ICConline - 2008
Politici ed economisti non sanno più come esprimere la gravità della situazione: “Sull’orlo del baratro”, “Una Pearl Harbor economica”, “Uno tzunami che si avvicina”, “Un 11 settembre della finanza”[1]… all’appello manca solo l’allusione al Titanic!
Che sta succedendo veramente? Di fronte alla tempesta economica che si scatena, ognuno esprime la propria angoscia attraverso numerose domande. Stiamo forse vivendo un nuovo crac come nel 1929? E come si siamo arrivati? Che si può fare per difendersi? Ed in che tipo di mondo viviamo?
Verso una degradazione brutale delle nostre condizioni di vita
Non bisogna farsi nessuna illusione. L’umanità subirà nei mesi a venire una terribile degradazione delle sue condizioni di vita a livello di tutto il pianeta. Il Fondo Monetario Internazionale (FMI) ha appena annunciato, nel suo ultimo rapporto, che “cinquanta paesi” andranno ad aggiungersi, “da qui all’inizio del 2009”, alla macabra lista dei paesi colpiti dalla fame. Tra questi, molti pesi dell’Africa, dell’America Latina, della zona caraibica e anche dell’Asia. In Etiopia, per esempio, dodici milioni di persone stanno già ufficialmente morendo di fame. In India ed in Cina, questi pretesi nuovi Eldorado capitalisti, centinaia di milioni di lavoratori saranno colpiti dalla miseria più nera. Anche negli Stai Uniti ed in Europa gran parte della popolazione sta cadendo in una miseria intollerabile.
Saranno toccati tutti i settori e i licenziamenti riguarderanno milioni di lavoratori negli uffici, nelle banche, le fabbriche, gli ospedali, nei settori di alta tecnologia come l’elettronica, nel settore automobilistico, l’edilizia e la distribuzione. Ci sarà un’esplosione della disoccupazione! Già dall’inizio del 2008 e soltanto negli Stati Uniti, circa un milione di lavoratori è stato gettato sulla strada. E questo è solo l’inizio. Questa ondata di licenziamenti significa che alloggiare, curarsi e nutrirsi sarà sempre più difficile per le famiglie operaie. Ciò significa pure che per i giovani di oggi questo mondo capitalista non ha più nessun avvenire da offrire loro!
Quelli che ci mentivano ieri continuano a mentirci oggi!
I dirigenti del mondo capitalista, i politici, i giornalisti agli ordini della classe dominante non cercano neanche più di nasconderla questa prospettiva catastrofica. D’altra parte come potrebbero? Le più grandi banche del mondo sono in stato di fallimento e se sono sopravvissute è solo grazie alle centinaia di miliardi di dollari e di euro iniettati dalle banche centrali, vale a dire dagli Stati. Per le Borse d’America, d’Asia e d’Europa, é una caduta senza fine: queste hanno perduto 25.000 miliardi di dollari dal gennaio 2008, ovvero l’equivalente di due anni della produzione totale degli Stati Uniti. Tutto ciò mostra il vero panico che si è impadronito della classe dominante, ovunque nel mondo. Se oggi le Borse crollano, ciò non è dovuto solamente alla situazione catastrofica delle banche, ma anche al fatto che i capitalisti si aspettano una caduta vertiginosa dei loro profitti in seguito a un ripiegamento massiccio dell’attività economica, ad una esplosione dei fallimenti di impresa, ad una recessione molto peggiore di tutte quelle che abbiamo conosciuto nel corso degli ultimi quaranta anni.
I principali dirigenti del mondo, Bush, Merkel, Brown, Sarkozy, Hu Jintao moltiplicano gli incontri ed i “vertici” (G4, G7, G8, G16, G27, G40) per cercare di limitare i danni, di impedire il peggio. Per metà novembre si pianifica un nuovo “vertice” destinato, secondo alcuni, a “rifondare il capitalismo”. L’agitazione dei dirigenti del mondo ha uguali solo in quella dei giornalisti e degli “esperti”: televisione, radio e giornali … la crisi è onnipresente nei mass media.
C’è da chiedersi il perché di un tale battage!
Di fatto, se la borghesia non può più nascondere lo stato disastroso della sua economia, essa cerca in compenso di farci credere che, in tutta questa storia, il sistema capitalista non è assolutamente da mettere in discussione, che si tratta semplicemente di lottare contro degli “sbandamenti” e degli “eccessi”. Che è colpa degli speculatori! Che è colpa dell’avidità degli “impresari mascalzoni”! Che è colpa dei paradisi fiscali! O ancora del “liberalismo”!
Per farci ingoiare questa favola, hanno chiamato alla riscossa tutti gli imbonitori professionali. Gli stessi "specialisti" che ancora ieri affermavano che l’economia era sana, che le banche erano solide … si precipitano oggi alla televisione per riversare le loro nuove grosse menzogne. Gli stessi che ieri ci raccontavano che il "liberalismo" era LA soluzione, che lo Stato non doveva intervenire nell’economia, oggi fanno appello ai governi a intervenire ancora di più.
Più Stato e maggiore "moralità", e il capitalismo potrà ripartire ancora meglio di prima! Ecco la menzogna che vorrebbero farci bere!
Può il capitalismo superare la sua crisi?
La crisi che s’infrange oggi sul capitalismo mondiale non è cominciata dall’estate del 2007, con la crisi del settore immobiliare negli Stati Uniti. E’ infatti da più di quarant’anni che le recessioni si sono succedute le une alle altre: 1967, 1974, 1981, 1991, 2001. Sono ormai decenni che la disoccupazione è diventata una piaga permanente della società, che gli sfruttati subiscono degli attacchi crescenti contro le loro condizioni di vita. Perché?
Perché il capitalismo è un sistema che non produce in funzione dei bisogni umani ma per il mercato e il profitto. I bisogni non soddisfatti sono immensi ma non sono solvibili vale a dire che la grande maggioranza della popolazione mondiale non ha i mezzi per comprare le merci prodotte. Se il capitalismo è in crisi, se centinaia di milioni di esseri umani – e presto dei miliardi – sono gettati nella fame e in una miseria intollerabile, questo non è dovuto al fatto che questo sistema non produce abbastanza, ma al fatto che produce più merci di quante riesca a vendere. Ogni volta, la borghesia se ne esce temporaneamente con un ricorso massiccio al credito e la creazione di un mercato artificiale. E’ per ciò che questi “rilanci” preparano sempre delle conseguenze più dolorose poiché, in fin dei conti, occorre pure rimborsare tutti questi crediti, fare fronte a tutti questi debiti. E’ esattamente quello che si passa oggi. Tutta la “favolosa crescita” di questi ultimi anni era esclusivamente basata sull’indebitamento. L’economia mondiale ha vissuto a credito e adesso che viene il momento di rimborsare, tutto crolla come un semplice castello di carte! Le convulsioni attuali dell’economia capitalista non sono dovute a una “cattiva gestione” dei dirigenti politici, alla speculazione dei “commercianti” o al comportamento irresponsabile dei banchieri. Tutti questi personaggi non hanno fatto che applicare le leggi del capitalismo e sono giustamente queste leggi che conducono questo sistema alla sua perdita. E’ per questo che le migliaia di miliardi iniettati sui mercati da tutti gli Stati e dalle loro Banche centrali non cambieranno niente. Anzi, peggio ancora, queste operazioni vanno ad aggiungere debiti su debiti, come se uno volesse spegnere un incendio buttandovi sopra della benzina! Attraverso queste misure disperate e sterili, la borghesia fa prova della sua impotenza. Tutti i suoi piani di salvataggio sono condannati, presto o tardi, al fallimento. Non vi sarà un vero rilancio dell’economia capitalista. Nessuna politica, di sinistra o di destra, potrà salvare il capitalismo perché questo sistema è minato da una malattia mortale e incurabile.
Allo sviluppo della miseria opponiamo la nostra lotta e la nostra solidarietà
Ovunque fioriscono i paragoni con il crac del 1929 e la Grande Depressione degli anni ’30. Le immagini di quell’epoca sono ancora impresse nella memoria: le interminabili fila di lavoratori disoccupati, i poveri che chiedono l’elemosina per avere semplicemente di che mangiare, le fabbriche disperatamente chiuse … Ma la situazione attuale è veramente identica? La risposta è chiaramente NO! In realtà è molto più grave, anche se il capitalismo, che ha imparato dall’esperienza, è riuscito ad evitarsi un crollo brutale grazie all’intervento degli Stati e ad una migliore coordinazione internazionale!
Ma c’è ancora un’altra differenza. La terribile depressione degli anni ’30 sfociò nella Seconda Guerra mondiale. La depressione attuale sfocerà in una terza guerra mondiale? La fuga in avanti nella guerra è la sola risposta che la borghesia sia capace di dare alla crisi insormontabile del capitalismo. E la sola forza che si può opporre a questa è il suo nemico irriducibile, la classe operaia mondiale. Negli anni ’30 la classe operaia aveva subito una terribile sconfitta in seguito all’isolamento della rivoluzione del 1917 in Russia e si era di conseguenza lasciata imbrigliare nel massacro imperialista. Ma il proletariato di oggi ha dato prova, a partire dalle grandi lotte iniziate nel 1968, di non essere disposto a versare di nuovo il suo sangue per i suoi sfruttatori. In questi 40 anni ha potuto subire sconfitte spesso dolorose, ma è ancora in piedi e soprattutto, dal 2003, si batte sempre di più in tutto il mondo. Lo scatenamento della crisi del capitalismo provocherà per centinaia di milioni di lavoratori, sia nei paesi sottosviluppati che avanzati, sofferenze terribili, disoccupazione, miseria fame, ma provocherà necessariamente anche delle lotte di resistenza da parte degli sfruttati.
Queste lotte sono indispensabili per limitare gli attacchi economici della borghesia, per impedirle di gettare i proletari nella miseria assoluta. Ma è chiaro che non potranno impedire al capitalismo di sprofondare sempre più nella crisi. Ed è per questo che le lotte di resistenza della classe operaia rispondono ad un’altra necessità ben più importante. Esse permettono agli sfruttati di sviluppare la loro forza collettiva, la loro unità, la loro solidarietà, la loro coscienza in vista della sola alternativa che possa dare un avvenire all’umanità: il rovesciamento del sistema capitalista e la sua sostituzione con una società che funzioni su delle basi completamente diverse. Una società non più basata sullo sfruttamento ed il profitto, sulla produzione per un mercato, ma basata sulla produzione per i bisogni umani; una società diretta dai lavoratori stessi e non da una minoranza di privilegiati: la società comunista.
Per ottant’anni, tutti i settori della borghesia, di destra come di sinistra, si sono dati da fare per presentare come “comunisti” i regimi che dominavano l’Europa dell’Est e la Cina e che invece non erano altro che una forma particolarmente barbara di capitalismo di Stato. Bisognava convincere gli sfruttati che era inutile sognare un mondo diverso, che non c’era un altro orizzonte oltre al capitalismo. Oggi che il capitalismo dà prova del suo fallimento storico, è la prospettiva della società comunista che deve animare con sempre maggior forza le lotte del proletariato.
Di fronte agli attacchi di un capitalismo agli sgoccioli, per mettere fine allo sfruttamento, alla miseria, alla barbarie della guerra del capitalismo:
Viva le lotte della classe operaia mondiale!
Proletari di tutti i paesi, unitevi!
Corrente Comunista Internazionale (25/10/2008)[1] Rispettivamente: Paul Krugman, ultimo premio Nobel per l’economia, Warren Buffet, investitore americano soprannominato “l’oracolo d’Omaha” tanto è rispettata l’opinione di questo miliardario della piccola città americana del Nebraska dal mondo finanziario, Jacques Attali, economista e consigliere del presidente francese Nicolas Sarkozy e Laurence Parisot, presidente dell’associazione del padronato francese.
“Bisogna rifondare il capitalismo su basi etiche” proclama oggi Sarkozy. La signora Merkel insulta gli speculatori. Zapatero punta il dito accusatorio contro i “fondamentalisti del mercato” che pretendono che quest’ultimo sia in grado di auto controllarsi senza intervento dello Stato. Tutti ci dicono che questa crisi dimostra l’insuccesso del capitalismo “neoliberale” e che la speranza dovrebbe essere posta oggi in un “altro capitalismo”. Un capitalismo nuovo basato sulla produzione e non sulla finanza, staccato dallo strato parassitario degli squali finanzieri e speculatori i quali sarebbero spuntati come funghi col pretesto della “deregulation”, “del meno Stato”, della prevalenza dell’interesse privato su “l’interesse pubblico”, ecc. A sentirli, non è il capitalismo che starebbe crollando ma solo una sua particolare forma. I gruppi della sinistra del capitale (stalinisti, trotskisti, alter-mondialisti...) esultando proclamano: “I fatti ci danno ragione. A provocare questi disastri sono state le derive neoliberiste!” Ci ricordano la loro opposizione alla “globalizzazione” ed al “liberalismo selvaggio”, esigendo misure di controllo statale per combattere le multinazionali, gli speculatori ed altre canaglie che avrebbero provocato questo disastro per la loro eccessiva sete di profitti. Proclamano che la soluzione passa attraverso “il socialismo”, un socialismo che consisterebbe nel fatto che lo Stato dovrebbe controllare “i capitalisti” a beneficio del “popolo” e della “povera gente”.
Ma queste spiegazioni sono valide? È possibile un “altro capitalismo”? L’intervento benefattore dello Stato potrebbe essere una soluzione per il capitalismo in crisi? Cercheremo di dare degli elementi di risposta a queste questioni di scottante attualità. Ma prima di tutto è necessario chiarire una questione di fondo: il socialismo è una maggiore presenza dello Stato?
Chavez, il notorio paladino del “socialismo del 21° secolo”, sta facendo sorprendenti dichiarazioni: “Il compagno Bush sta prendendo misure che avrebbe preso il compagno Lenin. Gli Stati Uniti diverranno un giorno socialisti, perché i popoli non si suicidano”. Per una volta (senza che ciò costituisca un precedente) siamo d’accordo con Chavez. Innanzitutto sul fatto che Bush sia un suo degno compagno. In effetti, anche se sono rivali nell’accanita competizione sul piano imperialista, essi si ritrovano degni compari nella difesa del capitalismo e nell’uso dello Stato per salvare il sistema. E siamo anche d’accordo nel dire che “gli Stati Uniti diverranno un giorno socialisti”, anche se questo socialismo non avrà niente a che vedere con quello che preconizza Chavez.
Il vero socialismo difeso dal marxismo e dai rivoluzionari lungo tutta la storia del movimento operaio non ha niente a che vedere con lo Stato. Il socialismo è soprattutto la negazione dello Stato. L’edificazione di una società socialista richiede come prima cosa la distruzione dello Stato in tutti i paesi. Dopo si apre un periodo di transizione dal capitalismo al comunismo, essendo impossibile un passaggio dall’oggi al domani. Questo periodo di transizione dovrà ancora essere assoggettato alla legge del valore che è tipicamente capitalista in quanto la borghesia non sarà completamente estinta e, affianco al proletariato, sussisteranno ancora strati non sfruttatori: contadini, artigiani, piccola-borghesia[1]. Come prodotto di questa situazione di transizione, lo Stato continuerà ad essere necessario ma non avrà più niente a che vedere con gli altri Stati della storia; esso, secondo la formulazione di Engels, sarà un semi-Stato, uno Stato in via d’estinzione. Per avanzare verso il comunismo in una situazione storica di transizione, periodo complesso ed instabile, pieno di pericoli e contraddizioni, il proletariato dovrà continuare ad attaccare questo semi-Stato, fino a smantellarlo completamente pezzo per pezzo. Il processo rivoluzionario dovrà passare per queste condizioni sotto pena di bloccarsi e di vedere allontanarsi, se non perdere definitivamente, la prospettiva del comunismo.
Friedrich Engels, uno tra quelli che più ha affrontato questa questione all’interno del movimento operaio, è stato molto chiaro su questo aspetto: “Sarebbe ora di farla finita con tutte queste chiacchiere sullo Stato, specialmente dopo la Comune, che non era più uno Stato nel senso proprio della parola. Gli anarchici ci hanno abbastanza rinfacciato lo “Stato popolare”, benchè già il libro di Marx contro Proudhon e in seguito il Manifesto comunista dicano esplicitamente che con l’instaurazione del regime sociale socialista lo Stato si dissolve da sé e scompare. Non essendo lo Stato altro che un’istituzione temporanea di cui ci si deve servire nella lotta, nella rivoluzione, per schiacciare con la forza i propri nemici, parlare di uno “Stato popolare libero” è pura assurdità: finchè il proletariato ha ancora bisogno dello Stato, ne ha bisogno non nell’interesse della libertà, ma nell’interesse dello schiacciamento dei suoi avversari, e quando diventa possibile parlare di libertà, allora lo Stato come tale cessa di esistere”[2].
L’intervento dello Stato per regolare l’economia, metterla al “servizio dei cittadini”, ecc., non ha niente a che vedere col socialismo. Lo Stato non sarà mai “al servizio di tutti i cittadini”. Lo Stato è un organo della classe dominante ed è strutturato, organizzato e configurato per difendere la classe dominante e mantenere il sistema di produzione che la sostiene. Lo Stato “più democratico del mondo” non sarà meno Stato al servizio della borghesia che difenderà, con le unghie ed i denti, il sistema di produzione capitalista. Inoltre l’intervento specifico dello Stato sul terreno economico ha lo scopo specifico di preservare gli interessi generali della riproduzione del capitalismo e della classe capitalistica. Engels nel suo libro L’Anti-Dühring, afferma con chiarezza: “lo Stato moderno a sua volta non è che l’organizzazione di cui la società borghese si è dotata per mantenere le condizioni esterne generali del modo di produzione capitalista contro gli abusi che vengono sia dai lavoratori che dagli stessi capitalisti isolati. Lo Stato moderno, qualunque ne sia la forma, è una macchina essenzialmente capitalistica: lo Stato dei capitalisti non è altro che il capitalista collettivo idealizzato. Più fa passare le forze produttive nella sua proprietà, più nei fatti diviene il capitalista collettivo, e più sfrutta i cittadini. I lavoratori restano dei salariati, dei proletari. Il rapporto capitalistico non è soppresso, è spinto al contrario al suo culmine”.
Durante tutto il 20° secolo, con l’entrata del capitalismo nella sua fase di decadenza[3], lo Stato è stato il suo bastione principale per affrontare l’esacerbarsi delle sue contraddizioni sociali, belliche ed economiche. I secoli 20° e 21° sono caratterizzati dalla tendenza universale al capitalismo di Stato. Questa tendenza non risparmia alcun paese, qualunque sia il suo regime politico. In linea di massima troviamo due modi con cui viene realizzato il capitalismo statale:
- La nazionalizzazione più o meno totale dell’economia (quella esistita in Russia e che esiste ancora in Cina, a Cuba, nella Corea del nord ...);
- La combinazione tra la burocrazia statale e la grande borghesia privata (come negli Stati Uniti o in Spagna, per esempio).
In entrambi i casi è sempre lo Stato che controlla l’economia. Nel primo lo Stato ostenta la sua proprietà di gran parte dei mezzi di produzione e dei servizi. Nel secondo esso interviene nell’economia attraverso una serie di meccanismi indiretti: imposte, fisco, acquisti di imprese[4], fissando i tassi d’interesse bancari, regolamentando i prezzi, attraverso norme di contabilità, agenzie statali di concertazione, di ispezione, di investimenti, ecc.[5]
Ci martellano con due menzogne gemelle: la prima è che il socialismo si identificherebbe con il socialismo di Stato, mentre la seconda è l’identificazione del capitalismo con il liberismo, con la deregolamentazione ed il libero mercato. Nel suo periodo storico di decadenza (secoli XX e XXI), il capitalismo non avrebbe potuto sussistere senza gli artigli onnipresenti dello Stato. Il “libero” mercato è guidato, controllato e sostenuto dalla ferrea mano dello Stato. Adam Smith[6] diceva che il mercato è controllato da una “mano invisibile”. Questa mano invisibile è lo Stato[7]! Quando Bush si precipita a salvare le banche e le compagnie assicurative non fa niente di eccezionale, né sta prendendo delle misure “che prenderebbe il compagno Lenin”. Semplicemente fa il lavoro di controllo e regolamentazione dell’economia del quale quotidianamente si incarica lo Stato.
In altri testi abbiamo già esposto la nostra posizione sulle ragioni della crisi[8]
Dopo un periodo di relativa prosperità dal 1945 al 1967, il capitalismo mondiale è ricaduto in crisi ricorrenti, episodi di convulsione si sono susseguiti un dopo l’altro come terremoti spingendo l’economia mondiale sull’orlo dell’abisso. Ricordiamo la crisi del 1971 che obbligò a rendere indipendente il dollaro dal valore dell’oro; quella del 1974-75 che sfociò in un’inflazione incontrollabile del più del 10%; la crisi del debito del 1982, quando il Messico e l’Argentina si dichiararono in sospensione di pagamento; l’autunno di Wall Street nel 1987; la crisi del 1992-93 che ha comportato la caduta di numerose valute europee; quella del 1997-98 che riduce a mal partito il mito delle tigri e dei dragoni asiatici; quella dell’esplosione della bolla Internet nel 2001...
“… quello che caratterizza globalmente il 20° e il 21° secolo è la tendenza alla sovrapproduzione – temporanea e facilmente superabile nel 19° – che diventa cronica, sottomettendo l’economia mondiale a un rischio quasi permanente di instabilità e distruzione. Inoltre la concorrenza – tratto congenito del capitalismo – diventa estrema e, scontrandosi con un mercato mondiale che tende costantemente alla saturazione, perde il suo carattere di stimolo all’espansione mentre sviluppa il suo carattere negativo e distruttore di caos e scontro”[9]. Le differenti tappe delle diverse crisi che si sono susseguite durante gli ultimi quarant’anni sono il prodotto di questa sovrapproduzione cronica e della competizione esacerbata. Gli Stati hanno tentato di combattere i suoi effetti usando dei palliativi, primo fra tutti l’indebitamento. Gli Stati più forti hanno in tal modo respinto le conseguenze più nefaste “esportando” i suoi peggiori effetti sui paesi più deboli[10].
La politica adottata negli anni ‘70 è stata quella, classica, dell’indebitamento statale rafforzato da un intervento aperto dello Stato nell’economia: nazionalizzazioni, controllo delle imprese, supervisione rigida del commercio estero, ecc. Cioè una politica “keynesiana”[11]. È necessario ricordare agli smemorati che vogliono imporci il falso dilemma neoliberismo/intervento statale che all’epoca tutti i partiti, di destra come di sinistra, erano “keynesiani” e peroravano i benefici di un “liberal-socialismo” (come ad esempio il modello svedese socialdemocratico). Questa politica ha avuto come disastrose conseguenze lo sviluppo dell’inflazione e dunque la destabilizzazione dell’economia e la tendenza alla paralisi del commercio internazionale. Per porvi rimedio è stato allora adottato durante gli anni ‘80 quella che fu retoricamente battezzata “la rivoluzione neoliberale” le cui figure prominenti sono state la Signora di ferro Thatcher in Gran Bretagna ed il cowboy Reagan negli Stati Uniti. Queste politiche statali avevano due obiettivi:
- eliminare come zavorra un’importante parte dell’apparato produttivo non redditizio, cosa che comportò un’ondata di licenziamenti senza precedenti organizzati e pianificati dallo Stato, innescando in tal modo un processo di deterioramento irreversibile delle condizioni di vita dei lavoratori: inizio della precarietà, smantellamento delle prestazioni sociali, ecc.[12];
- attutire il debito che aveva strangolato lo Stato attraverso politiche di privatizzazione, di subappalto dei servizi e di incarichi (“esternalizzazione”) e di rinviare sistematico del debito pubblico verso gli individui, le banche, gli speculatori, (“titolizzazione”). Questo seconda tappa delle politiche “neoliberali” tendeva in particolare ad estendere il debito dello Stato al settore finanziario. Il mercato venne inondato da ogni genere di titoli, obbligazioni, buoni e altro, che presero proporzioni mostruose, scatenando la speculazione. Da allora l’economia mondiale sembra un immenso casinò dove governanti, banchieri ed esperti “broker” (gli intermediari) si lanciano in operazioni complicate per trovare profitti spettacolari ed immediati... al prezzo di terribili sequele di fallimenti ed instabilità.
Il fatto che “l’iniziativa privata” incoraggerebbe il “neoliberismo” è una perfetta frottola: i suoi meccanismi non sono nati spontaneamente dal mercato ma sono stati il frutto e la conseguenza di una politica economica statale che mirava a sopprimere l’inflazione. Tale politica non ha fatto che rinviarla nel futuro pagandone fortemente il prezzo: attraverso oscuri meccanismi finanziari, i debiti si sono trasformati in crediti speculativi ad alto tasso di interesse, determinando in un primo tempo succosi profitti ma di cui era necessario sbarazzarsi il più presto possibile perché, prima o poi, nessuno avrebbe più potuto pagarli... Questi crediti sono stati in un primo tempo le più attraenti “star” del mercato disputate da le banche, speculatori e governi... ma rapidamente si sono trasformati in crediti a rischio, totalmente deprezzati e da cui bisognava allontanarsi come ci si allontana dalla peste.
Il fallimento di questa politica è stato rivelato dal crac brutale di Wall Street del 1987 e la caduta delle casse di risparmio americane nel 1989. Questa politica “neoliberale” è continuata per tutti gli anni 90 ma, in considerazione delle montagne di debiti che pesavano sull’economia, era necessario alleggerire i costi di produzione attraverso politiche di sviluppo della produttività e... attraverso le delocalizzazioni, consistenti nell’esportare interi pezzi della produzione verso paesi come la Cina, con i suoi salari di miseria e le sue condizioni di lavoro spietato, cosa che ha avuto come conseguenza un aggravamento generale e considerevole delle condizioni di vita di tutto il proletariato mondiale. Il concetto di “globalizzazione” si è sviluppato in questo momento: i grandi Stati hanno imposto ai piccoli la soppressione delle barriere protezionistiche, inondandoli poi di merci per alleviare la propria sovrapproduzione cronica.
Ancora una volta, queste “medicine” non hanno fatto che aggravare il male e la crisi dei dragoni e delle tigri asiatiche del 1997-98 ha dimostrato l’inefficienza di queste politiche così come i numerosi pericoli in esse contenute. Ma il capitalismo a questo punto ha tirato fuori dal suo cilindro il classico coniglio, il nuovo secolo aveva apportato quella che è stata chiamata la “net-economy”, cioè una speculazione ad oltranza sulle imprese informatiche ed Internet. Rapidamente, fin dal 2001, questa si è risolta in un fragoroso fallimento. Il capitalismo tenta allora un’altra magia e dal 2003 si butta in una speculazione immobiliare senza freni, riempiendo il pianeta di costruzioni ed immobili (accelerando en passant i problemi ambientali) provocando una terribile fiammata del prezzo degli immobili. Il tutto è sfociato nel... terribile fiasco attuale!
… o il capitalismo?
La crisi presente può essere paragonata ad un gigantesco campo minato. La prima mina ad esplodere è stata la crisi dei subprime durante l’estate del 2007; all’inizio si era convinti che il problema sarebbe rientrato attraverso il versamento di alcuni miliardi. Non era stato sempre così? Ma il crollo degli istituti bancari iniziato a fine dicembre ha costituito la nuova mina che ha mandato in frantumi tutte queste illusioni. L’estate 2008 è stata vertiginosa, con una successione di fallimenti di banche negli Stati Uniti ed in Gran Bretagna. Non siamo arrivati ad ottobre ed un’altra delle illusioni con le quali la borghesia voleva mitigare le nostre preoccupazioni è andata in fumo: si diceva che i problemi erano immensi negli Stati Uniti ma che l’economia europea non aveva niente da temere. Attualmente però le mine cominciano ad esplodere anche nell’economia europea a partire dal suo più potente Stato, la Germania, che senza reagire contempla la caduta della sua principale banca ipotecaria.
Da dove vengono queste brutali esplosioni mentre tutto sembra “calmo e sereno”? Esse sono il risultato di 40 anni di accompagnamento della crisi, attraverso palliativi che se da un lato sono riusciti a celare i problemi e a mantenere più o meno in piedi un sistema alle prese con problemi insolubili, dall’altro non solo non hanno risolto niente, ma al contrario, hanno aggravato le contraddizioni del capitalismo fino ai suoi limiti estremi ed ora, con questa crisi, le conseguenze vengono fuori una dopo l’altra.
Questa è una falsa consolazione:
- I precedenti episodi della crisi sono stati “risolti” dalle banche centrali con l’immissione di alcuni miliardi di dollari (un centinaio durante la crisi delle Tigri asiatiche nel 1998). In epoca più recente, da circa un anno e mezzo, gli Stati hanno investito 3.000 miliardi di dollari senza che si sia vista una via d’uscita[13].
- Fino a qualche tempo fa i peggiori effetti della crisi sono stati circoscritti ad alcuni paesi limitrofi (Sud-est asiatico, Messico, Argentina, Russia), mentre oggi l’epicentro dei peggiori effetti è situato proprio nei paesi centrali: Stati Uniti, Gran Bretagna, Germania... e obbligatoriamente si irradiano nel resto del mondo.
- In generale, gli episodi precedenti, ad eccezione di quelli della fine degli anni ‘70, erano poco duraturi, era sufficiente un periodo di 6 mesi - un anno per vedere la “fine del tunnel”. Oramai è da un anno e mezzo che viviamo questa crisi e non vediamo il minimo barlume. Al contrario, ogni giorno la crisi è più grave e il tracollo più profondo!
- Oltretutto, questa crisi sta lasciando il sistema bancario mondiale molto indebolito. Il meccanismo del credito si ritrova paralizzato a causa della sfiducia generalizzata, nessuno sa veramente se gli attivi presentati dalle banche (e le imprese) nei loro bilanci siano veritieri. Gli immobili, le proprietà sono deprezzate. Quanto agli attivi finanziari, questi sono in realtà, secondo l’espressione dello stesso Bush, degli “attivi tossici”, carta che rappresenta incredibili debiti irrecuperabili. Il capitalismo di Stato “liberale” non può funzionare se non ha banche forti e solide. Attualmente l’economia capitalista si è talmente arroccata alla terapia del debito che, se il sistema del credito si dimostra incapace di portare un abbondante flusso di soldi, la produzione rimarrà paralizzata. Il rubinetto del credito resta chiuso nonostante le enormi somme stanziate dai governi alle banche centrali. Nessuno vede chiaramente come si possa recuperare un sistema che fa acqua da tutte le parti e che perde organi vitali come le banche una dopo l’altra. La folle corsa tra gli Stati europei per vedere chi tra loro possa dare più garanzie ai depositi bancari è un sinistro augurio che rivela solo una ricerca disperata di fondi. Questa eccessiva offerta di “garanzie” significa che proprio nulla è garantito!
Le cose sono dunque chiare: oggi il capitalismo conosce la sua più grave crisi economica. La storia si sta accelerando brutalmente. Dopo 40 anni di sviluppo lento e non lineare della crisi, questo sistema sta per cadere in una recessione terribile ed estremamente profonda dalla quale non si alzerà indenne. Ma soprattutto, da ora in poi, le condizioni di vita di miliardi di persone sono colpite duramente e in maniera durevole. La disoccupazione colpisce molte famiglie, in meno di un anno 600.000 in Spagna, 180.000 ad agosto 2008 negli Stati Uniti. L’inflazione colpisce i prodotti alimentari di base e la fame devasta il mondo ad una velocità vertiginosa da circa un anno. I tagli ai salari, i blocchi parziali di produzione con gli attacchi che conseguono, i rischi che pesano sulle pensioni... Non c'è il minimo dubbio che questa crisi avrà ripercussioni di una brutalità straordinaria. Noi non sappiamo se il capitalismo ne uscirà, ma ciò di cui siamo fortemente convinti è che milioni di esseri umani non ne usciranno. Il “nuovo” capitalismo che “verrà fuori” da questa crisi sarà una società molto più povera, con molti proletari che verranno spinti nella precarietà, in un contesto di confusione e caos. Ognuna delle convulsioni precedenti, durante gli ultimi 40 anni, si è conclusa con un deterioramento delle condizioni di vita della classe operaia e con amputazioni più o meno ampie dell’apparato produttivo; il nuovo periodo che si apre porterà questa tendenza ad un livello ben più elevato.
Il capitalismo non getterà la spugna. Mai una classe sfruttatrice ha riconosciuto la realtà del suo fallimento ed ha ceduto il potere di sua volontà. Ma possiamo constatare che dopo più di cento anni di disastri e convulsioni, tutte le politiche economiche con le quali lo Stato capitalista ha tentato di risolvere i suoi problemi non solo sono fallite, ma hanno maggiormente aggravato i problemi. Non possiamo aspettarci nulla dalle pretese “nuove soluzioni” che il capitalismo sta cercando per “venire fuori dalla crisi”. Possiamo essere sicuri che esse ci costeranno sempre più sofferenze e miseria e dobbiamo prepararci a conoscere nuove convulsioni ancora più violente.
È perciò utopistico avere fiducia in tutto ciò che ci viene presentato come una “via d’uscita” dalla crisi del capitalismo. Non c’è alcuna via d’uscita. Ed è il sistema intero ad essere incapace di celare il suo fallimento. Essere realista significa partecipare ad aiutare il proletariato a riprendere fiducia in se stesso, a riprendere fiducia nella forza che gli può dare la sua lotta come classe ed a costruire pazientemente attraverso le sue lotte, i suoi dibattiti, il suo sforzo di auto-organizzazione, la forza sociale che gli permetterà di erigersi, di fronte all’attuale società, in alternativa rivoluzionaria capace di rovesciare questo sistema putrescente.
CCI (8 ottobre 2008)
(tradotto da Acciòn Proletaria, organo della CCI in Spagna)
[1] Non possiamo qui affrontare nel dettaglio questa questione. Per approfondimenti ulteriori leggi sul nostro sito: “La prospettiva del comunismo”, “Il comunismo non è un bell’ideale, ma è all’ordine del giorno della storia”, “Il comunismo non è un bell’ideale ma una necessità materiale”, in inglese, francese e spagnolo.
[2] Engels, Lettera ad August Bebel, 1875.
[3] La Prima Guerra mondiale (1914) mette fine al carattere progressista del capitalismo e determina la sua trasformazione in un sistema che non porta che guerre, crisi e barbarie senza fine. Vedi la Revue internationale n. 134.
[4] Per farsene un’idea, negli Stati Uniti, presentati come La Mecca del neoliberismo, lo Stato è il principale cliente delle imprese, e quelle informatiche sono obbligate ad inviare al Pentagono una copia dei programmi che creano e dei componenti di hardware che costruiscono.
[5] È una frottola dire che l’economia americana non è regolamenta, che il suo Stato ne è fuori, ecc.: la borsa è controllata da un’agenzia federale specifica, la banca è controllata dalla SEC, la FED determina la politica economica attraverso meccanismi come i tassi d’interesse.
[6] “Adam Smith (5 giugno 1723 - 17 luglio 1790) era un filosofo ed economista scozzese illuminista. Esso rimane nella storia come il padre della scienza moderna e la sua opera principale, Sulla ricchezza delle nazioni, è uno dei testi di base del liberismo economico. Professore di filosofia all’università di Glasgoow, dedicò dieci anni della sua vita a questo testo che ha inspirato i grandi economisti che vennero dopo, coloro che Karl Marx chiamerà i “classici” e che porranno i grandi principi del liberismo economico” (wikipedia.org).
[7] Il flagello della corruzione non è altro che la prova evidente dell’onnipresenza dello Stato. Negli Stati Uniti come in Spagna o in Cina, l’Abc della cultura di impresa è che gli affari possono prosperare solo passando dagli uffici della burocrazia statale ed ingrassando gli uomini politici del momento.
[8] Vedi “Stati Uniti, locomotiva dell’economia mondiale … verso il baratro” Revue internationale n. 133 e gli altri articoli sulla crisi finanziaria su questa stessa pagina web
[9] “Esiste una via d'uscita alla crisi?” Rivoluzione Internazionale n.156
[10] Nella serie di articoli “30 anni di crisi capitalista”, pubblicati nei nostri 96, 97 e 98 nella Rivista Internazionale 96,97 e 98 (in francese, inglese e spagnolo) analizziamo le tecniche ed i metodi con cui il capitalismo di Stato ha accompagnato questa caduta nel baratro per rallentarla, arrivando alla situazione attuale.
[11] Keynes è particolarmente celebre per i suoi incoraggiamenti ad una politica di interventismo statale, nel quale lo Stato impiega misure fiscali e valutarie avente per obiettivo quello di fermare gli effetti sfavorevoli dei periodi di recessione ciclici dell’attività economica. Gli economisti ritengono che questi sia stato uno dei fondatori della macroeconomia moderna.
[12] Ricordiamo che, contrariamente a quanto affermano i bugiardi di ogni risma, questa politica non è stata una caratteristica dei governi “neoliberali” ma fu approvata al cento per cento dai governi “socialisti” o “progressisti”. In Francia il governo Mitterrand, sostenuto dai Comunisti fino al 1984 adottò misure dure come quelle di Reagan e della Thatcher. In Spagna il governo “socialista” di González organizzò una riconversione che determinò la scomparsa di un milione di posti di lavoro.
[13] Inoltre è stupido pensare che questo diluvio di miliardi non avrà conseguenze. Al contrario prepara un futuro ancora più nero. Lo scetticismo generalizzato con cui è stato accolto il più gigantesco piano di salvataggio finanziario della storia (700miliardi di dollari!) attraverso il “piano Paulson” dimostra che il rimedio sta creando un nuovo campo minato, più potente e devastante nel sottosuolo di una economia capitalista già malmenata e il cui crollo, alla fine, sarà inevitabile.
