secondo le più recenti notizie, la localizzazione esatta del leader della guerriglia Raùl Reyes è stata possibile dopo una chiamata di Chavez sul suo telefono cellulare.
6. Le proteste della popolazione sono sempre più frequenti. Dall’anno scorso, gli operai si sono mobilitati per migliori condizioni di vita e migliori salari, nel settore petrolifero, siderurgico, dei pneumatici, della sanità, ecc.
7. Uno dei paesi che può giocare un ruolo importante è il Brasile, perché Lula è “l’amico” di tutti i paesi in conflitto, e particolarmente di Chavez. La Francia, che si è molto immischiata nelle cose dopo il rapimento della Betancourt, ha adottato una politica ambigua che le ha attirato delle critiche: essa si è innanzitutto lamentata dell’incidente a causa del ruolo che Reyes giocava nella mediazione per la liberazione degli ostaggi, mostrando una posizione almeno confusa nei confronti delle FARC; in seguito essa ha giudicato necessario spiegare che le sue relazioni con Reyes non erano cominciate che a metà del 2007. In dichiarazioni più recenti ha “minacciato” le FARC di etichettarle come terroriste se la Betancourt dovesse morire.
Le proteste per il brutale trattamento della popolazione del Tibet hanno inseguito il passaggio della torcia olimpica fin dal momento in cui è stata accesa. Sembra che debbano raggiungere il punto culminante il 21 giugno quando la fiamma arriverà a Lhasa, capitale del Tibet.
A marzo le dimostrazioni nel Tibet si sono trasformate in tumulti in cui hanno perso la vita, secondo il governo cinese, 19 persone, vittime dei rivoltosi tibetani, mentre il governo tibetano in esilio dice che i morti sono 140, la maggior parte dei quali vittime delle forze di sicurezza. Ci sono notizie anche di tumulti in altre province abitate da significative comunità tibetane.
I cinesi hanno incolpato il Dalai Lama, il capo buddista tibetano in esilio, per incitamento alla violenza. Il segretario del partito comunista del Tibet ha detto “il Dalai Lama è un lupo camuffato, un mostro con la faccia umana e il cuore di un animale.” Un articolo nel Guangming Daily ha dichiarato che “il Dalai Lama ed i suoi sostenitori, rappresentanti dei proprietari feudali del vecchio Tibet, non hanno fatto mai niente di buono per il popolo tibetano negli ultimi 50 anni”. I gauchisti, sostenitori della repressione statale cinese, negano che ci sia una lotta di ‘liberazione nazionale’ nella regione, insistendo che i ‘secessionisti’ sono sostenuti dall’America e che il Dalai Lama è un fantoccio al soldo dei servizi segreti degli Stati Uniti che sfruttano l’occasione delle Olimpiadi di Pechino per insidiare l’integrità e la stabilità cinesi.
In opposizione a questo, la Campagna per il Tibet Libero afferma che “l'invasione cinese con 40.000 soldati nel 1950 è stata un’aggressione non provocata [...] si valuta che circa 1.2 milioni di tibetani siano stati uccisi dai cinesi dal 1950 [...] l’afflusso dei cittadini cinesi ha destabilizzato l’economia" e che ora ci sono “da 5 a 5.5 milioni di cinesi per 4.5 milioni di tibetani”. Nel frattempo “i rapporti del governo indiano dicono che ci sono tre siti nucleari missilistici e circa 300.000 truppe stazionate sul territorio tibetano”. Questa campagna ha molti sostenitori tra famose celebrità, da Richard Geere col suo discorso alla premiazione del 1993 dell’Academy Awards ad Harrison Ford, a Sharon Stone, agli U2 ed ai REM.
Accanto ai democratici radicali ed alle celebrità buddiste ci sono i gauchisti che vedono una lotta per l’indipendenza nazionale. “I tumulti e le proteste che sono scoppiati nel Tibet questa settimana sono il prodotto di decenni di oppressione nazionale” dice Socialist Worker (22/3/8). Il Socialist Workers Party è deluso che “lo sviluppo economico non abbia toccato la maggior parte dei tibetani. Il popolo cinese ed altre minoranze etniche hanno preso la maggior parte dei nuovi posti di lavoro creati - che è una delle ragioni per cui sono stati attaccati durante i recenti disordini.” Tali osservazioni sembrano rievocative del celebre slogan ‘vengono qui e si prendono i nostri lavori’ ...
Un certo numero di questi diversi punti di propaganda hanno un fondamento nella realtà. Non ci sono dubbi che l’invasione e l’occupazione cinese del Tibet sia stata una lunga cronaca di barbarie. È ugualmente vero che il regime dei Lama da loro rovesciato era basato su un secolare, vecchio sistema di sfruttamento. E non è privo di fondamento che ogni potenza imperialista cerchi di ostacolare le crescenti ambizioni imperialiste della Cina incoraggiando i movimenti di opposizione o di secessione nelle zone che essa controlla. Il punto non è se la CIA paga oppure no il Dalai Lama. L’imperialismo americano ha giocato spesso la carta dei diritti dell’uomo contro altri imperialismi: basta guardare all’intero periodo della guerra fredda quando i regimi in URSS ed in Europa Orientale erano l’obiettivo delle sue campagne. È inoltre significativo che il governo indiano mantenga un occhio di riguardo sul Tibet, a causa della minaccia del suo rivale regionale, l’imperialismo cinese.
Così, durante la recente visita di Stato del presidente francese, la ragione per cui Brown non si è dichiarato a favore del boicottaggio delle Olimpiadi, mentre Sarkozy non lo ha escluso, non era perché uno è più umanitario dell’altro, ma a causa dell’approccio differente nella difesa dei relativi interessi imperialisti. La difesa dei ‘diritti dell'uomo’ e l’opposizione ‘all’oppressione nazionale’ sono armi standard delle più criminali classi dominanti della storia. Quando parlano del loro desiderio di pace, hanno lo sguardo rivolto alla loro preparazione per la guerra.
