Migliaia di lavoratori in sciopero. Trasporti pubblici completamente paralizzati. Uno sciopero che si estende nel settore pubblico: prima le ferrovie, la metropolitana e gli autobus, poi Poste, settori di produzione e distribuzione dell’energia elettrica, della distribuzione del gas, i telefoni, la scuola, la sanità. Anche qualche impresa del settore privato entra in lotta, come i minatori che si scontrano violentemente con la polizia. Manifestazioni che hanno riunito una quantità importante di lavoratori di diversi settori: il 7 dicembre, su appello di vari sindacati (1), si raggiunge la cifra di un milione di manifestanti contro il piano Juppé (2) nelle principali città della Francia. Due milioni il 12 dicembre.
Il movimento di scioperi e manifestazioni operaie si sviluppa sullo sfondo di agitazioni studentesche e in alcune manifestazioni e assemblee generali di lavoratori partecipano degli studenti. Il riferimento al maggio ‘68 si fa sempre più strada sui mezzi di informazione che si dilungano a fare parallelismi: esasperazione generale, studenti per strada, scioperi che si estendono.
Siamo davvero di fronte a un nuovo movimento sociale comparabile a quello del maggio ‘68, movimento che iniziò la prima ondata internazionale di lotta di classe dopo cinquanta anni di controrivoluzione? Per niente. In realtà il proletariato in Francia è stato vittima di una manovra ben costruita destinata a indebolirlo nella sua coscienza e nella sua combattività, una manovra indirizzata anche verso la classe operaia di altri paesi perché tirino false lezioni dagli avvenimenti francesi. E’ per questo che, contrariamente a quanto avviene quando la classe operaia entra in lotta per iniziativa propria e sul suo proprio terreno, la borghesia in Francia e negli altri paesi ha dato tanta risonanza a questi avvenimenti.
La borghesia utilizza e rafforza le difficoltà della classe operaia.
Gli avvenimenti del maggio ‘68 in Francia iniziarono con tutta una serie di scioperi la cui caratteristica principale era lo scavalcamento dei sindacati fino allo scontro con essi. Non è in nessuna maniera la situazione di oggi, né in Francia, né negli altri paesi.
Certamente l’ampiezza e la generalizzazione degli attacchi che la classe operaia ha subito dall’inizio degli anni ‘90 hanno alimentato la sua combattività come descriviamo nella Risoluzione sulla situazione internazionale adottata dal nostro 11° Congresso internazionale (pubblicata in questo stesso numero):
Senza dubbio la maniera in cui questa combattività si è espressa è tuttavia profondamente marcata dal riflusso che la classe operaia ha subito al seguito del crollo del blocco dell’Est e lo scatenamento delle campagne sulla “morte del comunismo”. Si è trattato del riflusso più profondo che la classe operaia ha conosciuto dalla ripresa storica delle sue lotte nel 1968.
Dappertutto la classe operaia si scontra con una classe borghese che porta avanti un’offensiva politica per indebolire la sua capacità di rispondere agli attacchi e superare il profondo riflusso della sua coscienza. All’avanguardia di questa offensiva troviamo i sindacati, che dappertutto si danno da fare per prevenire le lotte operaie, per fare in maniera che esse non scappino al loro controllo.
Da mesi, a livello internazionale, la classe operaia dei paesi industrializzati è sottoposta ad un autentico bombardamento di attacchi. In Svezia, Belgio, Italia, Spagna, per non citare che gli ultimi esempi. In Francia era dal piano Delors del 1983 che non si vedeva la borghesia assestare una tale mazzata agli operai. In una sola volta: aumento dell’IVA, cioè dei prezzi al consumo, aumento delle imposte e dei ticket sanitari, congelamento dei salari degli impiegati pubblici, abbassamento delle pensioni, aumento degli anni lavorativi necessari per andare in pensione per alcune categorie di lavoratori, e tutto questo quando le cifre della borghesia annunciano un aumento della disoccupazione. Nei fatti, alla pari dei suoi compari di tutti gli altri paesi, la borghesia francese è confrontata a un crescente aggravamento della crisi mondiale del capitalismo che la obbliga ad attaccare ogni giorno di più le condizioni di esistenza dei proletari. E questo è tanto più urgente a causa dell’importante ritardo accumulato durante gli anni in cui la sinistra, con Mitterand e il PS, stava alla testa dello Stato, una situazione che aveva sguarnito il fianco sociale, obbligando lo Stato ad una certa “esitazione” nelle sue politiche antioperaie.
L’attuale ondata di attacchi doveva per forza alimentare una combattività operaia che già si è espressa in differenti momenti e paesi come Svezia, Belgio, Spagna e anche in Francia...
In effetti di fronte a questa situazione i proletari non possono restare passivi. Non resta loro che difendersi lottando. E per impedire che la classe operaia entri in lotta con le sue proprie armi, la borghesia ha giocato d’anticipo spingendo la classe ad entrare in lotta prematuramente e sotto il controllo totale dei sindacati. Non ha lasciato tempo ai proletari per mobilitarsi secondo i loro ritmi e con i loro mezzi, le assemblee generali, le discussioni, la partecipazione alle assemblee di altri luoghi di lavoro diversi, l’entrata in sciopero se i rapporti di forza lo consentono, l’elezione di comitati di sciopero, le delegazioni in altre assemblee di operai in lotta.
Il movimento di scioperi che si è sviluppato in Francia, anche se ha evidenziato il profondo malcontento che regna presso la classe operaia, è stato, innanzitutto, il risultato di una manovra in grande stile della borghesia con l’obiettivo di portare gli operai a una sconfitta di massa e, soprattutto, di provocare tra loro il massimo del disorientamento.
Una trappola tesa agli operai
Per preparare la sua trappola la borghesia ha manovrato magistralmente, facendo cooperare molto efficacemente le sue differenti frazioni nella ripartizione del lavoro: la destra, la sinistra, i mezzi di informazione, i sindacati, la base radicale di questi, formata principalmente da militanti delle frazioni di estrema sinistra.
Come prima tappa della manovra la borghesia fa di tutto per far entrare in sciopero un settore della classe operaia. L’aumento del malcontento in Francia, aggravato dagli attacchi alla Previdenza per quanto sia una realtà, tuttavia non era ancora a livello di maturazione tale da provocare l’entrata massiccia in lotta dei settori della classe operaia più decisivi, in particolare quelli dell’industria. Questo ha favorito il gioco della borghesia che, spingendo un settore a lottare, non correva il rischio che gli altri settori lo seguissero spontaneamente e scavalcando l’inquadramento sindacale. Il settore “individuato” è quello dei macchinisti delle ferrovie. Con il “contratto di piano” annunciato dalle Ferrovie (SNCF), la borghesia minaccia i macchinisti di dover lavorare otto anni di più per andare in pensione, con il pretesto che essi sono dei “privilegiati” rispetto agli altri impiegati statali. Si trattava di una provocazione così grossa che i lavoratori non ci pensano su due volte prima di gettarsi nella lotta. Era proprio quello che la borghesia cercava, che essi si inquadrassero nella strada che il sindacato aveva preparato. In ventiquattro ore i conduttori della metropolitana e degli autobus di Parigi, minacciati di perdere alcuni vantaggi dello stesso tipo, sono trascinati in una trappola simile. I sindacati si danno da fare per forzare i lavoratori ad entrare in sciopero, mentre ce ne sono diversi che sono perplessi, non capendo il perché di una tale precipitazione. La direzione della RATP (Compagnia della metropolitana parigina) dà una mano ai sindacati prendendo l’iniziativa di chiudere alcune linee e facendo di tutto per impedire di lavorare a coloro che lo volevano.
Perché la borghesia fece perno su queste due categorie di lavoratori per iniziare la sua manovra?
Alcune delle caratteristiche di questi settori erano favorevoli per la realizzazione del piano della borghesia. Queste due categorie hanno effettivamente dei trattamenti particolari la cui modifica era un buon pretesto per giustificare un attacco specifico. Ma soprattutto c’era la garanzia che una volta che fossero entrati in sciopero ferrovieri e conduttori di metrò e autobus si sarebbero paralizzati tutti i trasporti pubblici. Far sì che un tale movimento non passasse inosservato per nessuno era un mezzo supplementare e di grande efficacia nelle mani della borghesia per evitare ogni scavalcamento, visto che il suo obiettivo era proseguire nell’estensione degli scioperi ad altri settori del pubblico impiego. Così, senza trasporti, il principale e quasi unico mezzo per partecipare alle manifestazioni era quello di servirsi dei pullman del sindacato. Non rimaneva la minima possibilità di realizzare incontri di massa tra operai in sciopero, nelle loro assemblee generali. Infine, lo sciopero dei trasporti è, in più di quanto già detto, un mezzo per dividere gli operai, mettendoli gli uni contro gli altri, giacché in mancanza di trasporti gli altri lavoratori incontravano le peggiori difficoltà per andare ogni giorno al lavoro.
Ma i ferrovieri non hanno costituito solo un mezzo per portare avanti la manovra, ma anche il suo bersaglio specifico. La borghesia era ben cosciente dei vantaggi che poteva ricavare da questo settore della classe operaia che si era distinto nel dicembre del 1986 per la sua capacità di scontrarsi con l’inquadramento sindacale al momento della sua entrata in lotta.
Una volta che questi due settori erano in sciopero sotto il controllo totale dei sindacati, poteva partire la fase seguente della manovra: lo sciopero in un settore tradizionalmente combattivo e avanzato della classe operaia, quello delle Poste, e all’interno di questo, quello dei centri di distribuzione. Durante gli anni ottanta questi resistettero a lungo alle trappole sindacali, non esitando a scontrarsi con essi. Con l’incorporazione di questo settore nel “movimento”, la borghesia cerca di attirarlo nella rete della manovra, per neutralizzarlo e assestargli la stessa sconfitta degli altri settori. In più la manovra sarebbe stata così più efficace nei confronti di quei settori che non erano in sciopero, per dare al movimento una certa legittimità capace di far diminuire la sfiducia o lo scetticismo verso di esso. La borghesia si è comportata con più accortezza ancora che verso ferrovieri e lavoratori del metrò. Perciò favorì e organizzò “delegazioni di operai” senza nessun segno apparente di appartenenza sindacale (e possibilmente composte di operai sinceri ingannati dai sindacalisti di base) che si recarono nei centri di distribuzione durante le assemblee generali. Ingannati sul vero significato di queste delegazioni, gli operai dei principali centri di distribuzione postale decidono di unirsi alla lotta. Per dare il maggior impatto al fatto, il potere invia i suoi giornalisti sul posto: l’edizione pomeridiana di Le Monde di quel giorno metterà l’avvenimento in primo piano.
In questa fase di pieno dispiegamento della manovra, l’ampiezza già raggiunta dal movimento dà peso agli argomenti usati dai sindacati per guadagnare nuovi settori: gli operai dell’elettricità e del gas (EDF-GDF), dei telefoni, gli insegnanti. Di fronte ai dubbi di parecchi lavoratori sull’opportunità di “lottare ora”, di fronte alla loro insistenza per discutere le modalità e le rivendicazioni, i sindacati oppongono la consegna perentoria del “ora è il momento”, colpevolizzando chi non era ancora in lotta con argomenti tipo “siamo gli ultimi a non stare ancora in sciopero”.
Per incrementare ancora di più la quantità di scioperanti, bisogna far credere che si sta sviluppando un ampio e profondo movimento sociale. A stare a sentire sindacati, sinistra ed estrema sinistra, ci sarebbe da credere che il movimento starebbe suscitando una immensa speranza nella classe operaia. Per appoggiare questa idea, viene pubblicato sui giornali quotidianamente “l’indice di popolarità” dello sciopero, sempre favorevole presso tutta la “popolazione”. E’ certo che lo sciopero è “popolare” e che è considerato da molti operai come un mezzo per impedire che il governo porti fino in fondo i suoi attacchi. Ma l’attenzione con cui lo sciopero è trattato sui mezzi di informazione, specialmente la televisione, è la miglior prova dell’interesse della borghesia perché sia così, facendo salire al massimo l’indice della popolarità.
Anche la partecipazione degli studenti, finché dura, fa parte della messa in scena. Sono stati fatti scendere in strada per dare l’impressione di un aumento generale del malcontento, per far credere che esistono speranze simili a quelle del maggio ‘68 e, allo stesso tempo, annegare le rivendicazioni operaie in quelle interclassiste tipiche del movimento studentesco. Alcuni arrivano anche a partecipare ad assemblee sui luoghi di lavoro “per incontrarsi con le lotte operaie”, e questo con il beneplacito dei sindacati (3).
Ogni iniziativa è sottratta alla classe operaia che non ha altra scelta che quella di seguire i sindacati. Nelle assemblee convocate da questi l’insistenza perché gli operai si esprimessero non aveva altro significato che quello di dare un’apparenza di vita all’assemblea, laddove tutto era già stato deciso altrove. All’interno delle assemblee la pressione dei sindacati per l’entrata in sciopero è talmente forte che delle frazioni significative di operai, alquanto dubbiosi sulla natura di questo sciopero, non osano esprimersi. Per certi altri invece, completamente presi dalla mistificazione sindacale, c’è l’euforia di una unità fittizia. In effetti una delle chiavi per la riuscita della manovra della borghesia è il fatto che i sindacati hanno sistematicamente fatto propri, per snaturarli e rivolgerli contro di essa, aspirazioni e metodi della lotta della classe operaia:
- la necessità di reagire in maniera massiccia e non dispersa di fronte agli attacchi borghesi;
- l’allargamento della lotta a più settori, superando le barriere corporative;
- la tenuta quotidiana di assemblee generali su ogni luogo di lavoro, incaricate in particolare di pronunciarsi sull’entrata in lotta o sul prosieguo del movimento;
- l’organizzazione di manifestazioni di piazza in cui grandi masse di operai di diversi settori e differenti luoghi trovano un sentimento di solidarietà e di forza (4).
In più i sindacati si sono presi la cura, nella maggior parte del movimento, di far mostra della loro unità. I mezzi di informazione hanno abbondantemente mostrato le strette di mano tra i capi dei due sindacati tradizionalmente “nemici”: la CGT e Force Ouvrière (che si costituì su una scissione della CGT con il sostegno dei sindacati americani, al tempo della Guerra Fredda). Questa “unità” dei sindacati, che si ritrovava spesso nelle manifestazioni sotto forma di bandiere comuni CGT-FO-CFDT-FSU, era finalizzata a trascinare il massimo di operai possibile nello sciopero dietro sindacati, visto che per anni una delle cause del discredito dei sindacati e del rifiuto degli operai di seguire le loro indicazioni di sciopero era proprio il loro perpetuo litigare. In questo i trotskysti hanno portato il loro piccolo contributo dal momento che essi non hanno cessato di reclamare l’unità tra i sindacati, facendo di questa una precondizione allo sviluppo delle lotte.
Per quanto riguarda la destra al potere, dopo la determinazione ostentata all’inizio del movimento, fa finta di mostrare dei segni di debolezza (ampiamente amplificati dai mezzi di informazione) per far credere che gli scioperanti avrebbero potuto vincere, ottenere il ritiro del piano Juppé e, perché no, la caduta del governo. Nei fatti il governo fa durare le cose sapendo bene che operai che hanno condotto uno sciopero lungo non sono poi così facilmente disponibili a riprendere la lotta.. E’ solo alla fine di tre settimane che il governo annuncia il ritiro di alcune delle misure che avevano dato fuoco alle polveri: ritiro del “contratto di piano” nelle ferrovie, e più in generale le disposizioni riguardanti il regime di pensionamento dei dipendenti statali.. L’essenziale della sua manovra è tuttavia mantenuto: aumento delle tasse, blocco dei salari degli impiegati statali, e, soprattutto, gli attacchi sulla Previdenza sociale.
I sindacati, all’unisono con i partiti di sinistra, cantano vittoria e si danno da fare per spingere alla ripresa del lavoro. E lo fanno in maniera così abile da riuscire a non smascherarsi: la loro tattica consiste nel far esprimere, questa volta senza nessuna pressione da parte loro, le assemblee generali maggioritariamente in favore della ripresa del lavoro. Sono i ferrovieri, di cui i sindacati sottolineano la “vittoria”, che, il venerdì 15 dicembre, danno il segnale di questa ripresa, come avevano dato il segnale dell’entrata in sciopero. La televisione mostra a ripetizione l’immagine di qualche treno che ricomincia a circolare. L’indomani, un Sabato, i sindacati organizzano immense manifestazioni a cui sono portati gli operai del settore privato (cioè dell’industria). E’ il sotterramento in gran pompa del movimento, una chiusura alla grande che permette di far inghiottire più facilmente agli operai la pillola amara della loro sconfitta sulle rivendicazioni essenziali. Deposito dopo deposito, le assemblee di ferrovieri votano la fine dello sciopero.Negli altri settori la stanchezza e l’effetto di trascinamento fanno il resto.Il lunedì 18 la tendenza alla ripresa al lavoro è quasi generale. Il martedì 19 la CGT, da sola, organizza una giornata d’azione e delle manifestazioni: paragonata a quella delle settimane precedenti, la mobilitazione è ridicola, cosa che non può che convincere gli ultimi “recalcitranti” che bisogna riprendere il lavoro. Il giovedì 21 governo, sindacati e padronato privato si ritrovano per un “vertice”: è l’occasione per i sindacati, che denunciano le proposte governative, per continuare a presentarsi come “i difensori degli operai”.
Un attacco politico contro la classe operaia
La borghesia è riuscita a far passare un attacco considerevole, il piano Juppé, e a stancare gli operai al fine di diminuire la loro capacità di risposta agli attacchi futuri.
Ma gli obiettivi della borghesia vanno ben al di là di questo. La maniera in cui essa ha organizzato la sua manovra era destinata a fare in modo che non solo gli operai non possano, in preparazione delle loro lotte future, tirare insegnamenti da questa sconfitta, ma soprattutto per renderli vulnerabili ai messaggi avvelenati che essa vuole far passare.
L’ampiezza che la borghesia ha dato alla mobilitazione, la più importante dopo anni per numero di scioperanti e di manifestanti, e di cui i sindacati sono stati gli artefici riconosciuti, è destinata a dare forza all’idea che è solo con i sindacati che si può fare qualche cosa. Tanto più che durante lo svolgimento del movimento essi non si sono mai trovati nella condizione di essere smascherati, anche solo in parte, come invece accade quando si danno da fare per rompere un movimento spontaneo della classe. I sindacati hanno anche tenuto conto del fatto che gli operai, anche se in maggioranza potevano seguirli, nondimeno non avevano molta fiducia in loro.E’ perciò che hanno avuto cura di far “partecipare”, in maniera ostentata, visibile a tutti, dei “non sindacalizzati” (operai sinceri ingenui, o fiancheggiatori dei sindacati) nelle differenti “istanze della lotta”, come gli autoproclamati “comitati di sciopero”. Così la presa dei sindacati sulla classe operaia potrà rafforzarsi allo stesso tempo in cui la fiducia nella propria forza, cioè nella capacità di entrare in lotta da sola, diminuirà per un lungo momento. Questa ricredibilizzazione dei sindacati costituiva per la borghesia un obiettivo fondamentale, una condizione indispensabile prima di portare avanti i prossimi attacchi che saranno ancora più brutali di quelli di oggi. E’ solo a questa condizione che essa può sperare di sabotare le lotte che non mancheranno di scoppiare al momento di questi attacchi. E’ questo sicuramente uno degli aspetti essenziali della sconfitta politica che la borghesia ha inflitto alla classe operaia.
Un altro beneficiario della manovra della borghesia è la sinistra del capitale. Le elezioni presidenziali del maggio 1995 in Francia hanno piazzato tutte le forze di sinistra all’opposizione. Non essendo di conseguenza direttamente responsabili della decisione sugli attacchi attuali esse hanno avuto le mani libere per denunciarli e tentare di far dimenticare che esse stesse, PS e PC dal 1984, e PS da solo in seguito, hanno portato avanti la stessa politica antioperaia. Si è trattato dunque di una divisione del lavoro, destra al potere, sinistra all’opposizione, che ha permesso questa manovra: la destra era incaricata di assumere la responsabilità degli attacchi antioperai, la sinistra all’opposizione di mistificare il proletariato, di inquadrare e di sabotare le sue lotte, fondamentalmente attraverso le sue cinghia di trasmissione sindacale.
Un altro obiettivo importante che la borghesia si era prefisso era quello di far credere agli operai, sulla base della sconfitta di una lotta che si era estesa a diversi settori, che la estensione non serve a niente. In effetti frazioni importanti della classe operaia credono di aver realizzato l’allargamento della lotta agli altri settori (5), cioè quello verso cui avevano teso le lotte operaie dal 1968 fino al crollo del blocco dell’est. E’ su queste acquisizione delle lotte dal 1968 che la borghesia si è appoggiata per trascinare i lavoratori dei centri di smistamento postale nella manovra, come mostrano gli argomenti utilizzati per farli mobilitare:
“Gli operai delle Poste sono stati vinti nel 1974 perché essi sono rimasti isolati. Lo stesso i ferrovieri nel 1986, perché non sono riusciti ad estendere il loro movimento. Oggi, bisogna cogliere l’occasione che si presenta.” Sono queste acquisizioni che erano nella linea di tiro della manovra, per snaturarle.
E’ ancora troppo presto per valutare l’importanza dell’impatto di questo aspetto della manovra (mentre la ricredibilizzazione dei sindacati è, fin da ora, incontestabile).
Ma è chiaro che la confusione nella classe operaia rischia di essere rafforzata dal fatto che il settore dei ferrovieri, solo quello, ha ottenuto soddisfazione sulla rivendicazione che lo aveva fatto scendere in lotta, il ritiro del “piano di impresa” e degli attacchi sull’accesso alla pensione. Così l’illusione che si può ottenere qualcosa lottando solo nel proprio settore si sviluppa e costituisce un potente stimolo alla diffusione del corporativismo. Senza parlare della divisione che si crea così nelle fila degli operai quando coloro che sono scesi in lotta dietro i ferrovieri, e che non hanno ottenuto nulla, cominciano a provare il sentimento di essere stati mollati.
Da questo punto di vista, sono notevoli le analogie con un’altra manovra, quella che ha diretto la lotta negli ospedali nell’autunno 1988. Allora lo scopo era smorzare il crescere della combattività nell’insieme della classe operaia facendo scoppiare prematuramente la lotta in un settore particolare, quello delle infermiere. Queste, organizzate all’interno del coordinamento omonimo, ultracorporativo, organismo prefabbricato dalla borghesia per rimpiazzare i troppo screditati sindacati, si sono viste al termine della lotta accordare un certo numero di vantaggi sotto forma di aumenti salariali (il miliardo di franchi che il governo aveva previsto a tal fine già prima dell’inizio dello sciopero). Gli altri lavoratori degli ospedali, che erano massicciamente scesi in lotta contemporaneamente alle infermiere, loro non hanno ottenuto niente. Quanto alla combattività negli altri settori, essa è ricaduta, risultato dello sconcerto degli operai di fronte all’atteggiamento elitario e corporativo delle infermiere.
Infine, con il sottolineare così spesso e con tanta insistenza una pretesa somiglianza tra questo movimento e quello del maggio 1968, la borghesia cercava, come già abbiamo detto, di far cadere nella trappola il maggior numero possibile di operai. Ma era anche un modo di attaccare la coscienza degli operai: In effetti, per milioni di operai il maggio 1968 resta un punto di riferimento, anche per coloro che non vi hanno partecipato perché troppo giovani o non ancora nati, o perché di altri paesi ma che sono stati all’epoca entusiasmati da questa prima manifestazione del risorgere del proletariato sul suo terreno di classe, dopo quaranta anni di controrivoluzione. Queste generazioni di operai o frazioni della classe operaia che non hanno direttamente vissuto questi eventi, più vulnerabili all’intossicazione ideologica su questa questione, erano il particolare bersaglio della borghesia, che cercava di far pensare loro che alla fine il maggio 1968 non poteva essere stato troppo diverso dallo sciopero sindacale di oggi. Così, ancora una volta si tratta di un attacco all’identità stessa della classe operaia, non tanto a fondo come quello sulla “morte del comunismo”, ma che costituisce un ulteriore ostacolo sulla via del recupero del riflusso che ha seguito il crollo del blocco dell’Est.
LE VERE LEZIONI DA TIRARE DA QUESTI EVENTI
La prima lezione che la CCI ha tirato dalla manovra della lotta delle infermiere nel 1968 (6), resta ancora tragicamente attuale: “E’ importante sottolineare la capacità della borghesia di agire in modo preventivo ed in particolare di provocare prematuramente lo scoppio di movimenti sociali, quando ancora non esiste nell’insieme del proletariato una maturità sufficiente che permetta di arrivare ad una reale mobilitazione. Questa tattica è già stata spesso impiegata nel passato dalla classe dominante, in particolare nelle situazioni in cui le poste in gioco erano ben più cruciali di quelle del periodo attuale. L’esempio più significativo ci è fornito da ciò che successe a Berlino nel gennaio 1919 quando, a seguito di una provocazione decisa dal governo socialdemocratico, gli operai di questa città si erano sollevati mentre quelli della provincia non erano ancora pronti a lanciarsi nell’insurrezione. Il massacro dei proletari (così come la morte dei due principali dirigenti del Partito comunista tedesco: Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht) derivatone sferrò un colpo fatale alla rivoluzione in questo paese in cui, poi, la classe operaia è stata sconfitta pezzo dopo pezzo.”
Di fronte ad un tale pericolo è importante che la classe operaia possa quanto più ampiamente possibile tirare gli insegnamenti dalle sue esperienze a livello storico, come a livello delle sue lotte dell’ultimo decennio.
Un altro insegnamento importante è che la lotta di classe è una delle maggiori preoccupazioni della borghesia internazionale, e che, su questo piano, come ha già mostrato la sua reazione di fronte alle lotte del 1980 in Polonia, essa sa dimenticare le proprie divisioni. Silenzio totale sui movimenti che si svolgono su di un terreno di classe e rischiano di avere un effetto di trascinamento da un paese all’altro, o almeno di influenzare positivamente gli operai. Al contrario, la massima pubblicità è data, da un paese all’altro, ai risultati delle manovre contro la classe operaia. Non bisogna farsi illusioni, il diffondersi del ciascuno per sé, nella guerra commerciale e le rivalità imperialiste, non va minimamente ad attaccare l’unità internazionale di cui sa dare prova la borghesia contro la lotta di classe.
Ciò che mostrano ancora i recenti scioperi in Francia è che l’estensione delle lotte nelle mani dei sindacati è un’arma della borghesia. E più una tale estensione si fa ampia, più è estesa e profonda la sconfitta inflitta agli operai che essa permette. Ogni volta che i sindacati chiamano all’estensione, o è perché sono costretti a rincorrere un movimento che si sviluppa, per non essere scavalcati, o per spingere nella sconfitta un maggior numero di operai, allorché la dinamica della lotta comincia a invertire la rotta. E’ ciò che essi avevano fatto all’epoca dello sciopero dei ferrovieri in Francia all’inizio del 1987 quando essi hanno chiamato alla “estensione” e all’ “indurimento” del movimento, non al momento dell’inizio della lotta (alla quale si erano apertamente opposti), ma a quello del suo declino, allo scopo di coinvolgere quanti più settori possibili della classe operaia dietro la sconfitta dei ferrovieri. Queste due situazioni mettono in evidenza la necessità imperativa per gli operai di controllare le loro lotte, dall’inizio alla fine. Sono le loro assemblee generali sovrane che devono farsi carico dell’estensione, affinché questa non cada nelle mani dei sindacati. Evidentemente costoro non lasceranno fare, ma bisogna imporre che il confronto con loro si svolga in piena luce, nelle assemblee generali sovrane, che eleggono dei delegati revocabili invece di essere dei semplici assembramenti manipolati a modo loro dai sindacati come è stato nell’attuale ondata di scioperi.
Ma il controllo della loro lotta da parte degli operai passa necessariamente attraverso la centralizzazione di tutte le loro assemblee che inviano i loro delegati ad una assemblea centrale. A sua volta essa elegge un comitato centrale di lotta, E’ questa assemblea che garantisce in permanenza l’unità della classe e che permette un’attuazione coordinata delle modalità della lotta: se in tal giorno è opportuno o no fare sciopero, quali settori devono fare sciopero, ecc. E’ essa egualmente che deve decidere della ripresa generale del lavoro, del ripiego in buon ordine quando il rapporto di forze immediato lo necessita. Ciò non è un’illusione, né un’astrazione, né un sogno. Un tale organismo di lotta, Il Soviet, gli operai russi lo hanno fatto sorgere negli scioperi di massa del 1905, poi nel 1917, durante la rivoluzione. La centralizzazione della lotta da parte del Soviet, è una delle lezioni essenziali di questo primo movimento rivoluzionario del secolo e di cui gli operai nelle loro lotte future si devono riappropriare. Ecco cosa diceva Trotsky nel suo libro 1905: “Cos’era, dunque, il Soviet? Il Consiglio degli deputati operai sorse come risposta ad un bisogno oggettivo, generato dalle contingenze del momento. Occorreva un’organizzazione che godesse di un’indiscussa autorità, fosse immune da qualsiasi tradizione, raccogliesse immediatamente le folle sparse e slegate; questa organizzazione (...) doveva avere iniziativa e insieme autocontrollo automatico. L’essenziale era di poterla far sorgere nelle ventiquattro ore (...) per godere di autorità sulle masse fin dal suo nascere, essa doveva essere costituita sulla piattaforma di una vasta rappresentanza. Con quale criterio? La risposta veniva da sé. Siccome l’unico legame tra le masse proletarie, prive di organizzazione, era il processo di produzione, non rimaneva che dare il diritto di rappresentanza alla fabbriche e alle officine.” (7).
Se il primo esempio di una tale centralizzazione vivente di un movimento della classe ci viene da un periodo rivoluzionario, ciò non significa che sia unicamente in tale periodo che la classe operaie possa centralizzare la sua lotta. Lo sciopero di massa degli operai in Polonia nel 1980, se non ha dato vita a dei soviet, che sono degli organi della presa di potere, ciò nondimeno fornisce un’esemplare illustrazione. Rapidamente, fin dall’inizio dello sciopero, le assemblee generali hanno inviato dei delegati (in generale due per fabbrica) ad un’assemblea centrale, il MKS, per tutta una regione. Questa assemblea si riuniva ogni giorno nei locali della fabbrica faro della lotta, i cantieri navali Lenin di Danzica ed i delegati rendevano poi conto delle sue deliberazioni alle assemblee di base che li avevano eletti e che prendevano posizione su queste decisioni. In un paese in cui le lotte precedenti della classe operaie erano state impietosamente schiacciate nel sangue, la forza del movimento aveva paralizzato il braccio assassino del governo obbligandolo a venire a negoziare con il MKS nei suoi stessi locali. Evidentemente, se di punto in bianco gli operai polacchi nel 1980 erano riuscita a darsi una tale forma di organizzazione, era perché i sindacati ufficiali erano totalmente screditati poiché erano apertamente i poliziotti dello Stato staliniano (ed è la costituzione del sindacato “indipendente” Solidarnosc che ha di per sé permesso lo schiacciamento nel sangue degli operai nel dicembre 1981). E’ la migliore prova che non solo i sindacati non sono un’organizzazione, anche imperfetta, della lotta operaia, ma che essi costituiscono al contrario, finché possono seminare delle illusioni, il maggior ostacolo ad una vera organizzazione di questa lotta. Sono loro che con la loro presenza e la loro azione intralciano il movimento spontaneo della classe verso una auto-organizzazione, che nasce dai bisogni stessa della lotta.