Ecco un articolo ripreso da Internationalism, sezione della CCI negli Stati Uniti, che denuncia la propaganda menzognera che ha accompagnato l’elezione di Obama.
La tempesta mediatica intorno alla campagna elettorale è infine cessata dopo circa due anni. I mezzi di comunicazione agli ordini della classe dominante ci dicono che si tratta delle elezioni più importanti della storia degli Stati Uniti, che dimostrano ancora una volta la potenza e la superiorità della “democrazia”. Questa propaganda grida alto e forte non solamente che abbiamo per la prima volta nella storia americana un presidente afro-americano, ma che – soprattutto - la vittoria di Obama porta con sé un profondo desiderio di cambiamento. Ci dicono ancora che il “popolo ha parlato” e che “Washington ha ascoltato”, grazie all’opera miracolosa delle urne. Ci dicono anche che l’America ha già da adesso superato il razzismo e che è diventata una vera terra della fratellanza. Così, oggi, Obama è diventato presidente. Ma che significa ciò nella realtà? Obama ha promesso il cambiamento, ma questa promessa non è altro che un’illusione. Tutta questa campagna è stata solo una menzogna ipocrita, che si è servita delle speranze di una popolazione, e soprattutto di una classe operaia terribilmente provata dalla miseria e dalla guerra.
I veri vincitori di queste elezioni non sono i “Joe l’idraulico”, simbolo de “l’Americano medio” più di quanto non lo siano gli Afro-americani che fanno parte della classe operaia americana, quanto piuttosto la borghesia americana e i suoi rappresentanti. Non c’è dubbio che gli attacchi incessanti che si sono finora abbattuti sugli operai non cesseranno. Così la miseria continuerà ad aggravarsi inesorabilmente. Peraltro Obama non è stato neanche un candidato della “pace”. La sua critica essenziale verso Bush riguarda l’impantanamento in Iraq e la sua politica che ha lasciato l’imperialismo americano incapace di rispondere in maniera appropriata alle sfide poste alla sua dominazione. Obama prevede di inviare più truppe in Afghanistan ed ha chiaramente dichiarato che gli Stati Uniti dovevano essere pronti a rispondere militarmente a qualunque minaccia contro i suoi interessi imperialisti. E’ stato inoltre estremamente critico di fronte all’incapacità dell’amministrazione Bush di rispondere al livello richiesto all’invasione della Georgia da parte della Russia l’estate scorsa. Ecco quale campione della pace si appresta a governare gli USA!
Durante i dibattiti presidenziali, Obama ha spiegato che lui era a favore di un rafforzamento del settore dell’educazione negli Stati Uniti, perché una forza lavoro ben educata era vitale per un’economia forte e che nessun paese può restare una potenza dominante senza un’economia forte. In altri termini, lui vede le spese per la scuola come una precondizione alla dominazione imperialista. Quale idealismo!
I lavoratori, i disoccupati non hanno dunque nulla da attendersi dalla venuta al potere di Obama. Per la classe dominante invece queste elezioni rappresentano un successo quasi al di là di ogni aspettativa.
Anzitutto queste hanno permesso di restaurare la vecchia facciata dell’elettoralismo e del mito democratico, che avevano subito un tracollo dopo il 2000 e che avevano condotto ad un sentimento di delusione nei confronti del “sistema” in tantissime persone. L’euforia postelettorale – espressa ad esempio dalla gente che ballava nelle strade per salutare la vittoria di Obama – è una testimonianza dell’estensione della vittoria politica della borghesia. L’impatto di queste elezioni è paragonabile alla vittoria ideologica che si è espressa subito dopo l’ 11 settembre 2001. Subito dopo l’abbattimento delle Torri Gemelle infatti la borghesia aveva fatto profitto dell’isterismo nazionalista che si era prodotto per lanciare la classe operaia nelle braccia dello Stato borghese. Oggi, la speranza nella democrazia e nella magia di un leader carismatico fa sprofondare larghi settori di popolazione nell’illusione che esista uno Stato protettore. Tra la popolazione di colore il peso di questa euforia è particolarmente pesante; esiste attualmente une convinzione largamente diffusa secondo cui la minoranza oppressa avrebbe preso il potere. I mass-media borghesi celebrano anche il superamento in America del razzismo, cosa che è perfettamente falsa e anche ridicola. La popolazione nera degli Stati Uniti fa parte dei settori più sfruttati e più disillusi della popolazione.
A livello internazionale, la borghesia ha beneficiato quasi immediatamente di una presa di distanze della nuova amministrazione rispetto agli errori del regime di Bush sulla politica imperialista e di un’apertura opportuna verso il ristabilimento dell’autorità politica, della credibilità e della leadership dell’America nell’arena internazionale.
Al livello della politica economica, gli sforzi della nuova amministrazione Obama per mettere in opera le necessarie misure di capitalismo di Stato allo scopo di consolidare il sistema di oppressione e di sfruttamento si sviluppano ad un livello ineguagliato. Se da oggi i governatori di tutti gli Stati, come dello Stato federale, attaccano i servizi e i programmi sociali a causa della crisi economica, Obama non promette niente di meglio per il futuro. Egli è al contrario il primo avvocato della necessità di sostenere o rimettere in sesto... le più grandi imprese, le banche e le compagnie di assicurazioni, e di farle finanziare attraverso degli ulteriori sacrifici de... la classe operaia!
Malgrado l’ebbrezza prodotta dal suo successo, cosciente del fatto che essa non potrà mettere in opera i cambiamenti promessi durante la campagna elettorale, la borghesia sviluppa già una campagna in modo da “temprare l’entusiasmo”. Si cominciano così a sentire delle affermazioni secondo cui “Obama non può che rimettere ordine nella politica catastrofica e disonesta di Bush”, e che “vi è una eredità degli errori del passato”, o ancora che “il cambiamento non verrà immediatamente”, “i sacrifici saranno necessari”.
Di fronte a tutto ciò, dobbiamo ricordare le posizioni storiche della nostra classe:
L’euforia attuale non può che essere di breve durata. I programmi di austerità che ogni Stato dell’Unione così come quello centrale devono mettere in moto chiamano necessariamente ad uno sviluppo della lotta di classe. Il prevedibile fallimento dell’amministrazione Obama nel realizzare i “cambiamenti promessi”, un miglioramento delle condizioni di vita e un “programma più sociale”, condurrà inevitabilmente alla delusione e allo sviluppo di un malcontento ancora più forte all’interno della classe dei lavoratori.
Internationalism, organo della CCI negli Stati Uniti (11 novembre 2008)
Nella prima parte di questo articolo, abbiamo tentato di capire che cosa ha scatenato l’attuale crisi economica. Abbiamo visto che essa ha rappresentato solo un nuovo episodio, anche se particolarmente grave, della lenta agonia del capitalismo decadente. In particolare, abbiamo dimostrato che il capitalismo per sopravvivere ha fatto ricorso ad una sorte di droga: l’indebitamento. “L’indebitamento è per il capitalismo quello che l’eroina è per il tossicodipendente. La droga del debito fa si che il capitalismo si mantenga ancora in piedi [...]. Con la droga, esso raggiunge momenti d’euforia [...] ma, sempre più frequentemente, appaiono [...] dei periodi di convulsioni e di crisi, come quella che stiamo vivendo dall’estate 2007. Nella misura in cui si aumentano le dosi, la droga ha un effetto minore sul tossicodipendente. È necessario una dose maggiore per raggiungere uno stimolo sempre più piccolo. È questo che oggi capita al capitalismo!”. Sono però rimaste in sospeso due questioni: in che modo, nel concreto, il debito sostiene da 40 anni l’economia preparando ogni volta nuove crisi più violente? E soprattutto, esiste una via d’uscita alla crisi?
Dagli anni ‘70 il debito ha devastato i paesi del “terzo mondo” ai quali erano stati prestati soldi a profusione per trasformarli in sbocchi solvibili per le merci dei principali paesi industrializzati. Il sogno non è durato a lungo: nel 1982, prima il Messico e poi l’Argentina si sono ritrovati prossimi al fallimento. Per il capitalismo si chiudeva una strada. Quale è stata allora la nuova fuga in avanti? L’indebitamento degli Stati Uniti! Dal 1985 questo paese, dopo essere stato il creditore del mondo, ne è diventato poco a poco il maggior debitore. Con una tale manovra il capitalismo è riuscito ad assicurare la sua sopravvivenza, ma ha minato le basi economiche della principale potenza del pianeta. Questa strategia si è rivelata insostenibile durante le convulsioni che si sono susseguite tra il 1987 ed il 1991. Da allora, l’economia mondiale si è orientata verso quella che è stata chiamata “delocalizzazione”: per alleggerire gli alti costi di produzione che stavano affondando le principali economie, pezzi interi di produzione sono stati spostati verso le famose “tigri e dragoni asiatici”. Ma, di nuovo, le forti convulsioni del 1997-98 - la famosa “crisi asiatica” - si sono concluse con il crollo di tutti questi paesi che erano stati indicati come prova vivente della prosperità capitalistica. Solo la Cina è riuscita a salvarsi essenzialmente grazie ai suoi salari di miseria. Adesso è diventata anche un diretto concorrente dei maggiori paesi capitalisti. Questa corsa folgorante della Cina è apparsa come “la soluzione” della contraddizione flagrante dell’economia mondiale - il peso dei costi di produzione che era divenuto insopportabile – ma ha anche innalzato la concorrenza a livelli ben più intollerabili.
In questi ultimi anni il capitalismo è riuscito a darsi una parvenza di “prosperità” grazie alla gigantesca speculazione di beni immobili che ha toccato gli Stati Uniti, il Regno Unito, la Spagna ed una quarantina di altri paesi. Il “boom del mattone” è un’espressione palese del grado di aberrazione che il sistema sta raggiungendo. Lo scopo della costruzione delle case non è stato affatto dare un alloggio alle persone... il numero dei “senza tetto” ha continuato ad aumentare in questi ultimi anni, in particolare negli Stati Uniti! L’obiettivo era solo la speculazione di beni immobili. A Dubaï il deserto è stato disseminato di grattacieli, senza altra vocazione che quella di placare la sete degli investitori internazionali, avidi di ottenere enormi profitti comprando degli alloggi per rivenderli tre mesi dopo. In Spagna le regioni costiere che non erano ancora troppo sovraffollate, sono state coperte da lottizzazioni, grattacieli e campi da golf. Tutto questo ha potuto riempire le tasche di una minoranza ma, la maggior parte di queste costruzioni sono rimaste drammaticamente vuote. Una delle conseguenze di questa follia speculativa è che la casa è diventata un qualcosa di inaccessibile per la maggior parte delle famiglie operaie. Milioni di esseri umani hanno dovuto chiedere prestiti ipotecari, anche della durata di 50 anni! In altre termini, hanno dovuto gettare una quantità enorme di soldi nel “pozzo senza fondo degli interessi”. Centinaia di migliaia di giovani coppie sono obbligate a vivere in subaffitto in bassifondi o ospitati in ristrettezza dai loro parenti. Oggi la bolla è scoppiata e la già debole economia, tenuta assieme con le spillette della speculazione, delle frodi contabili, dei pagamenti aggiornati sine die per un fantomatico “mercato futuro”, crolla in violente convulsioni.
La sola risposta possibile del capitalismo: far ricadere gli effetti della crisi sulle spalle dei lavoratori
Dieci anni fa in un articolo intitolato “Trent’anni di crisi aperta del capitalismo”1, abbiamo tracciato un bilancio di questa fuga in avanti nel credito: “Quest’intervento dello Stato per accompagnare la crisi, adattarsi ad essa per rallentarla e se possibile ritardarne gli effetti, ha permesso alle grandi potenze industriali di evitare una caduta brutale, una sconfitta generale dell’apparato economico. Essa, tuttavia, non è riuscita a trovare una soluzione alla crisi, né a risolvere nemmeno una delle sue espressioni più acute come la disoccupazione e l'inflazione. Trent’anni di questa politica di palliativi alla crisi ha permesso solo una specie di caduta paracadutata verso il fondo dell’abisso, una caduta pianificata il cui unico vero risultato è prolungare la dominazione del suo sistema con il suo seguito di sofferenze, incertezza e disperazione per la classe operaia e per la stragrande maggioranza della popolazione mondiale. Da parte sua, la classe operaia dei grandi centri industriali è stata sottoposta ad una politica sistematica di attacchi graduali e successivi contro il suo potere di acquisto, le sue condizioni di vita, i suoi salari, il suo posto di lavoro, la sua stessa sopravvivenza. Quanto alla maggioranza della popolazione mondiale, quella che sopravvive miseramente ed agonizza nell’enorme periferia che circonda i centri vitali del capitalismo, questa in linea di massima ha conosciuto solo la barbarie crescente, la carestia e la morte, ad un livello tale che oggi si parla del più gigantesco genocidio che l’umanità abbia mai conosciuto”.
In effetti, il bilancio di questi ultimi quarant’anni è terrificante. Negli anni ‘60 molti lavoratori, anche quelli dei paesi meno ricchi, avevano un posto di lavoro fisso; oggi la precarietà è dappertutto una tendenza dominante. Da più di 20 anni il salario reale dei lavoratori dei paesi più ricchi continua a diminuire. E nei paesi più poveri, oggi, il salario medio difficilmente raggiunge i 100$!2. La disoccupazione è divenuta cronica. Il meglio che gli Stati sono riusciti a fare è renderla socialmente meno visibile. La borghesia è riuscita a far si che i disoccupati vivano la loro situazione come una stigma vergognosa; l’idea che si fa passare è che questi sono dei parassiti, degli inutili, dei perdenti incapaci di trarre profitto dalle “meravigliose possibilità di lavoro” che sarebbero loro offerte. E che dire delle pensioni? La generazione più anziana al lavoro (50-60 anni) vede le pensioni dileguarsi come neve al sole, pensioni già più basse rispetto alla generazione precedente, ed una parte considerevole di questi futuri pensionati sa che per sopravvivere dovrà cercare piccoli lavoretti dopo i 60 o i 65 anni. Ed è sicuro che i giovani di oggi non avranno mai neanche il minimo di pensione.
Perché l’umanità possa vivere, è necessario che il capitalismo muoia
Queste prospettive catastrofiche sono presenti da oltre 40 anni. Ma il capitalismo ha avuto la straordinaria capacità di seminare illusioni e fare credere che il famoso ciclo “crisi-prosperità” sia eterno. Tuttavia, oggi, la capacità dello Stato capitalistico di “accompagnare” la crisi con palliativi si è indebolita. La nuova caduta che si annuncia sarà di conseguenza ancora più brutale e ripida della precedente. Gli attacchi contro il proletariato e l’umanità intera saranno quindi ancora più crudeli e distruttivi: proliferazione delle guerre imperialiste, attacchi ai salari, aumento della disoccupazione e della precarietà, aumento della miseria. In tutti i paesi i governi invitano alla calma e fingono di avere delle soluzioni per riavviare il motore economico. E dappertutto l’opposizione partecipa alla mistificazione, attribuendo la catastrofe alla cattiva gestione del partito al potere e promettendo una “nuova politica”.
Non stiamo esagerando! L’esperienza di questi ultimi mesi è molto istruttiva: i governanti di questo mondo, di ogni latitudine e di tutti i colori, armati delle loro coorti “di esperti” e guru della finanza, hanno tentato tutta una serie di formule per “venir fuori dalla crisi”. Possiamo affermare che tutte le loro manovre sono inevitabilmente votate al fallimento. Il proletariato, i lavoratori di tutto il mondo, non devono avere fiducia in loro. Noi dobbiamo avere fiducia solo nelle nostre forze! Noi dobbiamo sviluppare la nostra esperienza di lotta, di solidarietà, di dibattito per sviluppare la nostra coscienza ed acquisire così- dopo uno sforzo che sarà duro e difficile - la capacità di distruggere il capitalismo divenuto un ostacolo per la sopravvivenza dell’umanità. Il motto dell’Internazionale Comunista del 1919 “perché l’umanità possa sopravvivere, il capitalismo deve perire!” è più che mai d’attualità.
Acción Proletaria, 23 gennaio 2008
organo della CCI in Spagna
(*) La prima parte di questo articolo è apparsa su Rivoluzione Internazionale n° 156
1. Articolo disponibile alla pagina francese del nostro sito
2. Bisogna qui includere la situazione dell’immensa maggioranza degli operai sedicenti “beneficiari” del “miracolo cinese”.
Il 19 aprile scorso si è tenuta a Napoli una giornata di discussione tra compagni animati dall’esigenza di confrontarsi su questioni di fondo.
Questa iniziativa è stata promossa dalla CCI sulla base di esperienze analoghe promosse a Londra, a Bruxelles ed a Marsiglia[1] con l’intento di creare un luogo di incontro e di confronto per tutti quelli che avvertono la necessità di chiarirsi le idee su questa società e sui numerosi problemi che premono sull’insieme dei proletari e sulla nuova generazione. Avere la possibilità di ritrovarsi per discutere in un clima aperto, fraterno, dove è possibile esprimere i propri dubbi, le proprie preoccupazioni, ma anche la propria voglia di reagire di fronte allo sfacelo in cui si è costretti a vivere, è particolarmente importante oggi dove la nuova fase di ripresa della lotta di classe si manifesta non solo con la lotta aperta in vari paesi[2], ma soprattutto con l’emergere di una riflessione su quello che è questo mondo, in particolare su quale futuro ci aspetta, su quale potrebbe essere una prospettiva diversa.
La partecipazione dei compagni intervenuti è stata convinta e piena di entusiasmo. Diversi di loro hanno anche partecipato a tutta la fase preparatoria, ad esempio cercando la sala per la riunione, organizzando il buffet per il pranzo, preparando le introduzioni sui due temi, o assumendosi specifici compiti durante la riunione, come la preparazione delle conclusioni delle discussioni svolte sui due singoli temi. Tutti i compagni intervenuti hanno contribuito alle spese e, naturalmente, hanno partecipato attivamente al dibattito. La CCI ha messo a disposizione la sua esperienza politica ed organizzativa affinché la discussione potesse svilupparsi pienamente ed in maniera fruttuosa senza trascurare al contempo dei momenti conviviali per permettere ai diversi compagni di conoscersi.
I temi che i compagni, attraverso un sondaggio preventivo, hanno scelto di discutere, sono i seguenti:
Sarebbe difficile riportare per intero il dibattito. Ci limiteremo dunque a sintetizzare gli elementi essenziali emersi sui due temi in discussione, accludendo ovviamente le presentazioni delle due singole presentazioni. Aggiungeremo dunque un contributo di un compagno su una questione specifica che è sorta nella discussione a proposito del “microcredito” e un bilancio personale dello stesso compagno sulla riunione. Accludiamo infine una lettera della CCI inviata ai compagni che hanno partecipato alla riunione del 19 aprile che, per i suoi contenuti, è valida per tutti i compagni.
In conclusione l’elenco del materiale che pubblichiamo è il seguente:
[1] Vedi sul nostro sito web gli articoli: “WR Day of Study: Presentations and discussions”, “Journée d'étude du CCI en Grande-Bretagne: un débat vivant et fraternel”, “Journée de rencontre et de discussion avec le CCI d'août 2007: chercher ensemble une alternative pour cette société agonisante” e “Journée de discussion à Marseille: un débat ouvert et fraternel sur un autre monde est-il possible?”
[2] I compagni possono trovare sulle diverse pagine del nostro sito numerosi articoli sulle lotte nel mondo.
1° tema: Quale futuro ci riserva questa società? Esiste un’alternativa? E quale?
La prospettiva capitalista
La breve ma ricca introduzione[1] ha ben sintetizzato le conseguenze catastrofiche del degrado del capitalismo sui vari piani della vita economica, politica e sociale della stragrande maggioranza dell’umanità e vari interventi successivi hanno confermato questo quadro. In particolare un compagno ha ricordato come la miseria, la guerra e il degrado sociale estremo siano ormai la realtà quotidiana in molti paesi, dal Pakistan al Kosovo, dalla Somalia allo Zimbawe, e come la barbarie “arriva fino al punto che in Iran prima fucilano le donne negli stadi e poi giocano a pallone con le loro teste”. Un altro compagno ha sottolineato come tutto questo non sia il frutto di una cattiva volontà o gestione di chi comanda, ma la conseguenza della fase di declino di questo sistema: “viviamo in un mondo strangolato dal mondo finanziario internazionale, che domina il capitale industriale…. Per garantirsi il saggio di profitto il sistema raddoppia il prezzo del pane e la gente non riesce più a comprarsi un pezzo di pane …. Per sopravvivere è costretto a smantellare tutto il sistema sociale. Esiste una contraddizione tra l’umanità da una parte ed il sistema dall’altra. Tra il moderno proletariato ed il capitale attuale. Alla borghesia farebbe comodo che le cose funzionassero, ma questa è una crisi strutturale epocale o meglio l’accelerazione della crisi storica del capitalismo”. Il compagno ha aggiunto che secondo lui questa contraddizione inizia ad essere avvertita con maggiore chiarezza: “La gente si domanda ‘ma perché non siamo in grado di impedire che la metà dell’umanità muoia di fame?’ La risposta è che i mezzi per impedirlo ci sarebbero, ma quello che domina è la legge del profitto e questa consapevolezza si sta facendo strada…perché si vivono contraddizioni non più compatibili: milioni di famiglie non ce la fanno ad arrivare alla fine del mese e ci sono due generazioni di precari disperati”.
Come ha giustamente sottolineato un’altra compagna, non è solo sul piano economico che questo sistema ci sta stritolando: “Il denaro influenza la nostra vita, senza lavoro si muore. Ma questa società ci sta levando la cosa più importante: la dignità umana. E come? Impedendoci di pensare e spingendoci a vedere il nostro vicino, l’altro essere umano, come il nostro nemico o quello dei nostri figli, come quello che domani ci fotterà. Essendo mamma spero che ci sia un futuro per i miei figli e credo che ci dobbiamo dare da fare e riflettere su come farlo. Nella storia dell’umanità ci sono stati tentativi di ribaltare questa società. Ci sono stati anche errori. Ma non c’è alternativa, questo dobbiamo fare. Non si può vivere in una società dove si gioca a pallone con le teste delle persone”.
Altri compagni sono intervenuti nello stesso senso insistendo sul fatto che la borghesia ha “giocato” fino ad ora anche con le nostre teste facendoci illudere che una sinistra al governo potesse portare qualche beneficio per i lavoratori tanto è vero che “ancora nelle ultime elezioni molte persone hanno avuto paura che cadesse la sinistra e tornasse Berlusconi”, quando l’esperienza, secondo questi compagni, ha ampiamente dimostrato che “chiunque è andato al governo ha portato avanti sempre la stessa politica di batoste”.
Cambiare la società, ma come?
Se sulla prospettiva catastrofica che ci riserva il capitalismo è emersa una certa omogeneità di pensiero tra i partecipanti, delle opinioni diverse e dei dubbi sono invece stati espressi rispetto ad una possibile alternativa a questo stato di cose. Secondo molti dei compagni presenti l’unica alternativa possibile è abbattere il capitalismo e costruire una società basata sui reali bisogni umani: “esiste forse uno solo dei problemi dell’umanità che possa essere risolto all’interno del contesto capitalista?”, “l’umanità sarebbe in grado di costruire un mondo diverso, con la scienza e la tecnica cui si è giunti. Dovremmo da tempo essere oltre questo orizzonte sociale”. Ma come operare questo cambiamento? Su quali forze poter contare? Rispetto ad interventi che alludevano al ruolo mistificatorio di forze come Rifondazione comunista o i Verdi, due compagne hanno esplicitato i loro dubbi: “non capisco qual è questo lato positivo del fatto che la sinistra non sta in parlamento”, “se le avanguardie rivoluzionarie non sono visibili e se la sinistra borghese fa solo chiacchiere, come si divulga quest’idea di cambiamento?”. Nel rispondere a queste questioni altri compagni hanno sviluppato l’idea che, a differenza del secolo scorso, oggi il parlamento non è più un’arma di difesa o di cambiamento per i proletari perché il sistema non è più in grado di concedere dei reali miglioramenti né sul piano economico né sul piano sociale. Secondo una compagna infatti ci si deve chiedere come mai tutte le volte che la sinistra è andata al governo la nostra condizione è peggiorata: “Perché lo fanno? Sono scemi o c’è un motivo? Il motivo è che non possono darci più niente”. Secondo un altro compagno “non cambia comunque niente anche cambiando chi ci rappresenta in parlamento. Il fatto è che la crisi è tale che chiunque va al governo non può che fare certe scelte …. Non è quindi con le elezioni che si può cambiare”. Più compagni hanno inoltre insistito sull’idea che questo cambiamento bisogna farlo in prima persona, che non può essere delegato a nessuno, tanto meno alla sinistra parlamentare o radicale perché come ha detto uno di loro: “Quello che esprimono queste forze è una visione del “meno peggio”. Io non voglio il “meno peggio”. Oggi io lascio in eredità a mio figlio una società decisamente peggiore di quella che mi ha lasciato mio padre e con una prospettiva ancora peggiore. … Non è vero che [queste forze] hanno rappresentato la classe operaia ma un concetto di società che si accontenta, una visione di un capitalismo dal volto nuovo … Quel tipo di delega non funziona. Per me si è fatta chiarezza… non hanno un concetto di società diversa [dal capitalismo]”.
La conclusione di questa parte della discussione è stata dunque che il capitalismo va eliminato e sostituito con una società diversa. Questa è la prospettiva verso cui dobbiamo andare. Ma, si sono chiesti dei compagni, in attesa che si possa sviluppare la possibilità della rivoluzione, è possibile operare dei cambiamenti all’interno del capitalismo che ne attenuino gli effetti nefasti e preparino la prospettiva più generale? Tanto più che “in questa società ci viviamo e agiamo quotidianamente, e sarebbe dunque il caso di cominciare a fare qualcosa”. Ma per fare questo, ha suggerito un altro compagno, “il futuro lo dobbiamo costruire capendo anche che cosa vogliamo costruire”. In particolare questi compagni avevano in mente il desiderio di poter cominciare a costruire qualcosa di alternativo all’interno di questa società, che potesse opporsi progressivamente al capitalismo e costituire, sul piano materiale come su quello ideale, una base per la prossima società. A tale riguardo la riunione ha discusso di due diverse idee che sono state avanzate: quella del microcredito e quella delle coabitazioni.
Sulla prima idea del microcredito, un compagno ha evocato l’esperienza della banca del premio Nobel Yunus che avrebbe permesso, in Bangla Desh, di elargire credito anche agli strati più poveri della popolazione, costituendo così un possibile modello da sviluppare e propagare per assicurare, quanto meno, la sopravvivenza alle popolazioni più povere del mondo, “non perché Yunus sia meglio delle banche capitaliste, ma si potrebbe partire da qui per vedere cosa possiamo prendere di buono per poi andare avanti”.
Nell’esperienza delle coabitazioni - le co-housing, già citate nella introduzione alla discussione - una compagna vede invece “non la risposta ai problemi del capitalismo”, ma l’espressione di un “bisogno di comunità anche se surrogato”, “l’esempio di solidarietà, di un modo diverso di rapportarsi, che è quello che dovremo andare a fare nel comunismo”.
Dei compagni sono intervenuti per sottolineare che è la stessa dinamica della società che porta in sé delle potenzialità verso una prospettiva comunista che bisogna saper cogliere e sviluppare, come appunto il bisogno di comunità insito nelle co-housing, o anche il fatto che “una realtà come la precarietà - che è in sé un elemento negativo - si porta dietro delle potenzialità di sviluppo di una altra società” in quanto “libera i proletari dal legame stretto con la propria fabbrica”.
Nel merito delle singole questioni poste, pur comprendendo ed in parte condividendo molte delle preoccupazioni presenti nella discussione, altri compagni hanno espresso dei disaccordi e dei dubbi sugli esempi specifici riportati. Rispetto al microprestito di Yunus, un compagno ha sostenuto che “questo è nei fatti una sorta di auto-sfruttamento” che “serve al capitale nazionale a rastrellare risorse nelle condizioni di estrema povertà di quel paese”. Un altro ha ricordato come anche il “commercio equo e solidale” viene spacciato come un modo per sostenere i lavoratori più poveri del terzo mondo, ma in realtà non cambia in niente la loro sorte. Un’altra compagna ha detto che nel capitalismo “qualcosa di meno peggio ci può sempre essere, ma questo non risolve il problema. Il fatto è che anche noi stiamo arrivando alla situazione della povera donna del Bangla Desh che non sa come mangiare e anche noi dovremo chiedere il microprestito per sopravvivere”.
Rispetto alle coabitazioni un compagno ha risposto: “potrei essere d’accordo con la definizione della coabitazione come potenzialità, ma non come proposta tattica … soprattutto questa potenzialità deve essere collegata alla lotta di classe” nel senso che solo in un movimento ampio di scontro di classe queste potenzialità possono diventare degli elementi di avanzamento. Un altro intervento ha ricordato che le comunità agricole organizzate da Tolstoi non ebbero alcun futuro proprio perché secondo il compagno erano, come quelle di oggi, “solo associazioni di difesa, non possono essere una configurazione di socialismo”. Ad una compagna infine la coabitazione non sembrava una forma innovativa, perché “è la società che ci sta obbligando alla coabitazione”.
Data l’importanza delle due tematiche sollevate, la nostra organizzazione ha invitato i partecipanti a continuare la discussione attraverso dei contributi scritti da scambiare tra i compagni. Un compagno ha immediatamente ascoltato il nostro appello inviandoci un contributo sulla questione del microprestito che noi pubblichiamo in sequenza.[2]
2° tema: Che significa oggi classe operaia? Ha ancora un senso parlare di proletariato? E chi vi appartiene?
La discussione su questo secondo tema è stata meno sviluppata rispetto alla precedente per motivi di tempo e di stanchezza, ma probabilmente anche perché si è troppo focalizzata su di un solo aspetto della questione, “chi appartiene alla classe operaia?”, a scapito dell’aspetto politico più generale di cosa è la classe operaia e del perché essa è l’unica che potrà operare il cambiamento di società di cui si parlava nel primo punto. Una migliore definizione del tema ed un più stretto legame tra questo ed il primo tema della giornata in sede di programmazione, avrebbero potuto evitare una tale debolezza.
L’introduzione, anch’essa sintetica ma molto efficace nel riprendere gli elementi essenziali della questione[3], è stata subito ripresa da un compagno su diversi punti: “Occorre capire che la differenza tra classe operaia, cioè quella industriale, e proletariato, scompare se ci riferiamo al criterio fondamentale che è la vendita della forza lavoro. Una volta si usava di più il termine classe operaia perché il rapporto di lavoro salariato era concentrato soprattutto nel settore industriale. Oggi ci sono strati una volta intermedi tra proletariato e borghesia che sono ormai proletari per il rapporto che hanno con il capitale. Bisogna capire bene come si presenta il moderno proletariato: se facciamo riferimento agli studenti francesi, vediamo che le questioni poste, e il loro modo di organizzarsi ne dimostrano la natura proletaria. La stessa cosa la possiamo dire per la manifestazione dei precari che si è avuta a Roma nell’ottobre scorso. E sarebbe un errore grave sottovalutare il potenziale enorme che esiste in questo proletariato. Se la borghesia sviluppa tante teorie per negare l’esistenza della classe operaia, è proprio per disinnescare questo potenziale. Noi invece dobbiamo porci la questione di come si unisce questa classe, e la risposta la possiamo trovare se ci riferiamo alla storia”. Il compagno ha ricordato come la classe operaia nel ’17 in Russia abbia trovato nei Soviet la sua unità e la capacità di sviluppare la sua coscienza aggiungendo che “Il problema del proletariato è costruire la sua coscienza, ed è in questo processo che il partito può e deve giocare un ruolo. I bolscevichi inizialmente erano minoranza nei soviet, perché all’inizio la coscienza del proletariato non era ancora sviluppata fino in fondo, cosa che avvenne nei mesi successivi. Quindi la classe operaia ha in sé questa capacità e non bisogna farsi ingannare dalla situazione contingente”.
Un altro compagno ha detto che a lui, sulle prime, definire chi fa parte della classe “… sembrava inutile, perché a me, proletario da 40 anni, sembra chiaro”, ma che è invece vero che il peso della propaganda borghese fa sì che “a volte gli stessi proletari non si riconoscono tali, e bisogna spiegarglielo, per non farci dividere dalla borghesia. Il proletariato potrà essere più diffuso sul territorio rispetto a prima, almeno in occidente, ma è ancora maggioranza”.
La discussione si è quindi sviluppata animatamente su chi fa parte della classe operaia. Diverse le obiezioni e le osservazioni fatte a proposito.
Nella discussione sono stati avanzati diversi elementi di risposta:
Ciò detto, è stato ricordato che questo non significa che la classe operaia in lotta non possa e non debba cercare un dialogo con i poliziotti e con i soldati per farli riflettere sulla loro condizione e chiamarli ad unirsi alla lotta, come fecero gli operai russi durante la rivoluzione del ’17 o come hanno fatto gli studenti in Francia nel 2005 di fronte ai poliziotti mandati a sfollarli dalle università.
Un primo bilancio
Alla fine della discussione sui temi previsti è stato lasciato uno spazio perché i partecipanti potessero esprimere una prima valutazione sulla giornata, suggerire eventuali correzioni per iniziative future ed altro.
In generale tutti i compagni hanno dato un apprezzamento positivo per la giornata trascorsa, con un’insistenza particolare sull’importanza di avere opportunità come queste per poter rompere l’isolamento, incontrarsi e discutere insieme delle preoccupazioni comuni. Diversi compagni hanno quindi espresso la necessità di dare seguito a questa iniziativa con altri incontri. Un compagno ha suggerito come possibile tema “il movimento del ’68 ed i successivi 40 anni di lotta di classe”. Alcuni hanno notato che la discussione sul secondo punto era piaciuta di meno rispetto alla prima, mentre una compagna ha espresso una valutazione critica su questa seconda parte perché la questione di cosa è la classe operaia le era sembrata “troppo astratta” mentre avrebbe preferito “chiarire di più degli aspetti concreti”.
Un’altra compagna ha suggerito, per il futuro, di scegliere “più attualità e meno teoria, come primo impatto”, nel senso di partire “dalla interpretazione e spiegazione concreta di fenomeni di attualità”. Un altro compagno ha osservato che, se va senz’altro recepito questo suggerimento, è anche vero però che “almeno il primo punto è nato dall’esigenza concreta, ricordiamo i No-global, i ragazzi di Genova che si sono fatti picchiare su questo tipo di questioni”. Infine è stato osservato che bisogna stare attenti nella discussione a non dare per scontato certi termini o certi concetti. Questa preoccupazione è molto importante perché, come abbiamo detto nel nostro intervento finale “il metodo non è partire da conclusioni già bell’e fatte, ma cercare di costruire queste conclusioni man mano, partendo proprio dagli elementi che escono dalla discussione; Il contrario potrebbe scoraggiare dei compagni, soprattutto quelli che partecipano per la prima volta ad un dibattito del genere. Inoltre partire dalle questioni basilari, soffermandosi nel confronto su concetti che troppo spesso diamo per scontati, significa sviluppare un reale approfondimento politico e teorico”.
Da parte nostra, come abbiamo già espresso alla fine della riunione, il bilancio di questa giornata è molto positivo non solo per la ricchezza di elementi di riflessione che sono emersi e che potranno costituire il punto di partenza per ulteriori discussioni tra i compagni, ma anche ed in particolar modo per il clima di discussione collettiva e solidale che si è sviluppato, dove ognuno ha partecipato, esprimendo i propri dubbi e i propri disaccordi, ad una reale chiarificazione politica. Il che non significa aver raggiunto un accordo sulle questioni dibattute, né tanto meno aver dissipato tutti i dubbi e le perplessità, ma significa essenzialmente avere una visione più chiara di quali sono i reali problemi che si trova ad affrontare l’umanità.
Questa discussione ha costituito un passo in avanti in questa direzione.
La CCI, 16 agosto 2008
[1] Vedi il testo dell’introduzione “Quale futuro ci riserva questa società? Esiste un’alternativa? E quale?”, su questo sito
[2] Vedi il testo “Appunti sulla questione del microprestito”, scritto dal compagno P.
[3] Vedi il testo dell’introduzione “Che significa oggi classe operaia? Ha ancora un senso parlare di proletariato? E chi vi appartiene?”
Dalla fine degli anni ’60 ad oggi il sistema economico internazionale si trova in una diffusa fase di crisi, ma i tassi di crescita del PIL globale sono positivi dal secondo dopoguerra. Non è un paradosso se si scopre che dietro la crescita si nasconde l’ammontare crescente del debito. Un’economia basata sul debito permette agli operatori, pubblici o privati che siano, di creare liquidità e quindi di speculare. È il caso in cui il denaro genera denaro.
Oggi, essendo il capitalismo un sistema complesso, il battito d’ali di una farfalla in Brasile genera uno tsunami in Giappone. Lo abbiamo visto alla fine del 2006 con la crisi del settore edilizio negli Stati Uniti: l’insolvenza dei mutui subprime (ad alto tasso di interesse) ha innescato una reazione a catena provocando il fallimento di numerose agenzie di credito. Da allora la parola catastrofe è circolata tra politici ed economisti, e la stima delle cifre non ha smesso di aumentare. L’ultima stima che gli economisti del Fondo Monetario Internazionale fanno della perdita potenziale è 945 miliardi di dollari. (Il Sole 24 Ore, 9 Aprile 2008).
Sull’altra faccia della medaglia si trova il capitale industriale. Il sistema di produzione attuale non prevede un rapporto razionale tra i bisogni umani e le merci effettivamente prodotte. Potremmo immaginare un gruppo di imprenditori in concorrenza che cercano di produrre la stessa merce ma ad un costo minore per venderla meglio, ma per fare ciò devono aumentare le unità prodotte senza tener conto della richiesta, entrando quindi in sovrapproduzione. Si avranno così una quantità di merci invendute che peseranno sul Capitale come profitto non realizzato. Siamo in regime di completa irrazionalità, in cui vengono disattesi i reali bisogni dell’umanità per la realizzazione di un profitto cieco e pericoloso.