Car, 5/4/2008
Gli ultimi cinque anni hanno mostrato uno sviluppo della lotta di classe a livello internazionale. Queste lotte si sono sviluppate in risposta alla brutalità della crisi del capitalismo e al drammatico peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro in tutto il mondo. Oggi, entrando in una nuova fase della crisi economica annunciata dalla crisi immobiliare negli USA, possiamo aspettarci un’intensificazione di queste lotte. In alcuni dei paesi in cui le condizioni dei lavoratori sono più miserevoli – Egitto, Dubai, Bangladesh – abbiamo già visto i germi dei futuri scioperi di massa. In Europa è riapparso nel 2006 con le proteste degli studenti in Francia un movimento di protesta proletario con un carattere di massa e tendenze verso l’autorganizzazione.
In questo momento stiamo assistendo in Germania all’inizio di una nuova fase di questo sviluppo. In un paese industriale importante collocato nel cuore della vecchia Europa capitalista, una simultaneità di conflitti sociali minaccia di esplodere in una reale ondata di lotte operaie.
Un altro anno di malcontento
Il 2008 è cominciato con la notizia che la compagnia ferroviaria tedesca Deutsche Bahn (DB) era obbligata ad accordare un incremento dell’11% sui salari e una riduzione di un’ora sulla settimana di lavoro per i macchinisti. Ciò è stato il risultato di mesi di un tenace conflitto che non è stato eroso né dalla dichiarazione di illegalità degli scioperi nazionali dei ferrovieri né dalla divisione dei lavoratori delle ferrovie praticata dai sindacati. Questo sciopero è stato poi seguito dalla mobilitazione nell’area della Ruhr intorno alla chiusura della produzione dei telefonini Nokia. Un giorno di azione in solidarietà con gli impiegati della Nokia a Bochum ha visto la mobilitazione per strada di lavoratori provenienti da innumerevoli settori differenti e l’invio di delegazioni da diverse parti della Germania. In particolare, gli operai della Opel di Bochum sono scesi anch’essi in sciopero a sostegno di quelli della Nokia quel giorno.
Nel frattempo, le rituali negoziazioni per i rinnovi contrattuali erano già cominciate. Gli scioperi dei siderurgici furono seguiti dalla sospensione del lavoro da parte di decine di migliaia di lavoratori del settore pubblico in tutto il paese. Da metà marzo, i medici degli ospedali municipali scesero in piazza chiedendo, come tanti altri lavoratori, un aumento salariale del 12%.
Ma è soprattutto il forte sciopero illimitato dei lavoratori dei trasporti locali di Berlino che, dalla fine della prima settimana di marzo, ha dimostrato che quest’anno la serie di negoziati sul salario stanno direttamente sfidando l’offensiva capitalista contro la classe operaia. Questo sciopero di 10.000 lavoratori – già il più vasto e il più lungo del suo tipo nella storia della Germania dal dopo Guerra in poi - ha manifestato una combattività e una determinazione che all’inizio ha preso di sorpresa la borghesia. Questo conflitto cresceva nel momento in cui le ferrovie tedesche facevano un ultimo tentativo per tirarsi indietro rispetto alle concessioni che erano state costrette a fare, e quando i negoziati nel settore pubblico erano sull’orlo della rottura. In quest’ultimo settore, lo Stato “offriva” ai suoi dipendenti un “aumento” salariale del 5% su due anni, chiedendo di rimando di allungare la settimana lavorativa di due ore! A Berlino, dove tutti i trasporti municipali erano in sciopero tranne i treni della suburbana (S-Bahn, controllata dalla DB) per questi lavoratori e per tutto il settore si apriva improvvisamente la prospettiva di andare allo sciopero non solo a Berlino ma in tutto il paese! La classe dominante ha dunque dovuto tirare il freno di emergenza (1). La compagnia ferroviaria ha ceduto qualche ora prima della ripresa di uno sciopero generale nazionale dei macchinisti. Allo stesso tempo, i datori di lavoro federali e municipali e il sindacato Verdi (2) hanno fatto appello all’arbitrato nel conflitto del settore pubblico, con la conseguenza che gli scioperi delle settimane successive sarebbero stati illegali. In questo modo, il governo, i datori di lavoro ed i sindacati hanno isolato lo sciopero alla compagnia di trasporto di Berlino (BVG).Ma il potenziale perché la simultaneità delle lotte degli operai ponga obiettivamente la loro interconnessione viene fuori non solo dalla profonda insoddisfazione generale derivante dalla perdita di valore degli stipendi reali. Vi è anche un accumulo di “esuberi di personale”. Alcuni giorni dopo la Nokia, è stato impedito il fallimento della banca semistatale della provincia della Nord-Reno-Vestfalia, la WestLB attraverso un’operazione di salvataggio dello Stato costata 2 miliardi di euro. Il costo per gli impiegati: 2000 licenziamenti, un terzo del personale e massicci tagli di stipendio per quelli che rimanevano. Lo stesso Stato che aveva distribuito miliardi per sostenere altri istituti di credito come l’IKB di Düsseldorf o la banca provinciale della Sassonia va ora dicendo agli operai del settore pubblico che non ci sono fondi disponibili per venire incontro alle rivendicazioni salariali!
In aggiunta alle vittime dell’attuale terremoto del mercato delle case, nelle settimane scorse un certo numero di compagnie industriali - Siemens, BMW, Henkel (Persil) - hanno annunciato contemporaneamente profitti da record ed esuberi di personale. La vecchia frottola raccontata agli operai delle aziende in difficoltà – e cioè che ristabilire il profitto con “il sacrificio” avrebbe salvato i loro posti di lavoro - è stata frantumata dalla realtà. Questi attacchi senza precedente hanno condotto non soltanto alle prime espressioni di resistenza quest’anno: Nokia, ma anche le dimostrazioni dei minatori nel Saarland contro la chiusura dei pozzi (3). Hanno anche contribuito a mettere in discussione la propaganda della classe dominante.
La politicizzazione della lotta
Uno dei segni più significativi dell’attuale maturazione della situazione è l’inizio di una politicizzazione cosciente e più aperta della lotta dei lavoratori. I recenti sviluppi della lotta ci forniscono tre importanti esempi.