Evidentemente, proprio a causa di tutto il peso del sindacalismo nei paesi centrali del capitalismo, non sarà subito la forma degli MKS, e tanto meno quella dei soviet, che le prossime lotte della classe prenderanno in questi paesi. Nondimeno questa deve loro servire di riferimento e di guida, e gli operai dovranno battersi perché le loro assemblee generali siano realmente sovrane e si pronuncino nel senso dell’estensione, del controllo e della centralizzazione del movimento in maniera autonoma. Le prossime lotte della classe operaia, e per un certo tempo ancora, sentiranno il peso del riflusso, che la borghesia sfrutterà con ogni sorta di manovre. Di fronte a questa situazione difficile della classe operaia, che però non mette in discussione la prospettiva di scontri decisivi tra borghesia e proletariato, l’intervento dei rivoluzionari è insostituibile. E perché esso sia il più efficace possibile, perché non favorisca, senza volerlo, i piani della borghesia, i rivoluzionari non devono farsi prendere, nelle loro analisi e nelle loro parole d’ordine, dalla pressione ideologica ambientale, e devono essere i primi a individuare e denunciare le manovre del nemico di classe.
L’ampiezza della manovra elaborata dalla borghesia in Francia, il fatto, in particolare, che essa si sia permessa di provocare degli scioperi massicci che non potranno che aggravare un po’ di più le sue difficoltà economiche, sono il segno che la classe operaia e la sua lotta non sono scomparse come amavano ripetere, per anni, gli “esperti” universitari al soldo del capitale. Essa dimostra che la classe dominante sa bene che gli attacchi sempre più brutali che dovrà portare provocheranno necessariamente delle lotte di grande ampiezza. Anche se oggi essa ha segnato un punto a suo favore, se ha riportato una vittoria politica, l’esito della battaglia non è ancora stato giocato. La borghesia non potrà, in particolare, impedire che il suo sistema economico affondi sempre più, né che i sindacati tornino a screditarsi, come fu lungo gli anni ottanta, man mano che essi saboteranno le lotte operaie. Ma la classe operaia non potrà vincere la sua battaglia se non sarà capace di comprendere la capacità del suo nemico, anche se appoggiata su un sistema moribondo, di seminare ostacoli, tra i più sottili e sofisticati, sul cammino della sua lotta.
BN, 23 dicembre 1995
NOTE
1. La C.G.T., cinghia di trasmissione del Partito Comunista;
F.O., “socialdemocratica”; la F.E.N., vicina al Partito Socialista, sindacato maggioritario nella scuola; la F.S.U., scissione della FEN, e più vicina al PC e all’estrema sinistra.
2. Dal nome del primo ministro incaricato di applicarlo. Questo piano comprende, tra l’altro, un insieme di attacchi riguardanti la Previdenza Sociale e la Sanità.
3. Bisogna notare che nel 1968 i sindacati facevano una sistematica barriera davanti alle fabbriche per impedire ogni contatto tra operai e studenti. All’epoca era tra questi ultimi che si parlava di più di “rivoluzione”, e soprattutto che si denunciavano di più i partiti di sinistra, PC e PS. Anche se non c’era nessun rischio che l’insieme della classe operaia potesse prendere in conto l’idea della rivoluzione (peraltro abbastanza fumosa nella testa degli studenti, movimento di natura piccolo-borghese), essendo ai primi passi di una ripresa della lotta dopo 4 decenni di controrivoluzione, i sindacati temevano potesse diventare ancora più difficile riprendere il controllo di una lotta operaia scoppiata al di fuori di loro e che aveva sorpreso l’insieme della borghesia.
4. Juppé aveva, a modo suo, contribuito a una partecipazione massiccia alle manifestazioni affermando, al momento della presentazione della sua manovra, che il governo non sarebbe sopravvissuto se fossero scese in campo due milioni di persone: la sera di ogni giornata di manifestazione i sindacati e gli organi di informazione facevano i conti per far vedere che ci si era vicini e che si poteva raggiungere questo risultato.
5. E’ quello che esprimono chiaramente queste idee di un macchinista: “Io mi sono lanciato nella lotta come macchinista. Il giorno dopo mi sentivo innanzitutto un ferroviere. Poi ho indossato l’abito dell’impiegato statale. E ora mi sento semplicemente un salariato, come i dipendenti privati che vorrei si unissero al movimento... Se io mi fermassi domani, non potrei più guardare in faccia un impiegato delle poste” (Le Monde del 12 e 13 dicembre).
6. Vedere il nostro opuscolo sulla lotta delle infermiere.
7. Vedere il nostro articolo “Rivoluzione del 1905: insegnamenti fondamentali per il proletariato” nella Révue Internationale n° 43.
1) Il riconoscimento da parte dei comunisti del carattere storicamente limitato del modo di produzione capitalista, della crisi irreversibile nella quale si trova oggi questo sistema, costituisce la solida base sulla quale si fonda la prospettiva rivoluzionaria della lotta proletaria. In questo senso tutti i tentativi, come quelli attuali, fatti dalla borghesia e dai suoi lacché per far credere che l’economia mondiale “sta uscendo dalla crisi” o che alcune economie nazionali “emergenti” potranno sostituire vecchi settori economici superati, costituiscono un attacco in piena regola contro la coscienza proletaria.
2) I discorsi ufficiali sulla “ripresa” enfatizzano l’evoluzione degli indici della produzione industriale o il raddrizzamento dei profitti delle imprese. Se effettivamente, ed in particolare nei paesi anglosassoni, si è assistito recentemente a tali fenomeni, è importante focalizzare su quali basi essi si fondano:
- la ripresa dei profitti deriva molto spesso, specie per molte grandi imprese, da operazioni speculative; essa ha come rovescio della medaglia un nuovo aumento dei deficit pubblici; deriva infine dall’eliminazione dei “rami secchi”, cioè dei settori meno produttivi;
- il progresso della produzione industriale risulta per buona parte da un aumento notevole della produttività del lavoro basata su di una utilizzazione massiccia della automatizzazione e dell’informatica.
E’ per queste ragioni che una delle caratteristiche maggiori della “ripresa” attuale, è che essa non è stata capace di creare posti di lavoro, di far diminuire in modo significativo la disoccupazione o anche il lavoro precario che, al contrario, non fa che estendersi, perché il capitale sta sempre attento a mantenere le mani libere per poter gettare in strada, in ogni momento, la forza lavoro in eccesso.
3) Se è prima di tutto un attacco contro la classe operaia, un brutale fattore di sviluppo della miseria e dell’emarginazione, la disoccupazione costituisce anche un indice di primaria importanza della debolezza del capitalismo. Il capitale vive dello sfruttamento del lavoro vivo: mettere in disuso interi settori dell’apparato industriale, e ancor più, buttare in strada una notevole proporzione della forza lavoro rappresenta una vera e propria automutilazione per il capitale. E’ il segno del fallimento totale del modo di produzione capitalista la cui funzione storica era proprio di estendere il salariato a livello mondiale. Questo crollo definitivo del capitalismo si manifesta egualmente nell’indebitamento drammatico degli Stati, fenomeno che ha conosciuto nel corso degli ultimi anni una nuova fiammata: tra il 1989 ed il 1994, il debito pubblico è passato dal 53% al 65% del Prodotto Interno Lordo negli Stati Uniti, dal 57% al 73% in Europa fino a raggiungere il 142% nel caso del Belgio. Nei fatti, gli Stati capitalisti sono impossibilitati a pagare. Se fossero sottoposti alle stesse leggi delle imprese private, avrebbero già dovuto dichiarare ufficialmente fallimento. Questa situazione non fa che esprimere il fatto che il capitalismo di Stato costituisce la risposta che il sistema oppone alla sua situazione di stallo, ma una risposta che non è in alcun modo una soluzione e che non può servire in eterno.
4) I tassi di crescita, talvolta a due cifre, delle famose “economie emergenti” non riescono affatto a contraddire la constatazione del crollo generale dell’economia mondiale. Essi sono il risultato dell’arrivo massiccio di capitali attirati dal costo incredibilmente basso della forza lavoro in questi paesi, da uno sfruttamento brutale dei proletari, da ciò che la borghesia pudicamente chiama le “dislocazioni”. Tutto ciò significa che questo sviluppo economico non può che danneggiare la produzione dei paesi più avanzati, i cui Stati sempre più si ergono contro le “pratiche commerciali sleali” di questi paesi “emergenti”. Inoltre, le prestazioni spettacolari che ci si compiace di evidenziare ricoprono molto spesso uno scollamento di interi settori di questi paesi: il “miracolo economico” della Cina significa più di 250 milioni di disoccupati nell’anno 2000. Infine, il recente crollo finanziario di un altro paese “esemplare”, il Messico, la cui moneta ha perso la metà del suo valore dall’oggi al domani, che ha avuto bisogno di una iniezione urgente di quasi 50 miliardi di dollari di credito (di gran lunga la più grande operazione di “salvataggio” della storia del capitalismo) riassume la realtà del miraggio che costituisce “l’emergere” di alcuni paesi del terzo mondo. Le economie “emergenti” non sono la nuova speranza dell’economia mondiale. Esse non sono che delle manifestazioni, tanto fragili quanto aberranti, di un sistema alla pazzia. E questa realtà è confermata dalla situazione dei paesi dell’Europa dell’Est, la cui economia si supponeva si sarebbe espansa al sole del liberalismo. Se alcuni paesi (come la Polonia) riescono per il momento a cavarsela, il caos che regna nell’economia della Russia (caduta di quasi il 30% della produzione in due anni, più del 2000% di aumento dei prezzi nello stesso periodo) mostrano in modo brutale fino a che punto fossero falsi i discorsi che si erano ascoltati nel 1989. Lo stato della economia russa è talmente catastrofico, che la Mafia che ne controlla una buona parte degli ingranaggi, appare non come un parassita, come in alcuni paesi occidentali, ma come un pilastro che le assicura un minimo di stabilità.
5) Infine, lo stato di potenziale fallimento nel quale si trova il capitalismo, il fatto che non può vivere eternamente mettendo a rischio l’avvenire, tentando di aggirare la saturazione generale e definitiva dei mercati con una fuga in avanti nell’indebitamento, fa pesare delle minacce sempre più forti sull’insieme del sistema finanziario mondiale. L’angoscia provocata dal fallimento della banca britannica Barings in seguito alle acrobazie di un “golden boy”, la follia che ha seguito l’annuncio della crisi del peso messicano, non commisurabile al peso dell’economia del Messico nell’economia mondiale, sono degli indici indiscutibili della reale angoscia che stringe la classe dominante di fronte alla prospettiva di una “vera catastrofe mondiale” delle sue finanze, secondo le parole del direttore del FMI. Ma questa catastrofe finanziaria non è altro se non il rivelatore della catastrofe nella quale è sprofondato il modo di produzione capitalista stesso e che precipita il mondo intero nelle più gravi convulsioni della sua storia.
6) Il terreno sul quale si manifestano più crudelmente queste convulsioni è quello degli scontri imperialisti. Sono passati appena cinque anni dal crollo del blocco dell’Est, dalle promesse di un “nuovo ordine mondiale” fatte dai capi dei principali paesi dell’occidente, e mai il disordine delle relazioni tra Stati è stato così eclatante. Anche se era basato sulla minaccia di uno scontro terrificante tra superpotenze nucleari, anche se queste due superpotenze non avevano mai smesso di affrontarsi per paesi interposti, “l’ordine di Yalta” conteneva un certo elemento “di ordine” per l’appunto. Non potendo fare una nuova guerra mondiale per il fatto che il proletariato dei paesi centrali non era imbrigliato, i due gendarmi del mondo facevano attenzione a mantenere in un quadro “accettabile” gli scontri imperialisti. A loro bastava precisamente evitare di seminare il caos e le distruzioni nei paesi avanzati ed in particolare in Europa, il terreno principale delle due guerre mondiali. Questo edificio è volato in pezzi. Con gli scontri sanguinosi nella ex-Yugoslavia, l’Europa ha cessato di essere un “santuario”. Contemporaneamente, questi scontri hanno posto in evidenza quanto era ormai difficile mettere in piedi un nuovo “equilibrio”, una nuova “divisione del mondo” successiva a quella di Yalta.
7) Se il crollo del blocco dell’Est era per buona parte imprevedibile, la scomparsa del suo rivale dell’Ovest non lo era affatto. Bisognava non capire nulla del marxismo (e ammettere la tesi di Kautsky, respinta dai rivoluzionari fin dalla prima guerra mondiale, di un “super-imperialismo”) per pensare che si poteva mantenere un solo blocco. Fondamentalmente tutte le borghesie sono rivali le une delle altre. Ciò si vede chiaramente nel campo commerciale in cui domina “la guerra di tutti contro tutti”. Le alleanze diplomatiche e militari non sono che la concretizzazione del fatto che nessuna borghesia può far prevalere i suoi interessi strategici sola nel suo angolo contro tutte le altre. Il solo cemento di tali alleanze è l’esistenza di un nemico comune, e non una sedicente “amicizia tra i popoli”; d’altronde di esse oggi si può constatare tutta l’elasticità e l’ipocrisia: mentre i nemici di ieri (come la Russia e gli Stati Uniti) si sono scoperti improvvisamente “amici”, le amicizie di vecchia data (come quella tra la Germania e gli Stati Uniti) fanno posto alla litigiosità. In questo senso, se gli eventi del 1989 significavano la fine della divisione del mondo uscita dalla seconda guerra mondiale, visto che la Russia perdeva ogni possibilità di dirigere un blocco imperialista, essi portavano in sé la tendenza alla ricostituzione di nuove costellazioni imperialiste. Tuttavia, se la sua potenza economica e la sua collocazione geografica designavano la Germania come solo paese in grado di succedere alla Russia nel ruolo di leader di un eventuale futuro blocco opposto agli Stati Uniti, la sua situazione militare è troppo debole per permetterle di realizzare fin da oggi una tale ambizione. E in mancanza di una formula di ricambio degli schieramenti imperialisti che succedano a quelli che sono stati spazzati via dai rovesciamenti del 1989, l’arena mondiale è sottomessa come mai prima ad una crisi economica di una gravità senza precedenti che inasprisce le tensioni militari, allo scatenamento del “ciascuno per sé”, di un caos che viene ad aggravare ancora la decomposizione generale del modo di produzione capitalista.
8) Così la situazione che succede alla fine dei due blocchi della “guerra fredda” è dominata da due tendenze contraddittorie - da un lato, il disordine, l’instabilità nelle alleanze tra Stati e, dall’altro, il processo di ricostituzione di due nuovi blocchi -, ma che non sono affatto complementari poiché la seconda non fa che aggravare la prima. La storia di questi ultimi anni lo dimostra in modo chiaro:
- la crisi e la guerra del Golfo del 1990-91, volute dagli Stati Uniti, rientrano nel tentativo del gendarme americano di mantenere la sua tutela sui vecchi alleati della guerra fredda, tutela che questi ultimi sono portati a rimettere in discussione con la fine della minaccia sovietica;
- la guerra in Yugoslavia è il risultato diretto dell’affermazione delle nuove ambizioni della Germania, principale istigatore della secessione slovena e croata che mette fuoco alle polveri nella regione;
- il seguito di questa guerra semina la discordia sia nella coppia franco-tedesca, associata nella leadership della Unione europea (che costituisce una prima pietra dell’edificio di un potenziale nuovo blocco imperialista), che nella coppia anglo-americana, la più antica e la più fedele che il 20° secolo abbia conosciuto.
9) Ancor più delle beccate tra il gallo francese e l’aquila tedesca, l’ampiezza delle infedeltà attuali nel matrimonio vecchio di 80 anni tra l’Algida Albione e lo zio Sam costituisce un indice innegabile dello stato di caos nel quale si trova oggi il sistema delle relazioni internazionali. Se, dopo il 1989, la borghesia britannica si era mostrata in un primo tempo la più fedele alleata della sua consorella americana, in particolare in occasione della guerra del Golfo, i pochi vantaggi che essa aveva tratto da questa fedeltà così come la difesa dei suoi interessi specifici nel Mediterraneo e nei Balcani, che la spingevano ad una politica pro-Serba, l’hanno portata a prendere delle distanze considerevoli dal suo alleato e a sabotare sistematicamente la politica americana di sostegno alla Bosnia. Con questa politica la borghesia britannica è riuscita a mettere in piedi una solida alleanza tattica con la borghesia francese con l’obiettivo di far aumentare la discordia nel tandem franco-tedesco, cosa alla quale questa ultima si è completamente prestata nella misura in cui la crescita in potenza del suo alleato tedesco le crea delle preoccupazioni. Questa nuova situazione si è in particolare concretizzata in una intensificazione della collaborazione militare tra la borghesia britannica e quella francese, per esempio col progetto di creazione di un’unità aerea comune e soprattutto con l’accordo che creava una forza inter-africana “di mantenimento della pace e di prevenzione delle crisi in Africa” che costituisce un mutamento spettacolare dell’atteggiamento britannico dopo il suo sostegno alla politica americana nel Ruanda volta a annullare l’influenza francese in questo paese.
10) Questa evoluzione dell’atteggiamento della Gran Bretagna, il cui disappunto si è espresso in particolare il 17 marzo in occasione dell’accoglienza da parte di Clinton di Jerry Addams, il capo del Sinn Fein irlandese, è uno degli eventi maggiori dell’ultimo periodo sulla scena mondiale. E’ rivelatore dello smacco che rappresenta per gli Stati Uniti l’evolversi della situazione nella ex-Yugoslavia, in cui l’occupazione del terreno direttamente da parte degli eserciti britannico e francese sotto l’uniforme della FORPRONU ha contribuito enormemente a sventare i tentativi americani di prendere posizione solidamente nella regione attraverso il suo alleato bosniaco. E’ significativo del fatto che la prima potenza mondiale trova sempre più difficoltà a giocare il suo ruolo di gendarme del mondo, ruolo sopportato sempre meno dalle altre borghesie che tentano di esorcizzare il passato, quando la minaccia sovietica li obbligava a sottostare ai diktat di Washington. Oggi c’è un indebolimento maggiore, cioè una crisi della leadership americana, che si conferma un po’ dappertutto nel mondo, emblematizzata nella pietosa partenza dei Marines dalla Somalia, 2 anni dopo il loro arrivo spettacolare e propagandistico. Questo indebolimento della leadership degli Stati Uniti permette di spiegare perché alcune potenze si permettono di venire a sfidarli nel loro orticello dell’America latina:
- tentativo delle borghesie francese e spagnola di promuovere una “transizione democratica” a Cuba CON Castro, e non SENZA di lui, come avrebbe voluto zio Sam;
- riavvicinamento della borghesia peruviana al Giappone, confermata con la recente rielezione di Fujimori;
- sostegno della borghesia europea, in particolare per il tramite della Chiesa, alla guerriglia zapatista del Chiapas, nel Messico.
11) In realtà, questo maggiore indebolimento della leadership americana esprime il fatto che la tendenza dominante, al momento attuale, non è tanto quella alla costituzione di un nuovo blocco, quanto piuttosto del “ciascuno per sé”. Per la prima potenza mondiale, dotata di una supremazia militare schiacciante, è molto più difficile dominare una situazione caratterizzata dalla instabilità generalizzata, dalla precarietà delle alleanze in tutti gli angoli del pianeta, piuttosto che dalla rigida disciplina degli Stati sotto la minaccia dei mastodonti imperialisti e dell’apocalisse nucleare. In una tale situazione di instabilità, è più facile per ogni potenza creare delle noie ai suoi avversari, sabotare le alleanze che le mettono in ombra, piuttosto che sviluppare per conto proprio delle alleanze solide e assicurarsi una stabilità sui propri territori. Una tale situazione favorisce evidentemente il gioco delle potenze di secondo piano nella misura in cui è sempre più facile seminare il caos che mantenere l’ordine. E una tale realtà è ulteriormente accentuata dallo sprofondare della società capitalista nella decomposizione generalizzata. E’ perciò che gli stessi Stati Uniti sono chiamati ad usare a iosa questo tipo di politica. E ciò può spiegare, per esempio, il sostegno americano alla recente offensiva turca contro i nazionalisti curdi nel Nord dell’Irak, offensiva che la tradizionale alleata della Turchia, la Germania, ha considerato come una provocazione e condannato. Non si tratta di una specie di “rovesciamento di alleanze” tra la Turchia e la Germania, ma di una pietra (di grosse dimansioni) gettata dagli Stati Uniti nel giardino di questa “alleanza” e che rivela l’importanza della posta che rappresenta per i due boss imperialisti un paese come la Turchia. Ugualmente è significativo della situazione attuale il fatto che gli Stati Uniti siano spinti ad impiegare in un paese come l’Algeria per esempio le stesse armi di un Gheddafi o un Komeini: il sostegno del terrorismo e dell’integralismo islamico. Ciò detto, in questa pratica di reciproca destabilizzazione delle rispettive posizioni tra gli Stati Uniti e gli altri paesi, non vi è uguaglianza: se la diplomazia americana può permettersi di intervenire in un gioco politico interno al paese come l’Italia (sostegno a Berlusconi), la Spagna (scandalo del GAL attizzato da Washington), il Belgio (affare Augusta) o la Gran Bretagna (opposizione degli “euroscettici”) a Major), il contrario non potrebbe accadere. In questo senso, la confusione che può manifestarsi in seno alla borghesia americana di fronte agli smacchi diplomatici o ai dibattiti interni su delle scelte strategiche delicate (per esempio, rispetto all’alleanza con la Russia) non ha niente a che vedere con le convulsioni politiche che possono scuotere gli altri paesi. E’ così per esempio che i dissensi manifestati all’epoca dell’invio dei 30.000 Marines ad Haiti sono segno non di reali divisioni ma essenzialmente di una divisione di compiti tra le cricche borghesi che porta ad accentuare le illusioni democratiche e che ha favorito l’arrivo di una maggioranza repubblicana al Congresso americano sostenuta dai settori dominanti della borghesia.
12) Malgrado la loro enorme superiorità militare ed il fatto che questa non può servire loro allo stesso grado del passato, benché siano obbligati a ridurre un po’ le loro spese di difesa di fronte ai loro bilanci in deficit, gli Stati Uniti nondimeno non rinunciano alla modernizzazione dei loro armamenti, ricorrendo ad armi sempre più sofisticate, in particolare portando avanti il progetto di “guerra stellare”. L’impiego della forza bruta, o la sua minaccia, costituisce il mezzo essenziale per la potenza americana di far rispettare la sua autorità (anche se non si priva di ricorrere ai mezzi della guerra economica: pressione sulle istituzioni internazionali come l’OMC, sanzioni commerciali, etc.). Il fatto che questa carta si riveli impotente, anzi fattore di un caos ancora maggiore, come si è visto all’indomani della guerra del Golfo e come è stato ultimamente illustrato dalla Somalia, non fa che confermare il carattere insuperabile delle contraddizioni che attanagliano il mondo capitalista. L’attuale, considerevole rafforzamento del potenziale militare di potenze come la Cina ed il Giappone, che cercano di concorrere con gli Stati Uniti nell’Asia del sud-est e nel Pacifico, non può evidentemente che spingere questo ultimo paese verso lo sviluppo e l’impiego dei suoi armamenti.
13) Il sanguinoso caos nei rapporti imperialisti che caratterizza la situazione del mondo oggi, trova il suo terreno prediletto nei paesi della periferia, ma l’esempio della ex-Yugoslavia a poche centinaia di chilometri dalle grandi concentrazioni industriali europee prova che questo caos si avvicina ai paesi centrali. Alle decine di migliaia di morti provocati dagli scontri in Algeria in questi ultimi anni, ai milioni di cadaveri dei massacri del Rwanda fanno eco le centinaia di migliaia di uccisi in Croazia ed in Bosnia. Nei fatti sono a decine che si contano le zone di scontri sanguinosi nel mondo in Africa, in Asia, in America latina, in Europa, testimonianza dell’indicibile caos che il capitalismo in decomposizione produce nella società. In questo senso la complicità pressappoco generale che avvolge i massacri perpetuati in Cecenia da parte dell’esercito russo, che tenta di frenare lo scoppio della Russia che seguirebbe alla dislocazione della vecchia URSS, sono rivelatori dell’inquietudine che prende la classe dominante di fronte alla prospettiva dell’intensificarsi di questo caos. Bisogna affermarlo chiaramente: solo il rovesciamento del capitalismo da parte del proletariato può impedire che questo caos crescente porti alla distruzione della umanità.
14) Più che mai la lotta del proletariato rappresenta la sola speranza di futuro per la società umana. Questa lotta che era risorta con energia alla fine degli anni 60, ponendo fine alla più terribile controrivoluzione che abbia conosciuto la classe operaia, ha subito un rinculo considerevole con il crollo dei regimi stalinisti, le campagne ideologiche che l’hanno accompagnato e l’insieme degli eventi (guerra del Golfo, guerra in Yugoslavia, etc.) che l’hanno seguito. E’ sui due piani della sua combattività e della sua coscienza che la classe operaia ha subito, in modo massiccio, questo rinculo, senza che ciò rimetta in causa tuttavia, come la CCI aveva già affermato a quella data, il corso storico verso gli scontri di classe. Le lotte condotte nel corso degli ultimi anni da parte del proletariato sono venute a confermare quanto precede. Esse hanno testimoniato, particolarmente dopo il 1992, la capacità del proletariato di riprendere il cammino della lotta di classe, confermando così che il corso storico non era stato rovesciato. Sono altrettanto testimonianza delle enorme difficoltà che incontra su questo cammino, della profondità e dell’estensione del suo rinculo. E’ in modo sinuoso, con dei passi avanti e dei passi indietro, in un movimento a denti di sega che si sviluppano le lotte operaie.
15) I massicci movimenti in Italia nell’autunno 1992, quelli in Germania del 1993 e molti altri esempi hanno dato conto del potenziale di combattività che cresceva nelle fila operaie. Poi questa combattività si è espressa lentamente, con dei lunghi momenti di assopimento, ma non si è smentita. Le mobilitazioni di massa nell’autunno 1994 in Italia, la serie di scioperi nel settore pubblico in Francia nella primavera 1995, sono delle manifestazioni, tra l’altro, di questa combattività. Tuttavia, è importante mettere in evidenza che la tendenza verso il superamento dei sindacati che si era espresso nel 1992 in Italia non si è confermato nel 1994 quando la manifestazione “fenomeno” fu un capolavoro di controllo sindacale. Inoltre, la tendenza all’unificazione spontanea, in piazza, che era comparsa (sebbene in maniera embrionale) nell’autunno 1993 nella Ruhr in Germania ha poi lasciato il posto a delle manovre sindacali di grande ampiezza, quali lo “sciopero” dei metallurgici all’inizio del 1995, perfettamente controllato dalla borghesia, Ugualmente, i recenti scioperi in Francia, nei fatti giornate d’azioni dei sindacati, hanno costituito un successo per questi ultimi.
16) Oltre alla profondità del rinculo subito nel 1989, le difficoltà che prova oggi la classe operaia per avanzare sul suo terreno sono il risultato di tutta una serie di ostacoli supplementari promossi o utilizzati dalla classe nemica. E’ nel quadro del peso negativo che esercita la decomposizione generale del capitalismo sulle coscienze operaie, demolendo la fiducia del proletariato in sé stesso e nella prospettiva della sua lotta, che è importante collocare queste difficoltà. Più concretamente, la disoccupazione di massa e permanente che si sviluppa oggi, se è un segno indiscutibile del fallimento del capitalismo, ha per effetto maggiore quello di provocare una forte demoralizzazione, una enorme disperazione in settori importanti della classe operaia di cui alcuni sono caduti nell’emarginazione e nella lumpenizzazione. Questa disoccupazione ha egualmente per effetto quello di servire da strumento di ricatto e di repressione della borghesia verso i settori operai che ancora hanno lavoro. Inoltre, i discorsi sulla “ripresa” ed i pochi risultati positivi (in termini di profitto e di tassi di crescita) che conosce l’economia dei principali paesi, sono ampiamente messi a frutto per consentire i discorsi dei sindacati sul tema : “i padroni possono pagare”: Questi discorsi sono particolarmente pericolosi nel senso che amplificano le illusioni riformiste degli operai, rendendoli molto più vulnerabili all’inquadramento sindacale, nel senso che sottendono l’idea che se i padroni “non possono pagare”, non serve a niente lottare, il che è un fattore supplementare di divisione (oltre alla divisione tra disoccupati e operai al lavoro) tra i vari settori della classe operaia che lavorano in settori toccati in maniera diversa dagli effetti della crisi.
17) Questi ostacoli hanno favorito la ripresa del controllo da parte dei sindacati sulla combattività operaia, canalizzandola in “azioni” che essi controllano completamente. Tuttavia le attuali manovre dei sindacati hanno anche, e soprattutto, uno scopo preventivo: si tratta per loro di rafforzare la loro presa sugli operai prima che si sviluppi molto di più la loro combattività, combattività che deriverà necessariamente dalla loro crescente collera di fronte agli attacchi sempre più brutali della crisi.
Bisogna anche sottolineare il cambiamento recente in un certo numero di discorsi della classe dominante. Mentre i primi anni dopo il crollo del blocco dell’Est sono stati dominati dalle campagne sul tema della “morte del comunismo”, “l’impossibilità della rivoluzione”, si assiste oggi ad un certo ritorno alla moda dei discorsi favorevoli al “marxismo”, alla “rivoluzione”, al “comunismo” da parte dei gauchistes, evidentemente, ma anche da altri settori. Si tratta anche qui di una misura preventiva da parte della borghesia destinata a deviare la riflessione della classe operaia che tenderà a svilupparsi di fronte al fallimento sempre più evidente del modo di produzione capitalista. Tocca ai rivoluzionari, nel loro intervento, denunciare con il massimo vigore possibile sia le manovre ignobili dei sindacati sia questi discorsi presunti “rivoluzionari”: Spetta a loro porre in avanti la vera prospettiva della rivoluzione proletaria e del comunismo come la sola uscita che può salvare l’umanità e come risultato ultimo delle lotte operaie.
CCI
Si è tenuto l'11° Congresso internazionale della CCI. Nella misura in cui le organizzazioni comuniste sono una parte del proletariato, un prodotto storico di questo e allo stesso tempo parte pregnante e fattore attivo della lotta per la sua emancipazione, i congressi di queste, che ne rappresentano le istanze supreme, sono un momento di primaria importanza per la classe operaia. Per questo i comunisti hanno il dovere di render conto di questo momento essenziale della vita della propria organizzazione.
Le delegazioni venute da 12 paesi (1), che rappresentano più di un miliardo e mezzo di abitanti e soprattutto le maggiori concentrazioni proletarie del mondo (Europa occidentale e America del nord), hanno discusso, tirato delle lezioni e tratto degli orientamenti sulle questioni essenziali alle quali è confrontata la nostra organizzazione. L'ordine del giorno di questo congresso comprendeva essenzialmente due punti: le attività ed il funzionamento della nostra organizzazione, la situazione internazionale (2). Ma il primo punto è quello che senza dubbio ha occupato maggiore spazio e suscitato i dibattiti più appassionati. Ciò è dovuto anche al fatto che la CCI è stata confrontata a delle difficoltà di tipo organizzativo molto importanti che necessitavano una mobilitazione di tutte le sezioni e di tutti i militanti.
I problemi organizzativi nella storia del movimento operaio...
L'esperienza storica delle organizzazioni rivoluzionarie del proletariato dimostra che le questioni relative al funzionamento sono questioni politiche a tutti gli effetti e pertanto meritano la più grande attenzione e riflessione.
Sono numerosi nel movimento operaio gli esempi che dimostrano l'importanza della questione organizzativa ma possiamo evocare in particolare quello dell'AIT (Associazione Internazionale dei Lavoratori, chiamata anche più tardi I Internazionale) e quello del 2° Congresso del Partito Operaio Social Democratico Russo (POSDR) tenuto nel 1903.