Un’espressione diretta dell’irrazionalità del sistema produttivo sono le trasformazioni irreversibili imposte dall’uomo al sistema Terra. Da quando l’uomo è diventato agricoltore ha sempre trasformato la terra fecondandola e rendendola rigogliosa, disegnando paesaggi e creando luoghi bellissimi. Quello che si è fatto in epoca industriale assomiglia invece ad un tentativo di avvelenamento. Un disastro ecologico rappresenterebbe per l’economia umana la scomparsa di uno dei due termini fondamentali del rapporto: la natura. Di conseguenza si avrebbe la scomparsa del secondo che è l’uomo.
La risposta politica a questa serie di problemi diventa necessaria, ma non è sufficiente. Si veda il caso del protocollo di Kyoto. Una regolamentazione tra gli Stati per l’emissione degli elementi nocivi dove i paesi più inquinanti o non firmano, gli Stati Uniti, oppure sono esonerati dagli standard perché non partecipi dell’inquinamento del primo periodo industriale, Cina e India. La realtà è che industria, energia, trasporti e abitazioni, sono settori economici che trainano gli investimenti statali e privati, ma che se dovessero adattarsi a non inquinare sarebbero puniti dalla competizione sul mercato internazionale. Senza poi contare la “borsa delle emissioni”, dove al mercato si può comprare la possibilità di inquinare.
La marea distruttiva non interessa solo l’ambiente. Con la dissoluzione del blocco dell’Est, cominciata nel 1989, è venuto a mancare quell’equilibrio tra le potenze imperialiste che reggeva dalla fine della seconda guerra mondiale. Dal 1991 in poi abbiamo avuto una serie di conflitti sanguinosi, in cui gli Stati Uniti hanno tentato di affermare la loro supremazia militare nel mondo cercando, di volta in volta, l’aiuto dei vecchi alleati occidentali. Il primo tentativo si ebbe con la guerra del Golfo a cui è seguita subito dopo la carneficina dell’ex-Jugoslavia, in cui Usa, Germania, Francia e Inghilterra non ricucirono la vecchia alleanza. Di seguito si sono diffusi numerosi conflitti su tutto il pianeta (Somalia, Kosovo, Albania) in cui tutte le maggiori potenze hanno cercato di far valere i propri interessi imperialisti. Affinché gli alleati si trovassero di nuovo al fronte tutti insieme ci volle l’attentato alle Torri Gemelle del 2001. È stata un ottima scusa per invadere quella che già era stata una zona calda, l’Afghanistan, e per continuare, con lo spauracchio delle armi di distruzione di massa, in Iraq due anni dopo.
La violenza utilizzata per l’affermazione della libertà democratica è la stessa che intercorre nei rapporti umani. Le condizioni dello sfruttamento hanno reso il lavoro bestiale, agiscono su quel campo che distingueva l’uomo dall’animale invertendone completamente i termini. È nel lavoro che l’uomo potrebbe esprimere i caratteri sociali della propria specie, nel lavoro potrebbe sfruttare la propria forza in modo volontario e cosciente; ma, dato lo stato dei rapporti umani, è nel lavoro che invece diventa un appendice della macchina produttiva del Capitale, una merce speciale, che vive e soprattutto muore sul lavoro. Marx, nei “Manoscritti” giovanili, mostra come la merce suprema, il denaro, influenzi la vita umana. Questo, con la sua “potenza sovvertitrice”, agisce sull’immagine del possessore che si rispecchia nel denaro stesso e diventa ciò che può pagare. Agisce inoltre sull’individuo e sui vincoli sociali apparentemente immutabili, “muta l’amore in odio e l’odio in amore”( K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, pag. 120).
Con la dissoluzione della comunità, del vivere comune, l’uomo è votato alla depressione, all’angoscia. L’isolamento sociale lede la dignità umana e la fiducia in se stessi al punto di generare la scomparsa di una prospettiva futura e far nascere un culto esasperato del presente. Si tende a negare la possibilità di un progetto capace di edificare una società superiore e si afferma una propensione relativistica che porta all’abbandono di uno spazio etico comune.
La rinuncia ad una prospettiva comune porta ad interessarsi ad una serie di progetti. Uno è l’ecologismo, che si basa sulla convinzione della possibilità di un mantenimento dello sviluppo economico compatibile con l’equità sociale e con il rispetto del pianeta. Dall’altra parte ci sono invece i sostenitori della Decrescita, secondo i quali la crescita economica comporterebbe sempre un maggiore impatto ecologico. In generale, entrambi cercano una qualità di vita migliore di quella attuale, un maggiore egualitarismo tra i membri della società: affrontano il presente in maniera problematica cercando una possibile strada per il futuro nell’ecologia.
Esistono, poi, degli episodi in cui gruppi di individui si aggregano per la coabitazione a diverse scale. In tutte le megalopoli odierne i casi di co-abitazione coatta, per far fronte a tasse ed affitti, sono molto numerosi. Non mancano però esempi di vere e proprie città di fondazione, diffuse soprattutto negli Usa, organizzate con l’intento di ottimizzare gli spazi ed alcune attività collettive. Queste intentional comunity (comunità intenzionali) si basano appunto sull’intenzione di risolvere problemi pratici che lo Stato non può risolvere. È quello che succede anche nelle periferie delle città francesi, dove gruppi di famiglie agiate si chiudono in quartieri-bunker e lasciano fuori la porta la violenza urbana.
Sono un po’ differenti gli esperimenti moderni di co-housing (co-abitazione), diffusi ormai in Europa come in America, che non assomigliano né alle comunità del socialismo-utopista (Fourier, Owen) e né tanto meno alle comunità hippie degli anni sessanta, entrambe fallimentari perché cercavano un tentativo di isolamento dalla società e dal sistema. In quelle moderne invece la pratica della coabitazione prevede la condivisione (possibile intorno alle 30 famiglie) di spazi comuni, come cucine, biblioteche, palestre, laboratori, spazi per i bambini, ecc.; pur sorgendo all’interno del sistema capitalistico come rifiuto dello stesso, ma allo stesso tempo sfruttandone i vantaggi. Le abitazioni sfruttano le tecnologie per il risparmio energetico e gli abitanti fanno la loro vita lavorativa fuori da questo tipo di unità-di-vicinato.
Viene da chiedersi se da questo tipo di esperienze possa venir fuori una soluzione in grado di abolire le odierne contraddizioni della società, e infine, che dia la possibilità di soddisfare i bisogni dell’intera popolazione del pianeta.
È sempre nelle città che compaiono altri tipi di reazioni alla patologia sociale, sintetizzabile nel non-senso della vita, un moderno nichilismo, ma che i filosofi idealisti elevano ad angoscia esistenziale. Si tratta di risposte individuali o collettive, distruttive o autodistruttive, esasperate dal carattere totalizzante di una società fondamentalmente ingiusta. Senza affrontare i pur importanti casi individuali del suicidio e dell’omicidio, o della droga, i quali hanno cifre statistiche terribilmente alte, si faranno due esempi molto vicini a noi. Il primo è la rivolta delle banlieu francesi nel 2005, dove il disagio dei giovani proletari delle periferie si e trasformato in una incondizionata violenza verso obbiettivi che nulla avevano a che vedere con la causa della loro condizione. L’incendio di automobili, l’attacco ad asili e stazioni dei pompieri quali simboli istituzionali, o peggio, i raid a scopo di rapina nelle manifestazioni degli studenti in lotta contro il CPE.
Un altro caso è l’intreccio tra la mafia e la popolazione giovanile del sud Italia. Potendo affermare che la disoccupazione è funzionale ad un sistema che non ha una domanda di lavoro costante, e inoltre, che tra i disoccupati si include il ceto dei non lavoratori (vagabondi, delinquenti, ecc.), allora al crescere della disoccupazione cresce anche la criminalità. Un area dove la disoccupazione raggiunge quote del 50% è un serbatoio dove gli eserciti criminali attingono manodopera. Comunque in entrambi i casi la violenza è frutto di un rapporto logoro instaurato tra gli uomini ed il lavoro e di conseguenza tra gli uomini e la comunità.
Di fronte a questa situazione complessiva che la maggioranza dell’umanità è costretta a vivere, di fronte alla mancanza di una prospettiva diversa dalla distruzione morale e fisica che questo sistema ci impone, come si può reagire?
È possibile prospettare una società diversa? E che tipo di società?
Per chiudere, una possibile risposta a questa serie di domande sta nella natura stessa dell’uomo, nella sua capacità di progettare, che lo distingue della bestia. Secondo Marx, l’uomo, con le sue azioni, non si limita solo a produrre un cambiamento di forma della realtà, ma realizza in essa il proprio scopo, che conosce già e che determina il suo operare, “e al quale egli deve subordinare la propria volontà” (K. Marx, Il Capitale, Libro I, cap. V). Cos’è allora che limita l’uomo, che non gli permette di raggiungere la consapevolezza del cambiamento? Per reintegrare l’uomo nella natura, bisogna ridargli quella dignità negatagli da un sistema di sfruttamento e di appropriazione che incatena le forze potenziali dell’umanità.
19 aprile 2008, F.
Nel 1848 Marx ed Engels pubblicando il Manifesto del partito comunista indicano nella lotta delle classi il perno attorno al quale si muove da sempre la storia delle società umane:
“Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri delle corporazioni e garzoni, in una parola oppressori e oppressi sono sempre stati in contrasto fra di loro, hanno sostenuto una lotta ininterrotta, a volte nascosta, a volte palese: una lotta che finì sempre o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la rovina comune delle classi in lotta”.
La propaganda borghese più volte si è rivolta contro questo assunto dell’analisi marxista della storia cercando di negare la sua verità. E gli avvenimenti degli ultimi anni hanno costituito un comodo trampolino di lancio da cui sferrare l’attacco ideologico contro la classe operaia. Fidando nello scoramento generale in cui il proletariato occidentale è caduto dopo il crollo dell’Unione sovietica, immediatamente presentato come la fine del comunismo, e nei rivolgimenti a cui le nuove tecnologie hanno sottoposto il sistema produttivo - rivolgimenti che hanno favorito la scomparsa delle grandi concentrazioni industriali, eccezion fatta per alcuni comparti tradizionali come quello dell’auto della petrolchimica o della cantieristica - si è voluto sostenere un mutamento delle forme sociali che vedrebbe una drastica diminuzione del proletariato. Così ad esempio dagli anni ’80 fino al recente passato abbiamo assistito al proliferare di ogni genere di teorie sul ridimensionamento della forza della classe operaia. C’è chi ha parlato di “frammentazione” dei lavoratori, chi di imborghesimento della classe e chi addirittura di “fine del lavoro”. Basti dire che, per quanto varie, ciascuna di queste teorie sottintende lo stesso identico assunto: venuto meno il ruolo centrale del proletariato, Marx è superato e non ha più senso parlare di lotta di classe.
L’idea che il proletariato, a differenza di quanto prospettato da Marx, sia in diminuzione viene sostenuta sulla base della falsa equazione tra proletariato e classe operaia industriale. Ma questa equazione è corretta? Il concetto di proletariato non coincide con quello di “classe operaia industriale”. Una classe è un gruppo di persone accomunate dal proprio rapporto con i mezzi di produzione ed il proletariato in particolare è quella classe che, non possedendo mezzi di produzione, è costretta a vendere la propria forza lavoro per vivere. Da questo punto di vista non solo il proletariato è enormemente più numeroso rispetto ai tempi di Marx, ma anche rispetto agli stessi anni ’60.
Per chiarire meglio quanto detto è opportuno rivolgere l’attenzione alla differenza che Marx pone tra il lavoro produttivo e quello improduttivo. Ricordiamo che nel sistema capitalistico i prodotti del lavoro umano assumono la forma di merci. Un prodotto in quanto merce assume un valore che non dipende dalla sua mera utilità ma dalla possibilità di essere scambiato con altre merci sul mercato. La determinazione del valore di una merce è data dalla quantità di forza lavoro occorsa per la produzione di quella merce. Una parte di questo valore viene corrisposta all’operaio sotto forma di salario, mentre l’altra costituisce il profitto del capitalista, o per meglio dire del capitale. Il lavoro produttivo è dunque quel lavoro che scambiato contro capitale produce plusvalore. Ciò significa che esso riproduce, accresciuta, la somma di valore che è stata spesa in esso, ossia che produce più lavoro di quanto ne riceve in forma di salario. Il lavoro improduttivo, invece, è lavoro che scambiato con denaro non produce un aumento del capitale. L’operaio di fabbrica, dunque è senz’altro un lavoratore produttivo. Ma che dire di tutte quelle figure, medici, insegnanti, gente impiegata nel terziario che a prima vista non sembrano direttamente collegate alla produzione di plusvalore e dunque di profitto per il capitale? Possono essere inclusi nell’alveo della classe operaia o devono restarne fuori?
Innanzitutto vorrei far notare come la differenza che intercorre tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo non è assolutamente una discriminante per dividere i proletari dalle altre classi sociali. Questa distinzione viene fatta dal punto di vista dell’accrescimento del capitale e non dal punto di vista di chi vende la propria forza lavoro. Ma quali possono essere i criteri per definire l’appartenenza alla classe operaia?
1) Bisogna arricchire direttamente un padrone per farne parte? Volgendo lo sguardo ad alcune attività lavorative ci si accorge immediatamente che la risposta ad una simile domanda deve essere negativa: gli insegnanti, gli infermieri, gli operatori di call center, anche quando non lavorano per alcun un padrone, appartengo alla classe perché a) sono costretti a vendere la propria forza lavoro per sopravvivere e b) contribuiscono alla produzione complessiva della ricchezza, risultato dello sforzo di tutti i lavoratori. L’istruzione o la cura della forza lavoro sono attività assolutamente necessarie perché la produzione delle merci possa essere realizzata.
2) Tutti gli sfruttati appartengono alla classe operaia? Basta pensare ai contadini poveri molto numerosi nei paesi sottosviluppati che non posseggono la terra per rispondere negativamente anche questa volta.
3) Poliziotti e preti non sono proprietari dei loro mezzi di produzione e sono salariati, appartengono, forse, alla classe? Ovviamente no, queste figure non producono ricchezza in alcun modo, mentre svolgono un ruolo di difesa dei privilegi della classe dominante e di conservazione del suo dominio.
Riassumendo, si può dire che la classe operaia è composta da tutti quei lavoratori che vendendo la propria forza lavoro per vivere, partecipano direttamente o indirettamente alla produzione complessiva della ricchezza sociale. Ma questo non è tutto. Una classe ha senso solo se contrapposta ad un’altra, solo se posta nella condizione di partecipare attivamente al divenire della storia. Definire e comprendere cosa è la classe operaia, capire chi ne fa parte, è, dunque, una questione della massima importanza, non solo per liberarsi dalle false ideologie che tentano di distogliere il proletariato dal suo compito storico e perpetuarne, così, lo sfruttamento, ma soprattutto perché, l’identità di classe è il maggior elemento di forza della classe stessa. Vedersi come proletari, sentire di non essere soli con la propria angoscia, la propria paura per il futuro, ma sapere di appartenere ad un corpo collettivo è l’elemento fondamentale che permette di scorgere una prospettiva alternativa al capitalismo e di sviluppare le armi necessarie che seppelliranno un sistema ormai in putrefazione, ossia la solidarietà e l’unità dei proletari.
19 aprile 2008 E.
Recentemente è stato assegnato il Premio Nobel per la pace a Mohammad Junus, un banchiere-filantropo che ha inventato un modo per rendere accessibili i prestiti a coloro che, a causa della loro povertà, non possono fornire garanzie alle banche normali. Junus è effettivamente un filantropo ed effettivamente le sue iniziative hanno portato un qualche sollievo alle disperate condizioni di povertà del Bangla Desh e di alcuni altri stati asiatici. Sta tentando di estendere queste iniziative in tutti i paesi poveri.
Come funziona? Prendiamo ad esempio un prestito fatto ad una donna del Bangla Desh per consentirle di comprare un telaio per tessere tela o per fabbricare indumenti di lana. Le garanzie di restituzione del prestito sono del tutto assenti; cionondimeno Junus concede il prestito sulla parola. L'interesse richiesto è minimo, 1-2% annuo e, spesso, questi prestiti vengono concessi senza scadenza. LA donna in questione lavora a casa sua, produce, si rivolge alla stessa banca per commercializzare i suoi manufatti e, spesso, è incoraggiata a mettersi in filiera con altre donne al fine di ottenere una efficace divisione del lavoro, in quanto ciascuna di esse realizza una parte del manufatto o anche provvede ad alcune operazioni indispensabili quali il lavaggio, la stiratura, l'appretto, ecc.
Una condizione per la concessione del prestito è quella che la donna di cui parliamo divenga poi azionista della stessa banca; in effetti, se ha ricevuto un prestito, poniamo di 100 dollari, dopo avere pagato lo stesso ed il piccolo interesse, deve impegnarsi a diventare azionista per l'importo del prestito ricevuto comprando azioni della banca per altri 100 dollari che le daranno un profitto pari all'interesse pagato.
In sostanza la donna ha ricevuto dalla banca 100 dollari e ne verserà alla stessa 201, 100 n restituzione, 1 di interesse, 100 di azioni.
Il meccanismo funziona perché richiama sul capitale della banca il lavoro di centinaia di migliaia di persone, forse milioni.
In passato anche in Italia esisteva il lavoro a domicilio. Molte casalinghe aiutavano il bilancio familiare fabbricando in casa capi di abbigliamento che poi andavano alle grandi ditte; queste, molto spesso, finanziavano l'acquisto della macchina necessaria e talvolta addirittura la davano in fitto alle lavoratrici. La ragione era che costava meno produrre i capi in questo modo, non vi erano spese di gestione (stabilimenti, energia, tasse, ecc.) il lavoro era al nero, puro cottimo e basta, i prezzi li faceva solo la ditta committente, prendere o lasciare. Tuttora il sistema è ancora in vigore (le cosiddette confezioniste a domicilio) alle stesse condizioni. Si producono in tal modo guanti di pelle, capi di abbigliamento, manufatti di lana, parti da assemblare di scarpe, borse, fiori di carta, spadini per capelli, ecc. Il livelli di sfruttamento sono pressoché disumani, in quanto i lavoranti a domicilio sono vincolati a quote di produzione ed a tempi di consegna che spesso li obbligano a lavorare fino a 14 ore al giorno. Vengono retribuiti a capo con un compenso spesso irrisorio e sotto ricatto di perdere questo lavoro in qualsivoglia momento.
Forse applicati alla miseria inenarrabile del Bangla Desh anche queste condizioni posso sembrare una fortuna, ma il fatto è che i livelli di auto-sfruttamento sono intensissimi.
Tuttavia i prestiti vengono quasi sempre restituiti ed le azioni della banca quasi sempre acquistate.
Il prestito viene anche concesso per piccole attività agricole come l'acquisto di galline, di un maiale, sementi, attrezzi agricoli minuti, ecc. Qui le condizioni sono un pò diverse, ancor più favorevoli, ma di poco.
E' difficile calcolare la massa-capitali della banca di Juus, diventata una delle 10 banche più floride al mondo. In un paese povero, come si comprende, non vi è liquidità perché non vi è risparmio. Ma con questo sistema di costituisce una considerevole massa li moneta liquida, disponibile sia ad allargare il campo di controllo della banca stessa si per investimenti di altro tipo.
Junus segue la filosofia Yogi e l'insegnamento di SRi Yukteswar, che fu il maestro di Yogananda (vedi sul web): vive poveramente, non possiede ville, yacht, auto, non ostenta ricchezza, non ha amanti o vizi: il personaggio è questo. Egli è effettivamente convinto di fare del bene ai poveri del mondo: il suo orizzonte economico è comunque il capitalismo. Forse spiritualmente è l'opposto del "Banchiere anarchico" descritto in un meraviglioso racconto di Fernando Pessoa (che vi invito a leggere); tuttavia egli agisce all'interno del campo del capitale finanziario, non può essere altrimenti. Forse la situazione in parte ancora pre-capitalistica dell'economia del Bangla Desh gli fa vedere tutto questo come un progresso. Ma, raggiunta una certa dimensione, la sua finanza entra in conflitto col capitale finanziario internazionale, ed è evidente che i suoi metodi non sono estendibili a paesi ad economia più avanzata. Finora è stato tollerato "a consolazione ed a mistificazione degli oppressi", come direbbe Lenin, ma le sue iniziative in America Latina si sono arrestate, mentre sono respinte in India ed in Cina.
Il fatto è che esse, pur estraendo parecchio plusvalore, sono meno efficaci dei metodi di sfruttamento applicati nel mondo. Quest'uomo, sotto molti aspetti, ricorda Tolstoij e la sua illusione di sfuggire al capitalismo mediante l'organizzazione di piccoli villaggi agricoli comunitari.
Su richiesta dei compagni della CCI di Napoli
19 aprile 2008, P.
20 aprile 2008
Cari Compagni, un’eccellente discussione-ricerca tenuta ieri a Napoli ha posto in chiaro due questioni vitali: carattere della crisi e la morfologia sociale del moderno proletariato. Non è poco, perché si tratta di acquisire due strumenti di lavoro politico indispensabili. Un terzo elemento che è emerso dalla discussione è il riconoscimento dei processi di autoformazione di elementi, ancora allo stato embrionale, di coscienza e di organizzazione.
Orbene, da ciò conseguono alcune questioni, la prima delle quali riguarda il modo in cui diviene possibile saldare i settori del proletariato industriale tradizionale a quelli nuovi che si sono venuti formando in questa fase. Una seconda questione riguarda le forme di lotta del moderno proletariato. Una terza riguarda la forma-partito, cioè come il partito dei comunisti deve attrezzarsi per intervenire all’interno del nuovo proletariato. L'incedere della crisi recessiva, le sue devastanti conseguenze, lo sconvolgimento che ne consegue ecc. pongono urgenza a dare risposte a queste domande, sia pure sotto forma sperimentale. I quesiti, come si vede non sono affatto di mera natura tecnico-tattica, anche se questo aspetto è importantissimo. Inoltre dalla stessa discussione è emersa la necessità di adottare linguaggi e forme di comunicazioni in grado di essere chiaramente percepiti dall’attuale proletariato.
Il fondo di queste domande è la preoccupazione che, in seguito alla crisi ed alle misure sempre più dure che i governi adotteranno per scaricarla sul proletariato, si possano avere fenomeni di ribellismo che, in assenza della funzione pedagogica del partito, possano o degenerare o subire disastrose sconfitte. Inoltre, in simili circostanze, è prevedibile che si ripresentino i partiti della sinistra borghese che sono stati estromessi dal parlamento in seguito alle elezioni, sempre con lo scopo di disarticolare le lotte ed indirizzarle verso obiettivi posticci. Infine bisogna considerare che molti elementi in buona fede che hanno militato in questa sinistra e che hanno compreso in parte il suo ruolo funzionale alla strategia generale di controllo del proletariato da parte della borghesia, si trovano in uno stato di demoralizzazione e di perplessità sul quale sarebbe necessario intervenire energicamente al fine di riqualificarli e recuperarli al campo proletario. Siamo ad un nuovo "Che fare?" e bisogna rispondere.
Saluti fraterni, P.
Cari compagni, grazie a tutti voi, alla vostra partecipazione e al vostro contributo, la giornata del 19 aprile scorso è stata veramente un momento di incontro, di discussione e di confronto tra proletari, (lavoratori, futuri lavoratori o pensionati). Un momento a cui noi attribuiamo una grande importanza per i motivi che vi abbiamo già detto e che vogliamo riprendere in questa lettera a tutti voi. Oggi, lentamente, ma con sempre maggiore forza, spinti da condizioni di vita e di lavoro sempre più intollerabili, minoranze di proletari escono allo scoperto con l’intento di capire in che mondo vivono, quali sono le prospettive, chi sono i naturali alleati in una eventuale lotta da assumere, chi sono i nemici da affrontare in questa lotta. In altri termini la stessa discussione che si è sviluppata tra di voi nella giornata del 19 aprile. Dunque la prima cosa di cui dobbiamo prendere coscienza è che in quella sala noi non eravamo soli, ma eravamo virtualmente in compagnia di migliaia e migliaia di individui presenti in tutto il mondo che stanno facendo esattamente la stessa cosa. Ma ancora possiamo dire che queste migliaia di persone sono l’espressione di milioni di persone che vivono esattamente lo stesso sentimento di insofferenza e che trovano ancora qualche difficoltà per emergere dal torpore dell’ideologia borghese e dal controllo dei mass media. In altri termini dobbiamo vivere questi momenti come l’espressione di una classe che riprende consapevolezza del suo destino storico e che cerca di forgiare le sue armi autentiche, la sua unità e la sua coscienza, per affrontare la lotta storica del futuro. A tale riguardo noi vi invitiamo a dare uno sguardo a quello che succede al di fuori del nostro piccolo steccato e a prendere conoscenza non solo delle lotte ma anche di tutte le iniziative che si producono in altri paesi del mondo. In tal senso vi suggeriamo la lettura di alcuni articoli che abbiamo di recente pubblicato ma che non sono per il momento disponibili in lingua italiana. Cercheremo col tempo di fare delle traduzioni per rendere questi testi meglio fruibili.[1]
Abbiamo anche insistito, in occasione dell’incontro del 19 aprile, sul fatto che quella era una riunione vostra e che la funzione della CCI era solo di rendere possibile quella riunione e di lavorare alla sua migliore riuscita. Anche su questo pensiamo che dobbiamo esprimere una insistenza. Che significa che la CCI si dà da fare, mette in moto le sue risorse, le sue energie, per realizzare una riunione che definisce una riunione “non della CCI ma dei singoli partecipanti”? Non c’è qualcosa di strano in tutto questo? Effettivamente è alquanto inedito, nel periodo attuale, sentire cose di questo tipo e - se non fosse per la stima che i vari compagni hanno nella CCI - questa operazione risulterebbe, alla luce delle pratiche politiche a cui assistiamo oggi anche tra alcune organizzazioni di una certa sinistra, alquanto sospetta. In realtà invece questa iniziativa intende rispondere, da una parte, a quella richiesta di chiarezza politica che è stata evocata prima, dall’altra riprendere quella tradizione che è stata sempre presente nei partiti operai e che corrisponde al fatto di rendere disponibili le sedi di partito come punto di incontro per i proletari per discussioni o incontri di vario genere. Quindi il fatto che la riunione abbia avuto luogo per iniziativa della CCI risponde al fatto che, oggi come oggi, la classe è ancora intimidita, fa ancora fatica a cacciare la testa fuori dal sacco in cui l’hanno rinchiusa. Noi certamente torneremo a intraprendere tali iniziative, ma va da sé che, a mano a mano che il proletariato prenderà fiducia in sé stesso e comincerà a organizzare riunioni di sue iniziativa, queste riunioni promosse dalla CCI potranno perdere di significato fino a rendersi del tutto inutili.
Come è andata dunque questa riunione del 19 aprile? Diciamo senz’altro bene o anche benissimo, se si considera che è solo la prima esperienza di questo tipo in Italia. La riunione ha visto una fase preparatoria in cui una serie di compagni esterni alla CCI si sono implicati - assieme alla CCI - a preparare le presentazioni politiche, organizzare la scaletta della giornata, organizzare i team responsabili delle conclusioni, provvedere materialmente a preparare del cibo cucinato da consumare nella pausa pranzo della giornata. Su questi vari piani abbiamo potuto verificare la presenza di un autentico spirito militante da parte dei compagni nel senso che l’iniziativa è stata vissuta veramente come una iniziativa di tutti e il lavoro che ognuno ha svolto è stato dato a piene mani e con grande spirito di dedizione perché si avvertiva effettivamente l’importanza di quanto si stava compiendo. Naturalmente siamo anche molto soddisfatti della discussione, svolta a partire, lo ripetiamo, da presentazioni preparate da compagni non facenti parte della CCI e che, a quanto ne sappiamo, non hanno alcuna esperienza politica organizzata alle spalle. Ottime le presentazioni, ottima la discussione, che ha visto la partecipazione di tutti i partecipanti. Sulla discussione però si è notato un divario tra il primo tema e il secondo, dovuto forse in parte alla stanchezza che è subentrata ad un certo punto della giornata, ma forse, come è stato detto nelle conclusioni della CCI alla riunione, anche al fatto che il tema sulla classe operaia, per come era stato formulato nell’elenco proposto dalla CCI, poteva dare spunto ad una lettura in chiave esclusivamente sociologica e non politica. Per cui non crediamo che questa debolezza che ha avuto la discussione nella seconda parte sia da attribuire ai compagni presenti ma piuttosto ad una formulazione non felice di un tema che resta tuttavia importante.
Un elemento che noi della CCI abbiamo potuto apprezzare in questa riunione è il fatto che - grazie all’organizzazione dell’evento, che si è svolto in un posto gradevole, dove è stato possibile fare uno spuntino all’aperto nel giardino esterno con tutte le cose buone preparate dalle compagne, con delle pause durante le quali i compagni si sono potuti rilassare e chiacchierare tra di loro, concludendo il tutto con una passeggiata e una pizza per tutti - si è stabilita tra tutti un’atmosfera di cordialità e di fratellanza. Questo non è un aspetto minore nella misura in cui il proletariato, per realizzare la sua missione storica, dovrà sì realizzare la sua unità e la sua coscienza, ma questo lo potrà fare recuperando pienamente la sua identità di classe, ritrovando lo spirito di solidarietà e di fiducia reciproca che esisteva al suo interno nel XIX secolo e che è stato distrutto dallo stalinismo e dalla controrivoluzione.
Per finire: come continuare? Tanti compagni ci hanno chiesto subito di promuovere a breve un’altra riunione di questo tipo. Noi siamo orgogliosi naturalmente di come è stata recepita questa iniziativa e sicuramente promuoveremo una prossima riunione analoga a quella di aprile, anche se è preferibile aspettare ottobre prossimo per permettere una buona preparazione. Ma vogliamo pure dire che la stessa riunione del 19 aprile non è finita lì: occorre infatti che tutta la ricchezza della riunione sia pienamente sfruttata dai compagni. Come? Anzitutto ricordiamo che molti punti della discussione non sono stati del tutto sviluppati, alcune cose sono state accennate ma richiedono obiettivamente delle argomentazioni più sostanziose. Ricorderete che, durante la discussione, noi abbiamo stimolato tutti i compagni presenti a non fermarsi alle affermazioni o alle citazioni di Tizio o di Caio, ma a portare delle argomentazioni convincenti a sostegno delle diverse tesi sostenute. E’ chiaro che questo non è sempre facile sul momento, ma ciò non toglie che la discussione non possa continuare al di là di quella specifica giornata. Ad esempio ricorderete che si è sviluppata tutta una discussione sulla questione del microcredito e della banca di Yunus, discussione sulla quale c’era una difficoltà a convincersi fino in fondo per mancanza di elementi di conoscenza. E’ perciò che abbiamo chiesto al compagno che aveva portato avanti la critica al microcredito di produrre un piccolo testo da mettere a disposizione di tutti gli altri. Sulla base della discussione effettuata e di questo testo, altri compagni potranno sviluppare le loro riflessioni così che la discussione potrà continuare tramite scambio di mail. Un’altra questione su cui varrebbe la pena di tornare è quella delle coabitazioni, su cui ci sono stati degli interventi non sempre del tutto omogenei. A tal proposito sarebbe opportuno tornare sul tema a partire da una migliore definizione delle reciproche posizioni (…) A presto rivederci (…)
25 maggio 2008 Un abbraccio a tutti, i compagni della CCI.
[1] Vedi « Salut au "Comité Communiste de Réflexion" de Toulouse [5] »
Ancora una volta il Caucaso è stato messo a ferro e fuoco. Nello stesso momento in cui Bush e Putin assaggiavano dei dolci a Pechino e assistevano praticamente fianco a fianco alla cerimonia di apertura dei Giochi olimpici, preteso simbolo di pace e di riconciliazione tra i popoli, il presidente georgiano Saakachvili da una parte - protetto dalla Casa bianca - e la borghesia russa dall’altra, inviavano i loro soldati per compiere un terribile massacro di popolazioni. Questa guerra ha dato luogo ad una nuova quasi-«epurazione etnica» da ognuno dei due lati di cui è impossibile valutare esattamente il numero di vittime (diverse migliaia di morti) di cui buona parte popolazione civile.
Una nuova dimostrazione della barbarie guerriera del capitalismo
Ognuno dei due campi accusa l’altro di essere il fautore della guerra o si giustifica di aver agito in quanto posto con le spalle al muro. E’ in risposta ad una serie di provocazioni della borghesia russa e delle sue frazioni separatiste in Ossezia che il presidente georgiano Saakachvili ha creduto di poter scatenare impunemente la brutale invasione della minuscola provincia di Ossezia del sud nella notte tra il 7 e l’8 agosto con le truppe georgiane appoggiate dall’aviazione ed ha ridotto in un batter d’occhio in cenere la città di Tskhinvali, “capitale” della provincia separatista filo-russa.
Intanto Mosca ha fatto entrare in scena delle milizie ai suoi ordini nell’altro focolare separatista della Georgia, l’Abhasia che hanno investito la valle di Kodori; le forze russe hanno direttamente replicato in modo così selvaggio e barbaro bombardando intensamente molte città georgiane (fra cui il porto di Poti sul Mar Nero, interamente distrutto e saccheggiato, come pure la sua base navale e soprattutto Gori, di cui la maggior parte degli abitanti ha dovuto fuggire sotto un bombardamento a tappeto).
In un lampo, i carri armati russi hanno occupato un terzo del territorio georgiano, minacciando anche la capitale, con i blindati che avanzavano pavoneggiandosi parecchi di loro a qualche decina di chilometri da Tbilisi, senza che - alcuni giorni dopo la tregua - abbiano anche solo accennato al minimo ritiro delle truppe. Da entrambi i lati, si riproducono le stesse scene di orrore e di macelli. La quasi totalità della popolazione di Tskhinvali e dei suoi dintorni (30.000 profughi) è stata costretta a fuggire dalla zona dei combattimenti. Secondo il portavoce dell’Alto commissariato ai profughi, nell’insieme del paese il numero di profughi, spaventati e privati di tutto (fra cui la maggioranza degli abitanti di Gori), arriva in una settimana 115.000 persone.
Il conflitto covava da tempo. L’Ossezia del sud come l’Abhasia, regioni infestate di contrabbandieri e di trafficanti di tutti i tipi, sono due minuscole repubbliche autoproclamate filo-russe, sulle quali la Russia esercita un controllo permanente. Esse sono diventate, da quasi da 20 anni, a partire dalla proclamazione di indipendenza della Georgia ed in modo crescente con le guerre successive, il teatro di pressioni come di conflitti incessanti e di macelli tra i due stati vicini. La strumentalizzazione di minoranze russe in Georgia per giustificare una politica imperialista aggressiva non è certamente una pratica politica che si può far risalire alla sola Germania dell’epoca nazista (come per l’episodio dei Sudeti in Cecoslovacchia), perché è stata la pratica di tutto il 20° secolo. Come dichiarava uno specialista nel numero di Le Monde del 10 agosto “L’Ossezia del sud non è né un paese, né un regime. E’ una società mista che s’è costituita tra i generali russi e dei banditi osseti per fare denaro sullo sfondo del conflitto con la Georgia”.
Il ricorso al nazionalismo più esasperato e all’avventurismo militare è, per la borghesia, sempre il mezzo favorito per tentare di regolare i problemi di politica interna. Mentre il presidente georgiano era stato trionfalmente eletto con il 95% dei voti all’indomani della “rivoluzione delle rose” dell’autunno 2003 diretta contro l’ex ministro “sovietico” Shevardnadze, è stato rieletto con difficoltà all’inizio del 2008, malgrado il sostegno attivo degli Stati Uniti, essendo fortemente screditato dalle sue frodi e dal suo regime autocratico. Questo partigiano incondizionato di Washington ereditava d’altronde uno Stato interamente sostenuto fin dalla sua creazione nel 1991 dagli Stati Uniti come testa di ponte “del nuovo ordine mondiale” da parte di Bush padre. Ciò l’ha probabilmente condotto a sovrastimare il sostegno che avrebbero potuto portargli le potenze occidentali nella sua impresa, a cominciare dagli Stati Uniti. Se la Russia de Putin, tendendo una trappola a Saakachvili in cui quest'ultimo è caduto, ha colto un’occasione formidabile per mostrare i muscoli e restaurare la sua autorità nel Caucaso (che costituisce una vera scheggia piantata nel tallone di ferro russo), questa è in risposta all’accerchiamento della Russia con le forze della NATO che si è prodotto dal 1991 in poi. Questo accerchiamento ha raggiunto un livello inaccettabile per la Russia con la recente richiesta della Georgia e dell’Ucraina, appoggiata dagli Stati Uniti, di raggiungere la NATO. Ugualmente e soprattutto la Russia non può tollerare il programma di installazione dello scudo anti-missili previsto in particolare in Polonia e nella Repubblica Ceca, programma che essa considera, non senza ragioni, diretto in realtà non contro l’Iran ma contro la Russia. La Russia ha approfittato del fatto che la Casa Bianca, le cui forze militari si trovano impantanate in Iraq ed in Afghanistan, ha le mani legate per lanciare una controffensiva militare nel Caucaso, qualche tempo dopo aver ristabilito a gran pena la sua autorità nelle guerre atrocemente sanguinose in Cecenia
Ma la responsabilità di questa guerra e di queste carneficine non si limita ai suoi protagonisti più diretti. Tutte le potenze imperialiste che oggi ipocritamente fingono di piangere sulla sorte della Georgia hanno tutte le mani inzuppate nel sangue per le peggiori atrocità, sia che si tratti degli Stati Uniti riguardo all’Iraq nelle due guerre del Golfo, o della Francia per il genocidio in Ruanda nel 1994 o ancora della Germania che ha avuto un ruolo determinante nello scoppio della terribile guerra dei Balcani del 1992.