1. Il ruolo dell’area industriale della Opel a Bochum nel recente conflitto alla Nokia. E’ vero che gli impiegati della Nokia si erano sentiti demoralizzati e intimiditi dalla provocatoria brutalità con cui la chiusura dell’impianto era stata annunciata. E fu in larga misura l’intervento massiccio dei lavoratori della Opel verso la Nokia - intervento con cui si chiamavano i lavoratori a lottare e si prometteva loro che avrebbero avuto sostegno ad ogni eventuale sciopero - che rese possibile la mobilitazione che ebbe luogo. Già nel 2004, uno sciopero selvaggio di una settimana alla Opel di Bochum aveva impedito la chiusura dell’impianto.
Oggi, i cosiddetti “Operaner” (gli operai della Opel) sono determinati a trasmettere questa lezione a tutti gli altri: la resistenza e la solidarietà degli operai paga! Quello che noi vediamo qui è l’emergere di avanguardie combattive nelle grandi concentrazioni operaie, che sono consapevoli del loro peso nella lotta di classe e determinate a metterlo in gioco a favore degli operai nel loro insieme. Un’altra di queste concentrazioni industriali è quella della Mercedes-Daimler che già negli anni ’90, attraverso uno sciopero di grandi dimensioni, impedì il taglio del pagamento dei giorni di malattia da parte del governo Kohl. Nel 2004 gli operai della Daimler che scesero in piazza a Stoccarda e a Brema contro i tagli salariali e dichiararono che stavano lottando non soltanto per se stessi, ma per tutti gli operai. Dovremmo anche ricordare che la Germania è ancora un paese con delle aziende enormi e con concentrazioni industriali di milioni e milioni in di operai altamente qualificati.
2. L’inizio del confronto aperto fra gli operai e gli organismi di sinistra controllati dal capitale si è concretizzato in occasione dello sciopero del settore dei trasporti BVG a Berlino. Questo sciopero non è soltanto una reazione alla perdita di valore degli stipendi reali nei confronti di una inflazione crescente. I lavoratori si ribellano anche contro le conseguenze dell’accordo salariale del 2005, che ha provocato tagli di stipendio del 12% e un orribile peggioramento delle condizioni di lavoro. Un contratto che Verdi, il principale sindacato del settore, difende ancora con veemenza. Consapevoli del fatto che la nuova “offerta” salariale che i padroni avrebbero fatto sarebbe stata una provocazione per i lavoratori, il sindacato Verdi aveva programmato in anticipo una giornata di protesta, prevista di sabato verso la fine di febbraio per causare il minor danno possibile. Ma quando gli operai hanno sentito che i loro stipendi sarebbero stati congelati al livello del 2007, con degli aumenti offerti soltanto a quelli impiegati dal 2005, sono scesi in sciopero per 24 ore e prima di quanto fosse programmato, anzi senza neanche aspettare il permesso sindacale. Tal’è l’indignazione dei lavoratori, e non solo rispetto ai tagli salariali effettivi ma anche riguardo ai tentativi evidenti di dividere gli operai, che il sindacato Verdi è stato obbligato ad abbandonare la sua ricerca di un “cordiale accordo negoziato” ed a convocare uno sciopero con tutti i mezzi a disposizione. Questo sciopero ha anche condotto ad un scontro aperto con la coalizione di sinistra “Rosso-Rossa” della Socialdemocrazia e dell’ala sinistra “Linkspartei” che governa a Berlino. Quest’ultimo partito, emerso dal vecchio partito stalinista tedesco SED che governava una volta la Germania orientale e che adesso si sta espandendo nella Germania occidentale con l’aiuto dell’ex leader dell’SPD, Oskar Lafontaine, denuncia lo sciopero come un’espressione della “viziata” Berlino Ovest! Ciò accade nello stesso momento in cui le frazioni potenti della borghesia tedesca stanno provando ad affermare il partito di Lafontaine e di Gysi come la quinta forza parlamentare capace di deviare il malcontento operaio sul terreno elettorale. Nessuna meraviglia se sera dopo sera le notizie della TV non menzionano neanche uno sciopero che sta generando caos nella capitale di un paese!
3. Stanno apparendo su internet dei primi blog dove, per esempio, i lavoratori delle ferrovie esprimono la loro ammirazione e la loro solidarietà per lo sciopero di BVG. Ciò è tanto più importante nella misura in cui in settori come quelli dei lavoratori ferroviari, dei piloti o del personale medico di ospedale - dove il peso del corporativismo è particolarmente forte - la borghesia sta rispondendo al crescente malcontento nei confronti dei sindacati tradizionali DGB attraverso lo sviluppo di nuovi sindacati pseudo-radicali, ma fortemente corporativi. Ciò viene fatto non solo per contenere la combattività in un ambito sindacale, ma anche per contrattaccare la radicalizzazione politica. Il sindacato dei macchinisti delle ferrovie, GDL, attualmente il favorito del gauchismo politico, è in effetti una caricatura di stampo parrocchiale e di conformismo non politico.
Il ruolo crescente del proletariato tedesco
La borghesia tedesca è stata per decenni orgogliosa del suo sistema di cosiddetta autonomia di trattativa salariale, un quadro giuridico rigorosamente definito all’interno del quale, sulla base della divisione settoriale e regionale dei lavoratori, i padroni ed i sindacati impongono la volontà del capitale. Tuttavia, il 2008 non è la prima volta, dal dopoguerra, in cui in Germania la classe operaia ha cominciato a mettere in questione questa struttura borghese. Dagli scioperi del settembre 1969 alle lotte di massa alla Ford di Colonia del 1973, gli scioperi selvaggi hanno contestato “gli accordi” imposti dai sindacati e dai padroni. Questo intervento autonomo della classe è stato provocato soprattutto dalle conseguenze dell’inflazione. Né è la prima volta che ci sono state mobilitazioni di lavoratori e solidarietà di classe in risposta alla chiusura di impianti. In particolare la lotta alla Krupp Rheinhausen nel 1987 è rimasta nella memoria collettiva della classe. Ma oggi abbiamo tutti e due i fenomeni assieme. L’inflazione e l’accumulazione degli effetti di anni di tagli reali allo stipendio hanno condotto ad una rabbia generalizzata. I licenziamenti e la disoccupazione di massa, se inizialmente possono frenare la combattività, alla fine provocano una riflessione sempre più profonda sulla natura del sistema capitalista.