L'AIT era stata fondata nel settembre del 1864 a Londra per iniziativa di un certo numero di operai inglesi e francesi. Essa si era data fin dall'inizio una struttura di centralizzazione, il Consiglio centrale che, dopo il congresso di Ginevra del 1866, si chiamerà Consiglio generale. All'interno di questo organo Marx giocherà un ruolo di primo piano poiché sarà incaricato di scrivere un gran numero di testi fondamentali, come l'Indirizzo Inaugurale dell'AIT, i suoi statuti e l'Indirizzo sulla Comune di Parigi (La guerra civile in Francia) del maggio 1871. Rapidamente l'AIT ("Internazionale" come la chiamavano allora gli oprerai) è divenuta una "potenza" nei paesi avanzati (soprattutto quelli dell'Europa occidentale). Fino alla Comune di Parigi del 1871, essa ha raggruppato un numero crescente di operai ed ha costituito un fattore di primo piano nello sviluppo delle due armi essenziali del proletariato: la sua organizzazione e la sua coscienza. Per questo motivo essa sarà l'oggetto di attacchi feroci da parte della borghesia: calunnie sulla stampa, infiltrazioni di spie, persecuzioni contro i suoi membri, ecc. Ma ciò che ha fatto correre il maggior pericolo all'AIT sono stati gli attacchi di alcuni dei suoi propri membri contro il modo di organizzazione dell'Internazionale stessa.
Già al momento della fondazione dell'AIT gli statuti provvisori, di cui si era dotata, vengono tradotti dalle sezioni parigine, fortemente influenzate dalle concezioni federaliste di Proudhon, in modo tale da attenuare considerevolmente il carattere centralizzato dell'Internazionale. Ma gli attacchi più pericolosi verranno più tardi con l'entrata nei ranghi dell'AIT dell'"Alleanza della democrazia socialista", fondata da Bakunin e che troverà terreno fertile in alcuni settori importanti dell'Internazionale per le debolezze che pesavano ancora su di essa dovute all'immaturità del proletariato dell'epoca, un proletariato che non si era ancora liberato delle vestigia della tappa precedente del suo sviluppo.
"La prima fase della lotta del proletariato contro la borghesia è marcata dal movimento settario. Esso ha la sua ragione d'essere in una epoca in cui il proletariato non si è ancora sviluppato abbastanza da agire come classe. Dei pensatori individuali fanno la critica degli antagonismi sociali e ne danno soluzioni fantastiche che la massa degli operai non ha che da accettare, propagandare e mettere in pratica. Per la loro stessa natura le sette formate da questi iniziatori sono astensioniste, estranee ad ogni azione reale, alla politica, agli scioperi, alle coalizioni, in una parola, ad ogni movimento di insieme. La massa del proletariato resta sempre indifferente o anche ostile alla loro propaganda... Queste sette sorte dal movimento alle sue origini, gli fanno da ostacolo quando questo le sorpassa; allora esse diventano reazionarie... Infine, esse rappresentano l'infanzia del movimento proletario come l'astrologia e l'alchimia rappresentano l'infanzia della scienza. Perché fosse possibile la fondazione dell'Internazionale era necessario che il proletariato superasse questa fase.
Di fronte alle organizzazioni cervellotiche ed antagoniste delle sette l'Internazionale è l'organizzazione reale e militante della classe dei proletari in tutti i paesi, legati gli uni agli altri, nella loro lotta comune contro i capitalisti, i proprietari fondiari e il loro potere di classe organizzato nello Stato. Per questo gli statuti dell'Internazionale non riconoscono che semplici società "operaie" che perseguono tutte lo stesso scopo e accettano tutte lo stesso programma che si limita a tracciare le grandi linee del movimento proletario e ne lascia l'elaborazione teorica all'impulso dato dalle necessità della lotta pratica ed allo scambio di idee che si fa, nelle sezioni, ammettendo indistintamente tutte le convinzioni socialiste nei loro organi ed i loro congressi.
Così come in ogni nuova fase storica i vecchi errori riappaiono un istante per scomparire subito dopo; allo stesso modo l'Internazionale ha visto rinascere al suo interno delle sezioni settarie..." (Le pretese scissioni nell'Internazionale, capitolo IV, circolare del Consiglio generale del 5 marzo 1872).
Questa debolezza era particolarmente accentuata nei settori più arretrati del proletariato europeo, là dove esso era appena uscito dall'artigianato e dal lavoro nei campi, in particolare nei paesi latini. Sono queste debolezze che Bakunin, entrato nell'Internazionale solo nel 1868, dopo il fallimento della "Lega della Pace e della Libertà" (di cui era uno dei principali animatori e che raggruppava dei repubblicani borghesi), ha utilizzato per tentare di sottometterla alle sue concezioni "anarchiche" e per prenderne il controllo. Lo strumento di questa operazione era l'"Alleanza della democrazia socialista", che lui aveva fondato come minoranza della "Lega della Pace e della Libertà". Questa era una società contemporaneamente pubblica e segreta e che si proponeva in realtà di formare una internazionale nell'Internazionale. La sua struttura segreta e la concertazione che permetteva tra i suoi membri doveva assicurargli la "enucleazione" di un massimo di sezioni dell'AIT, quelle dove le concezioni anarchiche avevano più eco. In sé l'esistenza di più correnti di pensiero all'interno dell'AIT non era un problema (3). Al contrario l'azione dell'Alleanza che tendeva a sostituirsi alla struttura ufficiale dell'Internazionale, ha costituito un grave fattore di disorganizzazione di questa ed un pericolo per la sua sopravvivenza. L'Alleanza aveva tentato di prendere il controllo dell'Internazionale al Congresso di Basilea nel settembre del 1869. E' in vista di questo obiettivo che i suoi membri, in particolare Bakunin e James Guillaume, avevano appoggiato calorosamente una mozione amministrativa che rafforzava il potere del Consiglio generale. Ma l'Alleanza, che per parte sua si era dotata di statuti segreti basati su di una centralizzazione estrema, avendo fallito cominciò a fare campagne contro la "dittatura" del Consiglio generale che essa voleva ridurre al ruolo di "un ufficio di corrispondenza e di statistiche" secondo i termini dell'Alleanza), di una "buca per lettere" (come rispondeva Marx). Contro il principio della centralizzazione come espressione dell'unità internazionale del proletariato, l'Alleanza preconizzava il "federalismo", la completa "autonomia delle sezioni" ed il carattere non obbligatorio delle decisioni dei congressi. Nei fatti essa voleva poter fare il proprio comodo nelle sezioni dove era riuscita a prendere il controllo. Ciò era la porta aperta alla disorganizzazione totale dell'AIT.
Il Congresso dell'Aia del 1872 dovette correre ai ripari contro questo pericolo. Esso dibattè della questione dell'Alleanza sulla base del rapporto di una commissione d'inchiesta e alla fine decise l'esclusione di Bakunin e di James Guillaume, principale responsabile della federazione del Giura dell'AIT che si trovava completamente sotto il controllo dell'Alleanza. Questo congresso fu contemporaneamente motivo d'orgoglio per l'AIT (tanto per capirne l'importanza, è il solo congresso al quale Marx abbia partecipato) e il suo canto del cigno, dato lo schiacciamento della Comune di Parigi e la demoralizzazione che questo provocò nel proletariato. Di questa realtà Marx ed Engels erano coscienti. E' per questo che, oltre alle misure che miravano a sottrarre l'AIT dalla presa dell'Alleanza, proposero lo spostamento del Consiglio generale a New York, lontano dai conflitti che dividevano sempre di più l'Internazionale. Era anche un modo per permettere all'AIT di morire di propria morte (sancita dalla conferenza di Philadelphia del luglio 1876) senza che il suo prestigio fosse recuperato dagli intriganti bakuninisti.
Questi ultimi, insieme agli anarchici, hanno in seguito perpetuato questa leggenda sostenendo che Marx ed il Consiglio generale avevano buttato fuori Bakunin e Guillaume per la loro diversa posizione sulla questione dello Stato (5) (quando non sono arrivati a piegare lo scontro tra Marx e Bakunin sulla base di problemi di personalità). Insomma, Marx avrebbe voluto regolare un disaccordo su di una questione teorica generale attraverso delle misure amministrative. Niente di più falso.
Al congresso dell'Aia non fu richiesta alcuna misura contro i membri della delegazione spagnola che pure condividevano la visione di Bakunin, avevano fatto parte dell'Alleanza ma avevano assicurato di non farvi più parte. Allo stesso modo l'AIT "anti-autoritaria" che si è formata dopo il congresso dell'Aia con le federazioni che avevano rigettato le sue decisioni, non erano costituite da soli anarchici dato che vi si trovavano, affianco a questi, dei lassalliani tedeschi strenui difensori del "socialismo di Stato", secondo i termini usati da Marx. In realtà la vera lotta all'interno dell'AIT era tra quelli che preconizzavano l'unità del movimento operaio (e di conseguenza il carattere obbligatorio delle decisioni dei congressi) e quelli che rivendicavano il diritto di fare quello che meglio gli pareva, ciascuno per proprio conto, considerando i congressi come delle semplici assemblee dove ci si doveva contentare di "scambiare delle opinioni" ma senza prendere decisioni. Con questo tipo di organizzazione informale l'Alleanza poteva assicurarsi, segretamente, la vera centralizzazione tra tutte le federazioni, come del resto era detto esplicitamente in alcune lettere di Bakunin. Spingere per delle concezioni "anti-autoritarie" nell'AIT era il modo migliore per dare spazio all'intrigo, al potere occulto ed incontrollato dell'Alleanza, cioè degli avventurieri che la dirigevano.
Il 2° Congresso del POSDR doveva essere l'occasione di uno scontro simile tra i partigiani di una concezione proletaria dell'organizzazione rivoluzionaria ed i partigiani di una concezione piccolo-borghese.
Ci sono delle similitudini tra la situazione del movimento operaio in Europa occidentale ai tempi dell'AIT e quella del movimento in Russia all'inizio del secolo. Nei due casi ci troviamo ad una tappa "infantile" di questo, il divario di tempo tra i due si spiega con il ritardo dello sviluppo industriale della Russia. L'AIT aveva voluto raggruppare in un'unica organizzazione le differenti associazioni operaie che lo sviluppo del proletariato aveva fatto sorgere. Il 2° congresso del POSDR aveva come obiettivo quello di una unificazione dei differenti comitati, gruppi e circoli, sviluppatisi in Russia ed in esilio, che si richiamavano alla Socialdemocrazia. Tra queste differenti formazioni non esisteva praticamente alcun legame formale dopo la scomparsa del comitato centrale uscito dal 1° congresso del POSDR nel 1897. Nel 2° congresso, come per l'AIT, si scontrarono una concezione dell'organizzazione che rappresentava il passato del movimento operaio, quella dei "menscevichi" (minoritaria), e una concezione che esprimeva le sue nuove esigenze, quella dei "bolscevichi" (maggioritari):
"Sotto il nome di minoranza si sono raggruppati nel Partito degli elementi eterogenei che hanno in comune il desiderio, cosciente o meno, di mantenere i rapporti di circolo, le forme di organizzazione anteriori al Partito. Alcuni compagni eminenti dei vecchi circoli, non essendo abituati a restrizioni in materia di organizzazione, che si impongono in ragione della disciplina di Partito, sono inclini a confondere macchinalmente gli interessi generali del Partito ed i loro interessi di circolo i quali, nel periodo dei circoli, potevano effettivamente coincidere" (Lenin, Un passo avanti e due indietro).
Come è stato confermato anche da esperienze successive (al momento della rivoluzione del 1905 e ancor più durante la rivoluzione del 1917, ad esempio, quando i menscevichi si sono posti al fianco della borghesia), la dinamica dei menscevichi era determinata dalla penetrazione, nella Social-democrazia russa, dell'influenza delle ideologie borghesi e piccolo-borghesi. In particolare, come nota Lenin: "Il grosso dell'opposizione (i menscevichi) è stata formata dagli elementi intellettuali del nostro Partito" che hanno costituito dunque un veicolo per le concezioni piccolo-borghesi in materia di organizzazione. Per questo motivo tali elementi "... alzano lo stendardo della rivolta contro le restrizioni indispensabili che esige l'organizzazione ed ergono il loro anarchismo spontaneo in principio di lotta, chiamando a torto questo anarchismo... rivendicazioni in favore della tolleranza, ecc." (Lenin, Un passi avanti e due indietro). In effetti, esistono molte similitudini tra il comportamento dei menscevichi e quello degli anarchici nell'AIT (a più riprese Lenin parla dell'"anarchismo da gran signori" dei menscevichi).
I menscevichi, come avevano fatto gli anarchici dopo il congresso dell'Aia, si rifiutarono di riconoscere e di applicare le decisioni del 2° congresso affermando che "il congresso non è una divinità" e che "le sue decisioni non sono sacrosante". In particolare, nello stesso modo in cui i seguaci di Bakunin entrarono in guerra contro i principi della centralizzazione e la "dittatura del Consiglio generale" quando i loro tentativi di prenderne il controllo fallirono, così una delle ragioni per cui i menscevichi, dopo il congresso, cominciarono a rigettare la centralizzazione sta nel fatto che alcuni di loro furono estromessi dagli organi centrali nominati a questo congresso. Ci sono delle somiglianze anche nel modo in cui i menscevichi condussero campagne contro la "dittatura personale" di Lenin, il suo "pugno di ferro" che fa eco alle accuse di Bakunin contro la "dittatura" di Marx sul Consiglio generale.
"Quando prendo in considerazione la condotta degli amici di Martov dopo il congresso (...) io posso solo dire che si tratta di un tentativo insensato, indegno dei membri del Partito, di dilaniare il Partito... E perché? Unicamente perché non si è contenti della composizione degli organi centrali, perché obiettivamente è unicamente questa questione che ci ha separati, gli apprezzamenti soggettivi (come offesa, insulto, espulsione, messa da parte, disonore, ecc) non erano altro che il frutto di un amor proprio ferito e di una immaginazione malata. Questa immaginazione malata e questo amor proprio ferito portano di filato al pettegolezzo più vergognoso: senza aver preso conoscenza dell'attività dei nuovi centri, nè averli ancora visti all'opera, si spargono voci sulle loro "carenze", sul "pugno di ferro" di Ivan Ivanovitch, sul "polso" di Ivan Nikiforovitch, ecc. (...). Alla socialdemocrazia russa resta un'ultima e difficile tappa da superare: dallo spirito di circolo allo spirito di partito; dalla mentalità piccolo-borghese alla coscienza del suo divenire rivoluzionario: dal pettegolezzo e dalla pressione dei circoli, considerati strumenti di azione, alla disciplina." ("Relazione del 2° congresso del POSDR").
Con l'esempio dell'AIT e quello del 2° congresso del POSDR, si può vedere tutta l'importanza delle questioni legate al modo di organizzazione delle formazioni rivoluzionarie. In effetti, è proprio intorno a queste questioni che si produceva una decantazione decisiva tra, da una parte la corrente proletaria e, dall'altra, le correnti piccolo-borghesi o borghesi. Questo non è casuale, ma deriva dal fatto che uno dei canali privilegiati per l'infiltrazione all'interno di queste formazioni delle ideologie delle classi estranee al proletariato, borghesia e piccola-borghesia, è proprio quello del loro modo di funzionamento.
La storia del movimento operaio è ricca di esempi di questo tipo. Se abbiamo evocato solo questi è evidentemente per una questione di spazio ma anche perché esistono delle somiglianza importanti, come vedremo, tra le circostanze storiche della costituzione dell'AIT, del POSDR e della CCI stessa.
...e nella storia della CCI
La CCI si è già soffermata più volte con attenzione su questo tipo di questione. Alla conferenza di fondazione, per esempio, nel gennaio 1975, dove fu esaminata la questione della centralizzazione internazionale (vedi il "Rapporto sulla questione dell'organizzazione della nostra corrente", Revue Internationale n.1). Un anno dopo, in occasione del suo primo congresso, la nostra organizzazione ci è ritornata su con l'adozione degli statuti (vedi l'articolo "Gli statuti delle organizzazioni rivoluzionarie del proletariato" Revue Internationale n.5). Infine, la CCI nel gennaio 1982 ha dedicato una conferenza internazionale straordinaria a questa questione in seguito alla crisi che essa aveva attraversato nel 1981 (6). Di fronte alla classe operaia ed all'ambiente politico proletario la CCI non ha nascosto le difficoltà incontrate agli inizi degli anni 80. Così ne parlava la risoluzione adottata al 5° congresso e citata nella Revue Internationale n.35:
"Dopo il 4° congresso (1981) la CCI ha conosciuto la crisi più grave da quando esiste. Una crisi che, al di là delle peripezie particolari dell'"affare Chénier" (7) ha scosso profondamente l'organizzazione, le ha fatto sfiorare l'esplosione, ha provocato direttamente o indirettamente l'uscita di una quarantina di membri, ha ridotto alla metà i militanti della sua seconda sezione territoriale. Una crisi che si è tradotta in un accecamento, un disorientamento che la CCI non aveva mai conosciuto dalla sua creazione. Una crisi che, per essere superata, ha richiesto la mobilitazione di mezzi eccezionali: la tenuta di una Conferenza internazionale straordinaria, la discussione e l'adozione di testi di orientamento di base sulla funzione e sul funzionamento dell'organizzazione rivoluzionaria, l'adozione di nuovi statuti."
Una tale trasparenza rispetto alle difficoltà che incontrava la nostra organizzazione non corrispondeva affatto ad un qualche "esibizionismo" da parte nostra. L'esperienza delle organizzazioni comuniste è parte integrante dell'esperienza della classe operaia. E' per questo che un grande rivoluzionario come Lenin ha potuto consacrare tutto un libro, Un passo avanti e due indietro, alle lezioni politiche tratte dal 2° Congresso del POSDR. E' per questo che noi portiamo a conoscenza dei nostri lettori larghi estratti della risoluzione adottata alla fine del nostro 11° Congresso. Rendendo conto della propria vita organizzativa, la CCI non fa altro che assumersi le sue responsabilità di fronte alla classe operaia.
Evidentemente la messa in piazza da parte delle organizzazioni rivoluzionarie dei propri problemi e discussioni interne può costituire un ottimo terreno per tutti i tentativi di denigrazione da parte degli avversari. Questo è vero anche, ed in particolar modo, per la CCI. Certo non è nella stampa borghese che si trovano le esclamazioni di giubilo quando diamo conto delle difficoltà che la nostra organizzazione può incontrare oggi, siamo ancora troppo modesti come taglia e come influenza tra le masse operaie perché i mezzi di propaganda borghese abbiano interesse a parlare di noi per screditarci. Per la borghesia è meglio innalzare un muro di silenzio intorno alle posizioni e all'esistenza delle organizzazioni rivoluzionarie. E' per questo che il lavoro di denigrazione e di sabotaggio dell'intervento di queste organizzazioni è preso in carica da tutta una serie di gruppi ed elementi parassitari la cui funzione è di allontanare dalle posizioni di classe quegli elementi che si avvicinano a queste, di farli disgustare di ogni partecipazione al difficile lavoro di sviluppo di un campo politico proletario.
L'insieme dei gruppi comunisti è stato confrontato all'azione del parassitismo, ma tocca alla CCI, dato che è oggi l'organizzazione più importante dell'ambiente proletario, essere l'oggetto di una attenzione tutta particolare da parte della marea parassitaria. In questa si trovano dei gruppi ben definiti quali il "Groupe Communiste Internationaliste" (GCI) e le sue scissioni (come "Contre le Courant"), il defunto "Communist Bulletin Group" (CBG) o l'ex-"Frazione Esterna della CCI" (FECCI) che si sono tutti costituiti da scissioni della CCI. Ma il parassitismo non si limita solo a questo tipo di gruppi. Esso è veicolato da elementi non organizzati o che si trovano in certi momenti in circoli di discussione effimeri, la cui preoccupazione principale consiste nel far circolare ogni sorta di pettegolezzo a proposito della nostra organizzazione. Questi elementi sono spesso vecchi militanti che, cedendo alla pressione della piccola-borghesia, non hanno avuto la forza di mantenere un impegno militante nell'organizzazione, che sono stati frustrati dal fatto che questa non ha "riconosciuto i loro meriti" allo stesso livello dell'idea che si erano fatti di loro stessi o che non hanno sopportato le critiche a loro mosse. Si tratta anche di vecchi simpatizzanti che l'organizzazione non ha voluto integrare perché riteneva che non avevano la chiarezza necessaria o non si sono voluti impegnare per paura di perdere la loro "individualità" in un quadro collettivo (è questo il caso, ad esempio, del defunto "collettivo Alptraum" del Messico o del "Kamunist Kranti" in India). In tutti i casi si tratta di elementi la cui frustrazione derivante dalla loro propria mancanza di coraggio, dalla loro ignavia e della loro impotenza si è trasformata in una ostilità sistematica verso l'organizzazione. Evidentemente questi elementi sono assolutamente incapaci di costruire un qualcosa. Al contrario, sono spesso molto efficaci, con le loro piccole agitazioni ed i pettegolezzi da servetta, nello screditare e distruggere quello che l'organizzazione cerca di costruire.
Tuttavia non è il gracidare del parassitismo che impedisce alla CCI di far conoscere all'insieme del campo proletario gli insegnamenti della propria esperienza. Nel 1904 Lenin scriveva, nella prefazione di Un passo avanti due passi indietro:
"Costoro (gli avversari della social-democrazia) si agitano e manifestano una gioia maligna dinanzi alle nostre polemiche; costoro tenderanno naturalmente ad utilizzare ai loro fini singoli passi del mio opuscolo, consacrato ai difetti ed alle lacune del nostro partito. I socialdemocratici russi sono già sufficientemente temprati alle battaglie per non lasciarsi commuovere da queste punture di spillo, per continuare, nonostante ciò, la loro opera di autocritica e di denuncia spietata dei propri difetti, che saranno sicuramente e inevitabilmente superati con lo sviluppo del movimento operaio. Si provino invece i signori avversari a presentarci il quadro della reale situazione esistente nei loro "partiti", un quadro che si avvicini anche solo da lontano a quello offerto dagli atti del nostro secondo congresso!" (Opere scelte)
E' esattamente con lo stesso spirito che noi portiamo qui a conoscenza dei nostri lettori larghi estratti della risoluzione adottata alla fine del nostro 11° Congresso. Questo non è una manifestazione di debolezza della CCI ma, al contrario, una testimonianza della sua forza.
I problemi affrontati dalla CCI nell'ultimo periodo
"L'11° congresso della CCI afferma dunque chiaramente: la CCI si trovava in una situazione di crisi latente, una crisi ben più profonda di quella che ha colpito l'organizzazione agli inizi degli anni 80, una crisi che, se non fosse stata identificata la radice delle debolezze, rischiava di travolgere l'organizzazione" (Risoluzione d'attività. punto 1)
"Le cause della gravità del male che rischiava di inghiottire l'organizzazione sono molteplici, ma se ne possono mettere in evidenza le principali:
In questo senso il solo modo in cui la CCI poteva affrontare efficacemente il pericolo mortale che la minacciava, consisteva:
La lotta per il raddrizzamento della CCI è iniziata nell'autunno del 1993 con la messa in discussione in tutta l'organizzazione di un testo di orientamento che ricordava ed attualizzava gli insegnamenti del 1982, soffermandosi sull'origine storica delle nostre debolezze. Al centro del nostro procedere si trovavano dunque le seguenti preoccupazioni: la riappropriazione delle acquisizioni della nostra propria organizzazione e dell'insieme del movimento operaio, la continuità con le lotte di questo ed in particolare con la sua lotta contro la penetrazione al suo interno delle ideologie estranee, borghesi e piccolo-borghesi.
"Il quadro di comprensione che si è data la CCI per mettere a nudo l'origine delle sue debolezze si inscriveva nella lotta storica condotta dal marxismo contro le influenze delle ideologie piccolo-borghesi che pesano sulle organizzazioni del proletariato. Più precisamente esso si rifaceva alla lotta del Consiglio generale dell'AIT contro l'azione di Bakunin e dei suoi fedeli, come di quella di Lenin e dei bolscevichi contro le concezioni opportuniste e di tipo anarchico dei menscevichi durante e dopo il 2° Congresso del POSDR. In particolare era necessario per l'organizzazione mettere al centro delle sue preoccupazioni, come lo fecero i bolscevichi a partire dal 1903, la lotta contro lo spirito di circolo e per lo spirito di partito. Questa priorità derivava dalla natura stessa delle debolezze che pesavano sulla CCI data la sua origine a partire da circoli apparsi nel solco della ripresa storica del proletariato alla fine degli anni 1960; dei circoli fortemente marcati dal peso delle concezioni affinitarie, contestatarie, individualiste, in una parola dalle concezioni di tipo anarchico, particolarmente marcate dalle rivolte studentesche che hanno accompagnato e inquinato la ripresa proletaria. E' in questo senso che la constatazione del peso particolarmente forte dello spirito di circolo nelle nostre origini era parte integrante dell'analisi generale elaborata da lungo tempo e che vedeva la base delle nostre debolezze nella rottura organica delle organizzazioni comuniste per la contro rivoluzione che si era abbattuta sulla classe operaia a partire dalla fine degli anni 1920. Tuttavia questa constatazione ci permetteva di andare più lontano e di andare più a fondo nell'analisi delle radici delle nostre difficoltà. Ci permetteva in particolare di comprendere il fenomeno, già constatato nel passato ma insufficientemente chiarito, della formazione dei clan all'interno dell'organizzazione. : questi clan erano in realtà il risultato dell'incancrenimento dello spirito di circolo che si era mantenuto anche al di là del periodo in cui i circoli avevano costituito una tappa della riformazione dell'avanguardia comunista. In questo modo i clan divenivano, a loro volta, un fattore attivo e il miglior garante della conservazione dello spirito di circolo nell'organizzazione." (ibidem, punto 4).
Qui la risoluzione fa riferimento ad un punto del testo di orientamento dell'autunno '93 che mette in evidenza la seguente questione:
"In effetti uno dei gravi pericoli che minacciano in permanenza l'organizzazione, che rimette in causa la sua unità e rischia di distruggerla, è la costituzione, anche se non deliberata o cosciente, di "clan". In una dinamica di clan le pratiche comuni non partono da un reale accordo politico ma da legami di amicizia, di fedeltà, dalla convergenza di interessi "personali" specifici o da frustrazioni condivise. Spesso una tale dinamica, nella misura in cui essa non si basa su di una reale convergenza politica, si accompagna all'esistenza di "guru", di "capo banda" garanti dell'unità del clan, il cui potere può derivare o da un carisma particolare, che può anche schiacciare le capacità politiche e di giudizio di altri militanti, o dal fatto che questi sono presentati, o si presentano, come "vittime" di questa o quella politica dell'organizzazione. Quando appare una tale dinamica i membri o i simpatizzanti del clan non agiscono più, nei loro comportamenti o nelle decisioni che prendono, in funzione di una scelta cosciente e ragionata basata sugli interessi generali dell'organizzazione, ma in funzione del punto di vista e degli interessi del clan, i quali tendono a porsi in contraddizione a quelli del resto dell'organizzazione."
Questa analisi era basata su dei precedenti storici nel movimento operaio (per esempio, l'atteggiamento dei vecchi redattori dell'Iskra, raggruppati intorno a Martov e che, scontenti delle decisioni del 2° congresso del POSDR, avevano formato la frazione dei menscevichi), ma anche su dei precedenti nella storia della CCI. Non possiamo qui entrare in dettaglio ma possiamo affermare che le "tendenze" che ha conosciuto la CCI (quella che si scinde nel 1978 per formare il "Groupe Communiste Internationaliste", la "tendenza Chénier" nel 1981, la "tendenza" che ha lasciato l'organizzazione al suo 6° congresso per formare la "Frazione esterna della CCI") corrispondevano molto di più ad una dinamica di clan che a delle reali tendenze basate su un orientamento positivo alternativo. In effetti il motore principale di queste "tendenze" non era costituito dalle divergenze che i loro membri potevano avere con gli orientamenti dell'organizzazione (queste divergenze erano le più eteroclite, come dimostrato dalla traiettoria successiva delle "tendenze") ma da un assemblaggio di malcontenti e di frustrazioni contro gli organi centrali e dalla fedeltà personale verso gli elementi che si considerano "perseguitati" o insufficientemente riconosciuti.
Il raddrizzamento della CCI
Anche se non più tanto spettacolare come nel passato, l'esistenza di clan continuava a minare in sordina ma drammaticamente il tessuto organizzativo. In particolare, l'insieme della CCI (compresi i militanti direttamente implicati) ha messo in evidenza che essa era confrontata ad un clan che occupava un posto di primo piano nell'organizzazione e che, anche se non era un "semplice prodotto organico delle debolezze della CCI" aveva "concentrato e cristallizzato un gran numero di caratteristiche deleterie che infettavano l'organizzazione ed il cui denominatore comune era l'anarchismo (visione dell'organizzazione come somma di individui, approccio di tipo psicologico e affinitario nei rapporti politici tra militanti e nelle questioni di funzionamento, disprezzo o ostilità verso le concezioni politiche marxiste in materia di organizzazione)" (Risoluzione d'attività, punto 5).
E' per questo che:
"... il Congresso constata il successo globale della lotta ingaggiata dalla CCI dall'autunno 1993 (...) il raddrizzamento, talvolta spettacolare, delle sezioni più toccate dalle difficoltà di tipo organizzativo nel '93 (...), gli approfondimenti che sono venuti da numerose parti della CCI (...), tutti questi fatti confermano la piena validità della lotta intrapresa, del suo metodo, delle sue basi teoriche così come dei suoi aspetti concreti (...). Il congresso sottolinea in particolare gli approfondimenti realizzati dall'organizzazione nella comprensione di tutta una serie di questioni alle quali si sono confrontate e si confrontano le organizzazioni della classe: avanzamenti nella conoscenza della lotta di Marx e del Consiglio generale contro l'Alleanza, della lotta di Lenin e dei bolscevichi contro i menscevichi, del fenomeno dell'avventurismo politico nel movimento operaio (rappresentato in particolare dalle figure di Bakunin e di Lassalle), proprio di elementi declassati, che non lavorano a priori al servizio dello Stato capitalista ma finiscono per essere più pericolosi degli agenti infiltrati da questo." (ibidem, punto 10).
"Sulla base di questi elementi l'11° Congresso constata dunque che la CCI è oggi ben più forte di quanto non lo fosse al precedente congresso, che è incomparabilmente meglio armata per affrontare le sue responsabilità di fronte al futuro ritorno della classe sulla scena, anche se, evidentemente, essa è ancora in convalescenza" (ibidem, punto 11).
La constatazione dell'esito positivo della lotta condotta dall'organizzazione non ha tuttavia creato nessun sentimento di euforia nel congresso. La CCI ha imparato a diffidare degli impeti momentanei che sono più che altro il tributo della penetrazione nei ranghi comunisti dell'impazienza piccolo-borghese piuttosto che espressione di una dinamica proletaria. La lotta delle organizzazioni e dei militanti comunisti è una lotta a lungo termine, paziente, spesso oscura ed il vero entusiasmo che sta nei militanti non si misura dalle impennate euforiche ma dalla capacità di tenere, contro venti e maree, di resistere di fronte alla pressione deleteria che l'ideologia della classe nemica fa pesare sulle loro teste. E' per questo che la constatazione del successo che ha coronato la lotta della nostra organizzazione nel corso di questo ultimo periodo non ci ha portato a nessun trionfalismo:
"Questo non significa che la lotta che abbiamo condotto sia finita. (...) La CCI dovrà continuarla attraverso una vigilanza in ogni istante, la determinazione ad identificare ogni debolezza e ad affrontarla senza attendere. (...) In realtà la storia del movimento operaio, ivi compresa quella della CCI, esige, ed il dibattito l'ha ampiamente confermato, che la lotta per la difesa dell'organizzazione sia permanente, senza sosta. In particolare la CCI deve avere in mente che la lotta fatta dai bolscevichi per lo spirito di partito contro lo spirito di circolo è proseguita per lunghi anni. Sarà lo stesso per la nostra organizzazione che dovrà essere vigile per affrontare ed eliminare ogni demoralizzazione, ogni sentimento di impotenza derivante dalla lunghezza della lotta." (ibidem, punto 13)
Prima di concludere questa parte sulle questioni di organizzazione che sono state discusse al congresso è importante precisare che le discussioni fatte dalla CCI per un anno e mezzo non hanno dato luogo ad alcuna scissione (contrariamente a quello che era accaduto, per esempio, al 6° Congresso o nel 1981). Ciò è dovuto anche al fatto che l'organizzazione da subito si è ritrovata d'accordo con il quadro teorico che era stato dato per la comprensione delle difficoltà che aveva. L'assenza di divergenze su questo quadro ha permesso il fatto che non si cristallizzasse una qualche "tendenza" o anche una qualche "minoranza" che teorizzasse le proprie particolarità. In gran parte le discussioni vertevano su come concretizzare questo quadro nel funzionamento quotidiano della CCI, avendo costantemente la preoccupazione di legare queste concretizzazioni all'esperienza storica del movimento operaio. Il fatto che non ci sono state scissioni è una testimonianza della forza della CCI, della sua maggiore maturità, della volontà dimostrata dalla grande maggioranza dei suoi militanti di condurre in modo risoluto la lotta per la sua difesa, per risanare il suo tessuto organizzativo, per superare lo spirito di circolo e tutte le concezioni anarchiche che considerano l'organizzazione come una somma di individui o di piccoli gruppi affini.