Ovviamente, la fine della guerra fredda e della politica dei blocchi non ha visto da nessuna parte “l’era di pace e di stabilità” nel mondo, dall’Africa al Medio Oriente, passando per i Balcani e adesso per il Caucaso. Lo smantellamento dell’ex-impero del blocco staliniano non ha portato che allo scatenarsi di nuovi appetiti imperialisti ed ad un caos guerriero crescente.
La Georgia ha costituito, d’altra parte, una sfida strategica importante che ha spinto molte potenze a corteggiarla in modo interessato nel corso di questi ultimi anni. In precedenza semplice corridoio di transito del petrolio russo dal Volga e dagli Urali sotto l’era staliniana, il Mar Nero è diventato dopo il 1989 la via reale di sfruttamento delle ricchezze del Mar Caspio. Nel bel mezzo di questa zona, la Georgia è così diventata un centro principale per il petrolio ed il gas del Mar Caspio dell’Azerbaigian, del Kazakistan e del Turkmenistan e, dal 2005, i 1800 km dell’oleodotto BTC costruiti sotto il patronato diretto degli americani collega il porto azero di Baku al terminal turco di Ceyhan passando per Tbilisi, mettendo così fuori gioco la Russia dai processi di incanalamento del petrolio del Caspio. Per Mosca, c'è la minaccia imminente di vedere l’Asia centrale, che concentra il 5% delle riserve mondiali di petrolio e di gas, porsi in alternativa alla sovranità della Russia a proposito dell’approvvigionamento di gas per l’Europa. Tanto più che l’Unione Europea sogna a sua volta di realizzare un progetto di gasdotto di 330 chilometri battezzato Nabucco, parallelo al tracciato dell’oleodotto BTC, che colleghi direttamente i campi di gas dell’Iran e dell’Azerbaigian all’Europa attraverso la Turchia, mentre la Russia, il cui nuovo presidente Medvedev è un vecchio proprietario della Gazprom, architetta in risposta un progetto titanico concorrente che attraverserebbe il Mar Nero per raggiungere l’Europa, il cui costo è stimato in 20 miliardi di dollari.
Verso una nuova guerra fredda?
Le due ex-teste di blocco, la Russia e gli Stati Uniti, si ritrovano così di nuovo pericolosamente faccia a faccia, ma in un quadro di relazioni interimperialiste completamente diverso dal periodo della guerra fredda quando la disciplina di blocco non falliva. All’epoca, ci avevano a lungo fatto credere che il conflitto tra i due blocchi rivali fosse anzitutto l’espressione di una lotta ideologica: la lotta delle forze della libertà e della democrazia contro il totalitarismo, assimilato al comunismo. Oggi, si vede bene come quelli che ci avevano promesso “una nuova era di pace e di stabilità” ci hanno ingannato, e che lo scontro che esiste oggi tra le varie potenze esprime solo una concorrenza bestiale e mortale per dei sordidi e meschini interessi imperialisti che sorgono senza più mascheramenti.
Oggi, le relazioni tra nazioni sono dominate dal ciascuno per sé. In effetti, “la tregua” non fa che ratificare il trionfo dei padroni del Cremlino e la superiorità della Russia sul terreno militare in Georgia, comportando una quasi capitolazione che umilia la Georgia (la cui integrità territoriale non è più garantita) alle condizioni dettate da Mosca. Così, questa parodia delle “forze di pace” installate in Ossezia del sud ed in Abhasia esclusivamente riservate allo stesso esercito russo, equivale ad un riconoscimento ufficiale dell’installazione permanente di reali truppe di occupazione russa in pieno territorio georgiano. La Russia ha d’altronde profittato del suo vantaggio militare per reinstallarsi in Georgia con le sue truppe dispiegate su quasi tutto il territorio georgiano, a scapito della “Comunità internazionale”.
E’ dunque un nuovo clamoroso insuccesso che subisce “il padrino” della Georgia, la borghesia americana. Mentre la Georgia ha pagato un tributo pesante (un contingente forte di 2000 uomini inviati in Iraq ed in Afganistan) per la sua fedeltà agli Stati Uniti, in cambio lo zio Sam non ha saputo servire altro al suo alleato che un sostegno morale e prodigare inutili condanne verbali alla Russia senza potere levare neanche un dito per difenderla. L’aspetto più significativo di questo indebolimento è che la Casa Bianca non ha alcun altro piano da proporre in alternativa a questo accordo bislacco “di tregua” costruito in maniera raffazzonata e che è costretta ad avallare “il piano europeo”, e peggio ancora un piano le cui condizioni sono dettate dagli stessi Russi. Più umiliante ancora è il fatto che la sua rappresentante, Condoleeza Rice, si è dovuta spostare per forzare il presidente georgiano a firmarlo. Tutto ciò la dice lunga sull’impotenza americana e sul declino della prima potenza mondiale. Questa nuova tappa del suo indebolimento non può che contribuire a discreditarla ulteriormente agli occhi del mondo e preoccupare gli stati che sono costretti a far conto sul suo appoggio, come la Polonia o l’Ucraina.
Se gli Stati Uniti mostrano la loro impotenza, l’Europa illustra in occasione di questo conflitto il livello raggiunto dal ciascuno per sé. Così, di fronte alla paralisi americana, è la “diplomazia europea” che è entrata in azione. Ma è significativo che sia il presidente francese Sarkozy ad esserne il portavoce come presidente in carica dell’Unione europea, laddove questi non rappresenta spesso che sé stesso nelle sue prestazioni esasperanti, privo di ogni coerenza e campione della navigazione a vista sulla scena internazionale. Ancora una volta Sarkozy si è affrettato a ficcare il suo naso nel conflitto soprattutto per vanagloria. Ma il famoso “piano di pace francese” (egli non ha potuto mantenere a lungo l’illusione di farlo passare per un grande successo diplomatico nazionale o europeo) non è che un ridicolo simulacro che maschera male il fatto che le sue condizioni sono puramente e semplicemente imposte dai Russi.
Quanto all’Europa, come potrebbe trarre profitto dal momento che vi si ritrovano posizioni ed interessi diametralmente opposti. Come potrebbe avere un minimo di unità nelle sue file con la Polonia e gli stati baltici - difensori entusiasti della Georgia per condizionamento viscerale anti-russo da un lato - e la Germania dall’altro che, per opporsi alla volontà di dominio americano nella regione, è stata fra gli oppositori più risolti all’integrazione della Georgia e dell’Ucraina nella NATO? Se recentemente Angela Merkel ha fatto uno spettacolare voltafaccia andando a garantire al presidente georgiano il proprio sostegno a questa candidatura, è perché vi è stata costretta dall’impopolarità crescente della Russia che si comporta con tracotanza in tutta la Georgia come se fosse un territorio conquistato, ormai in balia della riprovazione generale “della Comunità internazionale”. In qualche modo l’Europa fa pensare ad un canestro di granchi, con la Francia che cerca di fare cavaliere solo e che, cercando di salvare capra e cavolo, ha appena reso un grande servizio a Putin e la Gran Bretagna, che ha preso subito la difesa della Georgia per meglio opporsi al suo grande rivale, la Germania.
Quanto al vantaggio tirato dalla Russia stessa, questo risulta molto limitato. Certamente, questa rafforza a breve termine la sua posizione imperialista non solo nel Caucaso e si fa temere di nuovo sulla scena mondiale. La flotta russa si è resa padrona dei mari e minaccia di colare a picco tutte le imbarcazioni che se la dovessero prendere con lei nella regione. Benché la Russia sia riuscita a serrare le sue posizioni nel Caucaso, questa vittoria militare è insufficiente a dissuadere gli USA a portare avanti il suo progetto di scudo anti-missili sul suolo europeo: al contrario, essa spinge la Casa Bianca ad accelerarne lo sviluppo, come provato dall’accordo con la Polonia per una loro installazione sul suolo polacco. D’altronde, come rappresaglia, il vice capo di stato maggiore russo ha minacciato la Polonia designandola come obiettivo prioritario del suo arsenale nucleare.
Di fatto, l’imperialismo russo non è tanto interessato all’indipendenza o all’annessione dell’Ossezia del sud e dell’Abhasia, quanto a ritrovarsi in posizione di forza per tirare i fili dei negoziati che si dovranno condurre sull’avvenire della Georgia. Ma al fondo, la sua aggressività bellicosa e l’enormità dei mezzi militari messi in campo in Georgia risvegliano i vecchi timori che essa ispirava ai suoi rivali imperialisti e si ritrova diplomaticamente più isolata che mai per rompere il suo accerchiamento.
Ormai nessuna potenza può pretendere di essere padrona o di controllare la situazione e le oscillazioni o le inversioni di alleanze alle quali assistiamo e che traducono bene una destabilizzazione pericolosa delle relazioni imperialiste.
Non vi è possibilità di pace nel capitalismo
Viceversa, quello su cui non c’è alcun dubbio è che tutte le potenze, grandi o piccole, mostrano lo stesso interesse e la stessa sollecitudine per svolgere un ruolo ed occupare un posto sul terreno diplomatico in una regione del mondo che concentra interessi geostrategici di grande importanza. Ciò sottolinea la responsabilità di tutte le potenze, grandi o piccole che siano, in questa situazione. Con il petrolio ed il gas del Caspio o dei paesi dell’Asia centrale spesso di lingua turca, sono impegnati gli interessi vitali della Turchia e dell’Iran in questa regione del mondo, ma in realtà è il mondo intero ad essere coinvolto nel conflitto. Ci si può tanto più facilmente servire di uomini come carne da cannone nel Caucaso visto che questa regione è un mosaico di grovigli multietnici: per esempio, gli Osseti sono di origine iraniana … Con tale frazionamento non è difficile per questa o quella potenza interessata attizzare il fuoco guerriero del nazionalismo. Anche il passato di dominio della Russia pesa fortemente e prefigura altre tensioni imperialiste più gravi e più ampie ancora per il futuro: vedi ad esempio l’inquietudine e la mobilitazione degli stati baltici e soprattutto dell’Ucraina, potenza militare con il suo arsenale nucleare di tutt’altra importanza che quello della Georgia.
Questa guerra aumenta il rischio di infiammare e destabilizzare paesi interi - e non solo a livello regionale - perché avrà in avvenire conseguenze inevitabili a livello mondiale sull’equilibrio delle forze imperialiste. “Il piano di pace” è pura finzione, è della polvere negli occhi che concentra in realtà tutti gli ingredienti di una nuova pericolosa scalata guerriera per in futuro, minacciando così di aprire una catena continua di focolai di guerra dal Caucaso al Medio Oriente.
Si assiste ad un accumulo di rischi esplosivi in molte zone molto popolate del pianeta: il Caucaso, il Kurdistan, il Pakistan, il Medio Oriente, ecc. E non basta: le potenze imperialiste dimostrano ancora una volta la loro incapacità a regolare i problemi ed attizzano al contrario i focolai di guerra, ma ogni nuovo conflitto aperto esprime una dimensione superiore a livello di sfide e di scontri. Ciò viene a dimostrare ancora una volta che il capitalismo non ha più nulla da offrire oltre allo scatenarsi della barbarie guerriera e delle carneficine di cui frazioni sempre più ampie di popolazione sono ostaggio e fanno le spese. Il balletto degli sciacalli sulla Georgia non è che un anello nella catena del sanguinoso e mostruoso sabba guerriero che il capitalismo non cessa di ballare nel mondo.
W. (17 agosto 2008)
In realtà c'è stato un cambiamento di periodo storico dal Maggio ‘68 dove lo sciopero di massa di più di 9 milioni di operai ha espresso la fine del lungo periodo di controrivoluzione subito dal proletariato dopo lo schiacciamento dell'ondata rivoluzionaria del 1917-23. Gli avvenimenti del Maggio ‘68 hanno aperto una nuova prospettiva di sviluppo internazionale della lotta di classe.
Su questo tema invitiamo i compagni a partecipare ad una RIUNIONE PUBBLICA che si terrà:
▪ a Milano sabato 17 maggio, ore 16.00, presso la libreria Calusca, via Conchetta 18
▪ a Napoli sabato 31 maggio, ore 17 presso la libreria Jamm, via San Giovanni Maggiore Pignatelli 35Beppe Grillo è soddisfatto! “Il V2-day è stato un successo perché quasi 500 piazze in Italia e all’estero hanno partecipato, perché sono state raccolte 1.300.000 firme in un giorno, perché 120.000 persone hanno ascoltato per sei ore in piedi sotto un caldo estivo economisti, ambientalisti, operai metalmeccanici e anche Beppe Grillo” (da La Settimana sul blog di B. Grillo). Effettivamente può ben essere soddisfatto! E’ riuscito ancora una volta a fungere da valvola di sfogo alla rabbia e alla sfiducia di migliaia e migliaia di lavoratori e di giovani verso una classe politica il cui marciume e la cui incapacità a dare un minimo di stabilità sociale ed economica alla stragrande maggioranza della popolazione diventa sempre più evidente.
Anzi, ha fatto molto di più. E’ riuscito, temporaneamente, da una parte ad incanalare questa rabbia sui binari della legalità borghese, dall’altra a convertirla in rinnovata fiducia verso la classe dirigente e le sue istituzioni. Qual è infatti la “grande battaglia” che Grillo porta avanti con i tre referendum sull’informazione? “Libera informazione in libero Stato” perché, come ci spiega Grillo a proposito delle emittenti televisive, “le frequenze radiotelevisive sono in concessione, significa che sono di proprietà dello Stato, che può decidere, liberamente, a chi assegnarle. Le frequenze sono quindi dei cittadini, di nostra proprietà”. Per cui, come ci spiega anche Travaglio sullo stesso blog, noi “cittadini” dovremmo essere solidali e batterci a fianco di un Di Stefano, proprietario dell’emittente Europa7 che, poverino, “continua a rimanere al palo con la sua televisione, per la quale ha investito una marea di soldi per creare un centro di produzione di 22.000 metri sulla Tiburtina, otto studi di registrazione, gli uffici, le tecnologie, la library con tremila ore di programmi”, perché non ha ottenuto la concessione, mentre Rete4 di Berlusconi trasmette senza aver avuto la concessione. Quale ingiustizia!
Dovremmo batterci per abolire l’albo dei giornalisti in modo da “essere tutti giornalisti” e avere così la possibilità di dire ognuno la sua. Questa è democrazia!
E come dovremmo fare questa battaglia? Mettendo nelle mani della Corte di Cassazione le nostre firme confidando nella giustizia e nel rigore delle leggi dello Stato.
Qualcuno potrebbe obbiettare: “ma voi sottovalutate l’importanza dell’informazione nella presa di coscienza del marciume di questa società e della necessità di reagire a questo”.
Niente affatto! Ci chiediamo solo come mai, mentre sul blog di Grillo, su quello di Travaglio e su quello della “compagna” Franca Rame si spendono ogni giorno milioni di parole sulle malefatte di questo o quel politico, sulle loro magagne e gli affari loschi, sulla “giustizia” che non funziona, mentre si fa tanto clamore sul fatto che Berlusconi vuole abolire le intercettazioni telefoniche, non si spende mezza parola sulle lotte dei lavoratori che in Germania, in Inghilterra, in Francia, in Egitto, in Turchia, in Cina stanno effettivamente reagendo contro le insostenibili condizioni economiche in cui questo sistema ci costringe a vivere?
D’altro canto, mai come in questo momento ci sono state tante trasmissioni di denuncia del malcostume politico, delle menzogne o delle verità occultate sulla gestione criminale da parte delle istituzioni pubbliche pagate a caro prezzo dalla popolazione sia in termini economici che di salute. Da Report ad Ambiente Italia, da Annozero a Matrix e persino da una trasmissione come Le Iene, senza contare i libri e la stampa “alternativa”, siamo quotidianamente bombardati dalle “denunce”. Tutto questo, contrariamente alle aspettative, va benissimo alla classe dominante perché il messaggio che ne viene fuori è: risolvere i problemi si può individuando i responsabili, e per fare questo occorre stringersi intorno al nostro Stato, perché lo Stato siamo noi cittadini; per cui difendiamo la vera democrazia contro gli egoismi ed il malaffare di una classe politica di corrotti. E la democrazia serve proprio a questo: tutti possono dire tutto, tranne che mettere in discussione il sistema, il suo Stato con la sua Costituzione e le sue leggi.
Travaglio, nel suo intervento critico sul discorso di Napolitano per il 25 aprile, ha detto che in questo discorso: “… è tutto sconvolto, non solo il vocabolario delle nostre istituzioni. È sconvolta la logica, è sconvolto l’ordine pubblico, è sconvolta la Costituzione. Di fatto vengono sospese le garanzie costituzionali, vengono vietate le manifestazioni come simboli di complicità con la monnezza e viene espropriata la magistratura del suo diritto-dovere di perseguire i reati e presto non avremo più nemmeno il controllo delle intercettazioni” (riportato sul blog di Grillo). Dov’è la menzogna? Nel far credere che in questo momento la borghesia stia sconvolgendo la sua stessa logica, che sia in atto una “virata fascista”. La logica borghese è invece ben salda: le “garanzie costituzionali” di cui parla Travaglio sono appunto lo strumento che giustifica l’uso della polizia quando le proteste, come a Chiaiano, diventano “eccessive”, mandando all’ospedale e in galera chi manifesta, in nome della salvaguardia dell’ordine pubblico e degli interessi dei “cittadini”[1]. Cosa ci chiede Travaglio? Di identificarci con queste “garanzie costituzionali” e di farci difensori del “diritto-dovere di perseguire i reati” della magistratura, in altri termini di farci difensori di quest’altro strumento di repressione dello Stato che condanna, mette in galera e perseguita anche chi cerca di difendersi dagli attacchi sul posto di lavoro, come gli operai della Fiat di Pomigliano recentemente.
Come abbiamo già detto nel nostro articolo sul V-day dello scorso ottobre[2], anche il V-day del 25 aprile e questo “movimento” che vi ruota intorno non è che: “Un appello rivolto soprattutto alla nuova generazione che invece di sviluppare una comprensione della barbarie di questa società e trovare la via per combatterla, è chiamata a soccorrerla partecipando alla sua gestione, spacciando la partecipazione per libertà. E’ chiamata a difendere la democrazia, cioè l’arma di mistificazione più potente che ha in mano la borghesia, …, quando l’unica possibilità per cambiare veramente le cose è la lotta autonoma e gestita in prima persona dai proletari di oggi e di domani.”
Eva, 11 giugno 2008
[1] Ricordiamoci del G8 del 2001 a Genova quando mentre si lasciavano indisturbati i Black block a spaccare vetrine e bruciare auto, si pestavano a sangue giovani inermi e un giovane venne ucciso, o quando nel marzo dello stesso anno a Napoli la manifestazione contro il Global Forum fu strategicamente ingabbiata dalla polizia in piazza Municipio per poter pestare con calci e pugni chi capitava, senza neanche avere la scusa delle “provocazioni esterne”, e qui c’era anche allora una giunta di “sinistra”.
Questa estate è stata segnata da un nuovo scatenamento della barbarie guerriera del capitalismo. In Georgia, Afganistan, Libano, Algeria, Pakistan, sono state essenzialmente le popolazioni civili che sono state selvaggiamente massacrate nei conflitti armati tra le differenti bande imperialiste. E sono dei giovani, appena usciti dall’adolescenza, che sono stati inquadrati per servire da carne da cannone negli attentati terroristi e negli interventi militari delle piccole e grandi potenze. Dappertutto il capitalismo semina la morte! Dappertutto la classe dominante ci trascina, giorno dopo giorno, nel fango e nel sangue!
E una volta ancora è in nome della «pace», della lotta contro il «terrorismo», della difesa della «civilizzazione», dei «diritti dell’uomo» e della «democrazia», che la borghesia, negli Stati Uniti come nei paesi europei, partecipa allo scatenamento di questo caos sanguinoso. Pretendendo di fare i giustizieri in Georgia, in Iraq o in Afganistan, le grandi potenze non hanno altro obiettivo, in realtà, che difendere i propri interessi di banditi imperialisti sulla scena internazionale.
Le promesse di Bush padre su un «nuovo ordine mondiale», che avrebbe dovuto aprire una nuova epoca di «pace» e di «prosperità» dopo il crollo del blocco dell’est, appaiono ora sempre più chiaramente per quello che erano: una enorme menzogna! E’ in nome di questo «nuovo ordine mondiale» che fu scatenata la prima crociata dell’Occidente «civilizzato» contro la «barbarie» del regime di Saddam Hussein: l’operazione «Tempesta nel deserto» del 1991, che ha permesso allo Stato americano di sperimentare i suoi nuovi armamenti (in particolare le bombe a decompressione che rivoltavano i soldati irakeni come dei guanti). In realtà, questo intervento militare massiccio delle grandi potenze «democratiche» non ha fatto che aprire un vaso di Pandora e aggravare il caos mondiale.
La follia mortale del capitalismo non può che continuare a svilupparsi. Poiché questo sistema decadente è basato sulla divisione del mondo in nazioni concorrenti, con interessi antagonisti, esso porta con sé la guerra. Il solo mezzo per mettere fine alla barbarie guerriera è farla finita con il capitalismo. E questa prospettiva di rovesciamento del capitalismo non è un compito impossibile da realizzare.
La guerra non è una fatalità di fronte a cui l’umanità sarebbe impotente. Il capitalismo non è un sistema eterno. Esso non porta solo nel suo seno la guerra, esso ha in sé le condizioni del suo superamento, i germi di una nuova società senza frontiere nazionali, e dunque senza guerre.
Creando una classe operaia mondiale, il capitalismo ha fatto nascere il suo affossatore. Poiché la classe sfruttata, contrariamente alla borghesia, non ha interessi antagonisti da difendere, essa è la sola forza della società che possa unificare l’umanità. Essa è la sola forza che possa edificare un mondo basato non sulla concorrenza, lo sfruttamento e la ricerca del profitto, ma sulla solidarietà e sulla soddisfazione dei bisogni di tutta la specie umana. E questa prospettiva non è una utopia! Contrariamente a quello che sostengono gli scettici di ogni tipo e gli ideologi della classe dominante, la classe operaia può finirla con la guerra e aprire le porte all’avvenire. Essa ha potuto mettere fine alla prima carneficina mondiale grazie alla rivoluzione dell’Ottobre 1917 in Russia e alla rivoluzione in Germania del 1918.
Dalla fine degli anni ’60, è la ripresa delle lotte operaie contro gli effetti della crisi economica che ha impedito alla classe dominante di trascinare i proletari dei paesi centrali in una terza guerra mondiale.
Oggi, di fronte all’aggravarsi della crisi economica e agli attacchi contro tutte le loro condizioni di vita, di fronte al vicolo cieco del sistema capitalista, i proletari non sono pronti ad accettare passivamente il rafforzamento della miseria e dello sfruttamento, come testimoniano le lotte operaie che sono sorte ai quattro angoli del mondo in questi ultimi anni.
Il cammino è ancora lungo prima che il proletariato mondiale possa alzare le sue lotte al livello della posta in gioco nella situazione attuale. Ma la dinamica delle attuali lotte, marcate dalla ricerca della solidarietà, così come l’entrata di nuove generazioni nella lotta della classe, mostra che il proletariato è sulla buona strada.
Di fronte alla barbarie guerriera, gli operai dei paesi centrali non possono restare indifferenti. Sono i loro fratelli di classe che cadono ogni giorno sui campi di battaglia. Sono le popolazioni civili (uomini, donne, bambini, vecchi) che in ogni conflitto sono decimati dai peggiori atti di barbarie che il capitalismo in agonia produce.
Di fronte agli orrori della guerra, il proletariato non ha che un solo atteggiamento da assumere: la solidarietà.
Questa solidarietà con le vittime di questo bagno di sangue deve manifestarla innanzitutto rifiutando di scegliere uno dei campi in guerra contro un altro. Deve manifestarla sviluppando le sue lotte contro gli attacchi del capitale, contro i suoi sfruttatori e i suoi massacratori. Esso deve sviluppare la sua unità e la sua solidarietà di classe internazionale facendo vivere la sua vecchia parola d’ordine: «I proletari non hanno patria. Proletari di tutti i paesi unitevi!»
Sylvestre (26 agosto)
Di fronte all'angoscia dell'avvenire, alla paura della disoccupazione, allo stillicidio dell'austerità e della precarietà, la borghesia utilizza le elezioni allo scopo di impedire la riflessione degli operai, sfruttando le fortissime illusioni che ancora esistono nel proletariato.
Il rifiuto di partecipare al circo elettorale non si impone in maniera evidente al proletariato per il fatto che questa mistificazione è strettamente legata a ciò che costituisce il cuore dell'ideologia della classe dominante, la democrazia. Tutta la vita sociale nel capitalismo viene organizzata dalla borghesia attorno al mito dello Stato "democratico". Questo mito è fondato sull'idea menzognera secondo la quale tutti i cittadini sono "uguali" e "liberi" di "scegliere", attraverso il voto, i loro rappresentanti politici e il parlamento viene presentato come il riflesso della "volontà popolare". Questa frode ideologica è difficile da evitare per la classe operaia per il fatto che la mistificazione elettorale si appoggia in parte su alcune verità. La borghesia utilizza, falsificandola, la storia del movimento operaio ricordando le lotte eroiche del proletariato per conquistare il diritto di voto. Di fronte alle grossolane menzogne propagandiste, è necessario tornare alle vere posizioni difese dal movimento operaio e dalle sue organizzazioni rivoluzionarie. E mostreremo come queste posizioni non siano una verità astratta, ma la risposta data in funzione dei diversi periodi di evoluzione del capitalismo e dei bisogni della lotta rivoluzionaria del proletariato.
Il 19° secolo è il periodo di pieno sviluppo del capitalismo durante il quale la borghesia utilizza il suffragio universale e il Parlamento per lottare contro la nobiltà e le sue frazioni retrograde. Come lo sottolinea Rosa Luxemburg nel 1904 nel suo testo Socialdemocrazia e parlamentarismo: "Il parlamentarismo, lungi dall'essere un prodotto assoluto dello sviluppo democratico, del progresso dell'umanità e di altre belle cose di questo genere, è al contrario una forma storica determinata della dominazione di classe della borghesia e un'espressione della sua lotta contro il feudalesimo. Il parlamentarismo borghese è una forma vivente solo fino a quando dura il conflitto tra la borghesia e il feudalesimo". Con lo sviluppo del modo di produzione capitalista, la borghesia abolisce la servitù ed estende il salariato per i bisogni della sua economia. Il Parlamento diventa l'arena in cui i diversi partiti borghesi si scontrano per decidere sulla composizione e sugli orientamenti del governo in carica. Il Parlamento diviene così il centro della vita politica borghese ma, in questo sistema democratico parlamentare, solo i notabili sono elettori. I proletari non hanno diritto di parola, né il diritto di organizzarsi.
Sotto l'impulso della I e poi della II Internazionale, gli operai ingaggiano delle lotte sociali molto importanti, spesso a prezzo della loro vita, per ottenere dei miglioramenti delle loro condizioni di vita (riduzione del tempo di lavoro da 14 a 10 ore, divieto di lavoro per i bambini e di lavori pesanti per le donne...). Nella misura in cui il capitalismo era allora un sistema in piena espansione, il suo rovesciamento tramite la rivoluzione proletaria non era ancora all'ordine del giorno. E' il motivo per cui la lotta rivendicativa sul terreno economico con l'ausilio dei sindacati e la lotta dei suoi partiti politici sul terreno parlamentare permettevano al proletariato di strappare delle riforme a suo vantaggio. "Una tale partecipazione gli permetteva sia di fare pressione a favore di queste riforme, di utilizzare le campagne elettorali come mezzo di propaganda e di agitazione sul programma proletario sia di impiegare il Parlamento come tribuna per denunciare le ignominie della politica borghese. E' per questo che la lotta per il suffragio universale ha costituito, per tutto il 19° secolo, in un gran numero di paesi, una delle occasioni più importanti di mobilitazione del proletariato".(1) Sono queste le posizioni che Marx ed Engels difenderanno lungo tutto questo periodo di ascesa del capitalismo per spiegare il loro appoggio alla partecipazione del proletariato alle elezioni.
All'alba del XX secolo il capitalismo ha ormai conquistato il mondo. Una volta arrivati ai limiti della sua espansione geografica, esso incontra il limite oggettivo dei mercati: gli sbocchi alla sua produzione diventano sempre più insufficienti. I rapporti di produzione capitalisti si trasformano da quel momento in ostacoli allo sviluppo delle forze produttive. Il capitalismo, nel suo insieme, entra in un periodo di crisi e di guerre di dimensioni mondiali.
Un tale rovesciamento va a produrre una modificazione profonda del modo di esistenza politica della borghesia, del funzionamento del suo apparato statale e, a maggior ragione, delle condizioni e dei mezzi della lotta del proletariato. Il ruolo dello Stato diviene preponderante perché questo è il solo capace di assumere "l'ordine", il mantenimento della coesione di una società capitalista dilaniata dalle sue contraddizioni. I partiti borghesi diventano, in maniera sempre più evidente, degli strumenti dello Stato incaricati di fare accettare la politica di questo. Il potere politico tende allora a spostarsi dal legislativo all'esecutivo e il Parlamento borghese diventa un guscio vuoto che non possiede più alcun ruolo decisionale. E' questa realtà che nel 1920, in occasione del suo II Congresso, l'Internazionale comunista caratterizza chiaramente: "L'atteggiamento della III Internazionale verso il parlamentarismo non è determinato da una nuova dottrina, ma dalla modificazione del ruolo del Parlamento stesso. Nell'epoca precedente, il Parlamento, in quanto strumento del capitalismo in via di sviluppo ha, in un certo senso, lavorato al progresso storico. Ma nelle condizioni attuali, nell'epoca dello scatenamento imperialista, il Parlamento è diventato uno strumento di menzogna, di frode, di violenza, e un esasperante mulino di parole... Nell'ora attuale, il Parlamento non può essere in nessun caso, per i comunisti, il terreno di una lotta per delle riforme e per il miglioramento della sorte della classe operaia, come fu il caso nel passato. Il centro di gravità della vita politica si è spostata al di fuori del Parlamento, e in maniera definitiva".
Ormai, è fuori questione che la borghesia possa accordare delle riforme reali e durevoli delle condizioni di vita della classe operaia. E' invece l'inverso che succede: sempre più sacrifici, miseria e sfruttamento. I rivoluzionari sono allora unanimi nel riconoscere che il capitalismo ha raggiunto dei limiti storici e che è entrato nel suo periodo di declino, come viene testimoniato dallo scoppio della Prima Guerra mondiale. L'alternativa era ormai: socialismo o barbarie. L'era delle riforme era definitivamente chiusa e gli operai non avevano più nulla da conquistare sul terreno delle elezioni.
Tuttavia un dibattito centrale si sviluppa nel corso degli anni ‘20 all'interno dell'Internazionale comunista sulla possibilità, difesa da Lenin e dal partito bolscevico, di utilizzare la "tattica" del "parlamentarismo rivoluzionario". Di fronte alle innumerevoli questioni suscitate dall'entrata del capitalismo nel suo periodo di decadenza, il peso del passato continuava a pesare sulla classe operaia e le sue organizzazioni. La guerra imperialista, la rivoluzione proletaria in Russia, e poi il riflusso dell'ondata di lotte proletarie a livello mondiale degli anni '20 hanno condotto Lenin e i suoi compagni a pensare che il Parlamento si potesse distruggere dall'interno o che si potesse utilizzare la tribuna parlamentare in maniera rivoluzionaria. Di fatto questa tattica "sbagliata" condurrà la III Internazionale sempre più verso compromessi con l'ideologia della classe dominante. D'altra parte, l'isolamento della rivoluzione russa, l'impossibilità della sua estensione verso il resto dell'Europa con lo schiacciamento della rivoluzione in Germania, spingono i bolscevichi e l'Internazionale, e poi i vari partiti comunisti, verso un opportunismo sfrenato. E' questo opportunismo che portava a rimettere in questione le posizioni rivoluzionarie del I e del II Congresso dell'Internazionale Comunista per andare verso la degenerazione nei Congressi successivi, fino al tradimento e all'avvento dello stalinismo che fu il ferro di lancia della controrivoluzione trionfante.
E' contro questo abbandono dei principi proletari che reagirono le frazioni più di sinistra nei partiti comunisti (2). A cominciare dalla Sinistra italiana con Bordiga alla sua testa che, già prima del 1918, preconizzava il rigetto dell'azione elettorale. Conosciuta all'inizio come "Frazione comunista astensionista", questa si è costituita formalmente dopo il Congresso di Bologna nell'ottobre del 1919 e, in una lettera inviata da Napoli a Mosca, questa affermava che un vero partito, che doveva aderire all'Internazionale comunista, non poteva costituirsi che su delle basi antiparlamentariste. Le sinistre tedesca e olandese svilupperanno a loro volta la critica del parlamentarismo. Anton Pannekoek denuncia chiaramente la possibilità di utilizzare il Parlamento da parte dei rivoluzionari, perché una tale tattica non poteva che condurli a fare dei compromessi, delle concessioni all'ideologia dominante. Questa tattica mirava soltanto a trasmettere un sembiante di vita a queste istituzioni moribonde, a incoraggiare la passività dei lavoratori mentre invece la rivoluzione ha bisogno della partecipazione attiva e cosciente dell'insieme del proletariato.
Negli anni '30 la Sinistra italiana, attraverso la sua rivista Bilan, mostrerà concretamente come le lotte dei proletari francesi e spagnoli erano state deviate su di un terreno elettorale. Bilan affermava a giusto titolo che fu la "tattica" dei fronti popolari nel 1936 a permettere di imbrigliare il proletariato come carne da cannone nella seconda carneficina imperialista mondiale. Alla fine di questo indicibile olocausto, è la Sinistra comunista di Francia (da cui deriva la CCI) che pubblicava la rivista Internationalisme a fare la denuncia più chiara della "tattica" del parlamentarismo rivoluzionario: "La politica del parlamentarismo rivoluzionario ha contribuito largamente a corrompere i partiti della III Internazionale e le frazioni parlamentari sono servite da fortezze per l'opportunismo (...). La verità è che il proletariato non può utilizzare per la sua lotta di emancipazione "i mezzi di lotta politica" propri della borghesia e destinati al suo asservimento. Il parlamentarismo rivoluzionario in quanto attività reale non è, nei fatti, mai esistito per la semplice ragione che l'azione rivoluzionaria del proletariato quando sorge, presuppone la mobilitazione di classe sul piano extra-capitalista e non una presa di posizione all'interno della società capitalista" (3). Ormai, la non partecipazione alle elezioni è una frontiera di classe tra organizzazioni proletarie e organizzazioni borghesi. In queste condizioni, dopo più di 80 anni, le elezioni vengono utilizzate, a livello mondiale, da tutti i governi, quale che sia il loro colore politico, per deviare il malcontento operaio su un terreno sterile e credibilizzare il mito della "democrazia". Non è d'altra parte un caso se oggi, contrariamente al 19° secolo, gli Stati "democratici" conducano una lotta accanita contro l'astensionismo e la disaffezione dai partiti, perché la partecipazione degli operai alle elezioni è essenziale alla perpetuazione dell'illusione democratica.
Contrariamente alla propaganda che vuole convincerci che sono le urne a decidere chi governa, bisogna riaffermare che le elezioni sono una pura farsa. Certo possono esserci delle divergenze tra le frazioni che compongono lo Stato borghese sul modo di difendere al meglio gli interessi del capitale nazionale ma, fondamentalmente, la borghesia organizza e controlla il carnevale elettorale perché il risultato sia conforme ai suoi bisogni di classe dominante. A tale scopo lo Stato capitalista organizza, manipola, usa tutti i mezzi di comunicazione che sono a sua disposizione. Dalla fine degli anni '20 ad oggi, quale che sia il risultato delle elezioni, che sia la destra o la sinistra ad uscire vittoriosa dalle urne, in fin dei conti è sempre la stessa politica anti operaia che viene portata avanti.
In questi ultimi mesi la borghesia, focalizzando l'attenzione sulle elezioni vuole convincere i proletari che da queste può dipende il loro avvenire e quello dei loro figli. Non solo li getta nella miseria, ma li umilia col giochino del circo elettorale. Oggi il proletariato non ha scelta. O si lascia trascinare sul terreno elettorale, sul terreno degli Stati borghesi che gestiscono il suo sfruttamento e la sua oppressione, terreno sul quale può solo ritrovarsi atomizzato e impotente a resistere agli attacchi del capitalismo in crisi. Oppure sviluppa le sue lotte collettive, in maniera solidale ed unita, per difendere le proprie condizioni di vita. Solo così potrà ritrovare la sua forza in quanto classe rivoluzionaria che sta nella sua unità e nella capacità di lottare al di fuori e contro le istituzioni borghesi (parlamento ed elezioni) in vista del rovesciamento del capitalismo. D'altra parte, di fronte all'intensificazione degli attacchi e nonostante il battage elettorale che si ripropone periodicamente in ogni paese, il proletariato sta sviluppando a livello internazionale una riflessione profonda sul significato della disoccupazione di massa, degli attacchi a ripetizione, dello smantellamento del sistema pensionistico e di assistenza sociale. La politica anti operaia della borghesia e la risposta proletaria non possono che sfociare, ad un certo punto, in una presa di coscienza crescente, all'interno della classe operaia, del fallimento storico del capitalismo.