Le lotte attuali sono la continuazione di quelle degli anni ‘60, ‘70 e ’80, lotte di cui occorre recuperare tutte le lezioni per armarsi adeguatamente per il futuro. Ma non ne sono una semplice continuazione. Sono anche un approfondimento di questa tradizione di lotta. Dopo il 1968 la Germania ha partecipato alla ripresa internazionale della lotta di classe. Ma era ancora in ritardo rispetto ad altri paesi a causa della particolare brutalità della controrivoluzione e della maggiore capacità che aveva all’inizio la Germania di resistere ai peggiori effetti della crisi del capitalismo.
Al contrario, il proletariato tedesco sta attualmente cominciando a raggiungere le sue sorelle e i suoi fratelli di classe di Francia e di altri paesi alla testa della lotta di classe internazionale
Weltrevolution, 14 Marzo 2008
1. Negli ultimi anni la funzione pubblica a Berlino ha smesso di negoziare con le province tedesche (Länder) allo scopo di condurre le trattative salariali per conto proprio e isolare così gli impiegati statali del posto dai loro colleghi di altre città. La scusa è la specificità della Germania contemporanea con una capitale che è non solo la città più grande, ma anche la più povera in tutto il paese.
2. “Ver.di” è la sigla del combattivo sindacato del pubblico impiego (eröffentliche Dienst), il più vicino a Lafontaine.
3. Per anni finora, le estrazioni nella regione della Saar hanno provocato regolarmente dei terremoti che hanno prodotto spesso considerevoli danni alle proprietà. Finora, questo non aveva mai interessato la classe dominante. Ma adesso, all’improvviso, un tale caso sta fornendo il pretesto per chiudere tutte le miniere restanti nella provincia.
Perché si pone oggi questa questione?
Anzitutto, vi sono degli elementi legati all’attualità che mettono in evidenza la difficoltà a comprendere chiaramente in cosa consiste la classe operaia.
Nell’autunno scorso, alcuni studenti che lottavano contro la legge “LRU” hanno manifestato la loro solidarietà ai ferrovieri in sciopero, cercando anche talvolta di realizzare delle assemblee generali in comune. Per contro, questi non hanno mai tentato di prendere contatti, per esempio, con le infermiere degli ospedali o gli insegnanti, andando sul posto per discutere. Perché?
L’immagine classica, cara alla borghesia e ai suoi mass-media, presenta l’operaio in tuta blu e con le mani callose. Ma che ne è dei milioni di disoccupati, di pensionati, di impiegati di ufficio, di funzionari, di lavoratori precari... ?
Chi fa parte della classe operaia?
Rispondere a queste questioni è una questione primordiale per continuare in avvenire a sviluppare, nella lotta, l’unità e la solidarietà.
Una questione simile si è posta in occasione della lotta della gioventù scolarizzata contro il CPE, nella primavera del 2006: la necessità di una solidarietà tra gli studenti e i lavoratori era evidente, tuttavia gli studenti non parlavano di “classe operaia” ma di “salariati”, il che significava che anche se comprendevano chiaramente che ciò che attendeva la maggior parte di loro era una vita di disoccupazione, di precarietà e di sfruttamento, essi non si consideravano come dei futuri membri della classe operaia.
In secondo luogo, e più in generale, le confusioni sulla natura della classe operaia sono state particolarmente diffuse in occasione del crollo dei regimi cosiddetti “socialisti” nel 1989: campagne sulla “morte del comunismo”, sulla “fine della lotta di classe”, fino alla “scomparsa della classe operaia”.
Perché è importante questa questione?
Perché queste false idee, che sono ampiamente alimentate dalle campagne e dalle mistificazioni della classe dominante, toccano i due punti di forza principali della classe operaia: la sua unità e la sua coscienza.
L’unità della classe operaia
Tutte le forze della borghesia sono interessate e partecipano alla divisione della classe operaia:
- I settori di destra: questi parlano solo di “cittadini tutti uguali davanti alla legge”. Per loro, non vi è divisione né antagonismo tra le classi sociali, tra sfruttati e sfruttatori. Bisogna manifestare una “solidarietà” tra “tutti i partner di una stessa impresa”, tra “tutti i cittadini di un paese”. Conclusione: il nemico dei salariati di tale impresa non è il loro padrone ma i salariati delle imprese concorrenti; il nemico degli sfruttati di un paese non è la loro borghesia nazionale ma gli sfruttati di altri paesi che lavorano per dei salari più bassi (e contro i quali bisogna prendere le armi in caso di guerra).
- I sociologi: sono specialisti nella ricerca di ogni sorta di categoria che tendano a mascherare le vere divisioni sociali tra sfruttati e sfruttatori. Fanno una serie di studi, con tanto di statistiche sulle differenze uomini/donne, giovani/vecchi, italiani/immigrati, credenti/non credenti, diplomati/non diplomati, ecc. (mentre vi sono delle femmine, dei giovani, degli immigrati, dei non credenti o dei non diplomati che appartengono alla classe degli sfruttatori e viceversa).
- La sinistra e soprattutto i sindacati: questi ammettono che vi sono degli sfruttatori e degli sfruttati, ma hanno l’abitudine di dividere questi ultimi tra imprese (parlano di quelli della “Renault”, di quelli della “Fiat”, ecc.), tra branche professionali (federazione sindacale dei trasporti, della funzione pubblica, dell’insegnamento, ecc.) ed anche tra paesi (usando talvolta un linguaggio sciovinista “produciamo italiano” quando si pone il problema della delocalizzazione di una impresa all’estero).