Le prospettive della situazione internazionale
Evidentemente l'organizzazione comunista non esiste per sé stessa. Essa non è spettatrice ma protagonista delle lotte della classe operaia e la sua difesa intransigente significa giustamente permetterle di conservare il suo ruolo. E' con questo obiettivo che il Congresso ha consacrato una parte del suo dibattito all'esame della situazione internazionale. Esso ha discusso ed approvato differenti rapporti su questa questione così come una risoluzione che ne fa la sintesi e che è pubblicata in questo stesso numero della Rivista Internazionale. Non ci estenderemo quindi su questo aspetto dei lavori del congresso. Ci contentiamo qui di evocare, brevemente, l'ultimo dei tre aspetti della situazione internazionale (evoluzione della crisi economica, conflitti imperialisti e rapporti di forza tra le classi) che sono stati affrontati al congresso.
Questa risoluzione l'afferma chiaramente:
"Più che mai la lotta del proletariato rappresenta la sola speranza per l’avvenire della società umana." (punto 14)
Tuttavia il Congresso ha confermato ciò che la CCI aveva annunciato nell'autunno del 1989:
"Questa lotta, che era risorta con vigore alla fine degli anni '60 ponendo fine alla peggiore contro-rivoluzione che ha conosciuto la classe operaia, ha subito un riflusso considerevole con il crollo dei regimi stalinisti, le campagne ideologiche che l'hanno accompagnato e l'insieme degli avvenimenti che sono seguiti (guerra del Golfo, guerra in Yugoslavia, ecc.)" (ibidem)
Ed è principalmente per questa ragione che oggi:
"E' in modo sinuoso, con degli avanzamenti e dei passi indietro, in un movimento a zig-zag che si sviluppano le lotte operaie." (ibidem)
Tuttavia la borghesia sa molto bene che l'aggravamento degli attacchi contro la classe operaia non potrà che dare impulso a nuove lotte sempre più coscienti. E si prepara sviluppando tutta una serie di manovre sindacali e al tempo stesso dando incarico ai suoi agenti di rinnovarsi con discorsi che incensano la "rivoluzione", il "comunismo" o il "marxismo". E' perciò che:
"Tocca ai rivoluzionari, nel loro intervento, denunciare col maggior vigore possibile sia le manovre vergognose dei sindacati che questi presunti discorsi "rivoluzionari". Tocca a loro mettere in avanti la vera prospettiva della rivoluzione proletaria e del comunismo come unica uscita che può salvare l'umanità e come risultato ultimo delle lotte operaie." (punto 17).
Dopo aver ricostituito e riunito le sue forze la CCI è di nuovo pronta, dopo il suo 11° Congresso, ad assumere questa responsabilità.
CCI.
1. Germania, Belgio, Stati Uniti, Spagna, Francia, Gran Bretagna, India, Italia, Messico, Paesi Bassi, Svezia, Venezuela.
2. Era anche previsto un punto sull'esame del campo politico proletario che costituisce una preoccupazione permanente della nostra organizzazione. Per mancanza di tempo abbiamo dovuto sopprimerlo, ma questo non significa affatto un allentamento della nostra attenzione su questa questione. Al contrario, superate le nostre difficoltà organizzative possiamo apportare il nostro migliore contributo allo sviluppo dell'insieme del campo proletario.
3. "Dato che le sezioni della classe operaia nei differenti paesi si trovano in condizioni differenti di sviluppo, necessariamente anche le loro opinioni teoriche, che riflettono il movimento reale, sono divergenti. Tuttavia la comunità d'azione stabilita dall'Associazione Internazionale dei lavoratori, lo scambio di idee facilitate dalla propaganda fatta dagli organi delle differenti sezioni nazionali, infine le discussioni dirette ai congressi generali, non mancheranno di far uscire gradualmente un programma teorico comune." (Risposta del Consiglio generale alla domanda di adesione dell'Alleanza, 9 marzo 1869). Bisogna notare che l'Alleanza aveva fatto una prima domanda di adesione con degli statuti dove era previsto che essa di dotava di una struttura internazionale parallela a quella dell'AIT (con un comitato centrale e la tenuta di congressi separati da quelli dell'AIT). Il Consiglio generale aveva rifiutato questa domanda facendo valere il fatto che gli statuti dell'Alleanza erano in contraddizione con quelli dell'AIT. Essa aveva precisato che era pronta ad ammettere le differenti sezioni dell'Alleanza se questa avesse rinunciato alla sua struttura internazionale. L'Alleanza aveva accettato questa condizione ma aveva mantenuto la sua struttura in conformità ai propri statuti segreti.
4. In un "Appello agli ufficiali dell'esercito russo", Bakunin vanta i meriti dell'organizzazione segreta "che trova la sua forza nella disciplina, nella devozione e l'abnegazione appassionata dei suoi membri e nell'obbedienza cieca ad un Comitato unico che conosce tutto e non è conosciuto da nessuno."
5 Gli anarchici sono per l'abolizione immediata dello Stato sin dall'indomani della rivoluzione. E' una differenza di principio: il marxismo ha messo in evidenza che lo Stato si manterrà, sotto delle forme evidentemente diverse da quelle dello Stato capitalista, fino alla scomparsa completa delle classi sociali.
6. Vedi gli articoli "La crisi del campo proletario", "Rapporto sulla struttura ed il funzionamento dell'organizzazione dei rivoluzionari e "Presentazione del 5° Congresso della CCI" nei numeri 28, 33 e 35 della Révue Internationale.
7. Chénier, sfruttando la mancanza di vigilanza della nostra organizzazione, era divenuto membro della nostra sezione in Francia nel 1978. A partire dal 1980 aveva iniziato tutto un lavoro sotterraneo tendente alla distruzione della nostra organizzazione. Per fare questo aveva sfruttato molto abilmente sia la mancanza di rigore organizzativo della CCI che le tensioni esistenti nella sezione in Gran Bretagna. Questa situazione aveva portato alla formazione di due clan antagonisti in questa sezione, bloccando il suo lavoro e conducendo alla perdita della metà di questa ed anche alla perdita di molti militanti in altre sezioni. Chénier fu escluso dalla CCI nel settembre 1981 e noi abbiamo pubblicato nella stampa un comunicato che metteva in guardia il campo politico proletario contro questo elemento "torbido e losco". Poco dopo Chénier ha iniziato una carriera nel sindacalismo, il Partito Socialista e l'apparato dello Stato per il quale lavorava, molto probabilmente, già da lungo tempo.
Secondo la storia ufficiale nel 1949, in Cina avrebbe trionfato una "rivoluzione popolare". Questa idea, diffusa tanto dalla democrazia occidentale, che dal maoismo, fa parte della mostruosa mistificazione mesa in atto con la controrivoluzione staliniana sulla sedicente creazione degli "stati socialisti". E' vero che la Cina, dal 1919 al 1927 ha conosciuto un imponente movimento della classe operaia, parte integrante dell'ondata rivoluzionaria internazionale che ha scosso il mondo capitalista in quegli anni; questo movimento però si concluse con un massacro della classe operaia. Per contro, ciò che gli ideologi della borghesia presentano come il "trionfo della rivoluzione cinese" non è altro che l'instaurazione di un capitalismo di Stato nella sua variante maoista, il culmine del periodo di conflitti imperialisti in territorio cinese, periodo aperto dal 1928, dopo la disfatta della rivoluzione proletaria.
In questo articolo esporremo le condizioni nelle quali è sorta la rivoluzione proletaria in Cina, traendo alcune delle principali lezioni. Tralasceremo, per il momento, l’analisi del periodo dei conflitti imperialisti, durante i quali è apparso il maoismo, e la denuncia degli aspetti fondamentali di questa forma di ideologia borghese.
La III Internazionale e la rivoluzione in Cina
L'evoluzione dell'Internazionale Comunista e la sua azione in Cina hanno avuto un ruolo cruciale nel corso della rivoluzione in questo paese. L'IC rappresenta il più grande sforzo realizzato fino a quel momento dalla classe operaia per dotarsi di un partito mondiale capace di guidare la sua lotta rivoluzionaria. Però la sua tardiva formazione nel corso stesso dell'ondata rivoluzionaria mondiale, senza avere avuto in anticipo il tempo sufficiente per consolidarsi organicamente e politicamente, l'ha condotta , malgrado la resistenza delle sue frazioni di sinistra (1), verso una deriva opportunista. In effetti di fronte al riflusso della rivoluzione e all'isolamento della Russia sovietica, il Partito bolscevico - il più influente in seno all'Internazionale - ha cominciato ad esitare fra la necessità di sistemare le basi per una nuova crescita rivoluzionaria in futuro, anche a prezzo di sacrificare il trionfo in Russia, e quella di difendere lo Stato russo sorto dalla rivoluzione , a prezzo di accordi e di alleanze concluse con le borghesie nazionali. Questi accordi e queste alleanze hanno rappresentato un'enorme fonte di confusione per il proletariato internazionale e hanno contribuito ad accelerare la sua disfatta in numerosi paesi. La deriva opportunista dell'IC, l'abbandono degli interessi storici della classe operaia a favore di una politica di collaborazione fra le classi l'hanno condotta ad una progressiva degenerazione che nel 1928 è culminata con l'abbandono dell'internazionalismo proletario in nome della pretesa "difesa del socialismo in un solo paese".(2)
La perdita di fiducia nella classe operaia ha condotto progressivamente l'IC, diventata sempre di più uno strumento del governo russo, a voler creare una barriera di protezione contro la penetrazione delle grandi potenze imperialiste con l'appoggio alle borghesie dei "paesi oppressi" dell'Europa Orientale, del Medio ed Estremo Oriente. Questa politica si è dimostrata disastrosa per la classe operaia internazionale: In effetti , per tutto il periodo in cui l'IC ed il governo russo sostenevano politicamente e materialmente le borghesie nazionaliste presunte "rivoluzionarie" della Turchia, della Persia, della Palestina, dell'Afghanistan .. e infine della Cina, queste stesse borghesie, che ipocritamente accettavano l'aiuto sovietico senza rompere i loro legami con le potenze imperialiste né con la nobiltà fondiaria che pretendevano di combattere, schiacciavano le lotte operaie e annientavano le organizzazioni comuniste con le stesse armi che forniva loro la Russia. Ideologicamente, questo abbandono delle posizioni proletarie trovava la sua giustificazione nelle “Tesi sulla questione nazionale e coloniale” del 2° Congresso dell'IC (alla cui redazione Lenin e Roy ebbero un ruolo importante). Queste tesi contengono sicuramente un'ambiguità teorica di principio operando una falsa distinzione fra borghesie "imperialiste" e "antimperialiste", cosa che avrebbe aperto la strada a più grandi errori politici. Di fatto, a quell'epoca, la borghesia cessava di essere rivoluzionaria e aveva assunto in ogni parte un carattere imperialista, compresi i "paesi oppressi": non solo attraverso i numerosi legami con l'una o l'altra delle grandi potenze imperialistiche, ma anche perché a partire dalla presa del potere della classe operaia in Russia, la borghesia internazionale aveva formato un fronte comune contro ogni movimento di massa. Il capitalismo era entrato nella sua fase di decadenza e l'apertura dell'epoca della rivoluzione proletaria aveva definitivamente chiuso l'era delle rivoluzioni borghesi.
Le Tesi, malgrado questo errore, erano state però capaci di impedire certi scivolamenti opportunisti che, sfortunatamente, si sarebbero generalizzati poco tempo dopo. Il rapporto presentato da Lenin riconosceva che, nel nuovo periodo, "un certo avvicinamento si verifica fra la borghesia dei paesi sfruttatori e quella dei paesi coloniali, in maniera tale che molto frequentemente la borghesia dei paesi oppressi, pur appoggiando i movimenti nazionali, è al tempo stesso in accordo con la borghesia imperialista, cioè essa lotta con questa contro i movimenti rivoluzionari" (3). E' per questo che le Tesi chiamano ad appoggiarsi essenzialmente sui contadini e insistevano sulla necessità per le organizzazioni comuniste di mantenere la loro indipendenza organica e di principio di fronte alla borghesia: "L'Internazionale Comunista deve sostenere i movimenti rivoluzionari nelle colonie e nei paesi arretrati solo a condizione che gli elementi dei più puri partiti comunisti - e comunisti nei fatti - siano raggruppati e istruiti sui loro compiti particolari, cioè del compito di combattere il movimento borghese e democratico (...) conservando sempre il carattere indipendente del movimento proletario anche nella sua forma embrionale" (4). Ma il sostegno incondizionato, ignominioso dell'IC al Kuomintang in Cina avrebbe dimostrato che tutto questo sarebbe stato dimenticato: tanto per il fatto che la borghesia nazionale non era più rivoluzionaria e si trovava strettamente legata alle potenze imperialiste, quanto in rapporto alla necessità di forgiare un partito comunista in grado di lottare contro la democrazia borghese e di mantenere l'indispensabile indipendenza del movimento della classe operaia.
La "Rivoluzione" del 1911 e il Kuomintang
Lo sviluppo della borghesia cinese e il suo movimento politico durante i primi decenni del 20° secolo, lungi dal mostrare presunti aspetti "rivoluzionari", ci dà piuttosto l'illustrazione dell'estinzione del carattere rivoluzionario della borghesia e della trasformazione dell'ideale nazionale e democratico in pura mistificazione, nel momento in cui il capitale entra nella fase di decadenza. L'insieme dei fatti ci mostra non una classe rivoluzionaria ma una classe conservatrice, conciliante, il cui movimento politico non tendeva né a espellere completamente la nobiltà né a rigettare gli "imperialisti", ma piuttosto a crearsi uno spazio al loro fianco.
Gli storici sono soliti sottolineare le differenze di interessi che sarebbero esistite fra le differenti frazioni della borghesia cinese. Così, in genere, è d’uso identificare la frazione speculatrice e commerciale come alleata della nobiltà e degli "imperialisti", mentre la borghesia industriale e l'intelligentsia costituirebbero la frazione "nazionalista", "moderna", "rivoluzionaria". In realtà queste differenze non erano così marcate; non solo perché queste frazioni erano intimamente legate, per questioni d’affari o per legami familiari, ma soprattutto perché gli atteggiamenti, tanto della frazione commerciale che di quella industriale e dell'intelligentsia, non erano molto differenti: tutte cercavano in permanenza l'appoggio dei "signori della guerra", legati alla nobiltà fondiaria, e quello dei governi delle grandi potenze.
Verso il 1911, la dinastia manciù era già completamete in putrefazione e sul punto di cadere. E questo non era il prodotto di una qualunque azione rivoluzionaria della borghesia nazionale, ma la conseguenza della divisione della Cina fra le grandi potenze imperialiste che aveva condotto alla divisione del vecchio impero. La Cina tendeva a restare sempre più divisa in regioni controllate da militaristi in possesso di eserciti mercenari più o meno potenti, sempre pronti a vendersi al migliore offerente e dietro i quali si trovava l'una o l'altra grande potenza. La borghesia, da parte sua, si sentiva chiamata a prendere il posto della dinastia in quanto elemento unificatore del paese, ma non allo scopo di spezzare il modo di produzione nel quale si mescolavano gli interessi dei proprietari fondiari con i suoi propri, ma piuttosto con lo scopo di mantenerli. E' in questo quadro che si sono svolti gli avvenimenti che partono da quella che viene chiamata la "Rivoluzione del 1911" fino al "Movimento del 4 maggio 1919".
La "Rivoluzione del 1911" iniziò con una cospirazione di militari conservatori sostenuti dall'organizzazione borghese nazionalista di Sun Yat-sen, la Tung Meng-hui. I militaristi conservatori rinnegarono l'imperatore e proclamarono un nuovo regime a Wu-Ciang. Sun Yat-sen, che si trovava negli Stati Uniti alla ricerca di un sostegno finanziario per la sua organizzazione, fu chiamato ad occupare la presidenza di un nuovo governo. Iniziarono negoziati fra i due governi e, in capo ad alcune settimane, si decise la rinuncia contemporanea dell'imperatore e di Sun Yat-sen in cambio di un governo unificato con a capo Yuan Che-kai che era il capo delle truppe imperiali, il vero uomo forte della dinastia. Tutto questo significava che la borghesia lasciava da parte le sue pretese "rivoluzionarie" e "antimperialiste" in cambio del mantenimento dell'unità del paese.
Alla fine del 1912 si forma il Kuomintang, nuova organizzazione di Sun Yat-sen, rappresentante di questa borghesia. Nel 1913, il Kuomintang partecipa alle elezioni presidenziali ristrette alle classi sociali possidenti, dalle quali esce vincitore. Il nuovo presidente Sun Ciao-yen viene assassinato e Sun Yan-sen tenta di formare un nuovo governo alleandosi con alcuni militaristi secessionisti del centro sud del paese, ma è sconfitto dalle forze di Pechino.
Come si può vedere, le velleità nazionaliste della borghesia cinese erano sottomesse ai voleri dei signori della guerra e, conseguentemente, a quelli delle grandi potenze. Lo scoppio della prima guerra mondiale assoggettò maggiormente il movimento politico della borghesia cinese al gioco degli interessi imperialisti. Nel 1915 parecchie province divennero "indipendenti", i signori della guerra si suddivisero il paese, sostenuti dall'una o dall'altra grande potenza. Nel nord, il governo di Anfu - sostenuto dal Giappone - disputava il posto a quello di Chili - sostenuto dalla Gran Bretagna e dagli USA -. Da parte sua la Russia zarista tentava di fare della Mongolia un protettorato. Ci si disputava anche il sud. Sun Yat-sen realizzò nuove alleanze con alcuni signori della guerra. La morte dell'uomo forte di Pechino acuì ancora di più le lotte fra i militaristi.
E' in questo contesto, alla fine della guerra in Europa , che nacque in Cina il "Movimento del 4 maggio 1919", tanto vantato dagli ideologi come un “movimento autenticamente antimperialista”. In realtà, questo movimento della piccola borghesia non era diretto contro l'imperialismo in generale, ma piuttosto contro il Giappone in particolare: in effetti, questo, durante la Conferenza di Versailles (quella in cui i paesi democratici vincitori si spartirono il mondo), era riuscito ad ottenere la provincia cinese di Ciang-Tong, cosa a cui gli studenti cinesi si opponevano. Tuttavia occorre notare che l'obiettivo di non cedere dei territori cinesi al Giappone corrispondeva proprio agli interessi di un'altra potenza rivale, gli Stati Uniti che, nel 1922, arrivarono a "liberare" le province di Cian-Tong dalla dominazione esclusivamente giapponese. Indipendentemente dall'ideologia radicale del movimento del 4 maggio, questo resta ugualmente nel quadro dei conflitti imperialisti. Né poteva essere diversamente.
Per contro, occorre sottolineare che durante il movimento del 4 maggio, in un senso differente, la classe operaia fece la sua prima apparizione nelle manifestazioni, scandendo non solo le parole d'ordine nazionaliste del movimento, ma anche proprie rivendicazioni di classe.
La fine della guerra in Europa non aveva messo fine né alle guerre fra i militaristi, né alle contese fra le grandi potenze per la spartizione della Cina. Tuttavia, a poco a poco, prendono forma due governi più o meno instabili: uno nel nord con sede a Pechino, agli ordini del militarista Wu Pei-fu; l'altro nel sud con sede a Canton con Sun Yat-sen e il Kuomintang alla testa. La storia ufficiale presenta il governo del nord come espressione delle forze "reazionarie", della nobiltà e degli imperialisti e il governo del sud come espressione delle forze nazionaliste e "rivoluzionarie", cioè la borghesia, la piccola borghesia e i lavoratori. Si tratta di una scandalosa mistificazione.
In realtà Sun Yat-sen e il Kuomintang sono sempre stati sostenuti dai signori della guerra del sud : nel 1922 Cien Ciung-ming, che aveva occupato Canton, aveva invitato Sun Yat-sen a formare un altro governo. Nel 1922 Sun Yat-sen seguendo la tendenza dei militaristi del sud, tentò, per la prima volta, di avanzare verso il nord; sconfitto fu espulso dal governo ma, nel 1923, ritornò a Canton con l'appoggio dei militaristi. D'altra parte si parla molto dell'alleanza del Kuomintang con l'URSS. In realtà questa intratteneva relazioni e alleanze con tutti i governi proclamati della Cina, compresi quelli del nord. Fu la svolta definitiva del nord verso il Giappone ad obbligare l'URSS a privilegiare le relazioni con il governo di Sun Yat-sen, il quale, d'altra parte, non abbandonò mai il gioco consistente nel chiedere aiuto a diverse potenze imperialiste. Così nel 1925, poco prima della sua morte e mentre andava al nord per negoziare, Sun Yat-sen, passò per il Giappone alla ricerca di un appoggio per il suo governo.
E' questo partito, il Kuomintang, rappresentante della borghesia nazionale (commerciale, industriale e intellettuale), integrato nel gioco delle grandi potenze imperialistiche e dei signori della guerra, che l'Internazionale Comunista arrivò a dichiarare "partito simpatizzante". E' a questo partito che dovranno sottomettersi giorno dopo giorno i comunisti in Cina a nome della "rivoluzione nazionale" e fare, per lui, i "coolies" (5).
Il Partito Comunista di Cina al crocevia
La storia ufficiale presenta la nascita del Partito Comunista in Cina come un sottoprodotto del movimento dell'intellettualità borghese degli inizi del secolo. Il marxismo sarebbe stato importato dall'Europa fra altre "filosofie" occcidentali e la formazione del partito comunista avrebbe fatto parte della nascita di molte altre organizzazioni letterarie, filosofiche e politiche di quell'epoca. Con questo genere di idee gli storici borghesi creano un ponte fra il movimento politico della borghesia e quello della classe operaia per dare, infine, alla formazione del partito comunista un significato specificamente nazionale. In realtà la nascita del Partito Comunista in Cina - come in molti altri paesi all'epoca - non è fondalmentalmente legato allo sviluppo dell'intelligentsia cinese ma all'avanzata del movimento rivoluzionario internazionale della classe operaia.
Il Partito Comunista di Cina (PCC) fu creato nel 1920-21 a partire da piccoli gruppi marxisti, anarchici e socialisti che simpatizzavano per la Russia sovietica. Come tanti altri partiti il PCC nacque direttamente in quanto componente dell'IC e la sua crescita era legata allo sviluppo delle lotte operaie che non mancarono di sorgere secondo l'esempio dei movimenti insurrezionali in Russia e in Europa Occidentale. E' così che da poche decine di militanti nel 1921, il partito si svilupperà in pochi anni per contarne un migliaio; durante l'ondata degli scioperi del 1925, raggiunse 4.000 membri e al culmine del periodo insurrezionale del 1927, ne contava circa 60.000. Questo rapido accrescimento numerico esprime, in una certa maniera, la volontà rivoluzionaria che animava la classe operaia cinese durante il periodo dal 1919 al 1927 (in quel periodo la maggior parte dei militanti erano operai di grandi citta industriali). Occorre, però, dire che l'accrescimento numerico non corrispondeva ad un equivalente rafforzamento del partito. L'ammissione affrettata di militanti contraddiceva la tradizione del partito bolscevico di formare una organizzazione solida, ben temprata dell'avanguardia della classe operaia piuttosto che un'organizzazione di massa. Ma la cosa peggiore fu l'adozione, al 2° congresso, di una politica opportunista della quale non sarebbe più riuscito a disfarsi.
Verso la metà del 1922, su richiesta dell'Esecutivo dell'IC, il PCC lancia la sventurata parola d'ordine del "fronte unico antimperialista con il Kuomintang" e dell'adesione individuale dei comunisti a quest'ultimo. Questa politica di collaborazione di classe (che cominciò ad estendersi in Asia a partire dalla Conferenza dei popoli d'Oriente del gennaio 1922) era il risultato di negoziati, iniziati segretamente, fra l'URSS e il Kuomintang. Nel giugno 1923 (3° Congresso del PCC) viene votata la politica di adesione dei membri del partito al KMT. Il KMT stesso viene ammesso nell'IC nel 1926 come organizzazione simpatizzante e partecipa al 7° Plenum mentre l'Opposizione Unificata (Trotsky, Zinovev, ...) non viene autorizzata a parteciparvi. Nel 1926, mentre il Kuomintang prepara il colpo finale contro la classe operaia, a Mosca si elaborava l'infame teoria secondo la quale il Kuomintang era un "blocco antimperialista comprendente quattro classi" (il proletariato, i contadini, la piccola borghesia e la borghesia).
Questa politica ebbe le più funeste conseguenze sul movimento della classe operaia cinese. Mentre si sviluppava spontaneamente e impetuosamente il movimento di scioperi e di manifestazioni, il PCC, annegato nel KMT, si dimostrava incapace di orientare la classe operaia e di dare prova di una politica di classe indipendente. La classe operaia, a sua volta sprovvista di organizzazioni unitarie finalizzate alla lotta politica come i consigli operai, si mise nelle mani del KMT - su richiesta del PCC stesso - accordando cioè la fiducia alla borghesia.
E' però certo che la politica opportunista di subordinazione al KMT ha incontrato, fin dall'inizio, una costante resistenza in seno al PCC (come fu il caso della corrente rappresentata da Chen Tu-hsiu). Già al 2° Congresso si era alzata una opposizione contro le tesi difese dal delegato dell'IC Sneevliet, secondo le quali il KMT non sarebbe stato un partito borghese ma un fronte di classe al quale il PCC avrebbe dovuto sottomettersi. Durante tutto il periodo di unità col KMT, in seno al PCC non sono mancate voci che denunciavano i preparativi antiproletari di Ciang Kai-scek, domandando ad esempio che le armi fornite dalla Russia fossero destinate all'armamento degli operi e dei contadini piuttosto che andare a rafforzare l'esercito di Ciang Kai-scek come stava accadendo, affermando infine le necessità di uscire dalla trappola che il KMT costituiva per la classe operaia: "La rivoluzione cinese ha due vie possibili: una è quella che può tracciare il proletariato e attraverso la quale noi potremo raggiungere i nostri obiettivi rivoluzionari; l'altra è quella della borghesia e quest'ultima tradirà la rivoluzione nel corso del suo sviluppo". (6)
Tuttavia fu impossibile per un partito giovane e senza esperienza superare le direttive erronee dell'Esecutivo dell'IC ed esso vi ricadde dentro. Il risultato fu che, mentre il proletariato si impegnava in una lotta contro le frazioni delle classi possidenti avversarie al KMT, questo gli stava preparando la pugnalata alla schiena: cosa che la classe operaia non poté impedire in quanto il suo partito non l'aveva prevenuta. E se è vero che in Cina la rivoluzione aveva poche possibilità di trionfare - in effetti a livello internazionale la spina dorsale della rivoluzione mondiale, il proletariato tedesco, era spezzata dopo il 1919 - l'opportunismo della III Internazionale precipitò la disfatta.
La classe operaia si solleva
Il maoismo ha preso a pretesto la debolezza della classe operaia in Cina per giustificare lo spostamento del PCC verso le campagne a partire dal 1927. Certo, la classe operaia in Cina, a partire dall'inizio del secolo era numericamente molto piccola rispetto ai contadini (in proporzione di 2 a 100), ma il suo peso politico non seguiva le stesse proporzioni.
Da una parte c'erano già circa 2 milioni di operai urbani altamente concentrati nel bacino del fiume Yang-Tse - con la città costiera di Shangai e la zona industriale di Wu-Han (con la triplice città di Han-Keu, Wu-Ciang, Han-Yang) -, nel complesso Canton-Hong-Kong e nelle miniere della provincia di Yunnan (senza contare i 10 milioni di artigiani più o meno proletarizzati che popolavano le città). Questa concentrazione dava alla classe operaia una forza straordinaria, in grado di paralizzare e prendere in mano i centri vitali della produzione capitalista. Di più, nelle province del sud (soprattutto a Kuang-Tong) esisteva un contadiname strettamente legato agli operai: in effetti esso era il serbatoio di forza lavoro per le città industriali e poteva costituire una forza d'appoggio per il proletariato urbano.
D'altra parte sarebbe erroneo considerare la forza della classe operaia in Cina basandosi esclusivamente sul suo peso numerico in rapporto alle altre classi del paese. Il proletariato è una classe storica che trae la sua forza nella sua esistenza mondiale e l'esempio della rivoluzione cinese ne è una prova concreta. Il movimento degli scioperi non aveva il suo epicentro in Cina, ma in Europa, era una manifestazione dell'onda di espansione della rivoluzione mondiale. Gli operai cinesi, come quelli di altre parti del mondo, si lanciavano nella lotta di fronte all'eco della rivoluzione trionfante in Russia e ai tentativi insurrezionali in Germania e in altri paesi dell'Europa.
All'inizio, dato che la maggior parte delle fabbriche cinesi erano di origine straniera, gli scioperi avevano una vernice xenofoba e la borghesia nazionale pensava di servirsene come una strumento di pressione. Però il movimento degli scioperi prenderà sempre di più un deciso carattere di classe, contro la borghesia in generale, sia essa nazionale o straniera. Gli scioperi rivendicativi si succedono in maniera crescente a partire dal 1919 malgrado la repressione (non era raro che degli operai fossero decapitati o bruciati nelle caldaie delle locomotive). Verso la metà del 1921, scoppia uno sciopero fra i tessili di Hu-Nan. All'inizio del 1922, uno sciopero di marinai di Hong-Kong prosegue per tre mesi fino al soddisfacimneto delle rivendicazioni. Nei primi mesi del 1923 scoppia un'ondata di centinaia di scioperi ai quali prendono parte più di 300.000 operai; in febbraio il militarista Wu Pei-fu ordina la repressione dello sciopero delle ferrovie nel corso del quale 35 operai vengono assassinati e numerosi altri feriti. Nel giugno 1924 scoppia uno sciopero generale a Canton - Hong-Kong che durerà tre mesi. Nel gennaio 1925 scendono in sciopero gli operai del cotone di Shanghai: è il preludio del gigantesco movimento di scioperi che avrebbero percorso tutta la Cina durante l'estate del 1925.
Il movimento del 30 maggio
Nel 1925, la Russia sosteneva fermamente il governo di Canton del KMT. L'alleanza fra l'URSS e il KMT era già stata dichiarata apertamente dal 1923; una delegazione militare del KMT comandata da Ciang-Kai scek si era recata a Mosca e, nello stesso tempo, una delegazione dell'IC dava al KMT degli statuti e una struttura organizzativa e militare. Nel 1924, il 1° congresso ufficiale del KMT approvò l'alleanza e, in maggio, viene creata l'Accademia Militare di Whampoa con armi e consiglieri militari sovietici diretta da Ciang-Kai scek. Nei fatti, ciò che faceva il governo russo era formare un esercito moderno al servizio della frazione della borghesia raggruppata attorno al KMT, cosa che le era fino ad allora mancato. Nel marzo 1925, Sun Yat-sen va a Pechino (l'URSS contnuava a mantenere relazioni anche col governo di Pechino) per cercare di costruire un'alleanza mirante ad unificare il paese ma muore di malattia prima di avere raggiunto il suo scopo.