Il proletariato non deve partecipare alla costruzione delle proprie catene, ma deve spezzarle! Al rafforzamento dello Stato capitalista gli operai devono rispondere con la volontà della sua distruzione! L'alternativa che si pone oggi è la stessa di quella evidenziata dalle sinistre marxiste negli anni ‘20: elettoralismo e mistificazione della classe operaia o sviluppo della coscienza di classe ed estensione delle lotte verso la rivoluzione!
D.
1. Piattaforma della CCI.
2. La CCI è l'erede di questa Sinistra comunista e le nostre posizioni ne sono il prolungamento.
3. Leggere questo articolo di Internationalisme n°36 del luglio 1948, riprodotto nella nostra Rivista Internazionale n°36 (versioni in inglese, francese e spagnolo).
L'estensione dello sciopero
A Nantes, sono i giovani operai, della stessa età degli studenti, che lanciano il movimento; il loro ragionamento è semplice: "Se gli studenti, che non possono esercitare pressioni con lo sciopero, hanno avuto la forza di fare indietreggiare il governo, anche gli operai potranno farlo arretrare". Da parte loro, gli studenti della città vanno a portare la loro solidarietà agli operai, si mescolano ai loro picchetti di sciopero: fraternizzano. A questo punto, è chiaro che le campagne del PCF e della CGT che mettono in guardia contro i "gauchisti provocatori al soldo dei padroni e del ministero degli interni", che avrebbero infiltrato l'ambiente studentesco, hanno un impatto ben debole.
La sera del 14 maggio si contano in tutto 3.100 scioperanti.
Il 15 maggio il movimento guadagna la fabbrica Renault di Cléon; in Normandia altre due fabbriche della regione: sciopero totale, occupazione permanente, sequestro della Direzione, bandiere rosse ai cancelli. A fine giornata vi sono 11.000 scioperanti.
Il 16 maggio, le officine Renault entrano nel movimento: bandiere rosse a Flins, le Mans e a Billancourt. Quella sera, vi sono in tutto 75.000 scioperanti, ma l'entrata di Renault-Billancourt nella lotta è un segnale: "Quando Renault starnutisce, la Francia ha il raffreddore".
Il 17 maggio si contano 215.000 scioperanti: lo sciopero comincia ad interessare tutta la Francia, soprattutto la provincia. E' un movimento completamente spontaneo; i sindacati non fanno che seguire. Dappertutto troviamo giovani operai all'avanguardia. Si assistono numerose fraternizzazioni tra studenti e giovani operai: questi ultimi vanno nelle facoltà occupate ed invitano gli studenti a pranzare alla loro mensa.
Non ci sono rivendicazioni precise: si esprime soprattutto il malcontento accumulato; sul muro di un'officina in Normandia c'è scritto "Il tempo di vivere e più degnamente!”. Quel giorno, temendo di essere "scavalcati dalla base" ed anche dalla CFDT molto presente durante i primi giorni di sciopero, la CGT chiama all'astensione dello sciopero: essa "ha preso il tram in corsa" come si diceva all'epoca. Il suo comunicato non sarà conosciuto che il giorno dopo.
Il 18 maggio, a mezzogiorno sono un milione di lavoratori a scioperare, prima ancora che fossero rese pubbliche le consegne della CGT. In serata gli scioperanti saranno 2 milioni.
Essi saranno 4 milioni lunedì 20 maggio e 6 milioni e mezzo all'indomani.
Il 22 maggio, 8 milioni di lavoratori sono in sciopero illimitato. E' il più grande sciopero della storia del movimento operaio internazionale. E' molto più massiccio dei due precedenti: lo "sciopero generale" del maggio 1926 in Gran Bretagna (che durò una settimana) e gli scioperi di maggio-giugno 1936 in Francia.
Tutti i settori sono coinvolti: industria, energia, poste e telecomunicazioni, insegnanti, amministrazione pubblica (parecchi ministeri sono completamente paralizzati), i mezzi di informazione (la televisione nazionale è in sciopero, i lavoratori denunciano in particolar modo la censura che viene loro imposta), laboratori di ricerca, ecc. Anche le pompe funebri sono paralizzate (è una cattiva idea morire a Maggio 68). Si assisterà anche all'entrata nel movimento di sportivi professionisti: la bandiera rossa sventola sugli stabilimenti della Federazione francese di calcio. Gli artisti non sono da meno ed il Festival di Cannes è interrotto su istigazione dei registi.
In questo periodo le facoltà occupate (come anche altri edifici pubblici, per es. il teatro dell'Odeon di Parigi) diventano luoghi di discussioni politiche permanenti. Molti operai, principalmente i giovani, e non solo, partecipano a queste discussioni. Alcuni operai invitano coloro che difendono l'idea della rivoluzione a recarsi a difendere il loro punto di vista nella fabbrica occupata. E' così che, a Tolosa, il piccolo nucleo che fonderà in seguito la sezione della CCI in Francia è invitato ad esporre l'idea dei consigli operai nella fabbrica JOB occupata. E la cosa più significativa è che questo invito proviene dai militanti… della CGT e del PCF. Questi dovranno parlamentare per un'ora con dei funzionari della CGT della grande fabbrica Sud-Aviation venuti a "rafforzare" il picchetto di sciopero di JOB per ottenere l'autorizzazione a lasciare entrare dei "gauchisti" nella fabbrica. Per sei ore, operai e rivoluzionari, seduti su balle di cartone, discuteranno della rivoluzione, della storia del movimento operaio, dei soviet ed anche del tradimento… del PCF e della CGT…
Molte discussioni sorgono anche nelle strade e sui marciapiedi (in tutta la Francia c’è stato bel tempo a maggio del 68!). Esse sorgono spontaneamente, ognuno ha qualche cosa da dire ("Si parla e si ascolta" è uno slogan). Dappertutto regna un ambiente di festa, salvo nei "quartieri-bene" dove si accumulano paura e odio.
In tutta la Francia, nei quartieri, in alcune grandi imprese o intorno ad esse, sorgono "Comitati d'azione": si discute di come continuare la lotta, della prospettiva rivoluzionaria. In genere questi sono animati da gruppi gauchisti o anarchici ma essi raggruppano molta più gente degli stessi membri di queste organizzazioni. Anche all' ORTF, la radiotelevisione di Stato, si crea un Comitato d'azione animato principalmente da Michel Drucker ed al quale partecipa anche l'indescrivibile Thierry Rolland.
La reazione della borghesia
Davanti ad una tale situazione, la classe dominante vive un periodo di smarrimento che si esprime attraverso iniziative scombinate ed inefficaci.
Così, il 22 maggio, l'Assemblea nazionale, dominata dalla destra, discute (per alla fine rigettarla) una mozione di censura presentata dalla sinistra due settimane prima: le istituzioni ufficiali della Repubblica francese sembrano vivere in un altro mondo. Proprio in quel giorno il governo prende la decisione di vietare il ritorno di Cohn-Bendit che era andato in Germania. Questa decisione non fa che accrescere il malcontento: il 24 maggio assistiamo a molteplici manifestazioni, principalmente per denunciare l'interdizione di soggiorno di Cohn-Bendit : "Ce ne freghiamo delle frontiere!, "Siamo tutti ebrei tedeschi!" Malgrado il cordone sanitario della CGT contro gli "avventurieri" ed i "provocatori" (e cioè gli studenti "radicali") molti giovani operai si uniscono a tali manifestazioni.
La sera, il Presidente della Repubblica, il generale de Gaulle fa un discorso: propone un referendum perché i francesi si pronuncino sulla "partecipazione" (una sorta di associazione capitale-lavoro). Non si potrebbe essere più lontani dalla realtà. Questo discorso è un fiasco completo che rivela il disorientamento del governo ed in generale della borghesia (2).
Nella strada, i manifestanti ascoltano il discorso sulle radio portatili, la collera aumenta ancora: "Del suo discorso ce ne freghiamo!". Si vedono scontri e barricate tutta la notte a Parigi ed in parecchie città di provincia. Vengono rotte numerose vetrine, incendiate vetture, e ciò provoca un rivolgersi di una parte dell'opinione contro gli studenti considerati ormai dei "vandali". E' probabile, d'altronde, che tra i manifestanti ci siano infiltrati elementi delle milizie gaulliste o poliziotti in borghese per "attizzare il fuoco" e incutere paura alla popolazione. E' anche noto che numerosi studenti immaginano di "fare la rivoluzione" innalzando barricate o bruciando vetture, simboli della "società dei consumi". Ma questi atti esprimono soprattutto la collera dei manifestanti, studenti e giovani operai, davanti alle risposte ridicole e provocatorie date dalle autorità di fronte al più grande sciopero della storia. Dimostrazione di questa collera contro il sistema: il simbolo del capitalismo, la Borsa di Parigi, è incendiata.
Solo il giorno seguente la borghesia comincia a riprendere iniziative efficaci: sabato 25 maggio si aprono al ministero del Lavoro (via di Grenelle) dei negoziati tra sindacati, padronato e governo.
All'inizio, i padroni sono disposti a concedere molto più di ciò che i sindacati immaginano: risulta evidente che la borghesia ha paura. A presiedere è il primo ministro, Pompidou; la domenica mattina ha un incontro privato per circa un ora con Séguy, leader della CGT: i due principali responsabili del mantenimento dell'ordine sociale in Francia hanno bisogno di discutere senza testimoni di come ristabilire quest'ultimo (3).
Nella notte tra il 26 ed il 27 maggio vengono conclusi gli "accordi di Grenelle":
- aumenti dei salari per tutti del 7% il 1°giugno, più il 3% il 1°ottobre;
- aumento del salario minimo dell'ordine del 25%;
- riduzione del "ticket sanitario" dal 30% al 25% ;
- riconoscimento della sezione sindacale all'interno della fabbrica;
- più una serie di promesse vaghe di apertura di negoziati, in particolare sulla durata del lavoro (che in media è dell'ordine di 47 ore settimanali).
Vista l'importanza e la forza del movimento, questa è una vera provocazione:
- il 10 % sarà annullato dall'inflazione (consistente in quell'epoca);
- niente sulla compensazione salariale dell'inflazione;
- niente di concreto sulla riduzione del tempo di lavoro; ci si limita ad annunciare l'obbiettivo del "ritorno progressivo alle 40 ore" (già ottenute ufficialmente nel 1936!); al ritmo proposto dal governo, ci si sarebbe arrivati nel...2008!;
- i soli a guadagnare qualcosa di significativo sono gli operai pù poveri (si vuole dividere la classe operaia spingendola a riprendere il lavoro) ed i sindacati (che vengono retribuiti per il loro ruolo di sabotatori).
Il lunedi 27 maggio gli "accordi di Grenelle" sono rigettati in modo unanime dalle assemblee operaie.
Alla Renault Billancourt, i sindacati organizzano un grande "show" ampiamente ripreso dalla televisione e la radio: uscendo dai negoziati, Séguy dice ai giornalisti "La ripresa non potrà tardare" e lui è ben speranzoso che gli operai di Billancourt daranno l'esempio. Tuttavia, 10.000 di questi si riuniscono dopo l'alba e decidono di proseguire il movimento prima dell'arrivo dei dirigenti sindacali.
Benoît Frachon, dirigente "storico" della CGT (già presente ai negoziati del 1936) dichiara: "gli accordi di via Grenelle vanno ad apportare a milioni di lavoratori un benessere che essi non speravano"; silenzio di tomba!
André Jeanson, della CFDT, si felicita del voto iniziale in favore del proseguimento dello sciopero e parla di solidarietà degli operai con gli studenti ed i liceali in lotta: applausi fragorosi.
Séguy, infine, presenta un "resoconto obiettivo" di ciò che "è stato conquistato à Grenelle": fischi e schiamazzo generale per parecchi minuti. Séguy effettua allora una piroetta: "A giudicare da quello che ho capito, voi non vi lascerete fare"; applausi ma dalla folla si sente: "lui se ne frega di noi!".
La migliore prova del rigetto degli "accordi di Grenelle": il numero degli scioperanti aumenta ancora il 27 maggio fino a raggiungere i 9 milioni.
Questo stesso giorno si tiene allo stadio Charléty a Parigi una grande manifestazione indetta dal sindacato studentesco UNEF, dalla CFDT (che rincara la dose rispetto alla CGT) e da gruppi gauchisti. La tonalità dei discorsi è molto rivoluzionaria: si tratta in effetti di dare uno sbocco allo scontento in aumento verso la CGT ed il PCF. Affianco ai gauscisti, si nota la presenza di politici socialdemocratici come Mendès-France (vecchio capo di governo negli anni 50). Cohn-Bendit, con i capelli tinti in nero, fa un'apparizione (era già stato visto alla vigilia alla Sorbona).
Il 28 maggio è quello degli intrallazzi dei partiti di sinistra:
- in mattinata, François Mitterrand, presidente della Federazione della sinistra democratica e socialista (che raggruppa il Partito socialista, il Partito radicale e vari piccoli ragruppamenti di sinistra) tiene una conferenza stampa: considerando che c'è vuoto di potere, annuncia la sua candidatura alla presidenza della Repubblica. Di pomeriggio, Waldeck-Rochet, capo del PCF propone un governo "a partecipazione comunista": si tratta di evitare che i socialdemocratici sfruttino la situazione solo a loro vantaggio. Il giorno seguente, 29 maggio, una grande dimostrazione indetta dalla CGT chiede un "governo popolare". La destra immediatamente grida al "complotto comunista".
Questo stesso giorno, si nota la "scomparsa" del Generale de Gaulle. Alcuni spargono la voce che si sia ritirato, in realtà si è recato in Germania ad assicurarsi presso il generale Massu, che è a capo delle truppe francesi d'occupazione, della fedeltà degli eserciti.
Contemporaneamente si tiene a Parigi, sugli Champs-Elysées, un'enorme dimostrazione di sostegno a De Gaulle. Venuto dai quartieri bene, dalle periferie benestanti ed anche dalla "Francia profonda" grazie agli autocarri dell'esercito, il "popolo" della paura e dei soldi, i borghesi e le istituzioni religiose dei loro bambini, gli alti dirigenti d'azienda pieni della loro "superiorità", i piccoli negozianti timorosi della propria vetrina, i vecchi combattenti indignati per gli insulti alla bandiera tricolore, le "spie" in combutta con la malavita, ma anche veterani dell'Algeria francese e dell'OAS, i giovani membri del gruppo fascistizzante Occidente, i vecchi nostalgici di Vichy (che detestano ancora De Gaulle); tutto questo bel mondo viene a reclamare il suo odio verso la classe operaia ed il suo "amore per l'ordine". Dalla folla, vicino ai vecchi combattenti della "Francia libera", si sente gridare "Cohn-Bendit a Dachau!".
Ma il "Partito dell'ordine" non si limita a quelli che manifestano sugli Champs-Elysées. Lo stesso giorno, la CGT rivendica negoziati settore per settore per "migliorare le conquiste di Grenelle": è il modo per dividere il movimento e quindi liquidarlo.
La ripresa del lavoro
A partire da questa data (è un giovedì), il lavoro comincia a riprendere, ma lentamente perché il 6 giugno, ci saranno di nuovo 6 milioni di scioperanti. La ripresa del lavoro avviene in modo disperso:
- 31 Maggio: siderurgia della Lorena, tessili del nord;
- 4 Giugno: arsenali, assicurazioni;
- 5 Giugno: EDF, miniere di carbone;
- 6 Giugno: poste, telecomunicazioni, trasporti (a Parigi, la CGT fa pressione per fare riprendere: in ogni deposito i dirigenti sindacali annunciano che negli altri depositi il lavoro e ripreso, la qualcosa è falsa);
- 7 Giugno: istruzione primaria;
- 10 Giugno: occupazione della fabbrica Renault di Flins da parte delle forze di polizia: uno studente liceale caricato dai poliziotti cade nella Senna ed annega;
- 11 Giugno: intervento dei CRS (celerini) alla fabbrica Peugeot di Sochaux (2a fabbrica della Francia): 2 lavoratori sono uccisi.
Si assiste allora a nuove manifestazioni violente in tutta la Francia: "Hanno ucciso i nostri compagni!" A Sochaux, davanti alla resistenza determinata degli operai, i CRS evacuano la fabbrica: il lavoro riprenderà solo 10 giorni più tardi.
Temendo che l'indignazione rilanci lo sciopero (rimangono ancora 3 milioni di scioperanti), i sindacati (CGT in testa) ed i partiti di sinistra guidati dal PCF chiamano insistentemente alla ripresa del lavoro "affinché possano essere svolte le elezioni e completare la vittoria della classe operaia". Il quotidiano del PCF, l'Umanité, esce col titolo: "Forte della loro vittoria, milioni di lavoratori riprendono il lavoro".
L'appello sistematico allo sciopero da parte dei sindacati a partire dal 20 maggio trova ora la sua spiegazione: era necessario controllare il movimento per poter provocare la ripresa dei settori meno combattivi e demoralizzare gli altri.
Waldeck-Rochet, nei suoi discorsi di campagna elettorale dichiara che "Il Partito comunista è un partito d'ordine". E "l'ordine" borghese ritorna poco a poco:
- 12 Giugno: ripresa nella scuola secondaria;
- 14 Giugno: Air France e Marina mercantile;
- 16 Giugno: la Sorbona è occupata dalla polizia;
- 17 Giugno: ripresa caotica alla Renault Billancourt;
- 18 Giugno: De Gaulle fa liberare i dirigenti dell'OAS che erano ancora in prigione;
- 23 Giugno: 1°turno delle elezioni legislative con un forte avanzamento della destra;
- 24 Giugno: ripresa del lavoro alla fabbrica Citroën Javel, a Parigi (Krasucki, numero 2 della CGT, interviene nell'assemblea generale per chiamare alla fine dello sciopero);
- 26 Giugno: Usinor Dunkerque;
- 30 Giugno: 2°turno delle elezioni con una vittoria storica della destra.
Una delle ultime imprese a riprendere il lavoro, il 12 luglio, è l'ORTF: molti giornalisti non vogliono che venga reintrodotto il controllo e la censura che loro hanno subito prima da parte del governo. Dopo la "ripresa in mano", molti di loro saranno licenziati. L'ordine ritorna dappertutto, incluso nelle informazioni che vengono giudicate utili diffondere nella popolazione.
Così, il più grande sciopero della storia è finito con una sconfitta, contrariamente alle affermazioni della CGT e del PCF. Una sconfitta cocente sanzionata dal ritorno in forza dei partiti e delle "autorità" che erano state svilite durante il movimento. Ma il movimento operaio sa da lungo tempo che: "Il vero risultato delle loro lotte non è tanto il successo immediato ma l'unione crescente dei lavoratori" (il Manifesto Comunista). Così, dietro alla loro immediata sconfitta, gli operai hanno riportato nel 1968 in Francia una grande vittoria, non per loro ma per il proletariato del mondo intero. È quello che vedremo nel prossimo articolo dove tenteremo di mettere in evidenza le cause profonde ed il significato storico e mondiale del "bel mese di Maggio" francese.
Fabienne (27/04/2008)
1. Il primo articolo è stato pubblicato su Rivoluzione Internazionale n. 155, il secondo su questo stesso sito
2. All'indomani di questo discorso, gli impiegati municipali annunciano in molti luoghi che loro si rifiuteranno di organizzare il referendum. Allo stesso modo, le autorità non sanno come stampare le schede elettorali: la tipografia nazionale è in sciopero e quelle private che non lo sono si rifiutano: i loro padroni non vogliono avere noie supplementari con i loro operai.
3. Si apprenderà più tardi che Chirac, segretario di Stato agli Affari sociali, ha anche incontrato (in una soffitta !) Krasucki, numero 2 della CGT.
Ormai in Italia non passa giorno senza che si sappia che più di un operaio è morto mentre lavorava cadendo da una impalcatura, asfissiato o annegato in un pozzo, bruciato vivo … ed ogni volta dobbiamo subirci l’ipocrisia di politici, sindacati e media che “costernati” invocano le “le leggi sulla sicurezza sul lavoro” siano rispettate. La realtà è che in tutto il mondo più di 6.000 di lavoratori muoiono ogni giorno perché l’unica cosa che interessa a questo sistema di sfruttamento, in Italia, in America, in Germania, in Russia, ovunque è fare profitto al minor costo possibile.
Nel 1984, abbiamo scoperto con orrore il terribile bilancio umano dell’esplosione della fabbrica Union Carbide à Bhopal in India. Nello spazio di tre giorni, 8.000 operai sono morti! 350.000 nelle settimane e nei mesi seguenti, in seguito alle ferite o agli effetti dell’inquinamento chimico! Le condizioni di sfruttamento spaventoso che regnano in questa vera “galera industriale” sono state la prima ragione di quest’ecatombe. La deflagrazione ha avuto luogo durante la notte mentre gli operai e le loro famiglie dormivano ammassati alla fabbrica, in un immensa bidonville. Già all’epoca la pelle di un lavoratore non valeva gran che, da allora queste galere industriali sono proliferate ai quattro angoli del mondo, in Asia, in Medio Oriente ed ancora in Africa.
Oggi, in India, nel Bangladesh ed in Turchia, decine di migliaia di operai lavorano incessantemente in giganteschi cantieri navali, ribattezzati “cantieri della morte”. La tecnica è semplice ed identica dappertutto. Le navi da distruggere sono lanciate a tutta velocità verso la spiaggia! Una volta arenatesi, questi giganti del mare vengono smantellati a mani nude da centinaia di lavoratori... qualche volta con la fiamma ossidrica. Nessuna protezione, nessuna misura della sicurezza. Queste carcasse sono inoltre ancora imbottite di pericolosi prodotti chimici, anche mortali, il più delle volte sono cariche di amianto. Ma se tutte le nazioni del mondo vi spediscono la loro flotta a morire, è proprio perché queste condizioni di sfruttamento inumano assicurano “prezzi imbattibili”. D’altra parte, è in un simile “cantiere della morte” che è andata a finire la portaerei le Clemenceau e che uno dei fiori della marina mercantile francese, le France, sta finendo i suoi giorni. In un rapporto del 1995 sul più grande cimitero di battelli del mondo - il cantiere d’Alang in India – l’ingegnere Maresh Panda descriveva così le condizioni di vita e di lavoro degli operai: “Questi avevano problemi di pelle e problemi respiratori dovuti al contatto con materiali tossici. Gli scafi potevano contenere del carburante e i tagliatori li foravano con la fiamma ossidrica col rischio di esplosioni. Il suolo era saturo di prodotti tossici. Ora, la maggior parte degli operai era a piedi nudi e poteva ferirsi. (…) Alloggiavano dai 20 ai 30 in una stessa baracca e dormivano su cuccette sovrapposte. Potevano arrivare a lavorare venti ore al giorno”.
In una trasmissione francese di Envojé spécial intitolata “Les fossoyeurs d’épaves” (“I becchini di relitti”)[1], un operaio descrive l’orrore che vive quotidianamente: esplosioni di ogni genere, compagni ammazzati o mutilati, sopravvivenza in capanne di tavole e magri pasti, … . Eppure intere famiglie fanno migliaia di chilometri per potere lavorare in questi posti, il che la dice lunga sulla miseria di intere fette di popolazioni del pianeta!
Negli Emirati Arabi Uniti, a Dubaï, milioni di operai vivono lo stesso orrore costruendo grattacieli a perdita d’occhio[2]. La Cina, come la Corea a suo tempo, deporta milioni di lavoratori verso i grandi centri industriali. In totale nel mondo 2,2 milioni di operai muoiono ogni anno sul lavoro. E queste cifre ufficiali date dall’Organizzazione internazionale del lavoro minimizzano di molto e volontariamente la realtà.
Ecco il segreto del “miracolo economico” dei “paesi emergenti”. Negli anni 80 e 90, le borghesie occidentali hanno tentavano di alimentare le illusioni la classe operaia facendole balenare davanti agli occhi i miracoli tedeschi, o di Taïwan. Per ritrovare una buona salute economica, bisognava emularli: rigore e serietà sul lavoro, abnegazione per l’impresa … Oggi, i soli “modelli” che restano da imitare sono le galere industriali.
Jeanneton, 25 aprile 2008
[1] Il cui video è pubblicato su Dalymotion
[2] leggi sul nostro sito Internet www.internationalism.org [14] gli articoli “Dubaï, Bangladesh: La classe operaia si rivolta contro lo sfruttamento capitalista” e “Lotte operaie a Dubaï: un esempio della crescita della combattività operaia a livello internazionale”.
“Noi la crisi non la paghiamo!”[1]
E’ scoppiato il 2008!
A quarant’anni dai formidabili movimenti che scossero il mondo intero a partire dalla Francia – con il Maggio francese – e dall’Italia, il mondo della scuola e dell’università sono tornati in piazza nel nostro paese in contrapposizione al cosiddetto decreto Gelmini. I motivi contingenti di questa protesta sono noti e ci limitiamo pertanto solo a rievocarli rapidamente.
A livello di scuola, al di là delle questioni del tutto fuorvianti sul ritorno al grembiulino, che non è stato più inserito nella versione finale del decreto, o al voto in condotta, il decreto Gelmini viene contestato soprattutto per i tagli che questo comporta nel mondo dell’istruzione e per le conseguenze che tali tagli avranno sulla qualità del servizio erogato alla popolazione scolastica. Infatti, la necessità di fare cassa a spese della scuola, comporta in generale:
A livello universitario, al di là di tutte le frottole che anche lì il governo racconta per distrarre l’attenzione dalle questioni di fondo, abbiamo:
Questi sono gli elementi essenziali della manovra del governo. Come si vede ce n’è abbastanza per stroncare il mondo della pubblica istruzione in Italia in quanto non si tratta tanto di leggi che si limitano, come per il passato, a riorganizzazione (in peggio) queste strutture, ma della semplice cancellazione di parte di queste strutture con l’azzeramento di risorse e personale. Ed è appunto questo che ha fatto insorgere sia il personale che vi lavora in queste strutture - soprattutto i giovani e i precari, che naturalmente sono quasi la stessa cosa – che il mondo degli studenti che vedono giustamente nella riforma Gelmini e in tutta la manovra finanziaria del governo Berlusconi un attentato al proprio futuro. Infatti, con l’ulteriore dequalificazione del mondo dell’istruzione, potrà avere un futuro solo chi se lo potrà comprare andando in scuole e università private. Ad esempio, la possibile trasformazione delle Università in Fondazioni, al di là della diatriba se sia meglio il pubblico o il privato, “costituisce un segnale inequivocabile del progressivo disimpegno dello Stato dal ruolo di finanziatore del sistema pubblico universitario che è garanzia della possibilità, data a tutti, di accedere ai più alti livelli della formazione”[2].
Questa sensazione di assenza di futuro è tanto più presente nel movimento attuale di studenti e precari nella misura in cui fa da sfondo al movimento una crisi economica che si esprime in questa fase con delle espressioni inedite e profondamente preoccupanti.
Da questo punto di vista bisogna riconoscere che questo movimento di studenti e precari ha scarse radici “studentesche” e trae la sua maggiore forza dal riconoscimento che l’attuale attacco del governo deriva dalla crisi economica in cui versa attualmente l’Italia e il mondo intero. In questo senso il movimento attuale in Italia ricorda molto il movimento degli studenti francesi che si muovevano nel 2006 contro la legge che voleva introdurre il CPE (contratto di primo impiego), legge capestro che, se approvata, avrebbe permesso di imporre ai giovani condizioni di lavoro di gran lunga peggiori di quelle normali. Entrambi i movimenti partono dunque da questioni materiali che riguardano la prospettiva di vita e di lavoro delle nuove generazioni e quindi si pongono su un terreno squisitamente proletario. Non è un caso che la parola d’ordine che unifica tutto quanto il movimento di studenti e precari che si muovono oggi in Italia è quella di “NOI LA CRISI NON LA PAGHIAMO”, che è l’espressione della volontà di andare avanti senza farsi irretire dai falsi discorsi di “dare una mano al paese nel momento di difficoltà”, di “addossarsi il carico del momento difficile accettando i sacrifici”, ecc. ecc.
Il carattere poco “studentesco” e più legato ad una volontà di battersi per un futuro migliore sul piano complessivo si vede anche in altre cose. Ad esempio nel fatto che, contrariamente ad altre lotte del passato, e particolarmente del 68, non c’è una contrapposizione generazionale dei giovani contro gli anziani e non c’è uno scontro tra docenti e studenti, quanto piuttosto una tendenza a lottare assieme. Inoltre, c’è un atteggiamento molto poco ideologico e molto più politico che si traduce nella tendenza a esprimere un movimento poco caratterizzato “a destra” o “a sinistra”, ed anche poco marcato e soggiogato da questa o quella sigla politica di partito o di gruppi, ma ciononostante con una consapevolezza politica precisa della necessità di battersi per vincere.
Le trappole tese al movimento
Tuttavia il movimento che si sta esprimendo in questi giorni nella piazze presenta una serie di debolezze su cui sapientemente rimesta la borghesia per farlo fallire. Uno dei problemi è una certa mancanza di definizione degli obiettivi che si dà questo movimento. Laddove la maturità del movimento degli studenti in Francia era stata favorita da un attacco frontale da parte del governo, in Italia il carattere indiretto dell’attacco ha determinato invece minore chiarezza. E’ vero, come abbiamo detto prima, che un elemento importante che sostiene il movimento è la crisi economica in cui versa l’economia nazionale e mondiale. Ma qual è la lettura che di tale crisi si fa oggi? Una crisi finanziaria dovuta a degli speculatori senza scrupoli? Una crisi legata all’eccessivo consumismo o all’eccessiva popolazione mondiale? Una crisi legata all’invasione del mercato mondiale da parte della Cina? O non piuttosto una crisi irrisolvibile del sistema in cui viviamo?
E’ chiaro che una interpretazione piuttosto che un’altra può, in un caso, fare auspicare che il governo del mondo passi agli Obama, ai Veltroni, alla sinistra in genere che vengono presentati come la parte buona della società, i governanti giusti ed equi, mentre nell’altro caso punta a mettere in discussione l’intero assetto sociale di questo sistema di sfruttamento che si perpetua da secoli, indipendentemente dal governo di turno. Su questo piano c’è tutta una propaganda mediatica sulle nefandezze della Gelmini, “degna ministra dell’odiato Berlusconi”, “responsabile di voler affossare la scuola pubblica” e di “volerla dare in mano ai privati”. Ora, non c’è dubbio che le misure del governo Berlusconi siano draconiane e che la scuola e l’Università ne restino fortemente colpite. Ma bisogna uscire dalla logica per cui il governo di destra avrebbe fatto questo per debellare un settore politicamente pericoloso, come si intende da chi fa girare sapientemente un discorso di Calamandrei del 1950 sulla trasformazione subdola della scuola pubblica in scuola di regime, mentre invece un governo di sinistra non avrebbe mai toccato questo settore[3]:
“Come si fa a istituire in un paese la scuola di partito? Si può fare in due modi. Uno è quello del totalitarismo aperto, confessato. Lo abbiamo esperimentato, ahimè. (…) Lo abbiamo sperimentato sotto il fascismo. (…) Ma c'è un'altra forma per arrivare a trasformare la scuola di Stato in scuola di partito o di setta. (…) Facciamo l'ipotesi, così astrattamente, che ci sia un partito al potere, un partito dominante, il quale però formalmente vuole rispettare la Costituzione, non la vuole violare in sostanza. Non vuol fare la marcia su Roma e trasformare l'aula in alloggiamento per i manipoli; ma vuol istituire, senza parere, una larvata dittatura. Allora, che cosa fare per impadronirsi delle scuole e per trasformare le scuole di Stato in scuole di partito? Si accorge che le scuole di Stato hanno il difetto di essere imparziali. C'è una certa resistenza; in quelle scuole c'è sempre, perfino sotto il fascismo c'è stata. Allora, il partito dominante segue un'altra strada (è tutta un'ipotesi teorica, intendiamoci). Comincia a trascurare le scuole pubbliche, a screditarle, ad impoverirle. Lascia che si anemizzino e comincia a favorire le scuole private. Non tutte le scuole private. Le scuole del suo partito, di quel partito. Ed allora tutte le cure cominciano ad andare a queste scuole private. Cure di denaro e di privilegi. Si comincia persino a consigliare i ragazzi ad andare a queste scuole, perché in fondo sono migliori si dice di quelle di Stato. (…) Il partito dominante, non potendo trasformare apertamente le scuole di Stato in scuole di partito, manda in malora le scuole di Stato per dare la prevalenza alle sue scuole private. …”[4]
A parte l’illusione che emerge da questo discorso che possa realmente esistere all’interno di questa società, una scuola imparziale, con una cultura al di sopra delle parti, la realtà è che chiunque si trovi al governo di questo tipo di società non può che ricorrere in soccorso dell’economia capitalista in crisi e non può che portare i più feroci attacchi contro la popolazione, poco importa se in questo ci va di mezzo la cultura del paese. E’ vero che il governo Berlusconi, nella sua rozzezza, ha calcato la mano, ma attenzione a non credere che il tutto risponda solo ad una manovra politica e non ad una necessità dello stato borghese di tirare fortemente la cinghia.[5]
Ma le trappole non finiscono qui! Proprio perché la dinamica che si sviluppa nel movimento della scuola e dell’università comincia a impensierire la borghesia, questa ha messo in moto ulteriori meccanismi di difesa. Prima Berlusconi ha cominciato a parlare della necessità di impedire agli studenti di occupare le scuole e le università, dicendo che avrebbe dato istruzioni precise al ministro dell’interno in merito al da farsi. Poi si è apparentemente smentito, per essere corretto poi dall’ex presidente della Repubblica Cossiga che, da buon vecchio “saggio” della classe borghese, ha snocciolato con grande faccia tosta una serie di consigli per il Cavaliere che è importante riportare per capire anche quanto sta accadendo oggi nelle piazze e forse quali saranno i prossimi passi della borghesia nei confronti del movimento:
Presidente Cossiga, pensa che minacciando l’uso della forza pubblica contro gli studenti Berlusconi abbia esagerato?
«Dipende, se ritiene d’essere il presidente del Consiglio di uno Stato forte, no, ha fatto benissimo. Ma poiché è l'Italia è uno Stato debole, e all’opposizione non c’è il granitito Pci ma l’evanescente Pd, temo che alle parole non seguiranno i fatti e che quindi Berlusconi farà quantomeno una figuraccia».
Quali fatti dovrebbero seguire?
«A questo punto, Maroni dovrebbe fare quel che feci io quand’ero ministro dell'Interno».
Ossia?
(…)
«Lasciarli fare. Ritirare le forze di polizia dalle strade e dalle università, infiltrare il movimento con agenti provocatori pronti a tutto, e lasciare che per una decina di giorni i manifestanti devastino i negozi, diano fuoco alle macchine e mettano a ferro e fuoco le città».
Dopo di che?
«Dopo di che, forti del consenso popolare, il suono delle sirene delle ambulanze dovrà sovrastare quello delle auto di polizia e carabinieri».
Nel senso che...
«Nel senso che le forze dell'ordine dovrebbero massacrare i manifestanti senza pietà e mandarli tutti in ospedale. Non arrestarli, che tanto poi i magistrati li rimetterebbero subito in libertà, ma picchiarli a sangue e picchiare a sangue anche quei docenti che li fomentano».
Anche i docenti?
«Soprattutto i docenti. Non quelli anziani, certo, ma le maestre ragazzine sì. Si rende conto della gravità di quello che sta succedendo? Ci sono insegnanti che indottrinano i bambini e li portano in piazza: un atteggiamento criminale!»[6]
Leggendo questa intervista non si può non fare immediatamente il legame con quanto è avvenuto il 29 ottobre a piazza Navona dove un gruppo di militanti di destra neofascista ha provocato uno scontro con gli studenti che partecipavano alla manifestazione. In realtà lo Stato, attraverso i suoi vari strumenti di intervento, materiale e mediatico (polizia, CC, stampa e televisione) sta già portando avanti il disegno di Cossiga che su questo piano, bisogna confessarlo, è stato sempre un grande maestro, anche se in una forma diversa da come l’ha formulata il “grande vecchio”. Infatti la provocazione non passa solo attraverso gli infiltrati, che sicuramente ci sono, ma anche attraverso un rifiorire dell’epopea antifascista attraverso una serie di provocazioni a catena. Prima e dopo l’episodio di piazza Navona non si contano gli episodi di provocazione promossi da bande di neofascisti che tendono a spostare lo scontro sul piano fisico in modo che possa poi scadere su un livello di semplice rivendicazione di democrazia e di rispetto della legalità e dell’ordine, giusto come predice il “nostro” ex presidente. Ma per fortuna il movimento sta reggendo molto bene a queste trappole e in numerose occasioni, testimoniate anche da vari video pubblicati sui blog che sono apparsi recentemente, i partecipanti al movimento hanno preso consapevolezza del pericolo di lasciarsi incastrare in questo falso scontro con i fascisti e di rimanere ancorati alla lotta di fondo che il movimento sta portando avanti.
La prospettiva del movimento
D’altra parte un movimento che si mantiene vivo e attivo anche dopo l’approvazione definitiva al senato della legge che era stato lo spunto della loro lotta testimonia di una volontà di lotta non effimera ma proveniente da sofferenze profonde.
Anche se al momento non siamo in grado di prevedere quale sarà il futuro immediato di questo movimento, noi pensiamo che movimenti di questo tipo hanno un futuro importante davanti a sé perché la situazione economica, politica e sociale è arrivata ad un livello di degradazione importante.
La partita dunque non è chiusa. Le manifestazioni che si sono avute nella giornata di approvazione del decreto Gelmini (29 ottobre) in tutta Italia, lo stesso sciopero della scuola che si è avuto il 30 ottobre con 1 milione di manifestanti e tutto il fermento e il pullulare di iniziative che si stanno sviluppando a livello di scuole e università, il prossimo appuntamento per una manifestazione nazionale dell’università il prossimo 14 novembre, esprimono una forte vivacità sul piano della lotta e delle iniziative, che può spingere il movimento a prendere coscienza della necessità di agire sempre più come un corpo unico e di fare riferimento agli altri settori sociali in lotta in questo momento.