La coscienza della classe operaia
Questa consiste essenzialmente nella fiducia i sé stessa e nella coscienza della sua natura storica, del suo futuro.
- La fiducia in sé della classe operaia: i diversi settori della borghesia vogliono “mostrare” che la classe operaia non è più una forza nella società perché essa è sempre più ridotta di numero in quanto:
· Nei paesi sviluppati, vi sono sempre meno “colletti blu”, lavoratori “manuali” (i soli appartenenti alla classe operaia nelle definizioni ufficiali);
· là dove le “tute blu” aumentano, (Cina, India, ecc.), queste non rappresentano che una piccola minoranza della popolazione.
- La coscienza storica: si vorrebbe mostrare che non c’è niente da tirare dall’esperienza storica della classe operaia in quanto i salariati non sono più gli stessi di quelli del 19° secolo o della prima metà del 20° secolo.
Ecco la conclusione che la borghesia e tutti quelli che sono al suo servizio vogliono far tirare agli sfruttati: le idee socialiste, l’idea di un possibile rovesciamento della società capitalista potevano avere una giustificazione nel 19° secolo o all’inizio del 20° secolo, ma oggi sono delle idee assurde, una fantasticheria impotente.
Chi appartiene alla classe operaia?
- I lavoratori manuali appartengono tutti alla classe operaia?
NO: il panettiere o il macellaio proprietari dei loro commerci lavorano con le loro mani, ma non appartengono alla classe operaia perché questa è una classe sfruttata, che non è proprietaria dei suoi mezzi di produzione. D’altra parte, i piccoli commercianti non sono in generale molto amici degli operai che essi considerano spesso come dei “fannulloni”. In Francia, gli artigiani e i commercianti costituiscono le truppe di assalto di Le Pen. Per contro, il garzone salariato della macelleria o della panetteria appartiene alla classe operaia.
- Tutti gli sfruttati appartengono alla classe operaia?
NO: esiste per esempio (e sono numerosi nei paesi sottosviluppati) dei contadini poveri, non proprietari delle loro terre, che sono sfruttati dai proprietari fondiari a cui essi devono versare una percentuale delle loro entrate o un affitto annuo. Anche se questi possono conoscere uno sfruttamento spaventoso, essi non appartengono alla operaia. D’altra parte, le lotte che questi portano avanti mirano soprattutto a ottenere a ottenere una divisione delle terre, a trasformarsi in piccoli proprietari sfruttatori (come ce ne sono ancora in numero notevole in Francia o in Italia e che non sono esattamente dalla parte degli operai: essi costituiscono piuttosto la clientela di Le Pen). Di fatto, questo tipo di sfruttamento è una vestigia della società feudale, appartiene essenzialmente al passato.
Quali sono i criteri di appartenenza alla classe operaia?
La classe operaia è la classe sfruttata specifica del modo di produzione capitalista che è basato sul rapporto salariato. La specificità del capitalismo risiede nella separazione tra produttori e mezzi di produzione. I lavoratori che mettono in opera I mezzi di produzione non ne sono i proprietari, essi cedono in affitto la loro forza lavoro a quelli che li posseggono. Appartenere alla classe operaia suppone:
· Essere salariati: non si vende il prodotto del proprio lavoro, come fa il panettiere, ma si vende la propria forza lavoro a chi possiede i mezzi di produzione.
· Essere sfruttati: vale a dire che l’ammontare che riceve ogni giorno il salariato è inferiore al valore di quello che ha prodotto. Se ha lavorato per 8 ore, egli riceve l’equivalente di 4 ore e le altre 4 ore sono fatte proprie dal padrone (Marx ha chiamato “plus-valore” questo ammontare che non viene pagato al salariato). Non tutti i salariati sono degli sfruttati: i dirigenti delle grandi imprese sono spesso dei salariati ma con i loro salari di svariati milioni di euro per anno, è chiaro che non sono degli sfruttati. Lo stesso vale per gli alti funzionari.
Ciò suppone ugualmente non avere una funzione nella difesa del capitalismo contro la classe operaia: i preti o i poliziotti non sono proprietari dei loro mezzi di produzione (la chiesa o il manganello), essi sono dei salariati. Tuttavia, essi non hanno un ruolo di produttori di ricchezze ma di difensori dei privilegi degli sfruttatori e di mantenimento dell’ordine esistente.
Bisogna essere un manovale per appartenere alla classe operaia?
Assolutamente no! Per diversi motivi:
· Non vi è una separazione netta tra lavoratore manuale e intellettuale: è il cervello che comanda la mano. Alcuni mestieri “manuali” richiedono un apprendimento molto lungo e mobilitano attivamente il pensiero: un ebanista o un chirurgo sono entrambi dei “manuali”.
· D’altra parte, nel movimento operaio, non è stata fatta mai questa separazione: tradizionalmente, i correttori di bozze si consideravano come operai a fianco dei tipografi o degli operai addetti alle rotative. Spesso, essi erano all’avanguardia delle lotte operaie. Ugualmente, non vi è opposizione tra i conduttori di treni e gli “impiegati degli uffici”. Più in generale non c’è separazione tra “operai dalle mani callose” e impiegati.
· In più, a livello di parole, operaio vuol dire che “opera”, che lavora. In inglese operaio si dice “worker”, cioè chi lavora.
Bisogna arricchire direttamente un padrone per appartenere alla classe operaia?
NO! E’ chiaro che un operaio che lavora all’interno di un ospedale appartiene alla classe operaia. Ma è anche il caso di un infermiere che cura dei malati. Di fatto, questa partecipa a mantenere la forza lavoro che serve ad arricchire il capitalismo.
La stessa cosa vale per una istitutrice che partecipa alla formazione della forza lavoro che, più tardi, entrerà nel processo produttivo.
Ancora, un disoccupato (che momentaneamente non lavora) o un pensionato (vecchio produttore salariato e sfruttato) appartengono alla classe operaia non per la loro collocazione immediata nel processo produttivo ma per il posto da loro occupato nella società.