E' in questo contesto di alleanza idilliaca che sorge, con tutte le sue forze, il movimento della classe operaia ricordando alla borghesia del KMT e agli opportunisti dell'IC l'esistenza della lotta di classe.
All'inizio del 1925 inizia a lievitare un'ondata di agitazioni e di scioperi. Il 30 maggio la polizia inglese di Shanghai apre il fuoco su una manifestazione di studenti e di operai: 12 morti. Fu il detonatore di uno sciopero generale a Shanghai che iniziò a estendersi rapidamente ai principali porti commerciali del paese. Il 19 giugno scoppia uno sciopero generale a Canton; quattro giorni più tardi le truppe britanniche della concessione britannica di Shameen (nei pressi di Canton) aprirono il fuoco contro un'altra manifestazione. In risposta gli operai di Hong-Kong si misero in sciopero e il movimento si estese arrivando fino alla lontana Pechino dove, il 30 luglio, ebbe luogo una manifestazione di circa 200.000 lavoratori, e rafforzando l'agitazione contadina nella provincia di Kuang-Tong.
A Shanghai gli scioperi durarono tre mesi, a Canton scoppiò uno sciopero con boicottaggio che finì ad ottobre dell'anno seguente. In quel momento cominciarono a crearsi milizie operaie: migliaia di operai raggiusero i ranghi del Partito comunista. La classe operaia cinese si mostrava per la prima volta come forza realmente in grado di minacciare il regime capitalistico nel suo insieme.
Malgrado il fatto che il movimento del 30 maggio ebbe come conseguenza diretta il consolidamento e l'estensione nel Sud del potere del governo di Canton, questo stesso movimento svegliò l'istinto di classe della borghesia nazionalista raggruppata nel KMT e che fino ad allora aveva "lasciato fare" gli scioperanti fintanto essi indirizzavano le loro lotte contro le fabbriche e le concessioni straniere. Gli scioperi dell'estate del 1925 avevano preso un carattere antiborghese senza "rispettare" i capitalisti nazionali. Così la borghesia nazionalista e "rivoluzionaria" con alla testa il KMT (sostenuto dalle grandi potenze e con l'appoggio cieco di Mosca) si lanciò rabbiosamente prima di tutto nella lotta con quello che aveva identificato come il suo nemico mortale: il proletariato.
Il colpo di forza e la spedizione al nord di Ciang Kai-scek
Fra gli ultimi mesi del 1925 e i primi del 1926 si svolge quella che gli storici sono soliti chiamare la "polarizzazione tra la sinistra e la destra del KMT", quella che secondo loro avrebbe comportato il frazionamento della borghesia in due parti: una fedele al nazionalismo, l'altra che si sarebbe voltata verso un'alleanza con l'imperialismo. Abbiamo, però, già visto che anche le frazioni della borghesia più "antimperialiste" non cessarono mai le loro relazioni con gli imperialisti. Ciò che stava accadendo, in realtà, non era il fatto che la borghesia si frazionasse, ma che si preparava ad affrontare la classe operaia sbarazzandosi degli elementi che davano fastidio in seno al KMT (i militanti comunisti, una parte della piccola borghesia e qualche generale fedele all'URSS). Così, dunque, il KMT, sentendosi sufficientemente forte politicamente e militarmente, si toglieva la maschera del "blocco delle classi" e appariva per ciò che era sempre stato: il partito della borghesia.
Alla fine del 1925, il capo della "sinistra", Liao Cing-hai fu assassinato e cominciarono le persecuzioni contro i comunisti. Questo fatto costituì il preludio del colpo di forza di Ciang Kai-scek, divenuto l'uomo forte del KMT, che segnò l'inizio della reazione della borghesia contro il proletariato. Il 20 marzo, Ciang Kai-scek alla testa dei cadetti dell'Accademia di Whampoa, proclama la legge marziale a Canton, chiude i locali delle organizzazioni operaie, disarma i picchetti di sciopero e fa arrestare numerosi militanti comunisti. Nei mesi seguenti, i comunisti saranno espulsi da tutti i posti di responsabilità del Kuomintang..
L'Esecutivo dell'Internazionale, sotto il tallone di Bucharin e di Stalin, rimane "cieco" di fronte alla reazione del KMT e, malgrado l'opposizione insistente di una parte del PCC, dà l'ordine di mantenere l'alleanza, nascondendo gli avvenimenti ai membri dell'Internazionale e dei PC (7). Rassicurato, Ciang Kai-scek esige dall'URSS un sostegno militare nella spedizione verso il nord che comincia nel luglio 1926.
Come tante altre azioni della borghesia, la spedizione nel nord è falsamente presentata dalla storia ufficiale come un "avvenimento rivoluzionario", come un tentativo per estendere il regime “rivoluzionario” e unificare la Cina. Ma le intenzioni del KMT di Ciang Kai-scek erano lungi dall’essere così altruiste. Il suo grande sogno (alla stessa stregua di altri militaristi) consisteva nell’appropriarsi del porto di Shangai e ottenere dalle grandi potenze l’amministrazione della sua ricca dogana. Per fare questo, esso poteva contare su uno strumento di pressione molto potente: la sua capacità di contenere e sottomettere il movimento operaio.
Fin dall’inizio della spedizione militare il Kuomintang decreta la legge marziale nelle zone già sotto il suo controllo. Così, nel momento stesso in cui i lavoratori del nord preparano con entusiasmo l’appoggio alle forze del Kuomintang, questo vietava formalmente gli scioperi operai nel sud.
In settembre una forza della sinistra del KMT prende Han-Keu, ma Ciang Kai-scek rifiuta di sostenerla e si stabilisce a Nanciang. In ottobre, viene dato l’ordine ai comunisti di frenare il movimento contadino nel sud e l’esercito mette fine allo sciopero-boicottaggio a Canton-Hong-Kong. Questo ultimo atto diede alle grandi potenze (in primo luogo alla Gran Bretagna) la prova più tangibile che l’avanzata verso il nord del Kuomintang non aveva nessuna pretesa antimperialista e, poco tempo dopo, cominciarono dei negoziati segreti con Ciang Kai-scek.
Alla fine del 1926, il bacino industriale del fiume Yang-Tzé ribolliva di agitazioni. In ottobre, il militarista Sia-ciao (che si era unito al Kuomintang) avanza verso Shangai, ma si ferma a qualche chilometro dalla città lasciando le truppe “nemiche” del nord (agli ordini di Sun Ciuan-fang) entrare per prime nella città e soffocare così un imminente sollevamento. Nel gennaio 1927, le masse lavoratrici occuparono con azioni spontanee le concessioni britanniche di Han-Keu (nella tripla città di Wu-Han) e di Jiujiang. Allora l’esercito del Kuomintang rallentò la sua avanzata per permettere, nella più pura tradizione degli eserciti reazionari, che i signori della guerra locali potessero reprimere il movimento operaio e contadino. Allo stesso tempo Ciang Kai-scek attacca pubblicamente i comunisti e il movimento contadino del Kuang-Tong (nel sud) è soffocato. Ecco lo scenario all’interno del quale si sviluppò il movimento insurrezionale di Shangai.
L’insurrezione di Shangai
Il movimento insurrezionale di Shangai è il punto culminante di un decennio di lotte costanti e crescenti della classe operaia. Esso costituisce il punto più elevato raggiunto dalla rivoluzione in Cina. Tuttavia le condizioni in cui esso maturava non potevano essere più sfavorevoli per la classe operaia. Il partito comunista si trovava legato mani e piedi, disarticolato, colpito e sottomesso dal Kuominang. La classe operaia, ingannata dalla mistificazione del blocco delle “quattro classi” non si era più dotata di organismi unitari, incaricati di centralizzare effettivamente la sua lotta, come i consigli operai (8). Durante questo periodo, le cannoniere delle potenze imperialiste erano puntate sulla città, e il Kuomintang stesso si avvicinava a Shangai, apparentemente brandendo la bandiera della “rivoluzione antimperialista”, ma con lo scopo vero di schiacciare gli operai. Solo la volontà rivoluzionaria e l’eroismo della classe operaia possono spiegare la sua capacità di impadronirsi in tali condizioni, anche se solo per qualche giorno, della città che rappresenta il cuore del capitalismo in Cina.
Nel febbraio 1927 il Kuomintang riprende la sua avanzata. Il 18 l’esercito nazionalista si trova a Chiaching, a 60 chilometri da Shangai. In questo momento, davanti alla sconfitta imminente di Sun Ciuan-fang, scoppia lo sciopero generale a Shangai:
“...il movimento del proletariato di Shangai, dal 19 al 24 febbraio, costituì oggettivamente un tentativo del proletariato di Shangai di assicurare la sua egemonia. Alle prime notizie della sconfitta di Sun Ciuan-fang, a Zejiang, l’atmosfera di Shangai divenne bollente e per due giorni scoppiò con la potenza di una forza naturale uno sciopero di 300.000 lavoratori che si trasformò irresistibilmente in insurrezione armata per ricadere rapidamente nel niente, per mancanza di direzione...” (9)
Il Partito comunista, preso di sorpresa, esistava a lanciare la parole d’ordine dell’insurrezione mentre questa si sviluppava già per le strade. Il 20 Ciang Kai-scek ordinò di colpo di sospendere l’attacco contro Shangai. Fu il segnale per le forze di Sun Ciuan-fang per scatenare la repressione nella quale decine di operai furono assassinati e che arrivò a contenere momentaneamente il movimento.
Durante le settimane seguenti Ciang Kai-scek manovrò abilmente per evitare di essere sostituito al comando dell’esercito e per far tacere le indiscrezioni su un’alleanza con la destra e le altre potenze, e sui preparativi antioperai.
Infine, il 21 marzo 1927 scoppia il tentativo insurrezionale finale. Quel giorno, viene proclamato uno sciopero generale a cui partecipano praticamente tutti gli operai di Shangai: 800.000 operai. “Tutto il proletariato era in sciopero, come pure la maggior parte della piccola borghesia (piccoli commercianti, artigiani, ecc.) (...) in una decina di minuti tutta la polizia fu disarmata. Alle due gli insorti possedevano già quasi 1.500 fucili. Immediatamente dopo le forze insorte si diressero verso i principali edifici governativi e si misero a disarmare le truppe. Seri combattimenti si svilupparono nel quartier generale di Tchapei... Finalmente, il secondo giorno dell’insurrezione, alle quattro del pomeriggio, il nemico (circa 3.000 soldati) era definitivamente sconfitto. A questo punto tutta Shangai (eccetto le concessioni e il quartiere internazionale) si trovava nelle mani degli insorti.” (10)
Questa azione, dopo la rivoluzione in Russia e i tentativi insurrezionali in Germania e in altri paesi europei, costituì una nuova scossa contro l'ordine capitalista mondiale. Essa mostrò tutto il potenziale rivoluzionario della classe operaia. La macchina repressiva della borghesia, però, era già in marcia ed il proletariato non era in grado di affrontarla.
La borghesia "rivuluzionaria" massacra il proletariato
Gli operai presero la città di Shanghai ... solo per aprirne le porte all'esercito nazionale "rivoluzionario" del KMT che finì per entrare nella città. Si era appena installato a Shanghai quando Ciang Kai-scek cominciò a preparare la repressione in accordo con la borghesia speculatrice e le bande mafiose della città. Iniziò così un ravvicinamento aperto con i rappresentanti delle grandi potenze e con i signori della guerra del nord. Il 6 aprile Cian Tso-lin (in accordo con Ciang Kai-scek) attaccò l'ambasciata russa a Pechino arrestando dei militanti del PCC che furono, in seguito, assassinati.
Il 12 aprile si scatenava a Shanghai la repressione massiccia preparata da Ciang Kai-scek: le bande del sottoproletariato delle società segrete, che avevano sempre avuto un grande ruolo nello spezzare gli scioperi, furono mandate contro gli operai. Le truppe del KMT - i pretesi "alleati" del proletariato - furono direttamente utilizzate per disarmare ed arrestare le milizie proletarie. Il giorno seguente il proletariato tentò di reagire mettendosi in sciopero, ma i contingenti dei manifestanti furono intercettati dalla truppa provocando numerose vittime. Immediatamente fu applicata la legge marziale e tutte le organizzazioni operaie proibite. In pochi giorni furono assassinati 5.000 operai, fra i quali numerosi militanti del PCC. Le retate e gli assassinii continuarono per mesi.
Simultaneamente, con una manovra congiunta, i militari del KMT che erano restati a Canton scatenarono un altro massacro, sterminando ulteriormente migliaia di operai.
La rivoluzione proletaria, annegata nel sangue degli operai di Shanghai e di Canton, resisteva ancora in maniera precaria a Wou-Han; però, ancora una volta, il KMT e in particolare la sua ala sinistra, si toglieva la maschera "rivoluzionaria" e, in luglio, raggiungeva i ranghi di Ciang Kai-scek scatenando anche là la repressione. Le orde militari si lanciarono al massacro e alla distruzione nelle campagne delle province del centro e del sud. I lavoratori furono assassinati a decine di migliaia in tutta la Cina.
L'Esecutivo dell'IC, tentando di mascherare la sua politica nefasta e criminale di collaborazione di classe, scaricò tutte le responsabilità sul PCC ed i suoi organi centrali e, in particolare, sulla corrente che, giustamente si era opposta a questa politica (la corrente di Chen Tu-hsiu). Per completare il lavoro, l' Esecutivo ordina al PCC di impegnarsi in una politica avventurista che termina con la cosiddetta "insurrezione di Canton". Questo assurdo tentativo di un colpo di forza “pianificato” non è seguito dal proletariato di Canton e finì solo col sottomettere definitivamente quest'ultimo alla repressione. Questo fatto segna definitivamente la fine del movimento operaio in Cina, di cui non si vedrà più nessuna espressione significativa durante i successivi quaranta anni.
La politica dell'IC verso la Cina, fu uno degli assi di denuncia dello stalinismo in crescita, che si trova all'origine dell'Opposizione di Sinistra, la corrente incarnata da Trotsky (nella quale lo stesso Chen Tu-hsiu finì per impegnarsi). Questa corrente confusa e tardiva di opposizione alla degenerazione dell'IC, benché si fosse mantenuta su un terreno di classe proletario a proposito della Cina - denunciando la sottomissione del PCC al KMT come causa della disfatta della rivoluzione - non arrivò mai a superare il quadro erroneo delle Tesi del 2° Congresso dell'IC sulla questione nazionale. Sarà questo uno dei fattori che la condurranno - a sua volta - ad una deriva opportunista (per ironia della storia Trotsky sosterrà il nuovo fronte di classe uscito fuori, in Cina, dalle lotte imperialiste a partire dagli anni '30), fino al suo passaggio nel campo della controrivoluzione nel corso della 2a guerra mondiale (11). In una maniera o nell'altra tutto ciò che aveva qualcosa di rivoluzionario e internazionalista in Cina fu chiamato "trotskysmo" (anni successivi, Mao Tse-tung perseguiterà come "agenti trotskysti dell'imperialismo giapponese" i pochi internazionalisti che si opponevano alla sua politica controrivoluzionaria).
Quanto al PCC, esso fu letteralmente annientato, dopo che 25.000 militanti furono assassinati dal KMT e altri imprigionati o perseguitati. Senza dubbio dei rifugiati del partito comunista, così come alcuni distaccamenti del KMT, poterono rifugiarsi in campagna. Ma a questo dislocamento geografico corrispondeva un dislocamento politico sempre più profondo: negli anni successivi il partito adottò un'ideologia borghese, la sua base - diretta dalla piccola borghesia e dalla borghesia - diventò a predominanza contadina e partecipò a campagne e guerre imperialiste. A prezzo del mantenimento delle sue dimensioni, il PCC cessò di essere un partito della classe operaia e si convertì in partito della borghesia; questa, però, è un'altra storia, oggetto di una eventuale seconda parte di questo articolo.
Segnaliamo, in guisa di conclusione, alcuni insegnamenti dal movimento rivoluzionario in Cina:
* La borghesia cinese non cessò di essere rivoluzionaria nel momento in cui essa si lanciò contro il proletariato nel 1927. Già dalla "rivoluzione del 1911", la borghesia nazionalista aveva mostrato il suo atteggiamento a dividersi il potere con la nobiltà, ad allearsi con i militaristi e a sottomettersi alle potenze imperialiste. Le sue aspirazioni democratiche, "antimperialiste" e perfino "rivoluzionarie", erano solo la maschera che nascondeva i suoi interessi reazionari; questi vennero alla luce quando il proletariato cominciò a rappresentare una minaccia. Nel periodo di decadenza, le borghesie dei paesi deboli sono altrettanto reazionarie e imperialiste di quelle delle grandi potenze.
* La lotta di classe del proletariato in Cina dal 1919 al 1927 non può essere analizzata in un contesto puramente nezionale. Essa costituisce un momento dell'ondata rivoluzionaria mondiale che scosse il capitalismo all'inizio del secolo. La forze elementare con la quale si sollevò il movimento operaio in Cina, settore del proletariato modiale considerato allora debole, al punto di essere in grado di prendere spontaneamente in mano le grandi città, mostra il potenziale che la classe operaia possiede per abbattere la borghesia, anche se per fare questo ha bisogno della coscienza e dell'organizzazione rivoluzionarie.
* Il proletariato non può più allearsi con nessuna frazione della borghesia. Per contro, può trascinare nel suo movimento settori della piccola borghesia urbana e contadina (come mostrano l' insurrezione di Shanghai e il movimento contadino di Kuang-Tong). In ogni caso il proletariato non deve fondersi con questi settori in nessun fronte di sorta ma deve mantenere in ogni momento la sua autonomia di classe.
* Il proletariato, per vincere, ha bisogno di un partito politico che lo orienti nei momenti determinanti, così come di un'organizzazione unitaria in consigli operai. Deve, particolarmente, dotarsi in tempo del suo Partito Comunista mondiale, fermo nei principi e temprato nella lotta prima che scoppi la successiva ondata rivoluzionaria internazionale. Questo partito deve essere in grado di combattere in permanenza l'opportunismo che sacrifica l'avvenire della rivoluzione in nome dei "risultati immediati".
Leonardo
NOTE
1. Nel quadro di questo articolo non possiamo dilungarci sulla lotta condotta dalle Frazioni di sinistra dell’Internazionale contro l’opportunismo e la degenerazione di questa, lotta che si sviluppava nello stesso periodo degli avvenimenti cinesi. A nostra conoscenza esse furono le sole a esprimere un manifesto firmato in comune da tutta l’Opposizione, compresa la Sinistra italiana. Si tratta del Manifesto “Ai comunisti cinesi e del mondo intero!” (La Verité, 12 settembre 1930). Su questa questione vedere il nostro libro La Sinistra Comunista d’Italia e, nella edizione francese della Révue Internationale, la serie di articoli sulla Sinistra Olandese.
2. Questa degenerazione procedeva di pari passo con quella dello Stato sorto dalla rivoluzione, che portò alla costituzione dello Stato capitalista nella sua forma stalinista. Vedi il Manifesto del 9° Congresso della CCI.
3. Lenin, Rapporto della Commissione nazionale e coloniale per il II Congresso dell’Internazionale Comunista, 26 luglio 1920. Riportato in “La question chinoise dans l’Internationale communiste”, presentazione e compilazione di Pierre Broué.
4. “Tesi e tesi integrative sulla questione nazionale e coloniale”, in A. Agosti: La Terza Internazionale, Editori Riuniti.
5. Detti anche i portatori d’acqua. Espressione utilizzata da Borodin, delegato dell’I.C. in Cina nel 1926. Vedi E. H. Carr: Il socialismo in un solo paese, Einaudi
6. Chen Tou-hsiou: citato da lui stesso nella sua “Lettera a tutti i membri del PCC”, riportato in La question chinoise, opera citata.
7. Ciang Kai-scek era stato nominato membro onorario qualche settimana prima, e il Kuomintang “partito simpatizzante” dell’Internazionale. Anche dopo il colpo di forza, i consiglieri russi rifiutarono di fornire 5.000 fucili agli operai e contadini del sud, riservandoli all’esercito di Ciang Kai-scek.
8. Si parla molto del ruolo di organizzazione giocato dai sindacati nel movimento in Cina. E’ vero che durante questo periodo i sindacati sorgono e si sviluppano di pari passo con lo sviluppo del movimento di scioperi. Tuttavia, quando essi non cercano di contenere il movimento nel quadro delle rivendicazioni economiche, la loro politica resta sottomessa al Kuomintang (compresa quella dei sindacati influenzati dal PCC). Il movimento di Shangai si darà così come obiettivo di aprire la via all’esercito nazionalista. Nel dicembre del 1927 i sindacati del Kuomintang arriveranno a partecipare alla repressione contro gli operai. Che le sole organizzazioni di massa di cui dispongono gli operai siano i sindacati non costituisce evidentemente un vantaggio, ma traduce la loro debolezza.
9. Lettera da Shangai dei tre membri della missione dell’I.C. in Cina, datata 17 marzo 1927. Riportata in “La question chinoise”, op. cit.
Il BIPR ha risposto, nella International Communist Review n.l3, al nostro articolo di polemica "La concezione del BIPR sulla decadenza del capitalismo", apparso sul n.79 della nostra Revue Internationale.
Nella misura in cui questa risposta espone chiaramente le tesi del BIPR, essa costituisce un contributo al necessario dibattito che deve esistere fra le organizzazioni della Sinistra Comunista, che hanno una responsabilità decisiva nella costruzione del partito comunista del proletariato.
Il dibattito fra il BIPR e la CCI si situa all’interno del quadro della Sinistra Comunista:
· non é un dibattito accademico e astratto, ma una polemica militante, il cui scopo é di arrivare a stabilire posizioni chiare, libere da ogni ambiguità o concessione all'ideologia dominante, in particolare sulle questioni della natura della guerra imperialista e delle condizioni fondamentali per la rivoluzione comunista;
· é un dibattito fra sostenitori dell'analisi della decadenza del capitalismo: dall'inizio del secolo il sistema é entrato in una crisi permanente che minaccia sempre di più la sopravvivenza stessa dell'umanità e del pianeta.
All'interno di questo quadro comune di posizioni, la risposta del BIPR insiste sulla sua visione della guerra imperialista come mezzo di svalorizzazione del capitale e per la ripresa del ciclo di accumulazione, giustificando la sua posizione su una spiegazione della crisi storica del capitalismo basata sulla caduta tendenziale del saggio del profitto. La nostra risposta verterà pertanto su questi due punti fondamentali[1].
Cosa accomuna noi ed il BIPR
In una polemica fra rivoluzionari, proprio per il suo carattere militante, é giusto cominciare da quello che ci unisce, per affrontare quello che ci divide all’interno di un quadro complessivo. E' il metodo che la CCI ha sempre utilizzato, sull'esempio di Marx, Lenin, Bilan, ecc., e che abbiamo utilizzato nella polemica sullo stesso argomento con il P. C. Internazionale (quello che pubblica Il Comunista in Italia e Le Proletaire in Francia, oltre alla rivista teorica Programme Communiste in lingua francese )[2]. Noi ci teniamo a sottolinearlo in primo luogo perché la polemica fra rivoluzionari ha sempre per scopo la chiarificazione ed il raggruppamento nella prospettiva della costituzione del partito mondiale del proletariato. In secondo luogo perché, fra il BIPR e la CCI, senza negare né relativizzare l’importanza e le conseguenze delle divergenze che abbiamo sulla natura della guerra imperialista, quello che condividiamo é molto più importante:
1. Per il BIPR, le guerre imperialiste non hanno obbiettivi limitati, ma sono guerre totali, di gran lunga più distruttive di qualsiasi guerra del periodo ascendente.
2. Nelle guerre imperialiste i fattori economici e politici sono indissolubilmente intrecciati fra di loro.
3. Il BIPR rigetta l’idea secondo cui il militarismo e la produzione di armi sarebbero una via per “l’accumulazione del capitale”[3].
4. In quanto espressione della decadenza del capitalismo, le guerre imperialiste contengono la minaccia di distruzione dell’umanità.
5. Esistono oggi nel capitalismo importanti tendenze al caos ed alla decomposizione (sebbene, come vedremo, il BIPR non vi dia la stessa importanza che vi diamo noi).
Questi elementi di convergenza spiegano la nostra comune capacità di denunciare e combattere le guerre imperialiste come momenti supremi della crisi storica del capitalismo, chiamando il proletariato a non scegliere fra i differenti lupi imperialisti, ma a schierarsi per la rivoluzione proletaria, unica soluzione all’impasse sanguinosa in cui il capitalismo ha intrappolato l’umanità e combattendo sia l’oppio pacifista sia le menzogne capitaliste sulla sempre prossima “uscita dalla crisi”.
Questi elementi, espressione di una comune tradizione della Sinistra Comunista, rendono necessario e possibile che, di fronte ad eventi dell’importanza della Guerra del Golfo o della ex-Jugoslavia, i gruppi della Sinistra Comunista facciano dei manifesti comuni che esprimano la voce unita dei rivoluzionari di fronte alla loro classe. Per questo, nel quadro delle Conferenze Internazionali del 1977-80, noi proponemmo una dichiarazione comune di fronte all’invasione russa dell’Afghanistan e ci dispiace che né Battaglia Comunista né la Communist Workers Organisation (che hanno successivamente formato il BIPR) abbiano allora dato il loro assenso all’iniziativa. Lungi dall’essere proposte di “unioni opportuniste e di circostanza” simili iniziative costituiscono degli strumenti di lotta per la chiarificazione e la delimitazione delle posizioni all’interno della Sinistra Comunista, perché creano un quadro concreto e militante (si tratta di non venire meno ad un dovere verso la classe che si trova di fronte a passaggi importanti dell’evoluzione storica) in cui dibattere seriamente le divergenze. Questo era il metodo di Marx e di Lenin: a Zimmerwald, malgrado l’esistenza di divergenze di ben altra importanza rispetto a quelle che possono oggi esistere fra la CCI ed il BIPR, Lenin fu d’accordo a firmare il Manifesto di Zimmerwald. Analogamente, quando la III Internazionale fu costituita, fra i suoi fondatori c'erano divergenze importanti, non solo sull'analisi della guerra imperialista, ma anche su questioni tipo l'utilizzazione del parlamento o i sindacati. Ma ciò non impedì loro di unirsi per lottare insieme per la rivoluzione mondiale che era all'ordine del giorno. Questa lotta comune non era una cappa per mettere a tacere le divergenze ma costituiva, al contrario, la piattaforma militante al cui interno le divergenze potevano essere seriamente discusse, evitando sia i dibattiti accademici, sia le fughe settarie in avanti.
La funzione della guerra imperialista
Le divergenze tra il BIPR e la CCI non riguardano le cause generali della guerra imperialista. Aderendo alla comune tradizione della Sinistra Comunista, noi tutti la consideriamo come espressione della crisi storica del capitalismo. Le divergenze si manifestano quando si va a definire il ruolo della guerra nel capitalismo decadente. Il BIPR ritiene che la guerra svolga una funzione economica: permettere la svalutazione del capitale e, di conseguenza, aprire la possibilità di un nuovo ciclo di accumulazione capitalistica.
Questa ipotesi non sembrerebbe priva di fondamento logico: non c’è stata, prima di una guerra mondiale, una crisi generalizzata come quella del 1929? Quando c'é una crisi di sovrapproduzione di uomini e merci, la guerra non é forse una “soluzione”, visto che permette di distruggere su larga scale operai, macchine e costruzioni? E dopo la guerra non viene forse la ricostruzione e con questa la fine della crisi? Questa visione, per quanto apparenterete coerente, ha però il limite della superficialità. Si fissa su una parte del problema (il fatto che il capitalismo si avvita in un ciclo infernale di crisi - guerra - ricostruzione - nuova crisi...) ma non va alla radice del problema: da una parte, la guerra é molto di più che un semplice mezzo per far ripartire l'accumulazione capitalista, dall'altra questo ciclo é profondamente degenerato e corrotto e di gran lunga diverso dai classici cicli di accumulazione del periodo ascendente.
Questa visione superficiale della guerra imperialista ha delle importanti implicazioni per l'azione militante di cui il BIPR non sembra rendersi conto. Nei fatti, se la guerra permette il ristabilirsi dei meccanismi dell'accumulazione capitalistica, questo significa che il capitalismo sarà sempre capace di uscire dalle sue crisi con il brutale ma fattivo espediente della guerra. Questo é esattamente ciò che ci viene detto dalla propaganda borghese: la guerra é una cosa terribile che tutti vorrebbero evitare, ma é il passaggio inevitabile per una nuova era di pace e di prosperità.
Il BIPR ovviamente denuncia queste menzogne, ma non si rende conto che la sua denuncia é indebolita dalla sua teoria della guerra come “mezzo per la svalutazione del capitale”. Per capire le conseguenze pericolose di questa posizione, conviene esaminare questa dichiarazione di Programme Communiste:
“Le origini della crisi si trovano nell'impossibilità di continuare l'accumulazione, un impossibilità che si manifesta quando la crescita della massa dei prodotti non può più compensare la caduta del saggio di profitto. La massa del pluslavoro totale nel capitalismo avanzato non é più sufficiente ad assicurare un profitto, a ricreare le condizioni di redditività per gli investimenti. Distruggendo del capitale costante (lavoro morto) su scala massiccia, la guerra svolge dunque un ruolo economico fondamentale: grazie alle spaventose distruzioni dell’apparato produttivo essa permette una futura gigantesca espansione della produzione per rimpiazzare quello che è stato distrutto, e quindi una parallela espansione del profitto, del plusvalore totale, in una parola del pluslavoro che è all’origine del capitale. Le condizioni per il rilancio dell’accumulazione capitalista sono ristabilite. Il ciclo economico riparte. (...). Il sistema capitalista mondiale entra in guerra decrepito, ma acquista nuova vita dall’immane bagno di sangue e ne esce con la vitalità di un robusto neonato”[4].
Dire che il capitalismo “acquista nuova vita” ogni volta che passa per una guerra mondiale ha delle chiare implicazioni revisioniste: la guerra mondiale non metterebbe all'ordine del giorno la rivoluzione proletaria, ma il ringiovanimento del capitalismo che torna alle sue origini. Questo distrugge dalle fondamenta l'analisi della III Internazionale che affermava chiaramente: “Una nuova epoca é nata. L'epoca della disintegrazione del capitalismo, del suo collasso interno. L'epoca della rivoluzione comunista del proletariato”. Si tratta, né più né meno, di rompere con una posizione di base del marxismo secondo cui il capitalismo non é un sistema eterno, ma un modo di produzione i cui limiti storici gli impongono di attraversare una fase di decadenza in cui é all'ordine del giorno la rivoluzione comunista.
Nei numeri 77 e 78 della Revue Internationale, nella nostra polemica con la visione della guerra e della decadenza di Programme Communiste, noi riportavamo e criticavamo la citazione sopra riportata. Questo viene ignorato dal BIPR che nel suo articolo sembra voler difendere Programme quando afferma che “Il dibattito della CCI con i bordighisti è centrato su un punto di vista apparente secondo cui esiste una relazione meccanica tra guerra e ciclo di accumulazione. Diciamo “apparente” perché, come al solito, la CCI non riporta nessuna citazione per provare che i bordighisti abbiano una visione storica così schematica. Quando poi pensiamo al modo in cui la CCI interpreta le nostre posizioni, allora siamo ancor meno inclini ad accettare le loro asserzioni su Programme Communiste”[5].