4 novembre 2008 Ezechiele
[1] Slogan che ha conquistato l’intero movimento degli studenti in tutte le città italiane.
[2] Dalla mozione della Facoltà di Scienze M.F.N. dell’Università Federico II di Napoli del 29 Ottobre 2008.
[3] In realtà il primo piano di razionalizzazione del sistema scolastico è stato fatto dal defunto governo Prodi attraverso taglio di classi e quindi di docenti e personale ATA
[4] Piero Calamandrei - discorso pronunciato al III Congresso in difesa della Scuola nazionale a Roma l’11 febbraio 1950.
[5] Su questo stesso piano è in atto un’ulteriore mistificazione politica che tende a focalizzare tutto l’attacco sui tagli alla ricerca di base e a lamentare che i nostri “cervelli” siano costretti a espatriare, come ha mostrato la trasmissione “Anno Zero” di Michele Santoro, finendo così per trasformare un movimento che riguarda l’intera generazione di giovani di oggi con qualcosa a cui è interessata solo una minima percentuale di persone.
[6] Intervista di Andrea Cangini a Cossiga di giovedì 23 ottobre 2008: “Bisogna fermarli, anche il terrorismo partì dagli atenei” pubblicata su Quotidiano nazionale. L’intervista integrale può essere letta su rassegna.governo.it/rs_pdf/pdf/JMS/JMSRA.pdf.
Nel numero 29 della nostra Rivista Internazionale (disponibile anche on line [18]) abbiamo pubblicato larghi estratti di un testo di orientamento discusso all’interno della nostra organizzazione che tratta di Marxismo ed Etica. Nei brani pubblicati possiamo leggere:
“Abbiamo sempre insistito sul fatto che gli statuti della CCI non sono un elenco di regole che definiscono ciò che è permesso e ciò che non lo è, ma un orientamento per il nostro atteggiamento e la nostra condotta, che includono un insieme coerente di valori morali (in particolare per quel che riguarda i rapporti tra gli stessi militanti e di questi verso l’organizzazione). E’ per tale motivo che esigiamo da tutti quelli che vogliono diventare membri della nostra organizzazione un accordo profondo con questi valori. I nostri statuti sono una parte integrante della nostra piattaforma, e non servono solamente a stabilire chi può diventare membro della CCI ed in quali condizioni. Condizionano il quadro e lo spirito della vita militante dell’organizzazione e di ciascuno dei suoi membri.
Il significato che la CCI ha sempre assegnato a questi principi di comportamento è illustrato dal fatto che si è sempre impegnata a difenderli, anche a rischio di subire crisi organizzative. Per questo fatto, la CCI si è situata in maniera cosciente ed incrollabile nella tradizione di lotta di Marx ed Engels all’interno della Prima Internazionale, dei Bolscevichi e della Frazione italiana della Sinistra comunista. Ciò l’ha resa capace di superare tutta una serie di crisi e di mantenere i principi fondamentali di un comportamento di classe.
Tuttavia la CCI ha difeso il concetto di una morale e di un’etica proletaria in maniera più implicito che esplicito; l’ha messo in pratica in modo empirico piuttosto che generalizzato da un punto di vista teorico. Di fronte alle grandi reticenze della nuova generazione di rivoluzionari, sorta alla fine degli anni 1960, verso ogni concetto di morale, considerata necessariamente reazionaria, l’atteggiamento sviluppato dall’organizzazione è stato quello di accordare più importanza al fatto che fossero accettati gli atteggiamenti ed i comportamenti della classe operaia piuttosto che condurre questo dibattito molto generale in un momento in cui quest’ultimo non era ancora maturo.
Le questioni di morale proletaria non sono il solo campo verso cui la CCI ha proceduto in questa maniera. Nei primi anni di esistenza della CCI esistevano riserve similari sulla necessità della centralizzazione, il carattere indispensabile dell’intervento dei rivoluzionari ed il ruolo dirigente dell’organizzazione nello sviluppo della coscienza di classe, la necessità di combattere il democraticismo o il riconoscimento dell’attualità della lotta contro l’opportunismo ed il centrismo”.
Nella prima parte sono stati trattati i seguenti temi:
· Il problema della decomposizione e la perdita di fiducia nel proletariato e nell’umanità.
· Le cause delle riserve tra i rivoluzionari verso il concetto di morale proletaria dopo 1968.
· La natura della morale.
· L’etica, cioè la teoria della morale, precede il marxismo.
· Il marxismo e le origini della morale.
· La lotta del proletariato contro la morale borghese.
· La morale del proletariato.
In questa seconda parte ritorneremo sulle lotte condotte dal marxismo contro differenti forme e manifestazioni della morale borghese e sulla necessaria lotta che il proletariato dovrà condurre contro gli effetti della decomposizione della società capitalista, in particolare nella prospettiva della riconquista di quest’elemento essenziale della sua lotta e della sua prospettiva storica, la solidarietà.
La lotta del Marxismo contro l’idealismo etico
Alla fine del diciannovesimo secolo la corrente intorno a Bernstein all’interno della Seconda Internazionale sosteneva che nella misura in cui il marxismo pretendeva di basarsi su un metodo scientifico, escludeva il ruolo dell’etica nella lotta di classe. Considerando che un approccio scientifico ed un approccio etico si escludono reciprocamente, questa corrente predicava la rinuncia all’approccio scientifico a profitto di quello etico. Proponeva di “completare” il marxismo con l’etica di Kant. Dietro questa volontà di condannare moralmente l’avidità degli individui capitalisti, emergeva la determinazione del riformismo borghese a seppellire ciò che è fondamentalmente non conciliabile tra il capitalismo ed il comunismo.
Lungi dall’escludere l’etica, l’approccio scientifico del marxismo introduce per la prima volta una dimensione realmente scientifica alla conoscenza sociale e pertanto alla morale. Ricompone il puzzle della storia attraverso la comprensione che il rapporto sociale essenziale è quello che esiste tra la forza lavoro (il lavoro vivo) ed i mezzi di produzione (il lavoro morto). Il capitalismo aveva preparato la via a questa scoperta, esattamente come ha preparato la via al comunismo spersonalizzando il meccanismo dello sfruttamento.
In realtà, l’appello a ritornare all’etica di Kant rappresentava una regressione teorica anche rispetto al materialismo borghese che aveva già compreso quali erano le origini sociali del “bene e del male”. Dopo di allora ogni avanzamento nel sapere sociale ha confermato ed approfondito questa comprensione. Ciò si applica al progresso, non solamente nelle scienze come nel caso della psicanalisi, ma anche nell’arte. Come scrisse Rosa Luxemburg, “Amleto, attraverso il crimine di sua madre, è confrontato alla dissoluzione di ogni legame umano ed ad un mondo al di fuori dalla sua comprensione. La stessa cosa avviene con Dostoïevski, quando considera il fatto che un essere umano possa assassinare un altro. Egli non trova pace, si sente responsabile di questo orribile fardello che pesa sulle sue spalle, come è per ciascuno di noi. Deve entrare nell’anima dell’omicida, deve braccare la sua miseria, la sua afflizione, fino alle pieghe più nascoste del suo cuore. Soffre tutte le sue torture ed è accecato dalla terribile comprensione che l’omicida stesso è la vittima più disgraziata della società... I romanzi di Dostoïevski sono degli attacchi feroci contro la società borghese in faccia alla quale grida: il vero omicida, l’omicida dell’anima umana, siete voi”(1)
Questo era anche il punto di vista difeso dalla giovane dittatura del proletariato in Russia che chiedeva ai tribunali di “liberarsi interamente di ogni spirito di rivalsa. Essi non possono vendicarsi delle persone semplicemente perché hanno dovuto vivere in una società borghese”. (2)
È giustamente la comprensione che tutti noi siamo vittime delle circostanze che fa dell’etica marxista l’espressione più elevata del progresso morale dei nostri giorni. Questo approccio non abolisce la morale, come pretendono i borghesi, e non esclude la responsabilità individuale come farebbe l’individualismo piccolo borghese. Ma rappresenta un passo da gigante perché fonda la morale sulla comprensione piuttosto che sulla colpa, il sentimento di colpevolezza che intralcia il progresso morale in quanto fa una separazione tra la personalità di ciascuno di noi e gli altri uomini. Sostituisce l’odio delle persone, questa sorgente primordiale di pulsione anti-sociale, con l’indignazione e la rivolta rispetto a dei rapporti e dei comportamenti sociali.
La nostalgia riformista nei confronti di Kant era in realtà l’espressione dell’erosione della volontà di combattere. L’interpretazione idealista della morale, negando ad essa un ruolo di trasformazione dei rapporti sociali, è una concessione emozionale all’ordine esistente. Sebbene gli ideali più elevati dell’umanità siano sempre stati quelli della pace interiore e dell’armonia col mondo sociale e naturale che ci circonda, questi possono essere raggiunti solo attraverso una lotta costante. La prima condizione della felicità umana è sapere che si fa ciò che è necessario, che si serve, volontariamente, una grande causa.
Kant aveva compreso molto meglio dei filosofi utilitaristi borghesi come Bentham (3) la natura contraddittoria della morale borghese. In particolare, aveva compreso che l’individualismo sfrenato, anche nella forma positiva della ricerca della felicità personale, poteva condurre alla dissoluzione della società. Il fatto che nel capitalismo possano esserci solo vincitori nella lotta legata alla concorrenza, rende inevitabile la divisione tra ciò a cui si aspira ed il dovere. L’insistenza di Kant sulla preminenza del dovere corrisponde al riconoscimento del fatto che il valore più elevato della società borghese non è l’individuo ma lo Stato e, in particolare, la nazione.
Nella morale borghese il patriottismo è un valore molto più grande dell’amore per l’umanità. In effetti, dietro la mancanza di indignazione all’interno del movimento operaio di fronte al riformismo, traspariva già l’erosione dell’internazionalismo proletario.
Per Kant, un atto morale motivato dal senso del dovere ha un maggiore valore etico rispetto ad un atto compiuto con entusiasmo, passione e piacere. Qui il valore etico è legato alla rinuncia, all’idealizzazione del sacrificio di se stesso per l’ideologia nazionalista e statale. Il proletariato rigetta in modo assoluto questo culto disumano del sacrificio di se stesso che la borghesia ha ereditato della religione. Sebbene la gioia della lotta contenga necessariamente il fatto di essere pronti a soffrire, il movimento operaio non ha mai fatto di questo male necessario una qualità morale in sé. Del resto, anche prima del marxismo, i migliori contributi all’etica hanno sempre sottolineato le conseguenze patologiche ed immorali di un tale approccio. Contrariamente a ciò che crede l’etica borghese, il sacrificio di sé non santifica un fine che non è valido.
Come ha sottolineato Franz Mehring anche Schopenhauer, che fondava la sua etica sulla compassione piuttosto che sul dovere, ha rappresentato un passo decisivo rispetto a Kant. (4)
La morale borghese, incapace finanche di immaginare il superamento della contraddizione tra individuo e società, tra egoismo ed altruismo, si schiera per l’uno contro l’altro o cerca un compromesso tra i due. Non arriva a comprendere che lo stesso individuo ha una natura sociale. Contro le morali idealiste il marxismo difende l’idealismo morale come un’attività che dà del piacere e come una delle carte vincenti più potenti di una classe che avanza contro una classe in decomposizione.
Un’altra attrattiva dell’etica kantiana per l’opportunismo è che il suo rigorismo morale, la sua formula de “l’imperativo categorico”, conteneva la promessa di una sorta di codice che avrebbe permesso di potere risolvere automaticamente tutti i conflitti morali. Per Kant la certezza che si ha ragione è caratteristica dell’attività morale. (...) Qui di nuovo si esprime la volontà di evitare la lotta.
Il carattere dialettico della morale è negato, là dove la virtù ed il vizio, nella vita concreta, non sono sempre facilmente distinguibili. Come Josef Dietzgen ha sottolineato, la ragione non può determinare in anticipo il corso dell’azione, poiché ogni individuo ed ogni situazione sono unici e senza precedenti. I problemi morali complessi devono essere studiati in modo da essere compresi e risolti in modo creativo. Ciò può esigere talvolta un’investigazione particolare ed anche la creazione di un organo specifico, come il movimento operaio ha compreso già da molto tempo. (5)
In realtà, i conflitti morali fanno inevitabilmente parte della vita, e non solamente in seno alla società di classe. Per esempio, differenti principi etici possono entrare in conflitto gli uni con gli altri (...), come pure il conflitto si può generare tra i diversi livelli della vita sociale dell'uomo (le sue responsabilità nei confronti della classe operaia, della famiglia, l'equilibrio della personalità, ecc.). Ciò richiede di essere pronti a vivere momentaneamente con le incertezze, in modo da permettere un vero esame, evitando la tentazione di far tacere la propria coscienza; capacità di rimettere in questione i propri pregiudizi; e soprattutto, un metodo collettivo rigoroso di chiarimento.
Nel lotta contro il neo-Kantismo, Kautsky ha mostrato come il contributo di Darwin sulle origini della coscienza nelle pulsioni biologiche, all'origine animali, aveva frantumato la forza della presa delle morali idealistiche. Questa forza invisibile, questa voce appena udibile che opera solamente nelle profondità interne della personalità, è sempre stata il punto cruciale delle controversie etiche. L'etica idealista aveva ragione di insistere sul fatto che la cattiva coscienza non può essere spiegata dalla paura dell'opinione pubblica o dalle sanzioni della maggioranza. Al contrario, questa coscienza può obbligarci ad opporci all'opinione pubblica ed alla repressione, o a rimpiangere le nostre azioni, anche se queste incontrano un'approvazione universale. "La legge morale non è altro che una pulsione animale. Di là proviene la sua natura misteriosa, questa voce in noi che non è in relazione con nessuna pulsione esterna, nessun interesse visibile, questo demonio o questo Dio che Socrate e Platone fino a Kant, i teorici della morale, hanno sentito, essi che hanno negato di fare conseguire la morale dall'ego o dal piacere. Una pulsione realmente misteriosa, ma non più misteriosa dell'amore sessuale, l'amore materno, l'istinto di conservazione... Il fatto che la legge morale sia un istinto universale, comparabile all'istinto di conservazione e di riproduzione, spiega la sua forza, la sua persistenza, che fa che gli si ubbidisce senza riflettere" . (6)
Queste conclusioni sono state confermati da allora dalla scienza, per esempio da Freud che insisteva sul fatto che gli animali più evoluti ed i più socializzati possiedono un dispositivo psichico di base come l'uomo e potevano soffrire di nevrosi comparabili. Ma Freud non ha approfondito solamente la nostra comprensione su tali questioni. Nella misura in cui la psicoanalisi non è solamente un'investigazione ma è anche terapeutica e si propone di intervenire, condivide col marxismo una preoccupazione per lo sviluppo progressivo della predisposizione morale dell'uomo.
Freud fa delle distinzioni tra le pulsioni (l’ "Es"), l’ "Io", che permette di conoscere l'ambiente naturale e di assicurare l'esistenza (una sorte di principio di realtà), ed il "Superego" che comprende la buona coscienza ed assicura l'appartenenza alla comunità. Sebbene Freud abbia talvolta affermato nelle polemiche che la "buona coscienza" non è "nient’altro che la paura sociale", tutta la sua concezione di come i bambini assimilano la morale della società esprime chiaramente che questo processo dipende dall'attaccamento affettivo ed emozionale ai genitori e dal fatto che essi sono accettati in quanto esempio da imitare (7). (…)
Freud esamina anche le interazioni tra i fattori coscienti ed incoscienti della stessa buona coscienza. Il "Superego" sviluppa la capacità di riflettere su sé. L’ "Io", da parte sua, può e deve riflettere sulle riflessioni del "Superego". È attraverso questa "doppia riflessione" che il corso di un'azione diventa un atto cosciente, specifico a sé stesso. Ciò corrisponde alla visione marxista secondo la quale la predisposizione morale dell'uomo è basata su delle pulsioni sociali; che comprende dei componenti incoscienti, semi-coscienti e coscienti; che con l'avanzamento dell'umanità, il ruolo del fattore coscienza aumenta finché, col proletariato rivoluzionario, l'etica, basata su un metodo scientifico, diventi sempre più guida del comportamento morale; che all’interno della stessa buona coscienza, il progresso morale è inseparabile dallo sviluppo della coscienza a spese dei sentimenti di colpevolezza (8). L'uomo può sempre più assumere le sue responsabilità, non solamente nei confronti della propria buona coscienza, ma anche a causa di ciò che contengono i suoi valori morali e le sue convinzioni.
La lotta del marxismo contro l'utilitarismo etico
A dispetto delle sue debolezze, il materialismo borghese, in particolare sotto la sua forma utilitarista - col concetto che la morale è l'espressione di interessi reali ed obiettivi - rappresentava un enorme passo avanti nella teoria etica. Preparava la via ad una comprensione storica dell'evoluzione morale. Rivelando la natura relativa e transitoria di tutti i sistemi di morale, ha portato un grande colpo alla visione religiosa ed idealista di un codice, eternamente invariabile, che si pretende stabilito da Dio.
Come abbiamo visto, la classe operaia, fin dai primi tempi, traeva già le sue conclusioni socialiste da questa visione. Sebbene i primi teorici socialisti come Robert Owen o William Thompson siano andati bene al di là della filosofia di Jeremy Bentham, che avevano preso come punto di partenza, l'influenza della visione utilitarista è restata forte in seno al movimento operaio, anche dopo l'apparizione del marxismo. I primi socialisti hanno rivoluzionato la teoria di Bentham, applicando i suoi postulati di base alle classi sociali piuttosto che agli individui, preparando così la via alla comprensione della natura sociale e di classe della storia della morale. Il riconoscimento che i proprietari di schiavi non avevano lo stesso registro di valori dei commercianti o dei nomadi del deserto, né quello dei pastori delle montagne, era già stato confermato seriamente dall'antropologia durante l'espansione coloniale. Il marxismo ha approfittato di questo lavoro preparatorio, come ha approfittato degli studi di Morgan e di Maurer dando un'illuminazione sulla "genealogia delle morali" (9). Ma malgrado il progresso che ciò rappresentava, questo utilitarismo, anche sotto la sua forma proletaria, lasciava tutto un mucchio di domande senza risposta.
Primariamente, se la morale non è niente altro che la codificazione di interessi materiali, diventa lei stessa superflua e sparisce in quanto fattore sociale in sé. Il materialista radicale inglese, Mandeville, aveva affermato già su questa base che la morale non è niente altro che l'ipocrisia che serve a nascondere gli interessi fondamentali delle classi dominanti. Più tardi, Nietzsche doveva trarre conclusioni un po' differenti dalle stesse premesse: la morale è il mezzo della moltitudine che è debole per impedire il dominio dell'élite, e dunque che la liberazione da quest’ultima richiedeva il riconoscimento che per lei tutto è permesso. Ma come ha sottolineato Mehring, la pretesa abolizione della morale in Nietzsche, nella sua opera Al di là del Bene e del Male, non è niente altro che lo stabilirsi di una nuova morale, quella del capitalismo reazionario e del suo odio per il proletariato socialista, liberato dagli ostacoli della decenza piccolo borghese e dalla rispettabilità dell'alta borghesia (10). In particolare, l'identità tra interessi e morale implica, come avevano affermato già i gesuiti, che il fine giustifica i mezzi (11).
Secondariamente, prendendo per postulato che le classi sociali rappresentano "individui collettivi" che perseguono semplicemente i loro interessi, la storia appare come una disputa senza nessuno senso, e ciò che ne risulta è forse importante per le classi coinvolte ma non per la società nel suo insieme. Ciò rappresenta una regressione rispetto a Hegel che aveva già compreso, sebbene sotto una forma mistificata, non solo la relatività di ogni morale ma anche il carattere progressista dell'edificazione dei nuovi sistemi etici in violazione della morale stabilita. Era in questo senso che Hegel dichiarava: "Si può immaginare che si dice qualche cosa di grande affermando: l'uomo è naturalmente buono. Ma si dimentica che si dice qualche cosa di molto più grande dicendo: l'uomo è naturalmente cattivo" (12).
Terzo, la concezione utilitaria conduce ad un razionalismo sterile che elimina le emozioni sociali dalla vita morale.
Le conseguenze negative di questi resti dell’utilitarismo borghese sono diventati visibili quando il movimento operaio, con la Prima Internazionale, ha cominciato a superare la fase delle sette. L'investigazione sul complotto dell'Alleanza contro l'Internazionale, - in particolare, i commenti di Marx ed Engels sul "catechismo rivoluzionario" di Bakunin - rivela "l'introduzione dell'anarchia nella morale" mediante un "gesuitismo" che "spinge l'immoralità della borghesia fino alle sue estreme conseguenze". Il rapporto redatto su mandato del Congresso dall'Aia nel 1872 sottolinea i seguenti elementi della visione di Bakunin: il rivoluzionario non ha interesse personale, non affari né sentimenti personali o invidie che gli siano proprie; ha rotto non solo con l'ordine borghese, ma con la morale ed i costumi del mondo civilizzato tutto intero; considera come una virtù tutto ciò che favorisce il trionfo della rivoluzione e come un vizio tutto ciò che la frena; è sempre pronto a sacrificare tutto, ivi compreso la sua propria volontà e la sua personalità; elimina tutti i sentimenti di amicizia, di amore o di riconoscimento; confrontato alla necessità, non esita mai a liquidare qualsiasi essere umano; non conosce altra scala di valori che quella dell'utilità.
Profondamente indignati da questa visione, Marx ed Engels dichiarano che questa è la morale dei bassifondi, quella del sottoproletariato. Tanto grottesco quanto infamante, più autoritario del comunismo più primitivo, Bakunin fa della rivoluzione "una serie di assassini individuali e poi di massa" dove "l'unica regola di condotta è la morale gesuita esagerata" (13).
Putroppo, il movimento operaio nel suo insieme non ha assimilato in profondità le lezioni della lotta contro il bakuninismo. Nel suo Materialismo storico, Bukarin presenta le norme dell'etica come semplici regole e regolamenti. La tattica sostituisce la morale. Ancora più confusa è l'atteggiamento di Lukacs di fronte alla rivoluzione. Dopo avere in partenza presentato il proletariato come la realizzazione dell'idealismo morale di Kant e Fichte, Lukacs scivola nell'utilitarismo. In Che significa un'azione rivoluzionaria? (1919), dichiara: "la regola del tutto che predomina sulla parte implica il determinato sacrificio di sé... Può essere rivoluzionario solamente colui che è pronto a tutto per portare a termine questi interessi".
Ma il rafforzamento della morale utilitarista dopo il 1917 in URSS era sopratutto l'espressione dei bisogni dello stato di transizione. In "Morale e norme di classe", Preobrajensky presenta l'organizzazione rivoluzionaria come una specie di ordine monastico moderno. Vuole sottomettere anche le relazioni sessuali al principio della selezione genetica, in un mondo dove la distinzione tra individui e società sono abolite ed in cui le emozioni sono subordinate ai risultati delle scienze naturali. Anche Trotsky non è indenne da questa influenza, poiché in La loro morale e la nostra, in una difesa inconfessata della repressione di Kronstadt, difende al fondo la formula secondo la quale "il fine giustifica i mezzi".
È certamente vero che ogni classe sociale tende ad identificare il "bene" e la "virtù" ai propri interessi. Tuttavia, interesse e morale non sono identici. L'influenza di classe sui valori sociali è estremamente complessa, poiché essa integra la posizione di una data classe nel processo di produzione e la lotta di classe, le sue tradizioni, i suoi scopi e le sue attese per il futuro, la sua parte nella cultura nello stesso modo in cui tutto ciò si manifesta sotto forma dello stile di vita, delle emozioni, delle intuizioni e delle ispirazioni.
In opposizione alla confusione utilitarista tra interesse e morale, (o "dovere" come lo chiama qui) Dietzgen distingue i due. "L'interesse rappresenta più la felicità concreta, presente, tangibile; il dovere, al contrario, la felicità generale, allargata, concepita anche per l'avvenire. (...). Il dovere si preoccupa anche del cuore, dei bisogni della società, dell'avvenire, della salute dell'anima, in breve della totalità dei nostri interessi; ed esso ci insegna a rinunciare al superfluo per ottenere e conservare il necessario" (14).
In reazione alle affermazioni idealistiche dell'invarianza della morale, l'utilitarismo sociale cade nell'altro estremo ed insiste così unilateralmente sulla sua natura transitoria che perde di vista l'esistenza di valori comuni che danno una coesione alla società, e dei progressi dell’etica. La continuità del sentimento di comunità non è tuttavia una finzione metafisica.
Questo "relativismo esagerato" vede le classi individuali e la loro lotta ma non vede “il processo sociale globale, l'interconnessione dei differenti episodi e, quindi, non riesce neanche a distinguere le differenti tappe dello sviluppo morale come facenti parte di processi legati tra loro. Non possiede criteri generali con cui valutare le differenti norme, non è capace di andare al di là delle apparenze immediate e temporanee. Non riunisce le differenti apparenze in un'unità per mezzo del pensiero dialettico" (15).
Per ciò che riguarda i rapporti tra fine e mezzi, la formulazione corretta del problema non è che il fine giustifica i mezzi ma che lo scopo influisce sui mezzi e che i mezzi influiscono sullo scopo. I due termini della contraddizione si decidono reciprocamente e si condizionano un l'altro. Inoltre, il fine ed i mezzi non sono altro che anelli in una catena storica di cui ogni fine diventa un mezzo per raggiungere un scopo più elevato. E’ per tale motivo che il rigore metodologico ed etico deve applicarsi a tutto il processo, riferendosi al passato ed al futuro, e non solamente all'immediato. I mezzi che non servono ad un scopo dato, finiscono col deformarlo ed allontanarsene. Il proletariato, per esempio, non può vincere la borghesia utilizzando le armi di questa. La morale del proletariato si orienta al tempo stesso secondo la realtà sociale e secondo le emozioni sociali. E’ per tale motivo che rigetta allo stesso tempo l'esclusione dogmatica della violenza ed il concetto di indifferenza morale nei confronti dei mezzi impiegati.
In parallelo con questa falsa comprensione dei legami tra scopo e mezzi, Preobrajensky considera anche che la sorte delle parti, ed in particolare dell'individuo, non è importante e può essere sacrificato comodamente nell'interesse del tutto. Non era tuttavia l'atteggiamento di Marx che considerava la Comune di Parigi come prematura, ma tuttavia ha solidarizzato con essa per solidarietà; né quella di Eugenio Leviné e del giovane KPD che sono entrati nel governo della Repubblica dei Consigli della Baviera quando era sul punto di fallire, nonostante si fossero opposti alla sua proclamazione, per organizzare la sua difesa in modo da minimizzare il numero di vittime proletarie. Il criterio unilaterale dell'utilitarismo di classe apre in effetti la porta ad una solidarietà di classe molto condizionale.
Come ha sottolineato Rosa Luxemburg nella sua polemica contro Bernstein, la contraddizione principale al cuore del movimento proletario è che la sua lotta quotidiana si trova in seno al capitalismo mentre i suoi scopi sono verso l'esterno e rappresentano una rottura fondamentale con questo sistema. Ne risulta che l'uso della violenza e dell'astuzia contro il nemico di classe sono necessari, e l'espressione di un odio di classe e di aggressioni anti-sociali difficili da evitare. Ma il proletariato non è moralmente indifferente di fronte a tali manifestazioni. Anche quando adopera la violenza, non deve dimenticare mai, come ha affermato Pannekoek, che il suo scopo è di illuminare gli spiriti, non di distruggerli. E come Bilan (16) ha concluso, valutando l'esperienza russa, il proletariato deve evitare per quanto possibile l'uso della violenza contro gli strati non sfruttatori e di escluderli, per principio, dai ranghi della classe operaia. Anche nel contesto della guerra civile contro il nemico di classe, il proletariato deve essere convinto della necessità di agire contro l'apparizione di sentimenti anti-sociali come la vendetta, la crudeltà, la volontà di distruggere poiché conducono all'abbrutimento ed indeboliscono la luce della coscienza. Tali sentimenti sono il segno della penetrazione dell'influenza di una classe estranea. Non è per caso che dopo la rivoluzione di ottobre, Lenin considerava che, giustamente dopo l'estensione della rivoluzione, la precedenza doveva essere l'elevazione del livello culturale delle masse. Dobbiamo ricordarci anche che è innanzitutto perché aveva visto la crudeltà e l'indifferenza morali di Stalin che Lenin è stato capace di identificare (nel suo" testamento") il pericolo che rappresentava.
I mezzi adoperati dal proletariato devono corrispondere, per quanto possibile, al tempo stesso allo scopo ed alle emozioni sociali che corrispondono alla sua natura di classe. Non è a caso che in nome di queste emozioni, il programma del 14 dicembre 1918 del KPD, pure difendendo risolutamente la necessità della violenza di classe, rigettava l'uso del terrore.
"La rivoluzione proletaria non ha nessuno bisogno del terrore per realizzare i suoi obiettivi. Essa odia ed aborrisce l'assassinio. Essa non ha bisogno di ricorrere a questi mezzi di lotta perché non combatte degli individui, ma delle istituzioni, perché non entra nell'arena con le illusioni ingenue che, deluse, implicherebbero una sanguinosa vendetta " (17).
In opposizione a ciò, l'eliminazione del lato emozionale della morale da parte dell'utilitarismo materialista meccanicista è tipicamente borghese. In questa visione, l'uso delle menzogne, dell'inganno è moralmente superiore se serve al compimento di un scopo dato. Ma le menzogne che i bolscevichi hanno fatto circolare per giustificare la repressione di Kronstadt, hanno minato non solo la fiducia della classe nel partito ma hanno anche destabilizzato la convinzione degli stessi bolscevichi. La visione secondo la quale "il fine giustifica i mezzi", nega nella pratica la superiorità etica della rivoluzione proletaria sulla borghesia. Dimentica che più la preoccupazione di una classe corrisponde al benessere dell'umanità, più questa classe può trarre la sua forza morale.
Lo slogan che trionfa nel mondo degli affari secondo cui conta solo il successo, qualunque siano i mezzi impiegati, non potrebbe applicarsi alla classe operaia. Il proletariato è la prima classe rivoluzionaria la cui vittoria finale è preparata da una serie di sconfitte. Le lezioni inestimabili, ma anche l'esempio morale dei grandi rivoluzionari e delle grandi lotte operaie sono le condizioni per una vittoria futura.
Nel periodo storico presente, l'importanza della questione dell'etica è più grande che mai. La tendenza caratteristica alla disgregazione dei legami sociali e di ogni pensiero coerente ha obbligatoriamente degli effetti negativi sulla morale. Di più, il disorientamento etico in seno alla società è lui stesso una componente centrale del problema che si trova al centro della decomposizione del tessuto sociale. La situazione di blocco che si è prodotta tra le risposte della borghesia alla crisi del capitalismo e la risposta del proletariato, tra la guerra mondiale e le rivoluzioni mondiali, è legata direttamente alla sfera dell'etica sociale. L'uscita dalla controrivoluzione dovuta ad una nuova generazione del proletariato che, dopo il 68, non era stata sconfitta, significava il discredito storico del nazionalismo, soprattutto nei paesi dove si trovano i settori più forti del proletariato mondiale. D’altra parte, però, le lotte operaie massicce dopo il 68 non si sono accompagnate, per il momento, ad uno sviluppo corrispondente della dimensione teorica e politica della lotta proletaria, in particolare ad un'affermazione esplicita e cosciente del principio dell'internazionalismo proletario. Perciò, nessuna delle due maggiori classi della società contemporanea sono state capaci, per il momento, di fare progredire il proprio ideale specifico di classe rispetto alla comunità sociale.
In generale, la morale dominante è quella della classe dominante. Per questa precisa ragione ogni morale dominante, in modo da servire gli interessi della classe dominante, deve nello stesso tempo contenere degli elementi di interesse generale in modo da assicurare la coesione della società. Uno di questi elementi è lo sviluppo di una prospettiva o di un ideale di comunità sociale. Un tale ideale è un fattore indispensabile per frenare le pulsioni anti-sociali.
Come abbiamo visto, il nazionalismo è l'ideale specifico della società borghese. Questo corrisponde al fatto che lo Stato nazionale è l'unità più evoluta che può realizzare il capitalismo. Quando il capitalismo entra nella sua fase decadente, la stato-nazione smette definitivamente di essere uno strumento di progresso nella storia, diventando in effetti il principale strumento della barbarie sociale. Ma già ben prima che si sia prodotto il becchino del capitalismo, il proletariato - proprio perché è il portatore di un ideale più elevato, internazionalista - è stato capace di mettere in luce la natura ingannevole della comunità nazionale. Sebbene nel 1914 i lavoratori abbiano dimenticato in principio questa lezione, la Prima Guerra mondiale andava a rivelare la realtà della principale tendenza, non solo della morale borghese, ma della morale di tutte le classi sfruttatrici. Questa consiste nella mobilitazione degli slanci più eroici, più altruistici, delle classi lavoratrici al servizio della più misera e più sordida delle cause.
Malgrado il suo carattere ingannevole e sempre più barbaro, la nazione è il solo ideale che la borghesia può sventolare per dare una coesione alla società. Non c’è che questo ideale nella realtà contemporanea della struttura statale della società borghese. E’ per questo motivo che tutti gli altri ideali sociali che emergono oggi - la famiglia, l'ambiente naturale locale, la religione, la comunità culturale o etnica, lo stile di vita in gruppo o in gang - sono realmente delle espressioni del dissolvimento della vita sociale, della putrefazione della società di classe. E questo è altrettanto vero per tutte le risposte morali che tentano di coinvolgere la società nel suo insieme, ma sulla base dell'interclassismo: l'umanitarismo, l'ecologismo, "l'altermondializzazione". Prendendo come postulato che il miglioramento dell'individuo è alla base del rinnovo della società, esse rappresentano espressioni democraticistiche della stessa frammentazione individualistica alla base della società. Va da sé che tutte queste ideologie servono mirabilmente la classe dominante nel sua lotta per bloccare lo sviluppo di un'alternativa di classe, proletaria, internazionalista, al capitalismo.
In seno alla società in decomposizione, possiamo identificare certi tratti che hanno delle implicazioni dirette al livello dei valori sociali.
Innanzitutto, la mancanza di prospettiva fa che i comportamenti umani tendono ad orientarsi verso il presente ed il passato. Come abbiamo visto, una parte centrale del cuore razionale della morale è la difesa degli interessi a lungo termine contro il peso dell'immediato. L'assenza di una prospettiva a lungo termine favorisce la perdita di solidarietà tra individui e gruppi della società contemporanea, ma anche tra le generazioni. Ne risulta che tende a svilupparsi la mentalità pogromista e cioè l'odio distruttore verso un capro espiatorio reso responsabile della scomparsa di un migliore passato idealizzato. Sulla scena politica mondiale, possiamo osservare questa tendenza nello sviluppo dell'anti-semitismo, dell'anti-occidentalismo o dell'anti-islamismo, nella moltiplicazione delle "pulizie etniche", nell’ascesa del populismo politico contro gli immigrati e di una mentalità di ghetto degli stessi immigrati. Ma questa mentalità tende ad impregnare la vita sociale nel suo insieme, come dimostra lo sviluppo del "mobbing" come fenomeno generale.
In secondo luogo, lo sviluppo della paura sociale tende a paralizzare al tempo stesso gli istinti sociali e la riflessione coerente, i principi di base della solidarietà umana e soprattutto di classe oggi. Questa paura è il risultato dell'atomizzazione sociale che dà ad ogni individuo il sentimento di essere solo coi suoi problemi. Questa solitudine dà di riflesso un'illuminazione particolare al modo con cui viene visto il resto della società, rendendo più imprevedibili le reazioni degli altri esseri umani, ciò che fa che questi ultimi sono considerati come minacciosi ed ostili. Questa paura - che nutre tutte le correnti irrazionali di pensiero che sono rivolte verso il passato ed il nulla - deve essere distinta dalla paura che risulta da un'insicurezza sociale crescente provocata dalla crisi economica, perché un tale sentimento di insicurezza materiale può diventare un potente stimolante della solidarietà di classe di fronte a questa crisi economica.
Infine, la mancanza di prospettiva ed il degrado dei legami sociali fa sì che, per numerosi esseri umani, la vita sembra essere priva di senso. Questa atmosfera di nichilismo è in generale insopportabile per l'umanità, perché è in contraddizione con l’essenza cosciente e sociale della specie umana. Dà adito ad una serie di fenomeni molto intricati di cui il più importante è lo sviluppo di una nuova religiosità e di una fissazione sulla morte.
Nelle società principalmente fondate sull'economia naturale, la religione è innanzitutto l'espressione di un arretramento, di un'ignoranza e di una paura delle forze della natura. Nel capitalismo, la religione si nutre principalmente dell'alienazione sociale, della paura delle forze sociali che sono diventate inspiegabili ed incontrollabili. All'epoca della decomposizione del capitalismo, è innanzitutto il nichilismo ambientale che alimenta il bisogno di religione. Mentre la religione tradizionale, per quanto reazionario sia stato il suo ruolo, faceva sempre parte della visione di un mondo comunitario, e la religione modernizzata della borghesia rappresentava l'adattamento di questa visione tradizionale del mondo alla prospettiva della società capitalista, il misticismo della decomposizione capitalista si nutre del nichilismo ambientale. Che ciò sia sotto forma di una pura atomizzazione delle "anime" esoteriche alla ricerca del famoso "ritrovare sé stesso" all'infuori di ogni contesto sociale, o sotto forma della mentalità totalmente chiusa delle sette e del fondamentalismo religioso che offrono la cancellazione della personalità e l'eliminazione della responsabilità individuale, questa tendenza, mentre pretende di costituire una risposta, non è in realtà che l'espressione spinta all'estremo di questo nichilismo.