Conclusioni
Le lotte che possono condurre contro lo sfruttamento gli operai dell’industria, i ferrovieri, gli insegnanti, gli infermieri, gli impiegati di banca, i funzionari mal pagati, i disoccupati, ecc. ma anche gli studenti che entrano in queste professioni appartengono tutti alla lotta generale contro il capitalismo. Sono le lotte di resistenza contro gli attacchi sempre più brutali che questo sistema porta contro quelli che sfrutta. Sono anche delle lotte che preparano lo scontro generale e internazionale contro questo sistema in vista del suo rovesciamento.
Esattamente 40 anni fa, il 22 marzo 1968, cominciò a Nanterre, nel sobborgo ovest di Parigi, uno dei maggiori episodi della storia internazionale dalla fine della Seconda Guerra mondiale: quello che i media e i politici usano chiamare gli “avvenimenti del 68”. Di per se i fatti che accaddero in quel giorno non avevano niente di eccezionale: per protestare contro l’arresto di uno studente di estrema sinistra di Nanterre, sospettato di avere partecipato ad un attentato contro l’American Express a Parigi mentre si svolgevano violente dimostrazioni contro la guerra del Vietnam, 300 dei suoi compagni tennero un comizio in un anfiteatro e 142 fra loro decisero di occupare durante la notte la sala del Consiglio di Università, nell’edificio dell’amministrazione. Non era la prima volta che gli studenti di Nanterre manifestavano il proprio malcontento. Giusto un anno prima c’era stato in questa università un braccio di ferro tra studenti e forze di polizia sulla libera circolazione nella residenza accademica libera per le ragazze, ma interdetta ai ragazzi. Il 16 marzo 1967, un’associazione di 500 residenti, l’ARCUN decretò l’abolizione del regolamento interno che, fra l’altro, considerava gli studenti, anche quelli maggiorenni (più di 21 anni a quell’epoca), come minorenni. In risposta, il 21 marzo 1967, la polizia circondava su richiesta dell’amministrazione la residenza delle ragazze col proposito di arrestare i 150 ragazzi che si trovavano all’interno, barricati all’ultimo piano dell’edificio. Ma la mattina seguente gli stessi poliziotti si trovarono circondati da molte migliaia di studenti ed alla fine ricevettero l’ordine di lasciar uscire gli studenti barricati senza importunarli. Quest’incidente comunque, come altre dimostrazioni di rabbia degli studenti, in particolare contro il “piano Fouchet” di riforma universitaria nell'autunno 1967, non ebbe alcuno seguito. Non fu così invece dopo il 22 marzo 1968. In poche settimane, un susseguirsi di avvenimenti avrebbe portato non solo alla più forte mobilitazione studentesca dalla fine dalla guerra, ma soprattutto il più grande sciopero della storia del movimento operaio internazionale: più di 9 milioni di lavoratori entrarono in sciopero per circa un mese.
Per i comunisti, contrariamente alla maggior parte dei discorsi che già cominciano a propinarci, non fu l’agitazione studentesca, per quanto massiccia e “radicale” sia stata, a costituire la maggiore espressione degli “avvenimenti del 68” in Francia. Fu proprio lo sciopero operaio che occupò, e di gran lunga, questo posto rivestendo un significato storico considerevole. Tratteremo questa questione in altri articoli. Questo si limiterà ad esaminare le lotte studentesche di quest’epoca, in particolare, evidentemente, per coglierne il significato. (Gli altri articoli saranno pubblicati sul nostro sito web).
Dal 22 marzo al 13 maggio 1968
I 142 studenti che occupavano la sala del Consiglio, prima di uscire, decisero di costituire il Movimento 22 marzo (M22) allo scopo di tenere in piedi e sviluppare l’agitazione. Si trattava di un movimento informale, composto all’inizio da trozkisti della Lega Comunista rivoluzionaria (LCR) e da anarchici (tra i quali Daniel Cohn-Bendit), raggiunti a fine aprile dai maoisti dell’Unione dei giovani comunisti marxisti-leninisti (UJCML) e che, nelle settimane seguenti, contò più di 1200 partecipanti. I muri dell’università si coprirono di manifesti e di graffiti: “Professori, voi siete vecchi ed anche la vostra cultura”, “Lasciateci vivere”, “Prendete i vostri desideri per realtà”. L’M22 annunciò per il 29 marzo una giornata di “università critica” sulla scia delle azioni degli studenti tedeschi. Il preside decise di chiudere l’università fino al 1°aprile ma l’agitazione riprese fin dalla sua riapertura. Davanti a 1.000 studenti, Cohn-Bendit dichiarò: “Noi rifiutiamo di essere i futuri quadri dello sfruttamento capitalistico”. La maggior parte degli insegnanti reagì in modo conservatore: il 22 aprile 18 di loro, tra cui alcuni di “sinistra”, reclamarono “misure e mezzi per smascherare e punire gli agitatori”. Il preside adottò tutta una serie di misure repressive, in particolare la libera circolazione della polizia nel campus, mentre la stampa si sguinzagliava contro gli “arrabbiati”, i “gruppuscoli” e gli “anarchici”. Il Partito “comunista” francese (PCF) seguiva a ruota: il 26 aprile Pierre Juquin, membro del Comitato centrale, venne a fare un comizio a Nanterre: “Gli agitatori figli di papà impediscono ai figli dei lavoratori di sostenere i loro esami”. Dovette scappare via ancor prima di terminare il suo discorso. Sull’Humanité del 3 maggio, Georges Marchais, numero due del PCF, si scatenò a sua svolta: “Questi falsi rivoluzionari devono essere energicamente smascherati perché obiettivamente essi servono gli interessi del potere gollista e dei grandi monopoli capitalistici”.
Nel campus di Nanterre i tafferugli diventavano sempre più frequenti tra gli studenti di estrema sinistra ed i gruppi fascisti venuti a Parigi per “dare addosso al bolscevico”. Di fronte a questa situazione, il 2 maggio il preside decise di chiudere ancora una volta l’università che veniva intanto accerchiata dalla polizia. Il giorno seguente gli studenti di Nanterre decisero di tenere un meeting nel cortile della Sorbona per protestare contro la chiusura della loro università e contro l’invio al consiglio di disciplina di 8 membri di M22 tra cui Cohn-Bendit.