La citazione che avevamo riportato sulla Revue Internationale n.77 parla da sola e chiarisce che, nella posizione di Programme c’é qualcosa di più che un po’ di “schematismo”. Se il BIPR evita di prendere posizione, nascondendosi dietro nostre presunte “false interpretazioni”, é perché, per quanto non arrivi a ripetere le aberrazioni di Programme, le sue ambiguità lo spingono per la stessa china: “Noi affermiamo che la funzione (sottolineato nell’originale) economica della guerra mondiale (e cioè le sue conseguenze per il capitalismo) é quella di svalutare il capitale come necessario preludio ad un nuovo ciclo di accumulazione”[6].
Questa idea di una “funzione economica della guerra imperialista” proviene da Bukarin, che la avanzò in un libro scritto nel 1915 (“L'imperialismo e l'economia mondiale”). Il libro in questione rappresenta un contributo su argomenti come le lotte di liberazione nazionale o il capitalismo di stato, ma cade in un errore non secondario quando individua la guerra imperialista come uno strumento dello sviluppo capitalista: “la guerra non può bloccare il corso generale dello sviluppo del capitalismo mondiale ma è, al contrario, l’espressione della massima espansione del processo di centralizzazione ... La guerra ricorda, per la sua influenza economica, su molti aspetti, le crisi industriali, differendone solo per la maggior intensità delle convulsioni sociali e delle devastazioni”.
Tuttavia la guerra imperialista non é un mezzo per "svalutare il capitale", ma un'espressione del processo storico di distruzione e sterilizzazione dei mezzi di produzione e della vita stessa, che caratterizza globalmente il capitalismo decadente.
Distruzione e sterilizzazione di capitale non é la stessa cosa che svalutazione di capitale. Era nel periodo ascendente del capitalismo che si scatenavano crisi periodiche che portavano alla periodica svalutazione del capitale. E’ il movimento segnalato da Marx: “Simultaneamente alla caduta del saggio di profitto, la massa del capitale si accresce, e questo si associa alla svalutazione del capitale esistente, che frena questa caduta e dà un’accelerazione all'accumulazione di capitale valore... La svalutazione periodica del capitale esistente, che é un mezzo insito nel modo di produzione capitalistico per rallentare la caduta del saggio di profitto e per accelerare l’accumulazione di capitale valore attraverso la formazione di nuovo capitale, perturba le condizioni date in cui si svolge il processo di circolazione e di riproduzione del capitale, ed é pertanto accompagnata da brusche interruzioni dei processi produttivi”[7].
Il capitalismo, per sua natura, fin dalle sue origini porta inevitabilmente alla sovrapproduzione, sia nella fase ascendente che in quella di decadenza. In questo senso, il capitale è costretto a svenarsi periodicamente per far ripartire con più forza il normale processo di produzione e circolazione di merci. Nel periodo ascendente, ogni fase di svalutazione del capitale portava ad una espansione ad un livello superiore dei rapporti di produzione capitalisti. E questo era possibile perché il capitalismo trovava nuovi territori precapitalisti da integrare e da sottomettere ai suoi rapporti salariali e mercantili. Per questa ragione: “le crisi del 19° secolo descritte da Marx sono ancora crisi di crescita, crisi da cui il capitalismo esce ogni volta rafforzato... Dopo ogni crisi, vi sono ancora nuovi mercati aperti alla conquista dei paesi capitalisti”[8].
Nella decadenza del capitalismo queste crisi di svalutazione del capitale continuano fino al punto di diventare più o meno croniche[9]. Il fatto é che questa caratteristica, insita nel capitalismo stesso, va oggi a sovrapporsi ad un'altra caratteristica sviluppatasi nella fase di decadenza e che è il frutto dell’aggravarsi delle contraddizioni di questa epoca, ovvero la tendenza alla distruzione e alla sterilizzazione di capitale.
Questa tendenza nasce dalla situazione di blocco storico creata dalla decadenza del capitalismo: “Che cosa é una guerra imperialista mondiale? E’ la lotta combattuta con mezzi violenti che i differenti gruppi capitalisti sono obbligati a scatenare non per conquistare nuovi mercati e fonti di materie prime, ma per la ridistribuzione di quelli esistenti, una ripartizione in cui si guadagna qualcosa solo a spese di qualcun'altro. Il corso alla guerra si apre ed ha le sue radici nella crisi economica generale e permanente che é arrivata al punto di esplosione, indicando che il regime capitalista ha raggiunto i limiti delle sue possibilità di espansione”. Ed ancora: “Il capitalismo decadente é la fase in cui la produzione può continuare solo a condizione (sottolineato nell'originale) che i prodotti ed i mezzi di produzione prendano una forma materiale che non servano allo sviluppo ed all'estensione della produzione ma alla sua limitazione e distruzione”[10].
Nella decadenza, la natura del capitalismo non é affatto cambiata. Continua ad essere un sistema di sfruttamento, ad essere caratterizzato (ed in modo più grave) dalla tendenza alla svalutazione del capitale (tendenza divenuta permanente). Tuttavia quello che caratterizza la decadenza é la situazione di blocco storico del sistema da cui nasce una potente tendenza all'autodistruzione ed al caos: “In assenza di una classe rivoluzionaria che abbia la possibilità storica di dare luogo e dirigere la costruzione di un sistema economico corrispondente alle necessità storiche, la società e la civiltà si trovano in un vicolo cieco, in cui il collasso e la disintegrazione interna sono inevitabili. Marx dava come esempi di una simile impasse storica le antiche civiltà greca e romana. Engels applicò questa tesi alla società borghese, arrivando alla conclusione che l'assenza o l'incapacità del proletariato di risolvere le contraddizioni irriducibili della società capitalista, attraverso la sua distruzione, non può avere altro risultato che il ritorno alla barbarie”[11].
La posizione dell'Internazionale Comunista sulla guerra imperialista
Il BIPR ridicolizza la nostra insistenza su questa caratteristica del capitalismo decadente: “Per la CCI tutto si riduce a “caos” e “decomposizione”, dopodiché non c'é bisogno di sforzarsi troppo con analisi dettagliate. E’ questa la chiave della loro posizione”[12]. Ritorneremo in seguito su questo argomento, per il momento ci limitiamo a far notare che questa accusa di eccessiva semplificazione, che per loro rappresenta la negazione del marxismo come metodo di analisi della realtà, potrebbe essere rivolta allo stesso modo al Io Congresso dell’I.C., a Lenin ed a Rosa Luxemburg.
Lo scopo di questo articolo non é quello di analizzare i limiti delle prese di posizione dell'Internazionale Comunista[13], ma di appoggiarci sui quanto c’era di chiaro in esse. Esaminando i documenti di fondazione dell'IC vediamo che contengono un chiaro rifiuto dell’idea che la guerra possa essere una “soluzione” per la crisi capitalista e che il capitalismo possa tornare ad un funzionamento "normale", analogo ai cicli di accumulazione del periodo ascendente.
“La politica di pace dell’Intesa rivela definitivamente agli occhi del proletariato internazionale la vera natura dell'imperialismo dell'Intesa e dell'imperialismo in generale. E rivela anche che i governi imperialisti sono incapaci di concludere una pace “giusta e stabile” e che il capitale finanziario non é capace di risollevare l'economia in pezzi. La continuazione del dominio del capitale finanziario porterà o alla completa distruzione della civiltà o ad un incremento senza precedenti nei livelli di sfruttamento ed asservimento, alla reazione politica, ad una politica di armamenti ed infine a nuove distruttive guerre”[14].
L’IC mette bene in chiaro che il capitalismo non può ristabilire l'economia distrutta, cioè che non può ristabilire, attraverso la guerra, un “normale” ciclo di accumulazione, in poche parole, non può ritrovare una "nuova giovinezza" come dice Programme. In più, piuttosto che provocare un "ristabilimento", questa situazione profondamente viziata ed alterata favorisce lo sviluppo di “armamenti, della reazione politica, dell’accrescimento dello sfruttamento”.
Nel Manifesto del I° Congresso, l’IC dichiarava che: “La distribuzione delle materie prime, I'utilizzazione del petrolio di Baku o della Romania, del carbone del bacino del Don, del grano ucraino, l’utilizzazione delle locomotive, dei camion e delle autovetture tedesche, il razionamento dei soccorsi per l'Europa affamata - tutte queste questioni fondamentali per l'economia mondiale non sono più regolate né dal libero mercato, né da associazioni di trust nazionali o internazionali, ma dall'applicazione diretta della forza militare, per il bene della sua autoconservazione. Se la completa dominazione del potere politico da parte del capitale finanziario ha portato l'umanità al massacro imperialista, questo massacro ha permesso al capitale finanziario non solo di militarizzare fino in fondo lo Stato, ma anche se stesso, tanto che esso non é più capace di svolgere le sue funzioni essenziali se non con ferro ed il sangue”[15].
La prospettiva tracciata dalla Internazionale Comunista é quella di una "militarizzazione dell'economia", che é considerata da tutti i marxisti come un'espressione dell'aggravarsi delle contraddizioni del capitalismo e non come un loro alleviarsi, fosse anche temporaneo (il BIPR nella sua replica rigetta il militarismo come mezzo di accumulazione del capitale). L’IC insisteva anche sul fatto che l'economia mondiale non poteva tornare né al periodo della libera concorrenza né a quello dei monopoli ed infine esprimeva un’idea molto importante: “il capitalismo non é più capace di svolgere le sue funzioni economiche essenziali se non con il ferro e il sangue”. Questo può essere interpretato in un solo modo: con la guerra mondiale il meccanismo dell'accumulazione non può più funzionare in modo normale, ma per funzionare ha bisogno del “ferro e del sangue”.
Quello che l’Internazionale Comunista prevedeva per il dopoguerra era un periodo in cui si sarebbe aggravata la minaccia di nuove guerre: “Gli opportunisti che prima della guerra invitavano i lavoratori a moderare le loro rivendicazioni in nome della graduale transizione al socialismo e che, durante la guerra, li hanno obbligati a rinunciare alla lotta di classe in nome della Union Sacrée e della difesa nazionale, esigono dal proletariato un nuovo sacrificio, questa volta in nome della necessità di riparare ai guasti della guerra. Se queste prediche fossero accettate dalle masse lavoratrici, Io sviluppo capitalista proseguirebbe, sacrificando nuove generazioni con forme nuove di assoggettamento, ancora più concentrate e mostruose, con la prospettiva di una nuova inevitabile guerra mondiale”[16].
Fu una tragedia storica il fatto che l’IC non fu capace di sviluppare questo chiaro corpo di analisi e che, al contrario, giunse a contraddirlo nel corso della sua degenerazione, con posizioni che insinuavano l'idea che il capitalismo potesse “tornare alla normalità", riducendo l'analisi del suo declino e della prospettiva di barbarie a semplici declamazioni retoriche. Tuttavia, il compito della Sinistra Comunista é quello di approfondire ed articolare le grandi linee sviluppate dall'IC ed é chiaro, dalle citazioni riportate, che queste non vanno nella direzione di un'analisi basata su un ciclo costante e regolare di accumulazione - crisi - guerra con svalutazione - nuova accumulazione..., ma piuttosto verso un'economia mondiale profondamente alterata, incapace di ritrovare le condizioni normali di accumulazione e prossima a nuove convulsioni e distruzioni.
L’irrazionalità della guerra imperialista
Questa sottostima delle analisi di fondo dell'IC (e di Rosa Luxemburg e di Lenin) diventa chiara nel rigetto, da parte del BIPR, della nostra nozione di irrazionalità della guerra: “Ma l'articolo della CCI altera il significato di questa affermazione (della funzione della guerra, ndr) perché il loro successivo commento è che il BIPR sarebbe d’accordo con il fatto che “vi è una razionalità economica al fenomeno della guerra”. Ciò implicherebbe che noi consideriamo la distruzione dei valori come l’obiettivo del capitalismo, cioè che questa sarebbe la causa (sottolineato nell’originale) diretta della guerra. Ma le cause non sono la stessa cosa delle conseguenze. Le classi dominanti degli stati imperialisti non decidono coscientemente di scatenare le guerre per svalutare il capitale”[17].
Anche nel periodo ascendente del capitalismo le crisi cicliche non venivano deliberatamente causate dalle classi dominanti. Ciononostante, le crisi cicliche avevano una loro “razionalità economica”; permettendo al capitale di svalorizzarsi e, di conseguenza, rilanciando ad un nuovo livello l'accumulazione capitalistica. Il BIPR pensa che le guerre mondiali del periodo di decadenza abbiano il ruolo di svalutare il capitale e di rilanciare l'accumulazione. In una parola, gli attribuiscono una razionalità economica simile a quella delle crisi cicliche del periodo ascendente.
Questo é precisamente l'errore di fondo che noi criticammo alla CWO, predecessore del BIPR, sedici anni fa nell'articolo “Teorie economiche e lotta per il socialismo”:
“Possiamo vedere come l'errore di Bukarin si ripeta nelle analisi della CWO: ‘ogni crisi conduce (attraverso la guerra) alla svalutazione del capitale costante, innalzando così il tasso di profitto e permettendo che il ciclo di ricostruzione-boom economico-crisi-guerra sia ripetuto di nuovo’ (Revolutionary Perspectives n.6 ). Dunque, per la CWO, le crisi del capitalismo decadente sono viste in termini economici come le crisi cicliche del capitalismo ascendente, ripetute al più alto livello”[18].
Per il BIPR la differenza fra ascendenza e decadenza del capitalismo sta solo nel livello di grandezza delle periodiche interruzioni del processo di accumulazione: “Le cause della guerra si trovano nella determinazione della borghesia di difendere il valore del suo capitale contro la concorrenza. Nel periodo ascendente tale rivalità si svolgeva essenzialmente sul piano economico e fra imprese concorrenti. Quelle che erano capaci di raggiungere un maggior grado di concentrazione dei capitali (tendenza del capitale alla concentrazione ed al monopolio) si trovavano nella posizione di poter mettere i concorrenti con le spalle al muro. Questa rivalità portava anche ad una sovraccumulazione di capitale che portava a sua volta alle crisi decennali del secolo scorso. In queste crisi le imprese più deboli soccombevano o venivano assorbite dai concorrenti più forti. Ad ogni crisi corrispondeva una svalutazione di capitale, in modo da poter partire con un nuovo giro di accumulazione, ma ogni volta il capitale ne usciva più concentrato e centralizzato.... Nell'era del capitalismo monopolistico, in cui la concentrazione ha raggiunto il livello di Stati nazionali, la politica e l’economia sono diventati inseparabili nella fase imperialista o decadente del capitalismo.... In questa epoca le politiche richieste dalla difesa del valore del capitale coinvolgono gli Stati stessi ed esasperano le rivalità fra le potenze imperialiste”[19]. Di conseguenza “le guerre imperialiste non hanno obiettivi limitati (come nel periodo ascendente, ndr); una volta scatenate c'é solo una lotta a morte, fino a che una nazione o un blocco di nazioni non sia distrutto militarmente ed economicamente. Le conseguenze della guerra non si limitano alla distruzione fisica di capitale, ma anche ad una svalorizzazione massiccia del capitale esistente”[20].
Alla base di questa analisi c'é una forte tendenza economicista che percepisce la guerra solo come un prodotto immediato e meccanico dell'evoluzione economica. Nel nostro articolo sulla Revue Internationale n.79 noi abbiamo dimostrato che la guerra ha una radice economica globale (la crisi storica del capitalismo), ma che questo non implica che ogni guerra abbia una motivazione economica immediata e diretta. Il BIPR, cercando le cause economiche della guerra del Golfo, é finito nell’economicismo più volgare dicendo che era una guerra per i pozzi di petrolio. Allo stesso modo il BIPR spiega la guerra nella ex-Jugoslavia con gli appetiti delle grandi potenze per non si sa quali mercati[21]. E' vero che, sotto la pressione delle nostre critiche e dell'evidenza dei fatti, ha corretto in seguito la sua analisi, ma é anche vero che non è stato capace di rimettere in discussione l’economicismo di fondo che non può concepire una guerra senza una causa “economica” diretta ed immediata[22].
Il BIPR confonde fra di loro rivalità commerciale e rivalità imperialista, che non sono necessariamente la stessa cosa. La rivalità imperialista ha come causa di fondo una situazione economica di saturazione del mercato mondiale, ma questo non significa che abbia come origine diretta la semplice concorrenza commerciale. La sua origine è economica, militare e strategica, coagulando al loro interno fattori politici e storici.
Allo stesso modo, nel periodo ascendente del capitalismo, se le guerre (coloniali o di liberazione nazionale) avevano una ragione economica di fondo (la formazione di nuove nazioni o I'espansione del capitalismo attraverso la formazione di colonie) esse non erano tuttavia motivate in prima istanza dalle rivalità commerciali. Per esempio, la guerra franco-prussiana aveva delle origini dinastiche e strategiche ma non era causata né da una crisi commerciale insolubile per nessuno dei due contendenti né da particolari rivalità commerciali. Il BIPR riesce a comprendere fino ad un certo punto questa realtà quando afferma: “Anche se le guerre post-napoleoniche del 19° secolo non mancavano di atrocità (come la CCI correttamente sottolinea) la differenza essenziale sta nel fatto che queste guerre venivano combattute per scopi specifici che permettevano di raggiungere conclusioni rapide e negoziate. La borghesia del XIX secolo aveva ancora la missione programmatica di sbarazzarsi dei residui del vecchio modo di produzione e di creare delle vere nazioni”[23]. In più, il BIPR individua molto bene la differenza con il periodo decadente: “I costi di un ulteriore sviluppo delle forze produttive non sono inevitabili. In più questi costi hanno raggiunto un livello tale da minacciare l'esistenza stessa della civiltà, sia a breve termine (inquinamento ambientale, carestie, genocidio) che a lungo termine (guerre imperialiste generalizzate)”[24].
Noi non possiamo che sottoscrivere pienamente queste affermazioni del BIPR. Dobbiamo però fargli una domanda molto semplice: che significa il fatto che le guerre della decadenza abbiano degli “obiettivi totali” e che il prezzo del mantenimento del capitalismo può arrivare fino a rischiare la distruzione dell'umanità? Come é possibile che queste situazioni di convulsioni e distruzione, che il BIPR riconosce come qualitativamente differenti rispetto a quelle del periodo di ascendenza, corrispondano ad una situazione economica di rinnovo dei cicli di accumulazione del capitale, che sarebbero identici a quelli della fase ascendente?
La malattia mortale del capitalismo decadente il BIPR la vede solo nei periodi di guerra generalizzata, ma non la vede nei momenti di apparente normalità, nei periodi in cui, secondo loro, si sviluppa il ciclo di accumulazione del capitale. Questo lo conduce ad una pericolosa dicotomia: da una parte vede cicli di normale accumulazione in cui é pos-sibile constatare una crescita reale, dove si producono "rivoluzioni tecnologiche", dove il proletariato cresce. In questi periodi di pieno vigore del ciclo di accumulazione, il capitalismo sembra tornare alle origini, la sua crescita sembra quella della sua gioventù (il BIPR non arriva a fare una simile affermazione, mentre Programme Communiste lo dice apertamente). Dall'altra parte vi sono periodi di guerra generalizzata, in cui la barbarie del capitalismo decadente si manifesta in tutta la sua brutalità e violenza.
Questa dicotomia ricorda fortemente quella che esprimeva Kautsky nella sua Tesi sul “super-imperialismo”: da una parte egli riconosceva che, con la 1a guerra mondiale, il capitalismo era entrato in un'epoca di catastrofi e convulsioni ma dall’altra sosteneva che, contemporaneamente, vi era una tendenza “obiettiva” verso una concentrazione suprema del capitalismo in un grande trust imperialista che gli avrebbe permesso di evitare concorrenze e guerre. Nell'introduzione al libro di Bukharin già citato (L'economia mondiale e l'imperialismo), Lenin denunciò questa contraddizione centrista di Kautsky: “Kautsky ha promesso di comportarsi da marxista nell'epoca dei gravi scontri e delle catastrofi che è stato costretto a prevedere e di definire quando, nel 1909, ha scritto la sua opera su questo tema. Ora che è assolutamente fuori dubbio che quest'epoca é arrivata, Kautsky si contenta di continuare a promettere che farà il marxista nella futura fase del superimperialismo, una fase che lui stesso non sa bene se arriverà mai o no. In altre parole, da Kautsky possiamo avere tutte le promesse che vogliamo sul fatto che farà il marxista in qualche altra epoca, ma mai che lo farà nelle condizioni presenti, mai che lo farà adesso”.
Noi ci guardiamo bene dal dire che succederà la stessa cosa al BIPR. Tuttavia l’analisi marxista della decadenza del capitalismo viene tenuta gelosamente nascosta dal BIPR per il periodo in cui la guerra scoppierà, mentre per il periodo di accumulazione si fa un’analisi che fa delle concessioni alle menzogne borghesi sulla “prosperità” e la “crescita” del sistema.
La sottovalutazione della gravità del processo di decomposizione capitalista
Questa tendenza a difendere l'analisi marxista della decadenza solo per i periodi di guerra aperta spiega le difficoltà che ha il BIPR a comprendere lo stadio attuale della crisi storica del capitalismo: “La CCI é stata coerente a partire dalla sua fondazione venti anni fa nel lasciare da parte ogni tentativo di analizzare come i capitalisti affrontino la crisi attuale. In effetti sembra che per loro ogni tentativo di analizzare le caratteristiche specifiche della crisi attuale equivalga a dire che il capitalismo ha risolto la crisi. Ma le cose non stanno così. Quello che spetta ai marxisti attualmente é proprio di cercare di comprendere perché la crisi attuale superi in lunghezza la “Grande Depressione” del 1873‑96. Ma mentre quest'ultima era una crisi causata dall'ingresso del capitalismo nella sua fase monopolistica ed era pertanto risolvibile con una semplice svalutazione economica, la crisi attuale minaccia l'umanità con una catastrofe di gran lunga più terribile”[25].
I compagni del BIPR sembrano dare per scontato che la CCI abbia rinunciato ad ogni analisi concreta dell'andamento della crisi attuale. Per convincersi del contrario basterebbe loro studiare gli articoli che pubblichiamo regolarmente, in ogni numero della Revue Internationale, analizzando la crisi in tutti i suoi vari aspetti. Per noi la crisi aperta nel 1967 costituisce la riapparizione aperta della crisi cronica e permanente del capitalismo decadente, é la manifestazione di un blocco profondo e sempre più incontrollabile del meccanismo di accumulazione del capitale. Le "carat-teristiche specifiche" della crisi attuale costituiscono i diversi tentativi del capitale, attraverso il rafforzamento dell'intervento statale e la fuga nel debito e nelle acrobazie monetarie e commerciali, per evitare un'esplosione distruttiva della sua crisi di fondo e, allo stesso tempo, la evidenziazione del fallimento di tali rimedi e i loro effetti perversi che aggravano ancora di più il male incurabile del capitalismo.
Il BIPR ritiene che il “compito principale” dei marxisti sia di spiegare l'eccezionale lunghezza della crisi attuale. Non ci sorprende che questi compagni siano tanto colpiti dalla lunghezza della crisi, dato che non capiscono il problema di fondo: noi non siamo alla fine di un normale ciclo di accumulazione, ma ad una situazione storica di blocco prolungato, di alterazione profonda del meccanismo di accumulazione. Una situazione in cui il capitalismo, per dirla con l'Internazionale Comunista, non può più assicurare le sue funzioni economiche essenziali se non con il ferro e il sangue.
Il fatto di non riuscire ad afferrare questo problema fondamentale spinge il BIPR a ridicolizzare ancora una volta la nostra posizione sull’attuale fase storica di caos e di decomposizione del capitalismo: “Anche se si può essere d’accordo sul fatto che esistono tendenze alla decomposizione ed al caos (venti anni dopo la fine del ciclo di accumulazione, sarebbe difficile aspettarsi qualcosa di diverso), questi non possono essere usati come slogan per evitare un’analisi concreta di quello che succede”[26].
Come si può vedere, quello che preoccupa i compagni é il nostro supposto “semplicismo”, una sorta di “pigrizia intellettuale” che si rifugerebbe in drammatiche grida sulla gravità e il caos della situazione del capitalismo, come un tic per evitare il peso di un'analisi concreta della situazione stessa.
La preoccupazione dei compagni é giusta. I marxisti debbono e dovranno sempre preoccuparsi di analizzare il dettaglio degli eventi (é uno dei loro compiti nella lotta proletaria), evitando di cadere in generalizzazioni retoriche nello stile del “marxismo ortodosso” di Longuet in Francia o delle vaghezze anarchiche che possono anche sembrare confortanti ma che, nei momenti decisivi, portano a gravi sbandate opportuniste, se non al tradimento vero e proprio.
Tuttavia per poter fare un’analisi concreta di “quello che accade” bisogna avere una quadro globale chiaro ed é qui che i compagni del BIPR hanno dei problemi. Nella misura in cui non si rendono conto della gravità del livello di degenerazione e delle contraddizioni interne del capitalismo nei "tempi normali" della fase di accumulazione, è l'intero processo di decomposizione e caos del mondo capitalistico mondiale, processo aggravatosi con il collasso del blocco orientale nel 1989, a sfuggire alla loro comprensione.
Il BIPR dovrebbe ricordarsi le incredibili stupidaggini che tirò fuori al momento del crollo dei paesi stalinisti, quando fantasticava sui “favolosi mercati” che questi paesi ridotti in rovine avrebbero offerto ai paesi occidentali, alleviando perciò stesso la crisi economica. Da allora, di fronte all'evidenza dei fatti ed anche grazie alle nostre critiche, i compagni hanno corretto i loro errori ed hanno così dimostrato la loro serietà di fronte al proletariato. Ma il BIPR deve fare di più. Deve chiedersi: come sono possibili simili sbandate? Come é possibile che le posizioni debbano cambiare sotto la pressione degli eventi? Che razza di avanguardia é quella che é a rimorchio degli avvenimenti, invece di essere capace di prevederli? Il BIPR dovrebbe studiare con attenzione i nostri testi sulle caratteristiche generali del processo di decomposizione del capitalismo[27]: scoprirebbe che il problema non é il nostro “semplicismo”, ma il suo ritardo nel comprendere a fondo questo problema.
Il fatto che il problema sia proprio questo é ulteriormente dimostrato da questa citazione del BIPR: “Una prova ulteriore dell’idealismo della CCI è data dall’accusa finale che questa porta contro il BIPR che non avrebbe “una visione unitaria e globale della guerra”, il che lo porterebbe alla “cecità ed irresponsabilità” (sic) di non vedere che una prossima guerra non potrebbe avere “altra conseguenza che la completa distruzione del pianeta”. La CCI potrebbe anche avere ragione, anche se ci farebbe piacere conoscere le basi scientifiche della loro previsione. Noi stessi abbiamo sempre detto che la prossima guerra mette in discussione la sopravvivenza stessa dell'umanità. Ma non c’è la certezza che vada a finire così. La prossima guerra imperialista potrebbe alla fine non portare alla distruzione dell'umanità. Ci sono dei sistemi di distruzione di massa (ad esempio quelli biologici o chimici) che nelle guerre precedenti non sono stati usati, e non é detto che la prossima volta l'olocausto nucleare debba estendersi all'intero pianeta. Nei fatti, gli attuali preparativi di guerra delle grandi potenze prevedono lo smantellamento di ordigni di distruzione di massa, mentre vengono sviluppate armi del tipo cosiddetto convenzionale. Perfino la borghesia comprende che un pianeta distrutto non serve a nessuno (anche se le forze che portano alla guerra e la natura della guerra stessa sono in ultima analisi fuori del suo controllo)”[28].
Il BIPR dovrebbe rileggere i libri di storia: nella II Guerra Mondiale tutti gli eserciti hanno utilizzato qualsiasi mezzo di distruzione, cercando disperatamente di inventarne degli altri. Durante la seconda guerra mondiale, quando la Germania era già stata sconfitta, la città di Dresda fu distrutta con una serie di bombardamenti con bombe incendiarie ed a frammentazione, mentre gli USA lanciarono le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki quando il Giappone era stato esso stesso già sconfitto. Dopo di allora, il potenziale distruttivo delle bombe sganciate su Hanoi in una sola notte del 1971 risultò superiore a quello sganciato su tutta la Germania nel corso di tutti i bombardamenti del 1945. A sua volta il "bombardamento a tappeto" di Baghdad da parte degli "alleati" ha polverizzato il terribile primato di Hanoi. Nella stessa guerra del Golfo il governo USA ha sperimentato nuove armi di tipo chimico e nucleare-convenzionale sui suoi stessi soldati. D'altronde, é stato di recente rivelato che negli anni '50 gli Stati Uniti hanno condotto esperimenti di armi batteriologiche sulla loro stessa popolazione... Di fronte a questa massa di evidenze e notizie che possono essere lette su qualsiasi pubblicazione borghese, il BIPR ha la disonestà e l'ignoranza di fantasticare sul grado di controllo della borghesia, sul suo “interesse” ad evitare una distruzione totale! E' un suicidio politico stare a sognare una borghesia disposta ad usare armi “meno distruttive”, quando gli ultimi 80 anni di storia provano l'esatto contrario.
In queste fantasticherie stupide il BIPR non solo non capisce la teoria, ma disinvoltamente ignora la ripetuta e schiacciante evidenza dei fatti. Questi compagni dovrebbero capire il carattere sbagliato e revisionista di queste illusioni da piccolo-borghesi impotenti, che si afferrano alla pagliuzza dell'idea che “perfino la borghesia comprende che un pianeta distrutto non serve a nessuno”.
Il BIPR deve superare la sua posizione centrista, le oscillazioni tra una coerente posizione sulla guerra e la decadenza del capitalismo e le dubbie teorizzazioni sulla guerra come strumento di svalutazione del capitale e di rilancio dell'accumulazione. Questi errori lo portano a non prendere in considerazione o a non utilizzare seriamente come strumento coerente d’analisi ciò che esso stesso afferma, quando ad esempio dice che: “le forze che portano alla guerra e la natura della guerra sono in ultima analisi al di fuori del suo (della borghesia) controllo”.
Per il BIPR questa frase è una semplice parentesi retorica mentre, se volesse essere pienamente fedele alla Sinistra Comunista e comprendere la realtà storica, dovrebbe prenderla per guida nell'analisi, come asse della sua riflessione per comprendere concretamente sia i singoli fatti che le tendenze storiche del capitalismo oggi.
Adalen
[1] In questa replica il BIPR sviluppa anche altri argomenti, tra cui una particolare concezione del capitalismo di stato, che tuttavia non prenderemo in considerazione qui.
[2] Vedi nei numeri 77 e 78 della Revue Internazionale l’articolo: “Il rigetto della nozione di decadenza conduce alla smobilitazione del proletariato di fronte alla guerra”.
[3] I compagni si dichiarano d’accordo con la nostra posizione ma, invece di riconoscere I'importanza e le conseguenze di questa convergenza di analisi, reagiscono in maniera settaria accusandoci di essere disonesti nel modo in cui prendiamo posizione contro l’errore commesso da Rosa Luxemburg sul “militarismo come campo di accumulazione del capitale”. In realtà, come vedremo poi, la comprensione del fatto che il militarismo non costituisce un mezzo di accumulazione del capitale é un argomento a favore della nostra tesi fondamentale sul freno crescente dell’accumulazione nella fase decadente e non un argomento contro. D’altra parte il BIPR si sbaglia quando afferma che é in seguito alle loro critiche che abbiamo cambiato posizione su questo argomento. Per convincersene non debbono fare altro che leggere i testi dei nostri predecessori (La Sinistra Comunista di Francia) che hanno dato un contributo fondamentale all'analisi dell'economia di guerra a partire da una critica sistematica dell'idea di Vercesi della "guerra come soluzione alla crisi capitalista". Vedi in particolare “Il rinnegato Vercesi” (1944).
[4] Programme Communiste n.90, p.24, citato nella nostra polemica nella Revue Internationale n.77; p.20.
[5] “Le basi materiali della guerra imperialista”, International Communist Review, n°l3, p. 29.