Di più, è questa mancanza di prospettiva e questo dissolvimento del legame sociale che fa che la realtà biologica della morte sembra togliere il suo senso alla vita individuale. L'aspetto morboso che ne consegue (di cui si nutre per una buona parte il misticismo di oggi) trova la sua espressione o in una paura smisurata della morte, o in un'inspirazione patologica a morire. La prima espressione si concretizza nella mentalità "edonistica" del "fun society" (il cui motto potrebbe essere per esempio: "mangiamo, beviamo fino ad esplodere, perché domani morremo"); l'altro nei culti come il satanismo, le sette della fine del mondo e nel culto crescente della violenza, della distruzione e del martirio, come nel caso dei kamikaze.
Il marxismo in quanto visione materialista, rivoluzionaria del proletariato, è sempre stato caratterizzato dal suo profondo attaccamento al mondo e la sua affermazione appassionata del valore della vita umana. Allo stesso tempo, il suo punto di vista dialettico ha compreso la vita e la morte, l'essere ed il nulla come facenti parte di un'unità indivisibile. Non ignora la morte e non sopravvaluta neanche il suo ruolo nella vita. La specie umana fa parte della natura. Come tale, la nascita, la crescita, ma anche la malattia, il declino e la morte fanno tanto parte della sua esistenza come il tramonto del sole o la caduta delle foglie in autunno. Ma l'uomo non è solo un prodotto della natura ma anche della società. In quanto erede delle esperienze della cultura umana, portatore del suo divenire, il proletariato rivoluzionario si ricollega alle sorgenti sociali di una forza reale, radicata nella chiarezza di pensiero e la fraternità, la pazienza e l'umorismo, la gioia e l'affetto, la sicurezza reale di una fiducia ben fondata.
La solidarietà e la prospettiva del comunismo oggi
Per la classe operaia, l'etica non è qualche cosa di astratto, a lato dalla sua lotta. La solidarietà, la base della sua morale di classe, è allo stesso tempo la prima condizione della sua vera capacità ad affermarsi in quanto classe in lotta.
Oggi, il proletariato è confrontato al compito di riconquistare la sua identità di classe che ha subito un enorme riflusso dopo il 1989. Questo compito è inseparabile dalla lotta per riappropriarsi delle sue tradizioni di solidarietà.
La solidarietà non è semplicemente una componente centrale della lotta quotidiana della classe operaia, ma porta anche in germe la società futura. I due aspetti che si ricollegano al presente ed al futuro, si influenzano reciprocamente. La nuova riapparizione della solidarietà di classe in seno alle lotte operaie è un aspetto essenziale della dinamica attuale della lotta di classe e dell'apertura della strada verso una nuova prospettiva rivoluzionaria. Una tale prospettiva, di rimbalzo, quando sarà liberata, sarà un potente fattore del rafforzamento della solidarietà nelle lotte immediate del proletariato.
Questa prospettiva è dunque decisiva di fronte ai problemi che pongono alla classe operaia la decadenza e la decomposizione del capitalismo. E così, ad esempio, per la questione dell'immigrazione. Nel capitalismo ascendente, la posizione del movimento operaio, in particolare della Sinistra, era di difendere l'apertura delle frontiere ed il libero movimento del lavoro. Ciò faceva parte del programma minimo della classe operaia. Oggi, la scelta tra frontiere aperte o chiuse è una falsa alternativa poiché è unicamente l'abolizione di tutte le frontiere che può risolvere la questione. Nelle condizioni della decomposizione, la questione dell'immigrazione tende ad erodere la solidarietà di classe, minacciando anche di infestare gli operai con mentalità pogromiste. Di fronte a questa situazione, la prospettiva di una comunità mondiale, basata sulla solidarietà, è il fattore più efficace della difesa del principio dell'internazionalismo proletario.
A condizione che la classe operaia, attraverso un lungo periodo di sviluppo delle sue lotte e della riflessione politica, giunga a riguadagnare la sua identità di classe, il fatto di riconoscere a qual punto le emozioni sociali, le relazioni e i modi di comportamento sono minati dal capitalismo dei nostri giorni, può diventare in sé un fattore che spinge il proletariato a formulare in modo cosciente i suoi valori di classe. L'indignazione della classe operaia di fronte ai comportamenti provocati dal capitalismo in decomposizione, e la coscienza che solo la lotta proletaria può offrire un'alternativa, sono centrali affinché il proletariato possa riaffermare la sua prospettiva rivoluzionaria.
L'organizzazione rivoluzionaria ha un ruolo indispensabile da giocare in questo processo, non solo attraverso la propaganda dei principi di classe ma anche, e sopratutto, dando lei stessa un esempio vivente della loro applicazione e della loro difesa.
Peraltro, la difesa della morale proletaria è uno strumento indispensabile nella lotta contro l'opportunismo e dunque, nella difesa del programma della classe operaia. Più fermamente che mai, i rivoluzionari devono restare nella tradizione del marxismo conducendo un lotta intransigente contro ogni comportamento che viene da una classe estranea.
"Il bolscevismo ha creato il tipo del vero rivoluzionario che agli scopi storici incompatibili con la società contemporanea subordina le condizioni della sua esistenza individuale, le sue idee ed i suoi giudizi morali. Le distanze indispensabili al riguardo dell'ideologia borghese erano mantenute nel partito attraverso una vigile intransigenza di cui l'ispiratore era Lenin. Non smetteva di lavorare di scalpello, tagliando i legami che l'ambiente piccolo-borghese creava tra il partito e le opinioni pubbliche ufficiali. Allo stesso tempo, Lenin spingeva il partito a formare la sua opinione pubblica, basandosi sul pensiero ed i sentimenti della classe. Per selezione ed educazione, in una lotta continua, il partito bolscevico creò così, non solo il suo mezzo politico ma anche morale, indipendente dell'opinione pubblica borghese ed irriducibile oppositore a questa. È solamente ciò che permise ai Bolscevichi di superare le esitazioni nelle proprie fila e di manifestare la virile risoluzione senza la quale la vittoria di ottobre sarebbe stato impossibile" (18).
1. Luxemburg: “Lo spirito della letteratura russa” (Introduzione a Korolenko) 1919
2. Bukharin e Preobrajensky: “L’ABC del comunismo - Commento al programma dell’8° Congresso del Partito, 1919”. Capitolo IX. La giustizia proletaria. § 74: I metodi penali proletari.
3. Jeremy Bentham (1748-1832) era un filosofo, giurista e riformatore britannico. Era amico, in particolare, di Adam Smith e di Jean-Baptiste Say due dei maggiori economisti della borghesia all’epoca in cui quest’ultima era ancora una classe rivoluzionaria. Ha influenzato dei filosofi “classici” di questa come John Stuart Mill, John Austin, Herbert Spencer, Henry Sidgwick o James Mill. Ha portato il suo sostegno alla rivoluzione francese del 1789 fornendole inoltre parecchie proposte concernenti l’istituzione del diritto, il sistema giudiziario, penitenziario, l’organizzazione politica dello Stato, e la politica nei confronti delle colonie (Emancipate your Colonies). Del resto la giovane Repubblica francese lo nomina cittadino onorario il 23 agosto 1792. La sua influenza si ritrova nel Codice civile (chiamato anche “Codice Napoleonico”) che ancora oggi continua a reggere il diritto privato francese. Il pensiero di Bentham parte dal seguente principio: gli individui concepiscono i loro interessi solo nel rapporto tra il piacere e la sofferenza. Cercano di “massimizzare” la loro felicità, espressa come surplus di piacere sulla sofferenza. Per ogni individuo si tratta di procedere ad un calcolo edonistico. Ogni azione possiede degli effetti negativi e degli effetti positivi, e ciò per un tempo più o meno lungo e con diversi gradi di intensità; per l’individuo si tratta dunque di realizzare ciò che gli porta più felicità. Bentham chiamerà Utilitarismo questa dottrina fin dal 1781. Egli mise a punto un metodo, “Il calcolo della felicità e della sofferenza” che mira a determinare scientificamente - cioè utilizzando regole precise - la quantità di piacere e di sofferenza generata dalle nostre diverse azioni.
Questi criteri sono sette:
· Durata: Un piacere lungo e duraturo è più utile di un piacere passeggero.
· Intensità: Un piacere intenso è più utile di un piacere di debole intensità.
· Certezza: Un piacere è più utile se si è sicuri che si realizzerà.
· Prossimità: Un piacere immediato è più utile di un piacere che si realizzerà a lungo termine.
· Estensione: Un piacere vissuto da parecchi è più utile di un piacere vissuto da solo.
· Fecondità: Un piacere che ne trascina altri è più utile di un piacere semplice.
· Purezza: Un piacere che non determina ulteriore sofferenza è più utile di un piacere che rischia di portarne.
Teoricamente, l’azione più morale sarà quella che riunisce il maggior numero di criteri. 4. Mehring, “Ritorno a Schopenhauer”, Neue Zeit. 1908/09 5. La maggior parte delle organizzazioni politiche del proletariato, accanto agli organi di centralizzazione incaricati di trattare “affari correnti”, si sono dotate di organi quali “commissioni di controllo” o “commissioni dei conflitti”, composte di militanti sperimentati e che godevano di grande fiducia da parte dei loro compagni, il cui compito specifico era affrontare delle questioni delicate che toccavano aspetti particolarmente sensibili e necessitavano la discrezione del comportamento dei militanti all’interno o all'infuori dell'organizzazione.
6. Kautsky: Etica e Materialismo storico. Capitolo: "l'etica del Darwinismo" (Gli istinti sociali)
7. Ciò è stato confermato dalle osservazioni di Anna Freud secondo le quali gli orfani usciti dai campi di concentramento, mentre stabilivano tra essi un tipo di solidarietà rudimentale, su basi egualitarie, non accettavano i riferimenti morali e culturali della società nel suo insieme se non quando erano raggruppati in più piccole unità "familiari", dirette ciascuna da una persona adulta rispettata, al riguardo di cui i bambini potevano sviluppare dell'affetto e dell'ammirazione.
8. Il libro di Kautsky sull'etica è il primo studio marxista globale di questa questione ed il suo principale contributo alla teoria socialista. Tuttavia, sopravvaluta l'importanza del contributo di Darwin. Perciò, sottovaluta i fattori specificamente umani della cultura e della coscienza, tendendo ad una visione statica nella quale le differenti forme sociali favoriscono o svantaggiano più o meno delle pulsioni sociali fondamentalmente invarianti.
9. Vedere per esempio Paul Lafargue: Ricerca sull'origine dell'idea del bene e del giusto 1885, ripubblicati nel Neue Zeit, 1899-1900
10. Mehring: Sulla filosofia del capitalismo, 1891. Dobbiamo aggiungere che Nietzsche è il teorico del comportamento dell'avventuriero declassato.
11. L'avanguardia della Controriforma contro il protestantesimo, il gesuitismo, era caratterizzata dall'adozione di metodi della borghesia per difendere la chiesa feudale. E’ per tale motivo che, molto presto, è l'espressione della base della morale capitalista, ben prima che la classe borghese nel suo insieme (che giocava ancora un ruolo rivoluzionario) non abbia rivelato apertamente i lati più ignobili del suo dominio di classe. Vedere per esempio Mehring: La storia della Germania dall'inizio del Medioevo, 1910. Parte 1a. Capitolo 6°: "Gesuitismo, Calvinismo, Luteranesimo".
12. Un'osservazione veloce. La più appropriata risposta a questa questione antica, cioè stabilire se l'essere umano è buono o cattivo, può essere data probabilmente parafrasando ciò che Marx ed Engels, ne La Sacra Famiglia scrivevano a proposito del romanzo di Eugène Sue, I misteri di Parigi, nel capitolo dedicato a "Fiore di Marie": "l'umanità non è né buona né cattiva, è umana".
13. Un complotto Contro l'internazionale - Rapporto sulle attività di Bakunin. 1874. Capitolo VIII. L'alleanza in Russia (il catechismo rivoluzionario. L’appello di Bakunin agli ufficiali dell'esercito russo)
14. Dietzgen: L’essenza del lavoro intellettuale umano, 1869.
15. Enrichetta Roland Holst Comunismo e Morale. 1925. Capitolo V. ("il senso della vita ed i compiti del proletariato"). Malgrado alcune debolezze importanti, questo libro contiene soprattutto un'eccellente critica della morale utilitarista.
16. Rivista in lingua francese della frazione di sinistra del partito comunista d'Italia, diventata in seguito, Frazione italiana della Sinistra comunista internazionale
17. Che cosa vuole la Lega Spartaco? Qui, come in altri scritti di Rosa Luxemburg, troviamo una comprensione profonda della psicologia di classe del proletariato.
18. Trotsky: Storia della Rivoluzione russa, 1930. Fine del capitolo: "Lenin chiama all'insurrezione".
Tutto aumenta! L’impennata dei prezzi dell’energia appesantisce le fatture del riscaldamento ed aumenta i costi degli spostamenti casa-lavoro. Il prezzo dei prodotti di prima necessità, come il pane ed il latte, esplode nel vero senso della parola. Al supermercato lo stesso budget riempie sempre meno il carrello! Tutto aumenta … eccetto il salario.
“Il problema è universale. Per la prima volta che si viva in un paese ricco o povero si parla la stessa lingua: gli italiani si preoccupano del prezzo della pasta, i guatemaltechi di quello delle focacce di mais, i francesi ed i senegalesi di quello del pane”1. Il prezzo della carne di maiale, la più consumata in Cina, raddoppia in un anno, mentre aumentano le quotazioni di altri prodotti agricoli come il pollame e le uova. In Giappone, che dipendente dal 60% di prodotti importati, l’impennata dei prezzi tocca quasi tutti gli alimenti.
Per la borghesia la spiegazione principale risiederebbe in … una salute troppo buona dell’economia asiatica: “La riduzione della produzione (fra l’altro aggravata dalla siccità e dalla rapida espansione del biogasolio) e l’aumento della domanda (proveniente principalmente dai paesi emergenti come India e Cina, ansiosi d’imitare il sistema alimentare occidentale) hanno indotto un’impennata di prezzo tanto inaspettata che straordinaria”2. In breve, un problema di ordinario squilibrio tra offerta e domanda!
Pura menzogna! Gli aumenti dei prezzi derivano direttamente dalla crisi economica. Essi costituiscono il primo contraccolpo, sulle condizioni di vita della classe operaia mondiale, della crisi degli ormai famosi subprimes3 iniziata la scorsa estate negli Stati Uniti. Per far fronte al “buco nero” dei debiti del mercato americano tutte le banche centrali hanno iniettato massicciamente soldi a basso costo (prestandoli agli speculatori con percentuali molto deboli), sperando così di limitarne il contagio ed i danni a breve termine. Ma questa politica determina solo una ennesima fuga in avanti nell’indebitamento4 che in realtà non fa che alimentare ed aggravare la stessa crisi. Versando un’immensa massa di valuta sulle banche minacciate di fallimento e sulle borse, a colpi di centinaia di miliardi di dollari, la borghesia, le banche centrali hanno nei fatti rilanciato una profonda spirale inflazionistica a livello internazionale5.
Ma perché questo processo inflazionistico tocca particolarmente le materie prime e le merci alimentari di base, indispensabili a milioni di esseri umani? La risposta è, all’immagine di questo sistema in putrefazione, inumana. “Le materie prime attirano gli speculatori, che alimentano il rialzo cercando, dopo la crisi immobiliare americana di quest’estate, sbocchi espansivi su altri mercati”6. Così “l’esuberanza irrazionale” dell’impennata dei carburanti si spiega con gli investimenti speculativi “che sono stati ritirati da certi mercati (azioni, obbligazioni, monete) per riversarsi sulle ‘comodita’, in particolare il petrolio”7. La stessa cosa riguarda i cereali: dopo il crollo di agosto “Goldman-Sachset e Marc Faber, seguiti praticamente da tutti i gruppi di speculatori, consigliano di investire sui mercati agricoli, con strumenti tali da poter giocare più volte i loro fondi”8. Per salvare il loro capitale, tutti questi avvoltoi non esitano a trasformarsi in veri affamatori! Come ha confessato con un cinismo senza limiti uno di loro “se viviamo un rallentamento mondiale, questo non riguarderà i prodotti agricoli perché la gente deve comunque mangiare!”9.
L’ONU stima che “perdiamo terreno nei confronti della fame”10. Dolce eufemismo! Negli 82 paesi più poveri, dove le spese alimentari rappresentano correntemente dal 60 al 90% del bilancio, l’atteso aumento del grano del 20% condanna alla pura e semplice carestia - e dunque alla morte – un’intera parte di popolazione! Dal 2006 in Messico, nello Yemen, in Brasile, a Burkina Faso o in Marocco, sono già esplose rivolte della fame. In Cina, “l’altalena delle etichette rimette in discussione il miglioramento delle condizioni di esistenza”11. Nei paesi occidentali, mangiare correttamente diviene un lusso. In Francia, quando il consumo di circa 400 grammi di frutta e legumi a persona al giorno (raccomandato dall’OMS) rappresenta tra il 5 ed il 12% del SMIC (salario minimo interprofessionale di crescita), è chiaro che molti lavoratori non saranno più capaci di soddisfare i bisogni più elementari.
A leggere la stampa, è chiaro che lo spettro del crac del 1929 e della Grande Depressione assilla tutta la borghesia: “Si va verso un nuovo 1929?”.
È vero che l’ieri e l’oggi presentano delle analogie: le borse che vacillano ed i cui movimenti altalenanti celano male la caduta; le montagne di debiti che si rivelano insolvibili, la crisi di fiducia tra le banche che, tutte, moltiplicano le perdite; negli Stati Uniti, in Germania ed in Inghilterra il panico dei piccoli risparmiatori che formano code interminabili davanti alle banche per ritirare i loro risparmi; la prospettiva per una consistente fetta della classe operaia negli Stati Uniti di ritrovarsi dall’oggi al domani senza né tetto né lavoro.
Nel 1929 il crac della borsa di New York, il celebre “giovedì nero” (24 ottobre 1929), inaugura la prima e più grande crisi economica del capitalismo in declino, la Grande Depressione degli anni 1930. Questa caduta rivela la crisi cronica di sovrapproduzione di merci nella fase di decadenza del capitalismo. La crisi del 1929 prende la forma di una caduta totale e resta impressa nella memoria perché la borghesia applica le vecchie ricette che erano risultate efficaci durante le crisi ... del 19° secolo (quando il capitalismo era ancora in pieno sviluppo, in periodo di ascesa) ma che adesso, non solo sono inefficaci, ma in più giocano un ruolo aggravante nella nuova situazione storica (la decadenza del capitalismo). La restrizione da parte della Banca Federale americana della quantità di valuta sul mercato ha come conseguenza il fallimento di molte banche, il riflusso del credito ed un freno enorme sull’attività economica. Le misure protezionistiche in favore dell’economia nazionale, imitate presto dappertutto, hanno come conseguenza la frammentazione dell’economia mondiale, il blocco del commercio internazionale e, alla fine, una maggiore recessione della produzione.
Dopo la crisi degli anni ’30 la borghesia, anche se non trova una vera soluzione alla crisi economica e storica del suo sistema12, tuttavia si adatta a questo stato di crisi permanente, riuscendo a rinviarla nel tempo. In un certo senso, la nave continua ad affondare ma più lentamente. La borghesia impara ad usare i meccanismi statali di controllo per affrontare le crisi finanziarie giocando sui tassi di interesse e iniettando liquidità nel sistema bancario. È per questo motivo che la crisi economica attuale, che imperversa fin dal 1968, non assume la forma della caduta brutale del 1929. La caduta è stata più graduale. La crisi ha barcollato da una recessione all’altra, di volta in volta più seria e più estesa, passando da una falsa ripresa all’altra, sempre più breve e più limitata. Questo scivolare della crisi in una spirale discendente ha permesso alla borghesia di negare l’esistenza della crisi ed il fallimento del suo sistema, ma a costo di sovraccaricare il sistema capitalistico sotto montagne di debiti e l’accumulo delle contraddizioni più pericolose. L’indebolimento estremo del sistema finanziario mondiale testimonia dell’usura di tutti questi palliativi usati dalla borghesia.
La crisi attuale non genererà certo un arresto brutale dell’economia come quello del 1929. Tuttavia, a ben guardare, per molti aspetti essa è ben più seria e profonda. Negli anni ‘30, negli Stati Uniti, quando il New Deal inaugurò il programma di rilancio dell’economia per tentare di affrontare la sua crisi di sovrapproduzione, il finanziamento dell’insieme delle misure creditizie dei prestiti di Stato rappresentò solamente una parte minima del reddito nazionale annuale (l’equivalente di meno di tre mesi di spese militari durante la Seconda Guerra mondiale)! Oggi, il debito americano ha già raggiunto il 400% del suo P.N.L.! La certezza di alcuni ambienti capitalistici “che la Grande Depressione degli Stati Uniti (…) avrà delle conseguenze senza paragone con la crisi del ‘29, (...) anche se il ‘29 resta l’ultimo punto di possibile paragone nella storia moderna”13 rivela la preoccupazione della borghesia! La crisi del 2007 ha un impatto direttamente mondiale. “Così come il contagio all’economia reale è già in corso non solo negli Stati Uniti ma sull’intero pianeta, il crollo dei mercati immobiliari inglese, francese e spagnolo è ormai in programma per questo fine anno 2007, mentre l’Asia, la Cina ed il Giappone devono far fronte contemporaneamente alla caduta delle loro esportazioni verso il mercato americano ed al calo veloce del valore di tutti i beni in dollari USA (divisa monetaria degli Stati Uniti come buoni del tesoro, azioni di imprese USA, ecc.)”14.
Questa prospettiva di severa recessione insieme alla spinta inflazionistica darà luogo dappertutto ad un deterioramento brutale delle condizioni di vita e di sfruttamento della classe operaia ed ad una povertà crescente ed irreversibile in tutto il mondo. Nonostante tutte le promesse dei politicanti di ogni risma, il capitalismo, avendo esaurito i suoi palliativi, è oggi incapace di trovare la benché minima via d’uscita e di nascondere il suo palesa fallimento. L’unica prospettiva che può offrire all’umanità è sempre maggiore miseria. Il futuro, la speranza e la salvezza dell’umanità appartengono alla lotta della classe operaia!
Scott (novembre 26)
1. Le Monde del 17 ottobre 2007.
2. La Republica, dal Courrier International n.888.
3.3 Subprimes : crediti ipotecari a rischio.
4. Dopo l’esplosione della bolla speculativa Internet nel 2000-2001 e di fronte al rischio di un tuffo brutale nella recessione, lo Stato americano all’epoca creò intenzionalmente e consapevolmente una nuova bolla per sostenere i consumi, la bolla immobiliare, sistematizzando i prestiti alle famiglie americane più povere. E’ bastato qualche anno per far esplodere anche questa con rischi ancora maggiori per l’economia mondiale (leggi il nostro articolo “La crisi immobiliare, un sintomo della crisi del capitalismo” sul nostro sito web).
5. “La massa dei soldi circolanti è determinata dalla somma dei prezzi delle merci (per un valore costante della moneta), e questa somma dei prezzi dalla massa delle merci in circolazione” (Engels, Sul capitale). L’aumento della quantità di valuta in circolazione senza aumento della produzione delle merci costituisce una svalutazione; i prezzi (espressione monetaria del valore) devono aumentare perciò nella stessa proporzione per esprimere il valore delle merci il quale non cambia.
6. Libération, 2 novembre 2007.
7. Le Monde, 20 ottobre 2007.
8. Nouvelle solidarité, 3 settembre 2007.
9. 9Bloomberg, 19 agosto 2007.
10. 10J. Sheeran, direttrice esecutiva del programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite.
11. Nanfang Zhoumo, giornale di Canton.
12. A giusta ragione, poiché non esiste altro che la distruzione del capitalismo!
1313. Global Europe Anticipation, bollettino n°17.
14.14 Id.
Pubblichiamo qui di seguito un volantino che abbiamo ricevuto dai compagni di Enternasyonal Komünist Sol (EKS) in Turchia e che prende posizione contro le minacce di guerra dello Stato turco contro i Kurdi alle frontiere con l’Iraq. La versione completa di questo volantino può essere letta sul nostro sito in lingua turca (EKA), tedesca ed inglese.
Ancora una volta sono arrivate recenti notizie di bambini di operai sacrificati nella guerra contro i Kurdi nel Sud-est. La borghesia ed i suoi media chiedono come sempre più sangue e caos. Ora è tutta la popolazione ad essere sospettata di terrorismo. Ma perché accadono tali cose?
Perché lo Stato borghese è uno Stato in crisi. Alla Turkish Airlines, alla Türk Telecom e alla Novamed, ci sono stati degli scioperi, e la classe operaia resiste agli attacchi dello Stato. Il debito internazionale aumenta ed il capitale, sempre più fittizio, diventa sempre più fragile sul mercato mondiale monetario e ne fa pagare le spese alla classe operaia. La borghesia conta sullo sviluppo di una campagna razzista per fare perdurare questa situazione, come si può vedere con lo sfruttamento degli operai Kurdi che sono sfruttati a basso costo proprio come gli operai turchi abbandonati in mezzo alla strada, in situazioni inenarrabili. La conseguenza politica di questa situazione si vede nelle grida di guerra che non risolvono niente. I muri ideologici dello Stato borghese traballano tutti i giorni. Più le condizioni di vita operaia sono dure e rimesse in questione, più la società capitalista si spinge verso la decomposizione e perde le ragioni della sua esistenza. Per l’ala nazionalista della borghesia, il problema è, come sempre, la cospirazione condotta dagli Stati Uniti. Secondo questa, se le Forze armate turche invadono l’Iraq, “il terrore sarà sradicato”. In realtà sono passati tre anni da quando gli Stati Uniti volevano mandare i giovani figli della classe operaia della Turchia a battersi contro altri operai in Iraq, ma la borghesia turca è stata incapace di farlo a causa della sua incapacità a convincere gli operai ad andare in guerra ed a causa della sua impotenza e della sua debolezza. La verità è che la borghesia turca si è sempre allineata dietro gli Stati Uniti e che le forze armate turche si tengono pronte ad uccidere operai in Libano ed in Afghanistan se necessario. Contrariamente alla menzogna dell’ala nazionalista destinata a convincere gli operai, non c’è conflitto di interessi tra lei e l’imperialismo americano. Al contrario, esistono degli interessi comuni e l’esercito turco è l’esecutore armato di quest’alleanza. Inoltre, non solo si avranno più massacri nel nord dell’Iraq con di più “soldati” uccisi e più “civili” spinti nei campi di concentramento ed assassinati nei campi di battaglia, ma ci saranno anche più bombe che esploderanno nelle città.
L’ala islamica e liberale della borghesia come sempre non approva la guerra. Certamente, il fatto che abbiano dei dubbi su come “l’operazione” si condurrà è solo espressione di chi cerca di avere il permesso dagli Stati Uniti. Per ciò non c'è altra scelta che aspettare “pazientemente” di ottenere un compromesso con Barzani e Talebani e massacrare degli operai nei luoghi vitali che essi indicheranno.
Come per l’ala sinistra della borghesia nessuno si preoccupa della fame, della miseria, della povertà e della morte degli operai. Tutti giocano delle diverse retoriche per giustificare la loro posizione. In breve, ci mostrano ancora una volta ciò che rappresenta i parlamenti.
Di conseguenza gli operai della Turchia vengono spinti verso il vicolo cieco mortale del ciclo di più guerra, distruzione, terrore e caos che tocca il Medio Oriente, a causa della borghesia che si strainfischia della loro vita o della loro morte. Perché il capitalismo può respingere la sua crisi insolvibile solo tirando l’umanità verso una sempre maggiore distruzione.
La risposta del proletariato mette in luce la strada verso l’avvenire, come si è potuto vedere nello sciopero alla Telekom. Un semplice sciopero che si è sviluppato per parecchi giorni è bastato a fare tremare la borghesia. Solo se gli operai entrano in lotta in solidarietà coi loro fratelli di classe e dicono no alla guerra internazionalmente, possono fermare il massacro imperialista.
Il modo per fermare la guerra ed i massacri è costruire la solidarietà di classe al di là delle frontiere dei fronti militari. Il nemico non sono i nostri fratelli e le nostre sorelle di classe ma i capitalisti, quelli seduti nelle loro case ben al caldo!
Enternasyonal Komünist Sol, dicembre, 2007
Lo sciopero dei lavoratori dei trasporti (SNCF e RAPT) che ha avuto fine il 22 novembre (e che si è svolto simultaneamente alla lotta degli studenti contro la legge sulla “autonomia delle università” che punta ad accentuare le diseguaglianze tra i giovani provenienti dalla classe operaia e quelli della borghesia) costituisce la prima risposta significativa della classe operaia in Francia contro gli attacchi del governo Sarkozy/Fillons/Pécresse e compagni. Lo smantellamento dei regimi speciali di pensionamento (37,5 anni di contributi necessari per i ferrovieri e altri lavori usuranti, 40 per tutti gli altri) non è stato che l’inizio poiché il governo ha annunciato chiaramente che la prospettiva è per tutti all’aumento degli anni di contributi necessari per la pensione. In questo senso, ed anche la stampa è stata abbastanza chiara su questo, era di primaria importanza per la borghesia riuscire a far passare questo primo attacco per non compromettere il successo di tutti i successivi. È per questo che i lavoratori dei trasporti hanno rifiutato la riforma esigendo non solo il mantenimento dei loro regimi speciali ma anche l’abolizione di questo “privilegio” che può solo mettere i lavoratori in competizione gli uni contro gli altri. La parola d’ordine dei ferrovieri e dei lavoratori della RAPT è stata perciò: “37,5 anni PER TUTTI!”
La preparazione del “braccio di ferro” della borghesia
L’attacco contro i regimi speciali è stato oggetto di consenso da parte di tutte le forze del capitale. Il PS non è stato da meno affermando con chiarezza di essere favorevole alla riforma. L’unica “divergenza” col governo stava sulla forma (come farlo passare?) e non sul contenuto. Per fare passare questo attacco e preparare il terreno ai successivi la borghesia ha dovuto imbastire una gigantesca manovra per spezzare la schiena alla classe operaia e farle capire che “lottare non serve a niente”. E per fare passare meglio questo messaggio, la classe dominante si è data come obiettivo annullare nella coscienza dei proletari le lezioni della lotta della nuova generazione contro il CPE della primavera 2006.
La borghesia sapeva che questo atto di forza avrebbe incontrato la resistenza della classe operaia. Cosa confermata dalla giornata di mobilitazione del 18 ottobre (usata da governo e sindacati per “tastare il polso”) dove si è manifesta una combattività molto forte: percentuale record di coinvolgimento allo sciopero nei trasporti e, nonostante questo, importante partecipazione alle manifestazioni dei lavoratori di tutti i settori. A piedi, in bicicletta o usando le auto-collettive, bisognava mostrare il proprio rifiuto delle misure del governo.
Per stroncare questa combattività, la borghesia ha agito in due tempi.
Di fronte alla volontà dei lavoratori di proseguire lo sciopero dopo la giornata del 18 ottobre, la CGT ha dato un netto colpo di freno affermando “Solo un giorno e non di più” e programmando una seconda giornata di mobilitazione per il 13 novembre. L’obiettivo del 18 ottobre era “lasciar sfiatare un po’ la pentola a pressione” per evitarne l’esplosione. Per tale motivo lo sciopero del 13 novembre, nonostante la forte percentuale di partecipazione, è stato meno seguito rispetto a quello del 18 ottobre.
Per spezzare la schiena alla classe operaia ed impedire lotte future, la borghesia ha utilizzato una strategia classica (che già aveva dato prova di efficacia negli anni 1980 e 1990): ha scelto un settore bersaglio per sviluppare la sua manovra, quello dei trasporti ed in particolare la SNCF (Società nazionale delle ferrovie). Un settore numericamente minoritario il cui sciopero non poteva che creare disagi agli altri lavoratori (gli “utenti”). L’obiettivo era rendere lo sciopero dei trasporti impopolare per spingere gli “utenti” contro gli scioperanti, dividere cioè la classe operaia, rompere la solidarietà all’interno di questa, evitare ogni tentativo di allargare la lotta e colpevolizzare gli scioperanti. La seconda ragione per la quale la borghesia ha deciso di attaccare specificamente i settori che hanno un “regime speciale” è che, in questi ultimi, i sindacati (ed in particolare la CGT) sono particolarmente forti, il che garantiva un controllo maggiore della combattività ed evitava ogni “scavalcamento”. Infine, la terza ragione che giustifica la scelta di questi settori “bersaglio” sta nel fatto che questi tradizionalmente sono segnati da un forte spirito corporativo (principalmente la SNCF) che è sempre stato alimentato dai sindacati.
La divisione dei compiti tra governo e sindacati
La borghesia ha dovuto giocare in maniera “serrata” perché doveva portare attacchi simultanei contro tutti i settori della classe operaia (esenzioni mediche, la legge di Hortefeux, legge su “l’autonomia” delle università, regimi speciali delle pensioni, aumento dei prezzi, soppressioni di posti di lavoro nella funzione pubblica e principalmente nell’istruzione nazionale, ecc.). La classe dominante si è dunque preparata ad affrontare il pericolo di una simultaneità di lotte in molti settori. In particolare, quando i lavoratori dei trasporti sono entrati in lotta gli studenti erano già mobilitati.
La manovra di divisione e frammentazione delle lotte doveva dunque svolgersi secondo un calendario ben preciso:
- La giornata di mobilitazione degli statali del 20 novembre non solo doveva servire da “valvola di sfogo” di fronte al malcontento in aumento nelle loro fila, ma doveva anche servire da giornata di affossamento dello sciopero dei lavoratori delle ferrovie e della RATP; in un certo senso doveva essere un “funerale nazionale”;
- Era necessario che ogni sindacato giocasse la propria parte in questa concertazione. In un primo tempo, fino alla giornata del 18 ottobre, bisognava dare una sensazione di “forza” ai ferrovieri, giocando la carta dell’unità di tutti i sindacati. Dopo, i sindacati hanno iniziato a giocarsi la carta della divisione. Alla FGAAC (sindacato strettamente corporativo dei conduttori) è toccato fare il primo passo: questa firma con la direzione un accordo separato a beneficio dei soli conduttori e chiama alla ripresa del lavoro. Bisognava mettere zizzania fra i ferrovieri. In alcuni depositi gli altri conduttori esplodevano: “gli autonomi ci hanno mollato!”. Chiaramente questo primo colpo basso è stato ben propagandato dai media;
- Il secondo colpo viene dato alla vigilia dello sciopero del 13 novembre. Mentre i ferrovieri ed i lavoratori della RAPT cominciano a capire la manovra di divisione (e esigono “37,5 anni PER TUTTI”!), Bernard Thibault, segretario generale della CGT, annuncia di rinunciare ad una negoziazione globale per tutti i settori dei regimi speciali e propone negoziati separati impresa per impresa. Questo brutto colpo non può che indebolire la risposta dei ferrovieri;
- A questo punto si può passare alla realizzazione della terza fase: il fronte sindacale si divide, in particolare con l’appello alla ripresa del lavoro lanciato dalla CFDT e con la frattura tra la CGT, maggioritaria, che ha accettato (senza squilli di tromba) il principio del passaggio ai 40 anni di contributi ed i sindacati “radicali”, Sud e FO, che hanno continuato a chiedere il ritiro di questa misura. Nello stesso tempo, il primo ministro Fillon, afferma la sua indisponibilità assoluta a fare marcia indietro sui 40 anni di contributi e pone come pregiudiziale all’apertura dei negoziati la ripresa del lavoro. Questa politica di ricatto non è nuova: gli scioperanti sono chiamati a deporre le armi (ad accettare la “legge del più forte”) prima di “negoziare” qualche briciole. Per i lavoratori in lotta ciò è inaccettabile, ma permetterà ai sindacati di presentare “l’apertura delle negoziazioni” come una prima vittoria. Questo è un “classico” della divisione di compiti tra padronato e sindacati. In realtà i dadi sono truccati fin dall’inizio perché sindacati e padronato non aspettato i “negoziati” ufficiali ma discutono continuamente alle spalle dei lavoratori: in particolare per i sindacati si tratta di render conto ai padroni della “temperatura” che c’è in modo da poter definire insieme in che direzione è necessario manovrare. Durante quest’ultima lotta, tali manovre sono state così evidenti da essere riportate in dettaglio persino da alcuni organi di stampa borghese!1
Ecco perché lo slittamento dell’apertura dei “negoziati” al 21 novembre, dopo la giornata di sciopero della funzione pubblica, era un completo bidone. Se la CGT ed il governo rinviavano l’inizio delle discussioni ufficiali non era solo per rendere questa giornata di mobilitazione uno strumento di affossamento dello sciopero dei tranvieri parigini e dei ferrovieri, ma anche per prolungare il movimento al fine di farlo “marcire” aizzando i lavoratori gli uni contro gli altri, avendo il tutto come sfondo una campagna mediatica di criminalizzazione degli scioperanti per rendere lo sciopero impopolare.
La CGT esce da questo tavolo di trattativa annunciando “importanti passi in avanti” con l’attuazione di un “calendario di negoziati” fino al ... 20 dicembre. Prevedere di farli durare un mese, significava dare il segnale della ripresa del lavoro: i ferrovieri evidentemente non sono disposti a continuare per altre 4 settimane. La CGT, sindacato maggioritario fra i ferrovieri, annuncia che “lascia” le assemblee “decidere da sole”. Non chiama ufficialmente alla ripresa del lavoro ma è come se lo facesse2.
Dal canto loro, Sud e FO chiamano, in un primo tempo, a proseguire il movimento dal momento che la richiesta principale, il mantenimento dei 37,5 anni di contributi, non era stata soddisfatta.