La riunione raggruppò solamente 300 partecipanti: la maggior parte degli studenti era impegnata attivamente a preparare gli esami di fine d’anno. Tuttavia il governo, che voleva farla finita con l’agitazione, decise di portare a segno un grande tiro facendo occupare il Quartiere latino e circondare la Sorbona dalle forze di polizia che penetrarono in quest'ultima, cosa che non accadeva da secoli. Gli studenti che erano rinchiusi nella Sorbona ottennero l’assicurazione che uscendo non sarebbero stati toccati; ma, se le ragazze poterono allontanarsi liberamente, i ragazzi invece, appena varcarono il portone, furono rinchiusi sistematicamente nei cellulari. Rapidamente, centinaia di studenti si raggrupparono sulla piazza della Sorbona ed insultarono i poliziotti. Cominciarono a piovere bombe lacrimogene: la piazza venne sgomberata ma gli studenti, sempre più numerosi, cominciarono allora ad assalire gruppi di poliziotti ed i loro automezzi. Gli scontri continuarono in serata per ancora 4 ore: vennero feriti 72 poliziotti e fermati 400 dimostranti. I giorni seguenti, le forze di polizia accerchiarono completamente i dintorni della Sorbona mentre 4 studenti vennero condannati e chiusi in prigione. Questa politica di fermezza, piuttosto che ridurre al silenzio l’agitazione, le fa acquistare al contrario un carattere di massa. A partire da lunedì 6 maggio scontri con le forze di polizia incominciarono a svilupparsi intorno alla Sorbona avvicendandosi con dimostrazioni sempre più seguite, indette dal M22, l’UNEF ed il SNESup (sindacato degli insegnanti delle Superiori) e raggruppando fino a 45.000 partecipanti al grido di “la Sorbona agli studenti”, “fuori i poliziotti dal Quartiere latino” e soprattutto “liberate i nostri compagni”. Agli studenti universitari si associarono un numero crescente di studenti liceali, insegnanti, operai e disoccupati. Il 7 Maggio i cortei oltrepassarono la Senna di sorpresa e percorsero i Campi Elisi, a due passi dal palazzo presidenziale. Si sentì riecheggiare l’Internazionale sotto l’Arco di Trionfo, là dove si sentiva, di solito, la Marsigliese o le Campane a morto. Le manifestazioni si estesero anche in alcune città di provincia. Il governo volle dare un segnale di buona volontà riaprendo l’università di Nanterre il 10 maggio. Nella serata dello stesso giorno decine di migliaia di manifestanti si ritrovarono nel Quartiere latino di fronte alle forze di polizia che accerchiavano la Sorbona. Alle ore 21 alcuni manifestanti cominciarono ad erigere delle barricate (approssimativamente una sessantina). A mezzanotte, una delegazione di 3 insegnanti e 3 studenti (tra cui Cohn-Bendit) venne ricevuta dal rettore dell’accademia di Parigi ma quest’ultimo, se accettò la riapertura della Sorbona, non poté promettere niente sulla scarcerazione degli studenti arrestati il 3 maggio. Alle 2 di mattina i CRS andarono all’assalto delle barricate dopo averle copiosamente infestate di gas lacrimogeni. Gli scontri furono di una violenza estrema provocando centinaia di feriti da entrambe le parti. Vennero fermati circa 500 dimostranti. Nel Quartiere latino molti abitanti mostrarono solidarietà ai manifestanti accogliendoli nelle loro case e gettando acqua in strada per proteggerli dai gas lacrimogeni e dalle granate. Tutti questi avvenimenti, ed in particolare le testimonianze sulla brutalità delle forze di repressione, venivano seguiti alla radio minuto per minuto da centinaia di migliaia di persone. Alle 6 di mattina “l’ordine regnava” al Quartiere latino che appariva come devastato da un tornado.
Il sabato 11 maggio l’indignazione a Parigi e nell’intera Francia era immensa. Cortei spontanei si formarono un po’ ovunque, raggruppando non solo studenti ma centinaia di migliaia di dimostranti di tutte le origini, principalmente molti giovani operai o genitori di studenti. In provincia numerose università furono occupate; dappertutto nelle strade, sulle piazze si discuteva e si condannava il comportamento delle forze di repressione.
Di fronte a questa situazione il Primo ministro, Georges Pompidou, annunciò in serata che dal lunedì 13 maggio le forze di polizia sarebbero state ritirate dal Quartiere latino, la Sorbona riaperta e liberati gli studenti arrestati.
Lo stesso giorno tutte le centrali sindacali, inclusa la CGT (che fino a quel momento aveva denunciato gli studenti come “estremisti”) ed il sindacato dei poliziotti, indissero per il 13 maggio uno sciopero ed una manifestazione per protestare contro la repressione e contro la politica del governo.
Il 13 maggio tutte le città del paese videro le più importanti manifestazioni dalla fine della Seconda Guerra mondiale. La classe operaia era presente massicciamente affianco agli studenti. Una delle parole d’ordine più gridata era “Dieci anni, ora basta!” in riferimento alla data del 13 maggio 1958 che aveva visto il ritorno di De Gaulle al potere. Alle fine delle manifestazioni, praticamente tutte università erano occupate dagli studenti ma anche da molti giovani operai. Dappertutto si parlava liberamente. Le discussioni non si limitavano alle questioni universitarie, alla repressione. Si cominciava a discutere di tutti i problemi sociali: le condizioni di lavoro, lo sfruttamento, il futuro della società.
Il giorno seguente le discussioni continuavano in molte fabbriche. Dopo le immense manifestazioni, con l’entusiasmo ed il sentimento di forza acquisiti era difficile riprendere il lavoro come se niente fosse successo. A Nantes gli operai della Sud-Aviation, trascinati dai più giovani, fecero uno sciopero spontaneo e decisero di occupare la fabbrica. La classe operaia cominciava a muoversi.