[6] “Le basi materiali della guerra imperialista”, International Communist Review, n°l3, p. 29.
[7] Marx, Il Capitale, 3° libro, sezione 3, Capitolo XV, parte 2.
[8] “Teorie della crisi, da Marx all’Internazionale Comunista”, Revue Internationale n.22.
[9] Vedi in proposito, nell’articolo di polemica con il BIPR della Revue Internationale n.79, il paragrafo “La natura dei cicli di accumulazione nella decadenza del capitalismo”.
[10] “Il rinnegato Vercesi”, maggio 1944, Bollettino Internazionale della Frazione Italiana della Sinistra Comunista n°5, maggio 1944.
[11] “Le basi materiali della guerra imperialista”, p.30.
[12] idem
[13] L’Internazionale Comunista, al suo primo Congresso, considerava come compito urgente e prioritario quello di promuovere gli sforzi rivoluzionari del proletariato mondiale e di raggruppare le forze di avanguardia. In questo senso la sua analisi sulla guerra e il dopoguerra, sull’evoluzione del capitalismo, ecc. non potevano andare al di là della definizione di alcune linee generali. Il corso successivo degli eventi, la sconfitta del proletariato ed il rapido estendersi della gangrena opportunista all'interno stesso dell’I.C., portarono a contraddire queste linee generali mediante elaborazioni teoriche (in particolare la polemica di Bucharin contro R. Luxemburg nel suo libro “L'imperialismo e l'accumulazione del capitale” del 1924) che costituivano brutali passi indietro rispetto alla chiarezza dei primi due Congressi.
[14] “La situazione internazionale e la politica dell’Intesa”, in Tesi, Risoluzioni e Manifesti dei primi quattro Congressi della III Internazionale.
[15] Idem.
[16] Idem.
[17] “Le basi materiali della Guerra Imperialista”, p. 29.
[18] Revue Internationale n°16, p.14-15.
[19] “Le basi materiali della guerra imperialista”, p. 29-30.
[20] Idem.
[21] Vedi l’articolo “Il campo politico proletario di fronte alla Guerra del Golfo” nella Révue Internationale n°64.
[22] Nel Gennaio 1991 Battaglia Comunista annunciò, a proposito della Guerra del Golfo, che “la III Guerra Mondiale é cominciata il 17 Gennaio” (giorno dei primi bombardamenti degli "alleati" su Bagdad). Nel giornale successivo i compagni si resero conto di averla sparata grossa ma, invece di tirarne le giuste lezioni, ribadirono che “in questo senso, affermare che la guerra cominciata il 17 Gennaio segna l'inizio della III Guerra Mondiale non é un volo pindarico ma un riconoscimento del fatto che siamo entrati in una fase in cui i conflitti commerciali, che si sono accentuati a partire dall'inizio degli anni '7O, non possono trovare soluzione diversa dalla prospettiva di una guerra generalizzata”. Vedi il nostro articolo “Come non capire lo sviluppo del caos e dei conflitti imperialisti”, nella Revue Internationale n°72, in cui analizziamo questa ed altre sviste del BIPR.
[23] “Le basi materiali della guerra imperialista”.
[24] Idem.
[25] Idem.
[26] Idem.
[28] “Le basi materiali della Guerra imperialista”, p.36.
Dopo i bombardamenti israeliani nel sud Libano della scorsa primavera le tensioni interimperialiste in Medio Oriente sono andate crescendo Ancora una volta tutti i discorsi dei difensori della borghesia sull’avvento di una pretesa “era di pace” in questa regione che è una delle principali polveriere imperialiste del pianeta vengono smentite. Questa zona, che per quaranta anni è stata un obiettivo di primo piano per i due vecchi blocchi, è oggi al centro della lotta accanita tra le grandi potenze imperialiste che compongono l’ex blocco occidentale. Dietro questo rinnovarsi delle tensioni imperialiste c’è fondamentalmente la crescente contestazione verso la prima potenza mondiale in una delle sue principali riserve di caccia, contestazione che guadagna anche i suoi alleati e luogotenenti più vicini.
La prima potenza mondiale contestata nel suo feudo
La politica dei muscoli messa in piedi dagli Stati Uniti negli ultimi anni per rafforzare la loro dominazione su tutto il Medio Oriente e tenerne fuori tutti i loro rivali, ha conosciuto una vera mazzata con l’arrivo al potere di Netanyhau in Israele, e questo mentre Washington non aveva nascosto un forte appoggio al candidato laburista, Simon Peres. Le conseguenze di questo fallimento elettorale non hanno tardato a farsi sentire. Contrariamente a Peres che controllava solidamente il partito laburista, Netanyhau non riesce a fare altrettanto con il suo, il Likud. Netanyhau è sottomesso alla pressione delle frazioni più dure e arcaiche del Likud il cui capofila è Ariel Sharon, colui che aveva violentemente denunciato le ingerenze americane nelle elezioni israeliane, ingerenze che, secondo lui, riducevano Israele “al rango di una semplice repubblica delle banane”. Egli affermava così apertamente la volontà di certi settori della borghesia israeliana di avere una maggiore autonomia rispetto alla pesante tutela americana. Queste frazioni spingono oggi alla politica del “tanto peggio tanto meglio” rimettendo in causa l’insieme del “processo di pace” imposto dal grande padrino americano attraverso l’accordo del tandem Rabin-Peres sia rispetto ai palestinesi (nuovi insediamenti di coloni che erano stati sospesi dal governo laburista vengono ora ripresi) che rispetto alla Siria sulla questione del Golan. Sono state ancora queste frazioni che hanno fatto di tutto per ritardare l’incontro, previsto da lunga data, tra Arafat e Netanyhau e che, quando infine questo ha avuto luogo, si sono attivate per svuotarlo di ogni contenuto.
Questa politica non può non mettere in difficoltà l’uomo degli Stati Uniti, Arafat, al punto che quest’ultimo non potrà mantenere a lungo il controllo delle sue truppe se non alzando nettamente il tono (come ha cominciato già a fare) e avviarsi così verso un nuovo stato di belligeranza con Israele.
Allo stesso modo, tutti gli sforzi impiegati dagli Stati Uniti, alternando il bastone e la carota, per far sì che la Siria accettasse di partecipare al loro “piano di pace”, sforzi che cominciavano a dare i loro frutti, si trovano oggi rimessi in causa per la nuova intransigenza israeliana.
L’arrivo al potere del Likud ha avuto conseguenze anche sull’altro grande alleato degli Stati uniti nella regione, sul paese che, dopo Israele, è il principale beneficiario dell’aiuto americano in Medio Oriente, cioè l’Egitto; e ciò mentre già questo stato chiave del “mondo arabo” è, da un po’ di tempo, oggetto di tentativi di aggancio da parte dei rivali europei della prima potenza mondiale. Dall’invasione israeliana del Sud Libano, l’Egitto tende a demarcarsi sempre più dalla politica americana rafforzando i suoi legami con la Francia e la Germania e denunciando sempre più violentemente la nuova politica di Israele a cui è tuttavia legato da un accordo di pace.
Ma quello che è senza dubbio uno dei sintomi più spettacolari del nuovo dato imperialista che è sul punto di crearsi nella regione, è l’evoluzione della politica dello Stato Saudita (quello che servì da quartier generale all’esercito americano durante la guerra del Golfo) rispetto al suo tutore americano. Quali che siano i veri mandanti, l’attentato compiuto a Dahran contro le truppe USA mirava direttamente alla presenza militare americana ed esprimeva già un netto indebolimento della presa della prima potenza mondiale in una delle sue principali roccaforti in Medio Oriente. Ma se si aggiunge a questo l’accoglienza particolarmente calorosa riservata alla visita di Chirac, capo di uno stato che è in prima fila nella contestazione della leadership americana, si misura tutta l’importanza dell’indebolimento delle posizioni americane in quello che era, ancora poco tempo fa, uno Stato sottomesso mani e piedi ai diktat di Washington. Manifestamente, la pesante dominazione dello “zio Sam” è sempre più mal sopportata da certe frazioni della classe dominante saudita che cercano, avvicinandosi a certi paesi europei, di staccarsene un po’. Che il principe Abdallah, successore designato al trono, sia alla testa di queste frazioni mostra la forza della tendenza antiamericana che è sul punto di svilupparsi.
Che alleati così sottomessi e dipendenti dagli Stati Uniti, come Israele e Arabia Saudita, possano manifestare delle reticenze a seguire in tutti i punti i diktat dello “zio Sam”, che essi non esitino a tessere relazioni più strette con i principali contestatari dell’”ordine americano”, significa chiaramente che i rapporti di forza interimperialisti in quello che era ancora poco tempo fa un terreno di caccia esclusivo della principale potenza mondiale conoscono una modificazione importante.
Nel 1995 gli Stati Uniti erano confrontati a una situazione difficile nella ex-Jugoslavia, in compenso però regnavano da padroni assoluti sul Medio oriente. Essi erano riusciti in effetti, grazie alla guerra del Golfo, a cacciare totalmente dalla regione le potenze europee. La Francia vedeva la sua presenza in Libano ridotta a niente e perdeva allo stesso tempo la sua influenza in Iraq. Quanto alla Gran Bretagna, essa non veniva per niente ricompensata della sua fedeltà e della sua partecipazione attiva durante la guerra del Golfo nel momento in cui Washington non le concedeva che qualche irrisoria briciola della ricostruzione del Kuwait. Al momento dei negoziati israelo-palestinesi l’Europa si è vista offrire un misero strapuntino, mentre gli Stati Uniti giocavano il ruolo di direttore d’orchestra avendo in mano loro tutte le carte del gioco. Questa situazione si è globalmente protratta fino allo show di Clinton al summit di Sharm El Sceik sul terrorismo. Ma, in seguito, l’Europa è riuscita a fare una nuova sortita nella regione, prima con discrezione, poi sempre più apertamente e fortemente, profittando del fiasco della operazione israeliana nel Sud-Libano della primavera scorsa e sfruttando con abilità le difficoltà della prima potenza mondiale.
Quest’ultima, in effetti, incontrava sempre più ostacoli nel fare pressione non solo sui più tradizionali avversari dell’”ordine americano”, come la Siria, ma anche su alcuni dei suoi più solidi alleati, come per esempio l’Arabia Saudita, e questo in una riserva di caccia come il Medio Oriente così essenziale per il mantenimento della leadership della superpotenza americana, un sintomo chiaro delle serie difficoltà incontrata da quest’ultima per mantenere il proprio primato sull’arena imperialista mondiale.
La leadership degli USA malmenata sulla scena mondiale
Il rovescio subito in Medio Oriente dal gendarme americano deve tanto più essere sottolineato in quanto avviene solo qualche mese dopo la vittoriosa controffensiva che essi erano riusciti a condurre nella ex-Jugoslavia. Offensiva che era finalizzata innanzitutto a rimettere al passo i suoi ex-alleati europei che erano passati alla ribellione aperta. Nel numero 85 della Révue Internationale pur sottolineando il notevole passo indietro imposto al tandem franco-britannico in questa occasione, mettevamo allo stesso tempo in evidenza i limiti di questo successo americano, giacchè le borghesie europee, costrette ad indietreggiare nella ex-Jugoslavia, avrebbero cercato un altro terreno per dare una risposta all’imperialismo americano. Questa previsione si è ampiamente verificata. con gli avvenimenti degli ultimi mesi in Medio Oriente. Se gli Stati Uniti conservano globalmente il controllo della situazione nella ex-Jugoslavia - ma anche laggiù essi devono sempre confrontarsi alle manovre sottobanco degli europei - attualmente si vede che il dominio che essi esercitano in Medio Oriente, finora senza ostacoli, è sempre più rimesso in causa.
Ma non è solo in Medio Oriente che la prima potenza mondiale è confrontata con la contestazione alla sua leadership, e le sue difficoltà non si limitano a questa zona del mondo. Nel terribile scontro che coinvolge in particolare le grandi potenze imperialiste, scontro che è la principale manifestazione di un sistema moribondo, è praticamente sull’insieme del pianeta che gli USA sono confrontati a tentativi più o meno aperti di rimessa in discussione della loro leadership.
Nel Maghreb, i tentativi americani per sloggiare l’imperialismo francese, o almeno per diminuirne fortemente l’influenza, si scontrano con serie difficoltà e volgono per il momento verso il fallimento. In Algeria, il movimento islamico, largamente utilizzato dagli Stati uniti per destabilizzare e portare colpi duri al regime al potere e all’imperialismo francese, è in crisi aperta. I recenti attentati del GIA vanno considerati più come atti di disperazione di un movimento sul punto di scoppiare che la manifestazione di una forza reale. Il fatto che il principale finanziatore delle frazioni islamiche, l’Arabia Saudita, sia sempre più reticente a continuare a finanziarle, indebolisce allo stesso tempo i mezzi di pressione americani. Se in Algeria la situazione è lungi dall’essere stabilizzata, la frazione che è al potere grazie all’appoggio dell’esercito e del padrino francese ha nettamente rafforzato le sue posizioni dopo la rielezione del sinistro Zerual. Allo stesso tempo la Francia è riuscita a serrare i suoi legami con la Tunisia e il Marocco, laddove quest’ultimo era stato negli ultimi anni particolarmente sensibile al canto delle sirene americane.
Nell’Africa nera, dopo il successo che sono arrivati a raggiungere in Ruanda, attraverso la cacciata della cricca legata alla Francia, gli Stati Uniti sono oggi confrontati a una situazione molto più difficile. Se l’imperialismo francese ha rafforzato la sua credibilità intervenendo in maniera muscolosa in Centroafrica, gli Stati Uniti, al contrario, hanno subito un rovescio in Liberia, dove sono stati costretti ad abbandonare i loro protetti. Così hanno tentato di riprendere l’iniziativa in Burundi, cercando di ripetere quello che era riuscito loro in Ruanda; ma anche qui si sono scontrati con una vigorosa risposta della Francia che ha fomentato, con l’appoggio del Belgio, il colpo di stato del maggiore Bouyaya, rendendo impotente la “forza di interposizione africana” che gli Stati Uniti cercavano di mettere sotto il loro controllo.
Bisogna sottolineare che questi successi dell’imperialismo francese - che poco tempo fa era messo alle corde dalla pressione americana - sono dovuti per una buona parte alla sua stretta collaborazione con l’altra vecchia grande potenza coloniale africana che è la Gran Bretagna. Gli Stati Uniti non solo hanno perso l’appoggio di quest’ultima, ma se la ritrovano oggi contro.
Per quanto riguarda un altro punto importante della battaglia che si svolge tra le grandi potenze europee e la prima potenza mondiale, cioè la Turchia, anche qui gli USA sono in difficoltà. Questo stato ha una importanza strategica al crocevia tra l’Europa, il Caucaso e il Medio Oriente. La Turchia è un alleato storico della Germania ma ha dei solidi legami anche con gli Stati Uniti, in particolare attraverso il suo esercito che è stato largamente formato da questi ultimi quando esisteva il blocco americano. Per Washington far scivolare la Turchia nel suo campo ed allontanarla da Bonn rappresenterebbe una vittoria particolarmente importante. Se la recente alleanza militare tra la Turchia e Israele può sembrare corrispondere agli interessi americani, gli orientamenti del nuovo governo turco - cioè una coalizione tra gli islamici e l’ex primo ministro Ciller - marcano al contrario una netta presa di distanze con la politica americana. Non solo la Turchia continua a sostenere la ribellione cecena contro la Russia, alleata degli Stati Uniti, cosa che fa il gioco della Germania (1), ma essa ha anche appena assestato un pugno in faccia a Washington firmando importanti accordi con due stati particolarmente esposti alla ostilità americana: l’Iran e l’Irak!
In Asia, la leadership americana è altrettanto ostacolata. La Cina non si lascia sfuggire una occasione per affermare le sue proprie prerogative imperialiste anche se queste sono antagoniste a quelle degli Stati Uniti; allo stesso tempo anche il Giappone manifesta velleità crescenti di una più grande autonomia rispetto a Washington. A intervalli regolari si rinnovano manifestazioni contro la presenza di basi americane e il governo giapponese dichiara di voler stringere relazioni politiche più forti con l’Europa. Un paese come la Tailandia, che era un vero bastione dell’imperialismo americano, tende anche esso a prendere le sue distanze cessando di sostenere i Kkhmer rossi che erano i mercenari degli Stati Uniti, facilitando così allo stesso tempo i tentativi della Francia di ritrovare una influenza in Cambogia.
Molto significative ancora di una leadership contestata sono le incursioni che fanno oggi europei e giapponesi in quella che è la riserva di caccia per eccellenza degli Stati Uniti: il retrocasa sudamericano. Anche se queste incursioni non mettono fondamentalmente in pericolo gli interessi americani in questa zona e non possono essere messe sullo stesso piano delle manovre di destabilizzazione, spesso riuscite, che sono condotte in altre regioni del mondo contro di essi, tuttavia è significativo che questo santuario degli Stati Uniti, finora inviolato, sia a sua volta l’oggetto di mire dei suoi concorrenti imperialisti. Ciò marca una rottura storica nel dominio assoluto che la prima potenza mondiale esercitava sull’America Latina dopo la messa in atto della “Dottrina Monroe”. Mentre l’accordo Nafta, al di là degli aspetti economici, mirava prima di tutto a tenere fermamente raccolto sotto la tutela di Washington l’insieme del continente americano, paesi come il Messico, il Perù o la Colombia, a cui bisogna aggiungere il Canada, non esitano più a contestare certe decisioni degli Stati Uniti contrarie ai loro interessi. Recentemente il Messico è riuscito a trascinare praticamente tutti gli stati sudamericani in una crociata contro la legge Helms-Burton promulgata dagli Stati Uniti per rafforzare l’embargo economico contro Cuba e sanzionare ogni impresa che rompesse questo embargo. L’Europa e il Giappone hanno subito sfruttato queste tensioni dovute alla pesante penalizzazione causata da questa legge e che gravava su numerosi stati dell’America Latina. L’eccellente accoglienza riservata al presidente colombiano Samper durante il suo viaggio in Europa, laddove gli Stati Uniti fanno di tutto per buttarlo giù, illustrano bene questa situazione. Così il quotidiano francese Le Monde scrive nel suo numero del 4 settembre ‘96: “Mentre finora gli stati Uniti ignoravano assolutamente il Gruppo di Rio (associazione che raggruppa quasi tutti i paesi del sud del continente) la presenza a Cochabamba (luogo di riunione del gruppo) di miss Albright, ambasciatrice degli Stati Uniti all’ONU, è particolarmente significativa. Secondo certi osservatori, è il dialogo politico istaurato tra i paesi del Gruppo di Rio con l’Unione europea, e in seguito anche con il Giappone, che spiega il cambiamento di atteggiamento degli Stati Uniti....”
Sparizione dei blocchi imperialisti, trionfo del “ciascuno per sè”
Come spiegare questo indebolimento della superpotenza americana e la rimessa in questione della sua leadership quando essa resta ancora la prima potenza economica del pianeta e, ancor più importante, dispone di una superiorità militare assoluta su tutti i suoi rivali imperialisti?
A differenza dell’URSS, gli Stati Uniti non sono crollati al momento della sparizione dei blocchi che avevano infestato il pianeta dopo gli accordi di Yalta. Ma questa nuova situazione ha nondimeno toccato la sola superpotenza mondiale restante. Nella “Risoluzione sulla situazione internazionale” del 12° congresso di Révolution Internationale, pubblicata in Rivoluzione Internazionale n. 96, nel sottolineare che il ritorno in forze degli Stati Uniti seguito al loro successo in Jugoslavia non significava per niente che essi avessero definitivamente superato le minacce gravanti sulla loro leadership, scrivevamo: “Queste minacce provengono fondamentalmente dalla tendenza al ‘ciascuno per sè’, dal fatto che manca oggi ciò che costituisce la condizione principale per una reale solidità e perennità delle alleanze tra stati borghesi nell’arena imperialista:l’esistenza di un nemico comune che minacci la loro sicurezza. Le diverse potenze dell’ex blocco occidentale possono anche sottomettersi, di volta in volta, ai diktat di Washington, ma per loro è fuori questione il mantenimento di una qualunque fedeltà duratura. Al contrario, ogni occasione è buona per sabotare, quando è possibile, gli orientamenti e le disposizioni imposte dagli Stati Uniti.”
L’insieme dei colpi portati questi ultimi mesi alla leadership di Washington si iscrive pienamente in questo quadro, l’assenza di un nemico comune fa sì che le manifestazioni di forza americane vedono la loro efficacia ridursi sempre più. Così la “Tempesta nel deserto”, malgrado i considerevoli mezzi politici, diplomatici e militari messi in campo dagli Stati Uniti per imporre il loro “nuovo ordine”, non è riuscita a frenare le velleità di indipendenza degli “alleati” degli Stati Uniti se non per un anno. Lo scoppio della guerra in Jugoslavia nel 1992 segnava, in effetti, il fallimento dell’”ordine americano”. Ed anche il successo riportato dagli Stati Uniti alla fine del 1995 in Jugoslavia non ha potuto impedire che la ribellione si estendesse a partire dalla primavera 1996! In una certa maniera, più gli USA fanno mostra della loro forza, più essi tendono a rinforzare la determinazione dei contestatori dell’”ordine americano”, che trascinano nella loro scia altri Stati fino ad allora docili ai diktat provenienti da Washington.
Così, quando Clinton vuole trascinare l’Europa in una crociata contro l’Iran in nome dell’antiterrorismo, la Francia, la Gran Bretagna e la Germania gli rispondono come se non avessero sentito. Ancora, le pretese di Clinton di punire gli Stati che commerciano con Cuba, l’Iran o la Libia non hanno avuto come risultato che, come abbiamo visto fino in America Latina, una levata di scudi contro gli Stati Uniti. Questo atteggiamento aggressivo ha una incidenza anche su un paese dell’importanza dell’Italia, il cui cuore oscilla tra gli Stati Uniti e l’Europa. Le sanzioni inflitte a grandi imprese italiane per le loro strette relazioni con la Libia non possono che rafforzare le tendenze pro-europee della borghesia italiana.
Questa situazione traduce il vicolo cieco in cui si trova la prima potenza mondiale:
- o essa non fa niente, rinuncia ad utilizzare la forza (che è il suo solo mezzo di pressione oggi), il che significherebbe lasciare il campo libero ai suoi concorrenti,
- o essa cerca di affermare la sua superiorità per imporsi come gendarme del mondo con una politica aggressiva (cosa che tende a fare sempre più) e ciò le si rivolge immediatamente contro isolandola ancora di più e rafforzando l’ostilità antiamericana un po’ dappertutto nel mondo.
Tuttavia, conformemente alla irrazionalità di fondo dei rapporti interimperialisti nella fase di decadenza del sistema capitalistico, caratteristica accentuata nella fase attuale di decomposizione accelerata, gli Stati uniti non possono che usare la forza per tentare di preservare il loro statuto sull’arena imperialista. Per questo li si vede sempre più ricorrere alla guerra commerciale, che non è più solamente l’espressione della feroce concorrenza economica che lacera un mondo capitalista infognato nell’inferno senza fine della sua crisi, ma anche un’arma per difendere le sue prerogative imperialiste di fronte a tutti quelli che contestano la loro leadership. Ma di fronte a una contestazione di una tale ampiezza la guerra commerciale non può bastare, e la prima potenza del mondo è costretta a fare di nuovo parlare le armi come nel suo intervento di questa estate in Irak.
Lanciando diverse dozzine di missili di crociera su Baghdad, in risposta all’incursione delle truppe di Saddam Hus sein in Kurdistan, gli Stati Uniti mostrano la loro determinazione a difendere le loro posizioni in Medio Oriente e più in generale a ricordare che essi intendono preservare la loro leadership nel mondo. Ma i limiti di questa nuova dimostrazione di forza si mostrano subito:
- a livello dei mezzi messi in opera, che non sono che una pallida replica di quelli della “Tempesta nel deserto”;
- ma anche attraverso il fatto che questa nuova “punizione” che gli Stati Uniti cercano di infliggere all’Irak non beneficia che di pochi appoggi nella regione e nel mondo.
Il governo turco ha rifiutato l’utilizzo delle forze degli Stati Uniti basati nel suo paese, mentre l’Arabia Saudita non ha permesso che gli aerei americani decollassero dal suo territorio per andare a bombardare l’Irak ed ha anche fatto appello a Washington perchè sospendesse la sua azione. I paesi arabi nella loro maggioranza hanno criticato apertamente questo intervento militare. Mosca e Pechino hanno apertamente condannato l’iniziativa americana mentre la Francia, seguita dalla Spagna e dall’Italia, ha nettamente marcato la sua disapprovazione. Si vede a qual punto si è lontani dall’unanimità che gli Stati uniti erano riusciti ad imporre al momento della guerra del Golfo. Una tale situazione è rivelatrice dell’indebolimento subito dalla leadership americana dopo questa epoca. La borghesia americana avrebbe, senza dubbio, auspicato di fare una dimostrazione di forza molto più clamorosa; e non solo in Irak, ma anche, per esempio, contro il regime al potere in Iran. Ma in mancanza di un sostegno e di punti di appoggio sufficienti, anche nella regione, essa è stata costretta a far parlare le armi a un tono minore e con un impatto forzatamente ridotto.
Se questa operazione in Irak è di portata limitata, non si deve tuttavia sottostimare i benefici che gli Stati Uniti ne tirano. A parte la riaffermazione a poco prezzo della loro superiorità assoluta sul piano militare, in particolare in questa loro riserva di caccia che è il Medio Oriente, essi sono riusciti innanzitutto a seminare la divisione tra i loro principali rivali d’Europa. Questi erano riusciti ancora recentemente ad opporre un fronte comune contro Clinton e i suoi diktat riguardo la politica da condurre rispetto a Iran, Libia o Cuba. Che la Gran Bretagna si allinei all’intervento condotto in Irak, al punto che Major “saluta il coraggio degli Stati Uniti”, che la Germania sembri condividere questa posizione, mentre Parigi, sostenuta da Roma e Madrid, contesta la fondatezza di questi bombardamenti, è in tutta evidenza un bel sasso lanciato nel mare dell’Unione europea! Che Bonn e Parigi non siano, ancora una volta, sulla stessa lunghezza d’onda non è una novità. Dalla guerra in Jugoslavia la Francia e la Gran Bretagna non hanno smesso di rafforzare la loro cooperazione (essi hanno firmato ultimamente un accordo militare di grande importante, a cui si è associata la Germania, per la costruzione comune di missili di crociera). Attraverso questo progetto Londra esprimeva, in maniera non si può più chiara, la sua volontà di rompere con una lunga tradizione di cooperazione e di dipendenza militare di fronte a Washington. Allora il sostegno di Londra all’intervento americano in Irak significa che la “perfida Albione” ha infine ceduto alle molteplici pressioni esercitate dagli Stati Uniti per ricondurla nel loro campo e che si prepara a ridiventare il fedele luogotenente dello “zio Sam”? No, perchè questo appoggio non rappresenta un atto di allineamento al padrino d’oltre Atlantico, ma la difesa di interessi particolari dell’imperialismo inglese in Medio Oriente e in particolare in Irak. Dopo essere stato un protettorato britannico, questo paese è progressivamente sfuggito all’influenza di Londra , in particolare dopo l’arrivo al potere di Saddam Hussein. Viceversa la Francia vi ha acquistato solide posizioni; posizioni che si sono ridotte notevolmente dopo la guerra del Golfo ma che la Francia sta riconquistando grazie all’indebolimento della leadership USA in Medio Oriente. In queste condizioni la sola speranza per la gran Bretagna di ritrovare una influenza in questa zona risiede nel rovesciamento del macellaio di Bagdad. E’ questa anche la ragione per cui Londra si è trovata sulla stessa linea dura di Washington riguardo le risoluzioni dell’ONU concernenti l’Irak, mente Parigi, al contrario, non ha smesso di chiedere un addolcimento dell’embargo all’IraK imposto dal gendarme americano.
Se il “ciascuno per sè” è la tendenza generale che insidia la leadership americana, essa insidia anche i suoi contestatori e rende fragili tutte le alleanze imperialiste che, quale che sia la loro relativa solidità, all’immagine di quella tra Londra e Parigi, sono molto più a geometria variabile di quelle che prevalevano all’epoca in cui la presenza di un nemico comune permetteva l’esistenza dei blocchi. Gli Stati uniti, anche se sono le principali vittime di questa nuova situazione storica generata dalla decomposizione del sistema, non possono che cercare di sfruttare a loro vantaggio il “ciascuno per sè” che regge l’insieme dei rapporti interimperialisti. Essi lo hanno già fatto nella ex-Jugoslavia non esitando a istaurare un’alleanza tattica con il loro rivale più pericoloso, la Germania, e tentano oggi la stessa manovra rispetto al tandem franco-britannico. Nonostante i suoi limiti, il colpo così portato alla “unità” franco-britannica rappresenta un successo innegabile per Clinton e la classe politica americana non si è sbagliata nell’apportare un sostegno unanime all’operazione in Irak.
Tuttavia questo successo americano ha una portata molto limitata e non può veramente impedire lo sviluppo del “ciascuno per sè” che mina in profondità la leadership della prima potenza mondiale, nè risolvere il vicolo cieco in cui si ritrovano gli Stati Uniti. In un certo senso, anche se gli Stati Uniti conservano, grazie alla loro potenza economica e finanziaria, una forza che il leader dell’ex-blocco dell’Est non ha mai avuto, si può tuttavia fare un parallelo tra l’attuale situazione degli Stati Uniti e quella della defunta URSS ai tempi del blocco dell’est.
Come essa, fondamentalmente gli USA non dispongono, per preservare la loro dominazione, che dell’uso ripetuto della forza bruta e questo esprime sempre una debolezza storica.
Questa esacerbazione del “ciascuno per sè” e il vicolo cieco in cui si trova il “gendarme del mondo” non fanno che tradurre il vicolo cieco del modo di produzione capitalistico. In questo quadro le tensioni imperialiste tra le grandi potenze non possono che andare crescendo, portare la distruzione e la morte su zone sempre più estese del pianeta e aggravare ancora l’incredibile caos che è già la norma di continenti interi.
Una sola forza è capace di opporsi a questa sinistra estensione della barbarie, sviluppando le sue lotte e rimettendo in causa il sistema capitalistico mondiale fino alle sue fondamenta: il proletariato.
RN, 9 settembre 1996
1) La Germania è costretta alla prudenza a causa del pericolo costituito dalla propagazione dell’incredibile caos russo, ma il fatto che la Polonia e la ex Cecoslovacchia siano più “stabili” rappresenta per essa una zona tampone, una sorta di diga di fronte a questo pericolo, e così essa ha le mani più libere per tentare di realizzare il suo obiettivo storico: l’accesso in Medio oriente, appoggiandosi all’Iran e alla Turchia, e per fare pressione sulla Russia al fine di allentare i legami di questa con gli Stati Uniti. La molto “democratica” Germania si nutre dunque del caos russo per difendere i suoi appetiti imperialisti.
Con il crollo dei regimi stalinisti dell’Europa dell’est alla fine degli anni ‘80 e tutte le campagne propagandistiche che si sono scatenate sulla “morte del comunismo”, la “fine della lotta di classe”, o ancora la “scomparsa della classe operaia”, il proletariato mondiale ha subito una sconfitta ideologica massiccia, una sconfitta aggravata dagli eventi successivi, in particolare la guerra del Golfo del 1991, e che hanno ulteriormente amplificato il suo senso di impotenza. In seguito, soprattutto a partire dai grandi movimenti dell’autunno 1992 in Italia, il proletariato ha ritrovato il cammino delle lotte di classe, attraverso molte difficoltà ma in maniera indiscutibile. Ad alimentare questa ripresa delle lotte proletarie sono stati essenzialmente gli attacchi continui e sempre più brutali che la borghesia di tutti i paesi è costretta a sferrare a mano a mano che il suo sistema economico affonda in una crisi senza uscita. La classe dominante sa perfettamente che non potrà far passare questi attacchi ed impedire che essi portino ad una radicalizzazione delle lotte operaie a meno che non metta in piedi tutto un arsenale politico destinato a deviarle, a condurle in vicoli ciechi, a svuotarle e annullarle. E per fare ciò essa deve contare sulla efficacia di questi organi dello Stato borghese in ambiente operaio che sono i sindacati. In altri termini la capacità della borghesia di imporre la sua legge alla classe sfruttata dipende e dipenderà dal credito che i sindacati ed il sindacalismo saranno capaci di guadagnarsi presso quest’ultima. E’ proprio ciò che gli scioperi della fine del 1995 in Francia ed in Belgio hanno dimostrato in modo chiaro., così come la successiva agitazione sindacale nel principale paese europeo: la Germania.