Ma la ripresa del lavoro si farà progressivamente deposito dopo deposito per la SNCF e linea dopo linea per la RAPT.
Questa opposizione tra sindacati moderati e sindacati “radicali” non ha niente di nuovo né di improvvisato. È una vecchia tattica che ha già dimostrato la sua efficacia in tutte le lotte operaie fin dalla fine degli anni ‘60. Una tattica già sperimentata nel 1968 (e che il “vecchio saggio” Chirac, così come l’ex-maoista Kouchner, ricordano perfettamente). Alla fine del movimento operaio del 1968 la CGT, maggioritaria, giocò già allora il ruolo del moderato chiamando alla ripresa del lavoro. E toccò alla CFDT (!), minoritaria, il compito di giocare quello “radicale” opponendosi alla ripresa. L’esperienza dei lavoratori della vecchia generazione mostra che fare il più “radicale” non impedisce ad un sindacato di partecipare alle manovre di divisione e di sabotaggio. Non è perché si è “oltranzisti” che si difendono gli interessi della classe operaia. Perché quello che fa la forza dei lavoratori, non sono i movimenti minoritari e che durano a lungo, nei quali si perdono inutilmente la propria energia e molti soldi, mentre si rafforza la divisione (tra quelli che lavorano e quelli che non lavorano) ed il rancore di quelli che hanno lottato con la sensazione che gli altri li hanno “mollati”. La forza della classe operaia è innanzitutto e soprattutto la sua unità. È la lotta di massa e l’estensione del movimento e non il rinchiudersi su posizioni oltranziste di una minoranza (che possono condurre alcuni operai a reazioni disperate, come il sabotaggio dei mezzi di produzione, che danno l’occasione a campagne di criminalizzazione degli scioperanti). In tutti i settori, del pubblico e del privato (così come fra gli studenti), i proletari saranno necessariamente portati a comprendere che il “radicalismo” di sindacati minoritari che spingono verso azioni isolate non ne fa dei “veri difensori” della classe operaia più di quanto non lo facciano gli appelli alla ripresa del lavoro delle più grandi ed influenti centrali sindacali.
La giornata di insabbiamento del 20 novembre
Questa gigantesca manovra che mirava a spezzare la schiena alla classe operaia è stata coronata dalla pianificazione della manifestazione-funerale del 20 novembre quella che ha raggruppato 750.000 lavoratori. La strategia delle direzioni sindacali è consistita nel chiamare i lavoratori della funzione pubblica a scendere in strada (in particolare per protestare contro la riduzione degli effettivi e la perdita del potere d’acquisto) mentre al contempo boicottavano la loro mobilitazione. I volantini sindacali che chiamavano a partecipare alla manifestazione sono arrivati sui posti di lavoro ... dopo il 20 novembre! Nella maggior parte degli ospedali, non si sono nemmeno sprecati ad indicare l’ora ed il luogo dell’appuntamento. Per sapere se questa manifestazione ci sarebbe stata o no si doveva andare alla ricerca di informazioni (su Internet, nei giornali o telefonicamente). Perché questo boicottaggio? Perché il “termometro” indicava che la temperatura nella funzione pubblica stava aumentando. Lo sciopero dei ferrovieri e dei lavoratori della RAPT, lungi dall’essere impopolare (nonostante tutte le campagne diffuse dalla televisione) stava invece guadagnando la simpatia di numerosi “utenti”. I media ed il governo (con dichiarazioni sempre più “sferzanti” accompagnate da ridicole affermazioni di alcuni presidi di università che accusavano gli studenti in sciopero di essere “Khmer rossi”) hanno alla fine esagerato. Più il governo brandiva il bastone contro gli scioperanti, più lo sciopero guadagnava simpatia (ed anche il sentimento che bisognava essere solidali e non lasciarsi ingannare “dalle manipolazioni dei media al soldo di Sarkozy”). D’altra parte le contorsioni di Thibault sono state così ovvie che lui stesso è passato per il grande “collaboratore”, il “traditore”3. I sindacati hanno dovuto sabotare la mobilitazione degli statali per evitare che tutti i settori della funzione pubblica si potessero incontrare fianco a fianco ed uniti nella strada. Di contro, tutti i sindacati della polizia nazionale avevano mobilitato al massimo le loro truppe4: il 20 novembre è stata la prima volta che si sono visti tanti poliziotti manifestare a Parigi5. Inoltre, le direzioni sindacali (che hanno organizzato la manifestazione con la prefettura) si sono presi la briga di posizionare lo spezzone dei poliziotti proprio al centro del corteo. Così, molti lavoratori e studenti che non volevano sfilare dietro le forze di repressione hanno preferito non associarsi a questa mascherata rimanendo sui marciapiedi. Questo è stato un buon metodo per dissuadere in particolare gli studenti che, in più, sono stati costretti ad aspettare in piedi per tre ore sotto la pioggia, per a fare da “giunzione” con i salariati.
Nel suo intervento del 29 novembre, “l’onnipresidente” Sarkozy ha reso “omaggio a tutti i partner sociali”, salutando TUTTI i sindacati per il “loro senso di responsabilità” e specificando che “ha bisogno di loro per riformare”6 (o detto più chiaramente, che lui ha bisogno di loro per portare a buon fine tutti gli attacchi previsti per il 2008). Sapeva di cosa parlava e, per una volta, non posiamo dire che stava mentendo.
Lo sciopero dei lavoratori dei trasporti, in questo mese di novembre 2007, ha confermato ancora una volta ciò che i rivoluzionari affermano da numerosi decenni: TUTTI i sindacati sono organismi di difesa della borghesia e non degli interessi della classe operaia.
Sofiane (novembre 30)
1. Vedi in particolare Marianne n. 553, “Perché Sarkozy vuole salvare la CGT”. Chérèque, il capo della CFDT, ha lui stesso svelato il segreto: “C’è una forma di coproduzione tra il governo e la CGT per mostrare i muscoli”. È vero che le sue truppe hanno male accettato che lui abbia giocato il ruolo del “traditore”.
2. Una delle ragioni per le quali è stato possibile “sospendere” (come dice Bernard Thibault) il movimento, sta nel fatto che la CGT ha “negoziato” degli “avanzamenti”, trattandosi di lavoro usurante, che permettono di guadagnare qualche briciola in più: aumenti di salario a fine carriera (bella conquista! Tutti sanno che fino ad allora il salario ed il potere d’acquisto si abbasseranno!). Di nuovo una grande truffa per giustificare la ripresa e tentare di salvare il salvabile perché la borghesia ha ancora bisogno della CGT. Se il governo non avesse previsto di “concedere” questa elemosina, il capo della CGT non avrebbe potuto strombazzare: “ci sono state delle conquiste”. Ed anche questo obolo era stato deciso in anticipo, attraverso le telefonate destinate a preparare e aggiustare le misure che avrebbero permesso alla CGT di continuare a fare il suo lavoro di sabotaggio. Infatti, ben prima dell’incontro tra la CGT ed il governo, Thibault aveva già annunciato la ripresa del lavoro. Il che dimostra chiaramente che gli annunci fatti dai padroni e dal governo nei “negoziati” non erano che dei bidoni!
3. Tanto più che delegazioni di studenti sono andate un po’ ovunque a Parigi ed nella provincia per fare quello che loro chiamavano la “giunzione” con i salariati in maniera da creare una “convergenza delle lotte”.
4. In effetti, gli studenti non hanno inviato nessuna delegazione nei commissariati e gli altri servizi del ministero dell’interno per fare la “giunzione” con i poliziotti perché hanno potuto rendersi conto da soli che i funzionari della polizia non stanno dalla loro parte.
5. Anche il sindacato di destra “Alleanza”, vicino all’UMP (e che aveva intonato la Marsigliese all’inizio della manifestazione), è stato massicciamente presente affianco al sindacato UNSA (vicino al PS).
6.Tutte le citazioni sono disponibili sul www.lemonde.fr.La settimana scorsa il governo di Sarkozy/Fillon/Hortefeux/Pécresse e soci (col tacito accordo del Partito Socialista e dei vari gruppi della sinistra) hanno oltrepassato il Rubicone dell’infamia e della brutalità. Dopo aver cacciato manu militari gli immigrati alle frontiere di Hexagone in nome della politica di selezione degli “immigrati scelti” (“l’immigration choisie”), hanno ora attaccato selvaggiamente gli studenti in sciopero. La feroce repressione si è abbattuta sugli studenti in lotta contro la legge sulla privatizzazione delle università (chiamata LRU). Alcuni presidi di università, lacchè del capitale, hanno preso la vile decisione di far intervenire i CRS (Compagnies Républicaines de Sécurité, analoghi ai celerini italiani) e le squadre anti-sommossa per riappropriarsi, in nome della “democrazia” e della “libertà”, delle facoltà occupate di Nanterre, Tolbiac, Rennes, Aix-Marseille, Nantes, Grenoble...
L’ordine del terrore capitalista!
La repressione a Rennes, e specialmente quella a Nanterre, è stata particolarmente ignobile. I presidi delle università, che hanno fatto intervenire anche le unità cinofile, hanno lasciato che centinaia di poliziotti occupassero il suolo e sfollassero gli studenti con manganellate e gas lacrimogeno. Molti sono stati arrestati e feriti. I CRS hanno dimostrato la loro brutalità strappando gli occhiali ad uno studente di Nanterre (simbolo di quelli che studiano e leggono libri!) e schiacciandoli. L’informazione sarkosista serva del capitale, ha giustificato la repressione dando la parola ai presidi delle università. Il 13 novembre, nel programma televisivo 20 Heures di Channel 2, il preside dell’università di Nanterre dava questa giustificazione: “Questa non è una lotta, è delinquenza”. Altro servo isterico del capitale, il preside dell’università di Rennes non si fa scrupoli nel dichiarare che gli studenti in rivolta sono “terroristi e Khmer rossi”!
E’ chiaro che l’ex capo della polizia francese, Nicolas le Petit, è determinato oggi a “ripulire” le università francesi e a stigmatizzare i figli della classe operaia come “facinorosi”, “marmaglia” e “delinquenti” (come li chiama il preside di Nanterre). E tutti quelli che fanno politica non sono che “terroristi” (Madame Pécresse, ministro dell’università e della ricerca, afferma il 17 novembre alla rete LCI: “le occupazioni sono innanzitutto politiche”). Nel momento stesso in cui Alliot-Maire (ministro dell’interno) dava l’ordine ai suoi sbirri di attaccare le facoltà occupate, la sua “compagna” Madame Pécresse spingeva il suo cinismo fino ad affermare attraverso la TV di volere “rassicurare gli studenti” (sic!).
I lavoratori, sia del settore pubblico che privato, devono capire questo messaggio: tutti quelli che si imbarcano in uno sciopero “illegale” e “impopolare”, tutti quelli che come i lavoratori nella SNCF e nella RATP (ferrovie francesi) oseranno “prendere in ostaggio” gli “utenti” saranno messi all’indice come “terroristi”, come sovvertitori “dell’ordine pubblico” (e si può contare sui media e Tele-Sarkozy per ricordarcelo giorno dopo giorno).
Il vero “pericolo giallo” non sono i cosiddetti “khmer rossi” dell’università di Rennes. Sono i “sabotatori”, quelli che colpiscono e criminalizzano le giovani generazioni di lavoratori con l’aiuto degli spioni e dei lecchini, ovvero i presidi delle università. I veri “terroristi”, i veri criminali sono quelli che ci governano e che eseguono il lavoro sporco per questa classe di gangster: la borghesia decadente. Il loro ordine è quello del TERRORE implacabile del capitale.
Ma questa classe di criminali non si è accontentata di mandare i cani poliziotto ed i picchiatori CRS contro gli studenti in sciopero. In alcune università evacuate dai poliziotti, hanno avuto la faccia tosta di “confiscare” il fondo cassa per lo sciopero degli studenti. Il 16 novembre a Lione, ad esempio, gli studenti che occupavano la facoltà avevano fatto una colletta di qualche centinaia di euro. Mentre i CRS armati fino ai denti sbloccavano la facoltà, l’amministrazione dell’università ha confiscato i viveri portati dagli studenti e fatto man bassa del loro fondo cassa. Tutto ciò è ignobile, vergognoso e ripugnante! Questi metodi da piccolo delinquente della borghesia non hanno niente da invidiare a quelli dei “casseurs” delle periferie che sono stati manipolati dallo Stato borghese durante il movimento del 2006 contro il CPE (contratto di primo impiego) per attaccare gli studenti nelle manifestazioni e rubare loro i cellulari!
Ecco il vero volto della democrazia parlamentare: “l’ordine pubblico” è l’ordine del capitale. È l’ordine del terrore e del manganello, degli sbirri e dei media. È l’ordine della menzogna e della manipolazione delle varie Tele-Sarkozy! È l’ordine dei vari Machiavelli che cercano di dividerci per meglio regnare. È l’ordine di quelli che cercano di istigarci gli uni contro gli altri usando la strategia del governo uscente Villepin-Sarkozy nella primavera del 2006: l’uso della violenza per indebolire la lotta!
La solidarietà tra studenti e ferrovieri è la via da seguire
La repressione selvaggia contro gli studenti è un iniquo attacco contro tutta la classe operaia. La grande maggioranza degli studenti in lotta contro la privatizzazione delle università e la selezione basata sul reddito, sono figli della classe operaia e non della piccola borghesia benpensante come alcuni media e socio-ideologi del capitale vorrebbero far credere. Molti di loro sono figli di lavoratori del pubblico impiego o figli di immigrati (specialmente nelle università suburbane come a Nanterre o a Saint-Denis). La natura proletaria della lotta degli studenti contro la Legge Pécresse è stata dimostrata chiaramente dal fatto che gli scioperanti sono stati capaci di allargare le loro rivendicazioni: nella maggior parte delle università occupate hanno messo in avanti nella piattaforma rivendicativa, non solo il ritiro della LRU, ma anche la difesa dei regimi pensionistici speciali, il rigetto della legge Hortefeux e della politica di Sarkozy sulla “immigrazione scelta”, il rigetto dei ticket sui medicinali e di tutti gli attacchi del governo contro la classe operaia nel suo insieme. Hanno messo avanti la necessaria SOLIDARIETA’ che deve unire i lavoratori in lotta contro le divisioni corporative e contro le negoziazioni azienda per azienda, settore per settore promosse dai sindacati. Gli studenti sono stati capaci di far vivere concretamente questa solidarietà. Centinaia di studenti parigini, e non solo, si sono uniti alle manifestazioni dei ferrovieri (in particolare quelle del 13 e 14 novembre) in lotta contro la rimessa in discussione dei regimi speciali di pensionamento. In alcune città (Rennes, Caen, Rouen, Saint-Denis, Grenoble), questa solidarietà da parte delle giovani generazioni della classe operaia è stata accolta calorosamente dai ferrovieri che li hanno invitati a partecipare alle loro assemblee generali ed hanno condotto insieme alcune azioni (come quella alle uscite delle autostrade dove studenti e lavoratori permettevano alle auto di passare liberamente attraverso i caselli mentre spiegavano gli obbiettivi del loro movimento). Così oggi ci sono degli studenti e degli operai che riflettono, discutono, agiscono e mangiano insieme. In alcune università gli insegnanti ed il personale amministrativo si sono uniti alla lotta, come a Paris 8 -Saint-Denis.
La natura proletaria della lotta degli studenti è confermata anche dal fatto che occupando l’università, gli studenti non volevano solo occupare dei locali per poter tenere assemblee generali e fare dibattiti politici aperti a tutti coloro volessero parteciparvi (sì Madame Pécresse, la specie umana, poiché è dotata di linguaggio, a differenza delle scimmie, è una specie politica come hanno dimostrato dei ricercatori che lavorano nei “centri di eccellenza”!). In alcune facoltà gli studenti in lotta hanno deciso di utilizzare i locali per ospitare gli immigrati clandestini.
Ed è proprio a causa di questa solidarietà attiva che rischia di estendersi a macchia d’olio che il governo Sarkozy/Fillon (e le sue “lady di ferro” Pécresse, Alliot-Marie, Dati e altre “Mi-putes, Mi-soumises” [movimento femminista francese]) ha deciso di mandare i suoi sbirri per spezzare le reni alla classe operaia. La borghesia francese vorrebbe mettere in atto la stessa politica della Thatcher. Quello che vuole è interdire, come in Gran Bretagna, ogni sciopero di solidarietà in modo da avere le mani libere per assestare attacchi ancora più brutali nel 2008, dopo le elezioni municipali. Ed è oggi, con la prova di forza e l’uso della repressione, che la classe dominante ed il suo uomo di polso, Sarkozy, stanno cercando di imporre l’ordine “democratico” del capitale.
Il movimento di solidarietà tra studenti ed alcuni ferrovieri è la dimostrazione lampante che la lezione della lotta contro il CPE non è stata dimenticata nonostante l’assordante campagna elettorale delle recenti presidenziali. La solidarietà tra gli studenti in lotta ed una parte dei lavoratori della SNFC e della RATP mostra la via da seguire. E’ questa via che ogni lavoratore, occupato o disoccupato, francese di nascita o immigrato, del settore pubblico o privato, deve intraprendere risolutamente. È l’unica strada per la costruzione di un rapporto di forza contro gli attacchi della borghesia e di questo sistema decadente che ha una sola prospettiva da offrire alle nuove generazioni: disoccupazione, lavoro precario, povertà e repressione (oggi, manganelli e lacrimogeni, domani proiettili!).
Nel 2006, l’allora capo della sicurezza, Sarkozy, non mandò i CRS contro gli studenti che occupavano le facoltà, non perché avesse più scrupoli morali di adesso, ma solo perché era candidato alla presidenza e non voleva perdere il supporto di quelle parti dell’elettorato i cui figli vanno all’università. Adesso che è arrivato al potere vuole mostrare i muscoli e regolare i conti di tutta la borghesia francese che ha mal digerito il ritiro del CPE nel 2006 (non ha mostrato il vero umore quando ha affermato, all’indomani delle elezioni: “lo Stato non può retrocedere”?). Sarkozy vuole dimostrare alla cricca di Villepin che lui non si sgonfierà (perché come disse Raffarin, “non è la strada che comanda”). Il cinismo con il quale ha annunciato pubblicamente, in nome della “trasparenza”, l’aumento del 140% del proprio “salario” mentre ostenta la sua intransigenza negli attacchi contro il livello di vita dei proletari, è una vera e propria provocazione. Nel fare sberleffi alla classe operaia, il messaggio che vuol far passare è: “è fuori discussione rimettere in causa i privilegi della borghesia. Io sono stato eletto dai Francesi, ora ho carta bianca per fare ciò che voglio!” Ma al di là degli interessi e delle ambizioni personali di questo sinistro personaggio, Sarkozy rappresenta l’insieme della classe capitalista: deve quindi attenersi alle leggi del capitale. Il braccio di ferro con i ferrovieri ha un unico proposito: infliggere una cocente sconfitta all’insieme della classe operaia per cancellare quel sentimento diffuso con le lotte contro il CPE: solo la lotta unita paga. E’ per questo che Sarkozy non ha intenzione di cedere ai ferrovieri e vuole trasformare le università in fortezze di polizia.
Ma quale che sia il risultato del braccio di ferro tra il governo Sarkozy/Fillon/Pécresse e la classe operaia, la lotta sta già pagando: il movimento di solidarietà tra ferrovieri e studenti, che ha cominciato ad attrarre altre parti della classe (in particolare i lavoratori delle università), lascerà una traccia duratura nelle coscienze, come hanno fatto le lotte contro il CPE. Come tutte le lotte operaie che si sviluppano a livello internazionale, anche questa rappresenta un passo sul cammino che porta al futuro rovesciamento del capitalismo. Il principale guadagno della lotta è la lotta stessa, è l’esperienza di viva ed attiva solidarietà della classe operaia sulla via dell’emancipazione, e verso l’emancipazione dell’intera l’umanità.
Lavoratori “francesi” ed immigrati, del settore pubblico o privato, studenti dell’università e della scuola, disoccupati: un’unica e stessa lotta contro gli attacchi del governo!
Abbasso lo Stato di polizia!
Di fronte al terrore del capitale, solidarietà di tutta la classe operaia!
Sofiane (17 November 2007)
(da Révolution Internazionale, 384)
La questione dello smaltimento dei rifiuti in Campania è diventato un caso non solo nazionale, ma anche internazionale. Dei cumuli di spazzatura nelle strade campane se ne parla ormai in Germania, in Gran Bretagna, negli USA ed il Commissariato per l’ambiente dell’Unione Europea è pronto a sanzionare lo Stato italiano per le sue inadempienze su questo piano.
Ma la domanda che sorge è come mai si sia potuti arrivare a tanto, ad avere le strade invase da montagne di spazzatura che non si sa dove mettere. Di chi è la responsabilità? Dei napoletani che sono poco diligenti e che non vogliono imparare le regole della raccolta differenziata? Oppure delle popolazioni dei singoli comuni della regione che si ribellano contro l’insediamento nel loro territorio di una nuova discarica o di un nuovo impianto per la loro gestione? O forse è tutta colpa della camorra, che certamente nel traffico illecito dei rifiuti ci marcia alla grande? Ha ragione Beppe Grillo a urlare contro Bassolino e la Iervolino dicendo loro di tornare a casa? Esiste oggi un’alternativa politica istituzionale su cui puntare? E se no, cosa fare?
Per rispondere a tutte queste domande, abbiamo bisogno anzitutto di capire come mai si pone oggi il problema dei rifiuti in Campania. E per fare questo, dobbiamo ancora chiederci: è proprio vero che è soltanto un problema campano? E se no, da dove nasce? E ancora, in che modo è possibile dare un contributo alla soluzione di questo problema?
Qual è la situazione?
La situazione dei rifiuti in Campania ha dei caratteri veramente allucinanti e drammatici. Dopo 14 anni di commissariamento delle istituzioni locali, dopo 2 miliardi di euro spesi ci siamo ritrovati oggi con 120.000 tonnellate di rifiuti lasciati a terra per le strade della Campania, principalmente tra Caserta e Napoli, bloccati non da un inefficiente o insufficiente servizio di nettezza urbana ma dal fatto che non si sa dove metterli. Le discariche sono piene, gli inceneritori non sono ancora pronti, la raccolta differenziata non è mai decollata e le balle di rifiuti secchi non sono mai diventate vere eco-balle ma sono rimaste spazzatura imballata e basta. Gli attuali 7 milioni di “eco”-balle sparse sottoforma di funeree piramidi in tutto il territorio campano costituiscono oggi una delle vergogne maggiori del sistema capitalista italiano. Queste balle, che avrebbero dovuto essere eco-balle, dovevano andare negli inceneritori e convertirsi in energia. Oggi si viene a sapere che questo non è possibile secondo i metodi normalmente adottati nei termovalorizzatori e si parla già di passare ad una inertizzazione di queste balle (che comunque, essendo spazzatura, producono per dilavamento e fermentazione percolato e dunque contaminazione dei suoli su cui sono depositate) attraverso ad esempio, una cementificazione, che comporta impiego di ulteriore materiale (il cemento), un aumento del volume del rifiuto e la perdita secca dell’energia che poteva essere recuperata. E poi, dove si mettono? Una delle trovate è ammassarle nelle 124 cave dismesse o sequestrate alla camorra. Ma ammettiamo pure che fosse stato possibile recuperare queste balle come combustibile. L’inceneritore di Acerra, che doveva essere pronto per inizio 2008, lo sarà forse per il 2009. Tale impianto, che è un megainceneritore da 750.000 t/anno, funzionando da solo e senza tregua può bruciare tutti e 7 milioni di eco balle in non meno di 9 anni e mezzo. Ma contemporaneamente ci sono tante altre eco balle che vengono prodotte (2200 al giorno in Campania cioè 803.000 l’anno ognuna di 1 tonnellata)) per cui lo scenario che si profila somiglia tanto a quello dell’apprendista stregone che, perso il controllo della bacchetta magica, non riesce più a fermare il flusso dell’acqua che stava cercando di prelevare.
Per risolvere l’emergenza immediata l’altra soluzione trovata è stata quella di riaprire la discarica di Pianura chiusa anni fa perché ormai colma, cercando di fare entrare altra spazzatura nel poco spazio recuperato dall’abbassamento del livello in questi anni, discarica messa adesso sotto sequestro. Intanto, per affrontare l’emergenza, l’unica soluzione è spostare i rifiuti dalla Campania alla Sicilia , alla Sardegna o in Germania.
Ma in effetti la situazione è ancora più drammatica perché non riguarda solo come verranno smaltiti i rifiuti accumulati, ma anche e soprattutto i disastri all’ambiente e di conseguenza alla salute delle persone che la gestione assurda dello smaltimento dei rifiuti ha già provocato e continuerà a provocare. Adesso che è scoppiato il caso escono fuori i dati e le statistiche e si viene a sapere che nelle zone della Campania a maggiore concentrazione di discariche, legali e non, dal ‘91 al 2001 il tasso di mortalità è aumentato del 43% negli uomini e del 47% nelle donne e le morti sono dovute a: tumore allo stomaco, al fegato ed ai polmoni, mentre aumentano le malformazioni fetali. Si viene a sapere che il bestiame di queste zone muore o nascono animali senza occhi, senza mandibole ed altre deformità a causa della diossina accumulata nei terreni. E su questi stessi terreni, dove ci sono anche altre sostanze tossiche, crescono ortaggi, frutta e verdura che arrivano sulle tavole di tutta Italia.
Il problema è globale
Ma pensare che questo sia il problema di Napoli o della Campania sarebbe sbagliato. Quello che succede in questa regione è solo l’espressione più drammatica di una contraddizione che è tipica della produzione capitalista e che non dipende semplicemente dall’incapacità di questo o quel politico di turno (tanto più che nel periodo di 14 anni sono passate giunte di destra e di sinistra) né dalla strafottenza del “popolo napoletano”, ma che è un’espressione dell’irrazionalità del capitalismo. L’umanità ha sempre prodotto rifiuti, ma questi sono stati sempre reintegrati, riutilizzati, recuperati. E’ con la società capitalista che il rifiuto diventa un problema perché il bene diventa una merce che deve essere venduta e commercializzata per realizzare il massimo profitto in un mercato dove l’unica legge è quella della concorrenza. Cosa comporta questo:
1) una produzione irrazionale della merce con un’eccedenza di prodotti. Non si produce per soddisfare i bisogni ma per realizzare profitto;
2) una produzione abnorme di involucri, imballaggi, ecc. costituiti tra l’altro in larga misura da sostanze tossiche non degradabili che si accumulano nell’ambiente. Negli ultimi 25 anni in Italia, a parità di popolazione, la quantità di rifiuti è raddoppiata grazie ai materiali che costituiscono gli imballaggi.
3) la necessità, dettata dalla concorrenza, di produrre enormi quantità di merce e prodotti per la sua commercializzazione (imballaggi, materiale per la pubblicizzazione, ecc) usando materiali e procedure al minor costo possibile, nonostante i danni all’ambiente ed all’uomo stesso che questi producono.
La logica di questo sistema non è produrre quello che serve a soddisfare i bisogni dell’umanità e quindi consumare secondo le reali necessità della collettività. Nel capitalismo la logica è quella del guadagno dell’impresa, del singolo capitalista, del singolo Stato capitalista e questa logica porta a quantità enormi di prodotti di rifiuto. Ogni anno nel modo si producono miliardi di tonnellate di rifiuti. Nella sola Italia negli ultimi 15 anni la produzione dei soli Rifiuti Solidi Urbani è più che raddoppiata raggiungendo nel 2005 la cifra di 30 milioni di tonnellate all’anno, cioè 1,4 kg procapite al giorno di cui il 40% in peso e il 50% in volume costituito da materiale da imballaggio (carta, cartone, materie plastiche, legno). E teniamo presente che i RSU sono solo una parte, e non la più grande, dell’insieme dei rifiuti prodotti.
Come per il problema più generale dell’inquinamento ambientale, di cui la questione dei rifiuti fa parte, questo è un problema generale la cui radice sta nel modo di produzione capitalistico e non può trovare una soluzione effettiva se non eliminando questo sistema di produzione
Ma allora perché solo in Campania scoppia l’emergenza adesso, mentre al nord o in altre nazioni no?
Ma non hanno ragione i vari Grillo e compagni a denunciare una classe dirigente locale inefficiente e collusa con la camorra? Non ha ragione Oreste Scalzone che alla manifestazione del 9 a Napoli ha detto che il capitalismo campano, “a differenza degli altri capitalismi che possono essere liberisti, stalinisti, fascisti … è un capitalismo camorrista”?
Certo! Il degrado della Campania, ed in genere delle regioni del sud - e non solo per quanto riguarda la spazzatura, ma per molti altri aspetti - sono dovuti in buona parte all’inefficienza e alla difesa di interessi economici e di potere di persone e di gruppi politici. Ed è sicuramente vero che la camorra in Campania, così come la ndrangheta in Calabria o la mafia in Sicilia, tengono in mano interi settori dell’economia e non solo quello dei rifiuti, ma anche nell’edilizia ad esempio. Ma bisogna ricordare che il connubio mafie, potere politico (sia periferico che centrale) ed imprenditoriale c’è sempre stato. La mafia siciliana ad esempio ha permesso e reso possibile lo sbarco degli americani in Sicilia per assumere dopo la liberazione il ruolo di cane da guardia della popolazione e della classe operaia in particolare, intervenendo puntualmente contro ogni iniziativa di lotta e svolgendo sul posto una funzione cruciale di repressione per la neonata Repubblica Italiana. Parimenti la camorra è responsabile delle discariche abusive in Campania, ma è anche vero che, come giustamente denuncia Saviano, la camorra non fa altro che farsi veicolo di tutta una serie di imprenditori del nord che scaricano nelle zone depresse della Campania tutta una serie di rifiuti tossici il cui smaltimento a norma costerebbe loro enormemente di più.
Quindi è vero che queste cose esistono, ma la loro esistenza è propria e connaturata al capitalismo, ad un sistema nel quale non esiste etica, non esiste morale se non quella del profitto.
E non è un caso se l’emergenza rifiuti si avverte in Campania, ed in genere nel sud, più che altrove. E’ nelle zone più deboli del capitalismo che emergono prima e con maggior forza le contraddizioni e le falle di un sistema di produzione. E’ così nei paesi del terzo mondo o in quelli del sud America ad esempio. Il meridione è storicamente la zona più arretrata del capitalismo italiano, dove quindi le mafie hanno potuto impiantarsi con maggiore forza, ma soprattutto dove gli aspetti della decomposizione e del degrado di questo sistema sociale sono più evidenti per l’ampiezza che assumono, e non solo per il problema di rifiuti, ma anche per la disoccupazione, la precarizzazione, la delinquenza, ecc.
Se nel nord o in altri Stati la classe dirigente riesce ancora a mantenere un minimo di efficienza nello smaltimento dei rifiuti, questo non deve farci perdere di vista la dimensione globale del problema e la mancanza di una soluzione a questo all’interno del capitalismo.
La reazione della gente
Di fronte ai quintali di spazzatura nelle strade e stanca di decenni di degrado, menzogne e prese in giro, la gente è scesa nelle strade. Famiglie intere, donne, vecchi e bambini hanno fatto barricate per impedire che altri camion di spazzatura fossero scaricati vicino alle loro case. Ha fatto blocchi stradali perché stanca di non poter respirare per la puzza e con l’incubo di ammalarsi se esci di casa. Si batte per impedire che il posto dove vive diventi o ritorni ad essere un luogo dove ci si ammala di tumore. Ci sono stati episodi di esasperazione come l’incendio di cumuli di spazzatura i cui fumi aumentano i rischi per la salute; ci sono stati scontri con la polizia, con arresti e feriti. E certamente la composizione eterogenea del movimento e la situazione di esasperazione ha creato un terreno favorevole per azioni di violenza fine a sé stessa, quali ad esempio l’assalto ai camion dei vigili del fuoco, rispetto alle quali la maggior parte dei partecipanti alla lotta si è dissociata.
Ma occorre anche cogliere degli aspetti inediti importanti che sono emersi, sia nella inquietudine della gente negli ultimi giorni, sia nella manifestazione-fiaccolata del 9 gennaio scorso a Napoli. Il primo di questi aspetti, che ci sembra tra i più importanti, è lo sdegno profondo della gente per il degrado ambientale, sanitario, morale ed anche etico in cui questa è costretta a vivere. La gran parte delle persone presenti alla manifestazione del 9 non era composta dai soliti quadri dei gruppi politici della sinistra extra parlamentare e non (che naturalmente non mancavano), ma da gente comune, di ceti bassi e medi, di gente povera e meno povera, tutti lavoratori in linea di massima, che in buona parte per la prima volta (almeno dopo molti anni) si incamminavano per le strade a fare una manifestazione. Questo sentire profondo dei manifestanti era in realtà l’espressione di un disagio che tutta la popolazione della regione avverte per un problema che sembra irreale per quanto è fuori del normale.
E’ vero che la manifestazione (ed in generale il clima politico intorno a questa vicenda) è stata fortemente plasmata da un’atmosfera di democraticismo, che porta all’illusione che una gestione alternativa della politica possa dare risultati diametralmente opposti a quelli attuali. Il che ha prodotto slogan del tipo: “Nelle vostre dimissioni c’è il nostro futuro …” o ancora “Napoli è qua per la legalità”. Democraticismo ed illusione alimentate dalle varie forze di destra e di sinistra dell’apparato politico della borghesia, ognuna delle quali cerca di sfruttare lo sdegno e la rabbia della gente per gettare sugli altri la responsabilità e proporsi come alleato della popolazione. Ma è anche vero che, proprio a partire dalla concretezza delle cose, la gente ha cominciato a perdere fiducia nella politica rappresentativa dei “partiti”, ha capito dalle questioni concrete che destra e sinistra dicono e fanno le stesse cose.
Una presa maggiore invece, hanno quelle forze “senza partito”, quali appunto i Grillo, gli Alex Zanotelli che, puntando il dito su personaggi quali Bassolino, Jervolino, sul governo di turno o ponendo false alternative come “inceneritore si, inceneritore no” e “lotta alla camorra”, rafforzano la falsa idea che sia possibile vivere meglio in questo sistema, ostacolando una presa di coscienza sulle motivazioni di fondo del degrado a cui si è costretti a vivere.
Un altro elemento va sottolineato. La scelta di inviare De Gennaro come super commissionario per l’emergenza rifiuti non è un caso. De Gennaro è quello che ha saputo assumersi la responsabilità del pugno di ferro durante le manifestazioni contro il G8 di Genova nel 2001 e la sua nomina, oltre che una garanzia di efficienza per la borghesia, è anche un minaccioso messaggio alla popolazione a non andare oltre la democratica e pacifica manifestazione del proprio disagio.
Guarda caso il no global nostrano Caruso, che ha tanto sbraitato ai tempi del G8 contro la repressione da parte dello Stato per mano di De Gennaro, oggi non trova nulla da obiettare al voto dato dal suo partito RC alla nomina di De Gennaro, se non invitarlo al dialogo.
Conclusione
L’emergenza rifiuti non è una specificità campana, né tanto meno italiana: è un’emergenza mondiale, come mondiale è l’emergenza più generale della distruzione dell’ambiente e dell’umanità. La sua causa di fondo sta nel capitalismo, nella sua devastante irrazionalità come sistema di produzione.
E’ per questo che lottare contro il degrado ambientale è importante, a condizione che non ci si faccia irretire dalle chimere del riformismo e della democrazia, perché andare fino in fondo a questa lotta significa inevitabilmente mettere in discussione il capitalismo e la sua irrazionalità che sono all’origine di tale degrado. Perciò lottare contro l’emergenza rifiuti e le sue devastanti conseguenze significa reagire e difendersi dall’ulteriore degrado delle nostre condizioni di vita, ma soprattutto comprendere che la soluzione al problema non sta all’interno del capitalismo ma solo nella costruzione di una società alternativa, di una società comunista, dove la produzione non è più dominata dalla ricerca del massimo profitto, ma è gestita dalla collettività per soddisfare le esigenze dell’insieme dell’umanità.
11 gennaio 2008 CCI
Links
[1] https://it.internationalism.org/en/tag/3/47/economia
[2] https://it.internationalism.org/en/tag/4/88/nord-america
[3] https://it.internationalism.org/en/tag/vita-della-cci/interventi
[4] https://it.internationalism.org/en/tag/sviluppo-della-coscienza-e-dell-organizzazione-proletaria/corrente-comunista-internazionale
[5] https://fr.internationalism.org/ri390/salut_au_comite_communiste_de_reflexion.html
[6] https://it.internationalism.org/en/tag/4/91/russia-caucaso-asia-centrale
[7] https://it.internationalism.org/en/tag/3/48/guerra
[8] https://it.internationalism.org/en/tag/3/49/imperialismo
[9] https://it.internationalism.org/en/tag/storia-del-movimento-operaio/1968-maggio-francese
[10] https://it.internationalism.org/en/tag/4/75/italia
[11] https://it.internationalism.org/en/tag/2/31/linganno-parlamentare
[12] https://it.internationalism.org/en/tag/sviluppo-della-coscienza-e-dell-organizzazione-proletaria/sinistra-italiana
[13] https://it.internationalism.org/en/tag/4/70/francia
[14] https://world.internationalism.org
[15] https://it.internationalism.org/en/tag/4/63/india
[16] https://it.internationalism.org/en/tag/3/41/alienazione
[17] https://it.internationalism.org/en/tag/2/29/lotta-proletaria
[18] https://it.internationalism.org/rint29/etica
[19] https://it.internationalism.org/en/tag/4/83/medio-oriente
[20] https://it.internationalism.org/en/tag/correnti-politiche-e-riferimenti/influenzati-dalla-sinistra-comunista
[21] https://it.internationalism.org/en/tag/2/30/la-questione-sindacale
[22] https://it.internationalism.org/en/tag/vita-della-cci/riunioni-pubbliche