Il movimento studentesco nel mondo
Alla luce del susseguirsi degli avvenimenti che determinarono l’immensa mobilitazione del 13 maggio 1968, è chiaro che non è stata tanto l’azione degli studenti a determinarne l’ampiezza, ma piuttosto il comportamento delle stesse autorità che continuamente avevano buttato benzina sul fuoco prima di battere miseramente in ritirata. In effetti, le lotte studentesche in Francia, prima della scalata del maggio 68, erano state meno massicce o profonde rispetto alle numerose lotte negli altri paesi, in particolare negli Stati Uniti ed in Germania.
Fu nella prima potenza mondiale che nacquero, a partire dal 1964 i più massicci e significativi movimenti di quel periodo. Più precisamente fu all’università di Berkeley, nel nord della California che la contestazione studentesca prese, per la prima volta, un carattere di massa. La rivendicazione che, per prima, mobilitò gli studenti fu quella del “free speech movement” (movimento per la libertà di parola) in favore della libertà d’espressione politica (principalmente contro la guerra del Vietnam e contro la segregazione razziale) all’interno dell’università. In un primo tempo le autorità reagirono in modo estremamente repressivo, in particolare con la spedizione delle forze di polizia contro il “sit-in” (l'occupazione pacifica dei locali) facendo 800 arresti. Alla fine, a partire dal 1965, le autorità universitarie autorizzarono le attività politiche nell’università che intanto diventava uno dei principali centri della contestazione studentesca degli Stati Uniti, mentre fu principalmente con lo slogan pubblicitario “eliminare il disordine a Berkeley” che, contro ogni aspettativa, Ronald Reagan veniva eletto governatore della California a fine 1965. Il movimento si sviluppò massicciamente andando negli anni seguenti a radicalizzarsi attorno alla protesta contro la segregazione razziale, per la difesa dei diritti delle donne e specialmente contro la guerra del Vietnam. Mentre i giovani americani, specialmente gli studenti, fuggivano all’estero per evitare di essere spediti in Vietnam, la maggior parte delle università del paese furono centri di massicci movimenti contro la guerra; intanto si sviluppavano delle insurrezioni nei ghetti neri delle grandi città (la proporzione dei giovani neri fra i soldati spediti in Vietnam era molto superiore alla media nazionale). Dal 23 al 30 aprile 1968 l’università di Columbia, a New York, venne occupata per protesta contro il contributo dei suoi dipartimenti alle attività del Pentagono e in solidarietà con gli abitanti del vicino ghetto nero di Harlem. Fu una delle più alte espressioni della contestazione studentesca negli Stati Uniti che stava per conoscere uno dei suoi momenti più violenti a fine agosto a Chicago, con vere insurrezioni, durante la Convention del Partito democratico.
In questo stesso periodo molti altri paesi erano interessati da rivolte studentesche:
Giappone: a partire dal 1965 gli studenti dimostrarono contro la guerra del Vietnam, in particolare sotto la guida dello Zengakuren (?) che organizzava temibili scontri con la polizia. Nel ‘68 lanciarono la parola di ordine: “trasformiamo il Kanda [distretto accademico di Tokio] in Quartiere latino”.
Gran Bretagna: l’effervescenza cominciò fin dalla fine del 1967 nella rispettabilissima “London School of Economics”, una Mecca del pensiero economico borghese, dove gli studenti protestarono contro la nomina a presidente di un personaggio noto per i suoi legami coi regimi razzisti della Rodesia e del Sud Africa. Essa continuò fino all’inizio del ‘68 con manifestazioni di massa contro l’ambasciata degli Stati Uniti, mentre altre università del paese venivano coinvolte, in particolare Cambridge. Vi furono centinaia di feriti ed arresti.
Italia: gli studenti si mobilitarono a marzo in numerose università, e principalmente a Roma, contro la guerra del Vietnam e contro la politica delle autorità accademiche.
Spagna: sempre a marzo l’università di Madrid venne chiusa “indefinitamente” a causa dell’agitazione studentessa contro la guerra del Vietnam ed il regime franchista.
Germania: già dal 1967 si era sviluppata l’agitazione studentesca contro la guerra del Vietnam e si accresce l’influenza del movimento di estrema sinistra SDS, nato da una scissione della gioventù socialdemocratica; il movimento poi si radicalizzò e prese un carattere di massa con l’attentato a Berlino contro il principale leader di estrema sinistra, Rudi Dutschke, commesso da un giovane esaltato, notoriamente influenzato dalle campagne isteriche scatenate dalla stampa del magnate Axel Springer. Per molte settimane, prima che lo sguardo venisse rivolto verso la Francia, il movimento studentesco in Germania confermò il suo ruolo di referente per l’insieme dei movimenti che interessarono la maggior parte dei paesi europei.
Questa lista evidentemente è lungi dall’essere esaustiva. Anche molti paesi della periferia del capitalismo vennero interessati da movimenti studenteschi durante il 1968 (come il Brasile o la Turchia tra molti altri). E’ importante tuttavia ricordare quello che si sviluppò in Messico alla fine dell’estate e che il governo decise di schiacciare nel sangue (decine o addirittura centinaia di morti, il 2 ottobre in piazza delle Tre-Culture - Tlatelolco- a Città del Mexico) per permettere ai Giochi olimpici di avere luogo dal 12 ottobre “nella calma”.
Quello che caratterizzò l’insieme di questi movimenti, evidentemente fu, soprattutto, il rigetto della guerra del Vietnam. E bisogna anche aggiungere che in questo caso i partiti stalinisti non si trovarono alla loro testa come era logico che fosse essendo alleati dei regimi di Hanoi e Mosca, e come era capitato con i movimenti contro la guerra in Corea all’inizio degli anni 1950. Al contrario, questi partiti non solo non hanno avuto praticamente alcuna influenza ma spesso sono stati in netta opposizione contro questi movimenti.
Fu questa una delle caratteristiche dei movimenti studenteschi della fine degli anni ‘60 rivelando il significato profondo da loro ricoperto, e che noi esamineremo in un prossimo articolo.
Fabienne
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