In due numeri precedenti della Révue Internationale, abbiamo esaminato i mezzi impiegati dalla borghesia all’epoca degli scioperi in Francia della fine del 1995, per prendere l’iniziativa di fronte alla prospettiva del risorgere delle lotte operaie. L’analisi che abbiamo sviluppato su questi eventi può riassumersi nei seguenti estratti dell’articolo che abbiamo pubblicato sulla Revue n. 84 quando il movimento non era ancora concluso:
“In realtà, il proletariato in Francia è il bersaglio di un’ampia manovra destinata ad indebolirlo nella sua coscienza e nella sua combattività, una manovra che si rivolge anche alla classe operaia degli altri paesi allo scopo di fargli trarre false lezioni dagli eventi francesi.” (“Lottare dietro i sindacati porta alla sconfitta”, in italiano in Rivista Internazionale n. 19)
E la principale falsa lezione che la borghesia si proponeva di far tirare alla classe operaia è che i sindacati sono dei veri organi della lotta proletaria:
“Questa opera di ricredibilizzazione dei sindacati costituiva per la borghesia un obiettivo fondamentale, un preambolo indispensabile per sferrare gli attacchi futuri che saranno ancora più brutali di quelli attuali. E’ solo a questa condizione che essa può sperare di sabotare le lotte che non mancheranno di scoppiare al momento di questi attacchi.” (Ibidem.)
Nel n. 85 della Revue abbiamo fatto vedere come, contemporaneamente alla manovra della borghesia francese, la borghesia belga, traendo profitto da quest’ultima, ne aveva sviluppato una copia conforme, incorporando tutti i suoi principali ingredienti:
- una serie di attacchi che toccano tutti i settori della classe operaia (nello specifico contro la previdenza sociale) ma particolarmente provocatori per un settore specifico (in Francia, i lavoratori delle ferrovie e dei trasporti parigini; in Belgio i lavoratori delle ferrovie e della compagnia aerea nazionale); il “metodo Juppé” che concentrava in un breve lasso di tempo una valanga di attacchi, attuati con arroganza e cinismo, fa parte della manovra: bisogna far esplodere il malcontento;
- appelli estremamente radicali dei sindacati all’estensione della risposta operaia che sottolineavano l’esempio del settore “di avanguardia” scelto dalla borghesia;
- dietrofront della borghesia sulle misure specifiche più provocatorie: i sindacati gridano alla vittoria della “mobilitazio-ne” che essi hanno organizzato, i settori “di punta” riprendono il lavoro il che porta alla smobilitazione degli altri settori.
Il risultato di queste manovre è stato che la borghesia è riuscita a far passare le misure di portata più generale, quelle che toccano l’insieme della classe operaia, pur dando l’impressione di fare marcia indietro di fronte alle lotte per accreditare l’idea che queste, sotto la guida dei sindacati, erano state vittoriose. Questo, tutto a beneficio sia dei padroni e del governo che dei sindacati. Così ciò che appariva per molti operai come una “vittoria” o una semi-vittoria (non era difficile per la grande massa dei lavoratori constatare come su delle questioni essenziali, come la assistenza sociale, il governo non aveva fatto marcia indietro) era, in realtà, una sconfitta; una sconfitta sul piano materiale, evidentemente, ma soprattutto una sconfitta politica poiché il principale nemico della classe operaia, il più pericoloso perchè si presenta come suo alleato, l’apparato sindacale, ha accresciuto la sua presa tra gli operai.
Le analisi dei gruppi comunisti
Le analisi delle convulsioni sociali della fine del 1995 fatte dalla CCI, sia sulla stampa che nelle sue riunioni pubbliche, hanno suscitato interesse e approvazione nella maggioranza dei lettori e di coloro che assistevano alle riunioni. Non sono state condivise invece dalla maggior parte delle altre organizzazioni dell’ambiente politico proletario. Nella Révue n. 85, abbiamo messo in evidenza come le due organizzazioni che compongono il BIPR, la Communist Workers Organisation e Battaglia Comunista, si erano lasciate ingannare dalla manovra della borghesia essendo del tutto incapaci di individuare questa manovra. Questi compagni, per esempio, hanno rimproverato alla nostra analisi di veicolare l’idea che gli operai sono degli imbecilli perchè si sarebbero lasciati imbrogliare dalle manovre borghesi. Più in generale essi considerano che, con la nostra visione, la rivoluzione proletaria sarebbe impossibile poichè gli operai sarebbero sempre vittime delle mistificazioni attuate dalla borghesia. Niente di più falso.
Innanzitutto il fatto che gli operai possano oggi lasciarsi ingannare dalle manovre borghesi non significa che sarà sempre così. La storia del movimento operaio è piena di esempi in cui gli stessi operai che si lasciavano intrappolare dietro le bandiere borghesi sono stati capaci, poi, di condurre delle lotte esemplari, anche rivoluzionarie. Sono gli stessi operai russi e tedeschi che, dietro le loro bandiere nazionali si erano sgozzati gli uni con gli altri a partire dal 1914, che in seguito si sono lanciati nella rivoluzione proletaria del 1917, e con successo, i primi, e nel 1918 i secondi, imponendo alla borghesia la fine della carneficina imperialista. La storia ci ha insegnato, più in generale, che la classe operaia è capace di trarre degli insegnamenti dalle sue sconfitte, di sventare le trappole in essa era caduta precedentemente.
E tocca proprio alle minoranze rivoluzionarie, alle organizzazioni comuniste, contribuire attivamente a questa presa di coscienza della classe, ed in particolare denunciare in modo chiaro e deciso le trappole tese dalla borghesia.
E’ così che, nel luglio 1917, la borghesia russa ha tentato di provocare una insurrezione prematura del proletariato della capitale. La frazione più avanzata della classe operaia, il partito bolscevico, ha individuato la trappola ed è chiaro che senza il suo comportamento chiaroveggente, volto ad impedire agli operai di Pietrogrado di lanciarsi nell’avventura, questi ultimi avrebbero subito una sconfitta sanguinosa che avrebbe smorzato lo slancio che li ha condotti poi alla insurrezione vittoriosa di Ottobre. Nel gennaio 1919 (vedi i nostri articoli sulla rivoluzione tedesca nella Révue), la borghesia tedesca ha ripetuto la stessa manovra. Questa volta il suo colpo è andato a segno: il proletariato di Berlino, isolato, è stato schiacciato dai corpi franchi, il che ha inflitto un colpo decisivo alla rivoluzione in Germania e a livello mondiale. La grande rivoluzionaria Rosa Luxemburg è stata capace, con la maggioranza della direzione del partito comunista appena fondato, di comprendere la natura della trappola tesa dalla borghesia., mentre il suo compagno Karl Liebknecht, per quanto aguerrito dagli anni di militantismo rivoluzionario, in particolare durante la guerra imperialista, vi ci cascò. Ciò facendo, egli ha partecipato, per il suo prestigio e suo malgrado, ad una disfatta tragica della classe operaia, che d’altra parte gli costò la vita come a molti altri suoi compagni, tra cui Rosa Luxemburg stessa. Ma anche se quest’ultima ha fatto di tutto per mettere in guardia il proletariato ed i suoi propri compagni contro la trappola borghese, essa non ha mai pensato che questi vi erano cascati perchè erano degli “idioti”. Al contrario, il suo ultimo articolo, scritto alla vigilia della morte, “L’ordine regna a Berlino” insiste su di un concetto essenziale: il proletariato deve imparare dalle sue sconfitte. Ugualmente, affermando che gli operai francesi o belgi sono stati vittime di un inganno teso dalla borghesia, alla fine del 1995, la CCI non ha mai lasciato intendere, o pensato, che gli operai sarebbero degli “idioti”. In realtà, è vero il contrario.
In effetti, se la borghesia si è data la pena di elaborare un piano particolarmente sofisticato contro la classe operaia, con il lcontributo di tutte le forze del capitale, il governo, i padroni, i sindacati ed anche i gruppi estremisti, è proprio perchè essa non sottovaluta la classe operaia. Sa perfettamente che il proletariato di oggi non è quello degli anni 30, che contrariamente ad allora non si farà spingere ancora nella demoralizzazione dalla crisi economica, ma si darà a lotte sempre più possenti e coscienti. Nei fatti, per comprendere la natura e la portata della manovra della fine del 1995 contro la classe operaia, è necessario, preliminarmente, avere riconosciuto che non siamo attualmente in un corso storico dominato dalla controrivoluzione, nel quale la crisi mortale del capitalismo non può portare che alla guerra imperialista mondiale, ma in un corso favorevole agli scontri di classe. Una delle migliori prove di questa realtà si trova nella natura dei temi e dei metodi sostenuti dai sindacati in questa recente manovra. Nel corso degli anni 30, le campagne ideologiche della sinistra e dei sindacati, dominate dall’antifascismo, la “difesa della democrazia” ed il nazionalismo, cioè da temi squisitamente borghesi, sono riuscite a deviare la combattività del proletariato in strade tragiche senza via di uscita e ad intrupparlo, aprendo la porta alla carneficina imperialista. Se, alla fine del 1995, i sindacati sono stati molto discreti su questo tipo di temi, se al contrario hanno adottato un linguaggio “operaio”, proponendo proprio loro delle rivendicazioni e dei “metodi di lotta” classici della classe operaia, è perchè sapevano perfettamente che non potevano riuscire a ridorare il loro blasone agli occhi dei lavoratori, accontentandosi di fare i loro discorsi abituali su “l’interesse nazionale” e altre mistificazioni borghesi. Là dove la bandiera nazionale o la difesa della democrazia potevano essere efficaci nel periodo tra le due guerre per mistificare gli operai, c’è bisogno oggi degli appelli alla “estensione”, a “l’unità di tutti i settori della classe operaia”, alla tenuta di assemblee generali sovrane. Ma bisogna anche notare che se i recenti discorsi sindacali sono riusciti ad ingannare la maggior parte della classe operaia, essi hanno ingannato anche delle organizzazioni che si richiamano alla Sinistra comunista. Il miglior esempio ci è probabilmente fornito dagli articoli pubblicati nel n° 435 del giornale Le Prolétaire, organo del Partito comunista internazionale (PCInt.), che pubblica in italiano Il Comunista, uno dei numerosi PCInt. dell’area bordighista.
Le divagazioni del Prolétaire
Questo numero del Prolétaire dedica più di 4 pagine su 10 agli scioperi della fine del 1995 in Francia. Vengono forniti parecchi dettagli sugli avvenimenti, anche dettagli falsi che provano o che l’autore era ancora male informato o, cosa più probabile, che ha scambiato i suoi desideri per realtà (1). Ma la cosa più sconvolgente in questo numero del Prolétaire è l’articolo di due pagine intitolato “La CCI contro gli scioperi”. Questo titolo già la dice lunga sul tono dell’intero articolo. Nei fatti, noi vi apprendiamo, per esempio, che:
- la CCI sarebbe l’emulo di Thorez, il dirigente stalinista francese, che all’indomani della seconda guerra mondiale dichiarava che “lo sciopero è l’arma dei trust”;
- che si esprime come “un qualunque crumiro”;
- che noi siamo dei “proudhoniani moderni” e dei “disertori (sottolineato da Le Prolétaire) della lotta proletaria”.
E’ certo che l’ambiente parassitario per il quale tutto va bene per denigrare la CCI si è immediatamente rallegrato per questo articolo. In questo senso, Le Prolétaire apporta oggi il suo piccolo contributo (volontario? involontario?) agli attacchi attuali di questo ambiente contro la nostra organizzazione. Noi ’abbiamo sempre dimostrato nella nostra stampa, di non esere contro le polemiche tra le organizzazioni dell’am-biente rivoluzionario. Ma la polemica, per quanto veemente, vuol dire che noi ci situiamo nello stesso fronte della lotta di classe. Per esempio noi non facciamo polemiche con le organizzazioni dell’ estrema sinistra borghese; le denunciamo come organismi della classe capitalista, ciò che Le Prolétaire è incapace di fare perchè definisce un gruppo come Lutte Ouvrière, caposaldo del trotskismo in Francia, come “centrista”. Le sue frecciate più aguzze, Le Prolétaire le riserva alle organizzazioni della Sinistra Comunista come la CCI: se noi siamo dei “disertori”, è perchè avremmo tradito la nostra classe; grazie per farcelo sapere.
Grazie ugualmente da parte dei gruppi parassiti il cui motivetto è che la CCI sarebbe passata allo stalinismo e altre turpitudini. Bisognerà malgrado tutto che un giorno il PCInt. capisca in quale campo si pone: in quello delle organizzazioni serie della Sinistra comunista, o piuttosto in quello dei parassiti che non hanno ragione di essere se non quella di screditarle a solo vantaggio della classe borghese.
Detto ciò, se Le Prolétaire si propone di farci la lezione sulle nostre analisi degli scioperi della fine del 1995, quello che dimostra innanzitutto il suo articolo è:
- la sua mancanza di chiarezza, per non dire il suo opportunismo, sulla questione, essenziale per la classe operaia, della natura del sindacalismo;
- la sua crassa ignoranza della storia del movimento operaio che la porta ad una incredibile sottovalutazione della classe nemica.
La questione sindacale, tallone d’Achille del PCInt. e del bordighismo
Per aumentare la dose, Le Prolétaire parla dell’ “anti-sindacalismo di principio” della CCI. Ciò facendo dimostra che, per il PCInt., la questione sindacale non è una questione “di principio”. Le Prolétaire vuole mostrarsi molto radicale quando afferma:
“Le strutture sindacali sono diventate, alla fine di un processo degenerativo, accelerato dalla vittoria internazionale della controrivoluzione, degli strumenti della collaborazione di classe”; e ancora “se le grandi organizzazioni sindacali si rifiutano testardamente di utilizzare queste armi (i modi di lotta autenticamente proletari), questo non è semplicemente per una cattiva direzione che basterebbe rimpiazzare: decenni di degenerazione e di addomesticamento da parte della borghesia hanno vuotato questi grandi apparati sindacali degli ultimi residui classisti e li hanno trasformati in organi della collaborazione delle classi, che mercanteggiano le rivendicazioni proletarie con il mantenimento della pace sociale... Ciò è sufficiente a dimostrare la falsità della prospettiva trotskista tradizionale di conquistare o riconquistare alla lotta proletaria questi apparati di agenti professionisti della conciliazione degli interessi operai con le esigenze del capitalismo. Per contro molti esempi stanno là a dimostrare che è del tutto possibile trasformare un trotskista in bonzo...”
In realtà ciò che il PCInt. mostra è la sua mancanza di chiarezza e di fermezza sulla natura del sindacalismo. Non è questo che esso denuncia come arma della classe borghese, ma solo gli “apparati sindacali”. In questo modo, non riesce, malgrado le sue affermazioni, a distinguersi dai trotskisti: nella stampa di un gruppo come Lutte Ouvrière si possono oggi trovare lo stesso tipo di affermazioni. Ciò che Le Prolétaire, credendosi fedele alla tradizione della Sinistra Comunista italiana, rifiuta di ammettere è che ogni forma sindacale, piccola o grande, legale e ben introdotta nelle alte sfere dello Stato capitalista o del tutto illegale (come Solidarnosc, per molti anni in Polonia, e le Commissioni Operaie in Spagna sotto il regime franchista) non può essere altro che un organo di difesa del capitalismo. Le Prolétaire accusa la CCI di essere ostile “ad ogni organizzazione di difesa immediata del proletariato”. In questo modo dimostra o la sua ignoranza della nostra posizione o, più probabilmente, la sua cattiva fede. Noi non abbiamo mai detto che la classe operaia non doveva organizzarsi per condurre le sue lotte. Ciò che affermiamo, nella tradizione della Sinistra tedesca, corrente della Sinistra comunista disprezzata dal bordighismo, è che, nel periodo attuale, questa organizzazione è costituita dalle assemblee generali degli operai in lotta, dai comitati di sciopero eletti da queste assemblee e da esse revocabili, dai comitati centrali di sciopero composti da delegati dei vari comitati di sciopero. Per la loro stessa natura, queste organizzazioni esistono durante e per la lotta e sono destinate a scomparire una volta finita la lotta. La loro principale differenza con i sindacati è proprio che esse non sono permanenti, e che non possono, per questo fatto, essere assorbite dallo Stato capitalista. E’ proprio questa la lezione che il bordighismo non ha mai voluto tirare dopo decenni di “tradimento” di tutti i sindacati, quale che sia la loro forma, i loro obiettivi iniziali, le posizioni politiche dei loro fondatori, che essi si definiscano “riformisti” o anche “di lotta di classe”, o ancora “rivoluzionari”. Nel capitalismo decadente, in cui il sistema è incapace di accordare il minimo miglioramento duraturo delle condizioni di vita della classe operaia, ogni organizzazione permanente che si pone come obiettivo la difesa di queste è destinata ad integrarsi nello Stato, a divenire uno dei suoi ingranaggi. Citare, come fa Le Prolétaire sperando di chiuderci la bocca, ciò che diceva Marx dei sindacati nel secolo scorso è lungi dall’essere sufficiente per autoaccordarsi un brevetto di “marxismo”. Dopo tutto, i trotskisti non mancano di riportare altre citazioni di Marx ed Engels contro gli anarchici della loro epoca per attaccare la posizione che i bordighisti condividono oggi con l’insieme della Sinistra comunista: il rifiuto di partecipare alla fiera elettorale. Questo modo di fare del Prolétaire non dimostra che una cosa, e cioè che non ha compreso un aspetto essenziale del marxismo a cui si richiama: questo è un pensiero vivo e dialettico. Ciò che era vero ieri, nella fase ascendente del capitalismo: la necessità per la classe operaia di formare dei sindacati, come di partecipare alle elezioni o anche di sostenere alcune lotte di liberazione nazionale, non vale più oggi nel capitalismo decadente. Prendendo alla lettera certe citazioni di Marx, senza valutare le condizioni alle quali si riferiscono, rifiutando di applicare il metodo di questo grande rivoluzionario, Le Prolétaire non dimostra che la povertà del suo pensiero.
Ma il peggio non è questa miseria in sé, il peggio è che essa conduce a diffondere nella classe delle illusioni sulla possibilità di un “vero sindacalismo”, cosa che porta dritto dritto all’opportunismo. E di questo opportunismo troviamo tracce negli articoli di Le Prolétaire, quando mostra la massima timidezza nel denunciare il gioco dei sindacati:
“Ciò che si può e che si deve rimproverare ai sindacati attuali...” I rivoluzionari non rimproverano niente ai sindacati, come non rimproverano ai borghesi di sfruttare gli operai, ai poliziotti di reprimere le loro lotte: essi li denunciano.
“... le organizzazioni alla testa del movimento, la CGT e FO, che verosimilmente avevano negoziato sotto banco col governo per porvi fine... “ I dirigenti sindacali non “negoziano” con il governo, camminano mano nella mano con lui contro la classe operaia. E non è “verosimilmente”: è sicuro!. Ecco ciò che è indispensabile che gli operai sappiano e che Le Prolétaire è incapace di dir loro.
Il pericolo della posizione opportunista del Prolétaire sulla questione sindacale si manifesta del tutto quando esso scrive. “Ma se noi scartiamo la riconquista degli apparati sindacali, da ciò non concludiamo che bisogna rifiutare di lavorare in questi stessi sindacati, purché questo lavoro si faccia alla base, in contatto con semplici lavoratori e non nelle istanze gerarchiche, e su delle basi di classe”. In altri termini, quando in modo assolutamente sano e necessario degli operai scoraggiati dalle magagne sindacali avranno voglia di strappare la loro tessera, si troverà un militante del PCInt. per accompagnare i discorsi del trotskista di turno: “Non fate ciò, compagni, bisogna restare nei sindacati per farci un lavoro”. Quale lavoro, se non quello di ridorare un po’, alla base, il blasone di queste organizzazioni nemiche della classe operaia?
Perchè non vi è altra scelta:
- o si vuole veramente condurre una attività militante “su delle basi di classe”, e allora uno dei punti essenziali da difendere è la natura antioperaia dei sindacati, non solo della loro gerarchia, ma nel loro insieme; quale chiarezza il militante del PCInt. va a portare ai suoi compagni di lavoro dicendo loro “i sindacati sono nostri nemici, bisogna lottare al di fuori e contro di essi m a io resto dentro”? (2)
- o si vuole restare “in contatto” con la “base” sindacale, “farsi comprendere” dai lavoratori che la compongono, e allora si oppone “base” e “gerarchia imputridita”, cioè la posizione classica del trotskismo; certo si fa allora “un lavoro”, ma non “su delle basi di classe” poichè si mantiene ancora l’illusione che alcune strutture sindacali, la sezione di fabbrica per esempio, possono essere degli organi della lotta operaia.
Vogliamo ben credere che il militante del PCInt., contrariamente al suo collega trotskista, non aspira a diventare un bonzo. Tuttavia avrà fatto lo stesso “lavoro” anti-operaio di mistificazione sulla natura dei sindacati.
Così l’applicazione della posizione del PCInt. sulla questione sindacale ha apportato, ancora una volta, il suo piccolo contributo alla smobilitazione degli operai di fronte al pericolo che rappresentano i sindacati. Ma questa azione di smobilitazione di fronte al nemico non si ferma qua. Essa si scatena di nuovo quando il PCInt. si abbandona ad una sottovalutazione in piena regola della capacità della borghesia di elaborare delle manovre contro la classe operaia.
La sottovalutazione del nemico di classe
In un altro articolo del Prolétaire “Dopo gli scioperi di questo inverno, Prepariamo le lotte future” si può leggere:
“Il movimento di questo inverno mostra proprio che se, in queste circostanze, i sindacati hanno dato prova di una flessibilità inconsueta e hanno lasciato esprimere la spontaneità degli scioperanti più combattivi piuttosto che opporvisi come di consueto, questa tolleranza ha loro permesso di conservare senza grandi difficoltà la direzione della lotta e dunque di decidere in notevole misura del suo orientamento, del suo sviluppo e del suo esito. Quando hanno giudicato che il momento era venuto, hanno potuto dare il segnale della ripresa, abbandonando in un batter d’occhio la rivendicazione centrale del movimento, senza che gli scioperanti potessero opporre alcuna alternativa. L’apparenza democratica e di base della condotta della lotta è stata anche utilizzata contro i bisogni obiettivi del movimento: non sono le migliaia di AG quotidiane degli scioperanti che da sole potevano dare alla lotta la centralizzazione e la direzione di cui essa aveva bisogno, anche se hanno permesso il coinvolgimento e la partecipazione di massa dei lavoratori. Solo le organizzazioni sindacali potevano sopperire a questa carenza e la lotta veniva dunque sospesa con le parole d’ordine e le iniziative lanciate centralmente dalle organizzazioni sindacali e ripercosse dal loro apparato in tutte le AG. L’atmosfera di unità che regnava nel movimento era tale che la massa dei lavoratori non solo non ha sentito né ha espresso del disaccordo con l’orientamento dei sindacati (a parte naturalmente gli orientamenti della CFDT) e la loro direzione della lotta, ma ha anche considerato la loro azione come uno dei fattori più importanti per la vittoria.”
Qui Le Prolétaire ci svela il segreto dell’atteggiamento dei sindacati negli scioperi della fine del 1995.. Il problema è che quando bisogna tirare le lezioni da questa evidente realtà Le Prolétaire, nello stesso articolo ci dice che questo movimento è “il più importante del proletariato francese dopo lo sciopero generale del maggio-giugno 68”, che egli saluta la sua “forza” che ha imposto “un parziale dietrofront del governo”. Decisamente la coerenza di pensiero non è il punto forte del Prolétaire. Bisogna ricordare che anche l’opportunismo sfugge la coerenza come la peste, dal momento che cerca in permanenza di conciliare l’inconciliabile?
Per parte nostra, noi abbiamo concluso che questo movimento che non ha potuto impedire al governo di far passare le sue principali misure antioperaie e che è inoltre riuscito bene nel ridare splendore ai sindacati, come mostra chiaramente Le Prolétaire, non si è fatto contro la volontà dei sindacati o del governo, ma che è stato voluto da loro per raggiungere questi obiettivi. Le Prolétaire ci dice che la caratteristica di questo movimento che “deve diventare un’acquisizione per le lotte future, è stata la tendenza generale a superare le barriere corporative e i limiti delle fabbriche o di amministrazione e ad estendersi a tutti i settori”. E’ del tutto vero. Ma il solo fatto che sia stato con la benedizione, o piuttosto molto spesso sotto la spinta diretta dei sindacati, che gli operai abbiano riconquistato dei metodi veramente proletari di lotta, non costituisce affatto un passo avanti della classe operaia visto che questa conquista è associata per la maggioranza degli operai all’azione dei sindacati. Questi metodi di lotta, la classe operaia, era presto o tardi destinata a scoprirli a seguito di tutta una serie di esperienze. Ma se questa scoperta veniva fatta attraverso il confronto diretto contro i sindacati, ciò avrebbe inferto un colpo mortale a questi ultimi mentre erano già fortemente screditati e ciò avrebbe privato la borghesia di una delle sue armi essenziali per sabotare le lotte operaie. Così, era preferibile per la borghesia che questa scoperta, anche a rischio che fosse fatta troppo presto, fosse infettata e sterilizzata dalle illusioni sindacali.
Il fatto che la borghesia abbia potuto manovrare in tal modo sfugge alla comprensione del Prolétaire:
“A credere alla CCI ‘essa’ (senza dubbio TUTTA LA BORGHESIA) è straordinariamente astuta: spingere “gli operai” (è così che la CCI battezza tutti i salariati che hanno fatto sciopero) ad entrare in lotta contro le decisioni del governo al fine di controllare la loro lotta, di infliggere loro una sconfitta e di far passare poi delle misure ancora più dure, ecco una manovra che avrebbe senza dubbio stupefatto Machiavelli stesso.
I proudhoniani moderni della CCI si spingono più in là del loro antenato poichè accusano i borghesi di provocare la lotta operaia e di fargli ottenere la vittoria per distrarre gli operai dalle vere soluzioni: essi si colpirebbero da soli per evitare di essere colpiti. Aspettiamo ancora un po’ e vedremo nella lanterna magica della CCI i borghesi stessi organizzare la rivoluzione proletaria e la scomparsa del capitalismo al solo scopo di impedire ai proletari di farlo.” (3)
Le Prolétaire si illude certamente di essere molto spiritoso. Buon pro gli faccia! Il problema è che le sue tirate denotano innanzitutto la totale vacuità della sua comprensione politica. Allora per sua regola e perché non resti completamente idiota, ci permettiamo di richiamare qualche banalità:
1° Non è necessario che tutta la borghesia sia “straordinariamente astuta” perchè i suoi interessi siano ben difesi. Per esercitare questa difesa, la classe borghese dispone di un governo e di uno Stato (ma forse Le Prolétaire non lo sa) che definisce la sua politica contando su di un esercito di specialisti (storici, sociologi, politologi, ... e dirigenti sindacali). Che ancora oggi vi siano dei padroni che pensano che i sindacati sono i nemici della borghesia, ciò non cambia affatto la cosa: non solo loro che sono incaricati di elaborare la strategia della lora classe come non sono i sottoufficiali che conducono le guerre.
2° Giustamente tra la borghesia e la classe operaia vi è una guerra, una guerra di classe. Senza che sia necessario essere uno specialista di questioni militari, qualunque essere dotato di una intelligenza media e di un po’ di istruzione (ma è il caso dei redattori del Prolétaire?) sa che l’astuzia è un’arma essenziale degli eserciti. Per battere il nemico, in generale è necessario ingannarlo (a meno che non si disponga di una superiorità materiale schiacciante).
3° L’arma principale della borghesia contro il proletariato, non è la potenza materiale delle sue forze di repressione, è proprio la furbizia, le mistificazioni che essa è capace di veicolare nelle fila operaie.
4° Anche se Machiavelli ha, ai suoi tempi, gettato le basi della strategia borghese per la conquista e l’esercizio del potere così come dell’arte della guerra, i dirigenti della classe dominante, dopo secoli di esperienze, ne sanno molto più di lui. Forse i redattori del Prolétaire pensano che è il contrario. In ogni caso farebbero bene a tuffarsi un po’ nei libri di storia, in particolare quelli delle guerre recenti e soprattutto quella del movimento operaio. Vi scoprirebbero che il machiavellismo che gli strateghi militari sono capaci di mettere in atto nei conflitti tra frazioni nazionali della stessa classe borghese non è niente rispetto a quello che essa, nel suo insieme, è capace di impiegare contro il suo mortale nemico, il proletariato.
5° In particolare essi scoprirebbero due cose elementari: che provocare degli scontri prematuri è una delle armi classiche della borghesia contro il proletariato e che in una guerra i generali non hanno mai esitato a sacrificare una parte delle loro truppe o delle loro posizioni per meglio ingannare il nemico, fornendogli eventualmente un sentimento illusorio di vittoria. La borghesia non farà la rivoluzione proletaria al posto del proletariato per impedirgli di farla. Al contrario per evitarla essa è pronta a degli apparenti “rinculi”, a delle sedicenti “vittorie” degli operai.
6° E se i redattori del Prolétaire si dessero la pena di leggere le analisi classiche della Sinistra comunista, apprenderebbero infine che uno dei principali mezzi con cui la borghesia ha inflitto al proletariato la più terribile controrivoluzione della sua storia è stato proprio presentare come delle “vittorie” le sue più grandi sconfitte: la “costruzione del socialismo in URSS”, i “Fronti popolari”, la “vittoria contro il fascismo”.
Allora non si può che dire una cosa ai redattori di Prolétaire: ricominciate daccapo. Le frasi ben composte e le parole spiritose non bastano per difendere correttamente le posizioni e gli interessi della classe operaia. E vogliamo dar loro un ultimo consiglio: ascoltate ciò che succede realmente nel mondo e tentate di comprendere, per esempio, ciò che succede in Germania.
Le manovre sindacali in Germania, nuovo esempio della strategia della borghesia
Se è necessaria una nuova prova che la manovra concertata da tutte le forze della borghesia alla fine del 1995 in Francia aveva una portata internazionale, la recente agitazione sindacale in Germania la fornisce in maniera lampante. In questo paese, nei fatti, si è appena svolta, evidentemente con le caratteristiche locali, un “rifacimento” dello scenario “alla francese”.
All’inizio la situazione sembra molto diversa. Proprio dopo che i sindacati francesi si sono dati un’immagine di radicalismo, “di organi intransigenti della lotta di classe”, quelli tedeschi, fedeli alla tradizione di negoziatori e di agenti del “consenso sociale”, firmano con il padronato ed il governo, il 23 gennaio, un “patto per l’occupazione” che comporta, tra l’altro, una diminuzione dei salari fino al 20% nelle industrie più minacciate. Alla fine del negoziato, Kohl dichiara che bisogna “fare di tutto per evitare uno scenario alla francese”. Non è allora contraddetto dai sindacati che, poche settimane prima, avevano tuttavia salutato gli scioperi in Francia: la DGB “manifesta la sua simpatia agli scioperanti che si difendono contro un grosso attacco al diritto sociale”; IG-Metal afferma che “la lotta dei francesi è un esempio di resistenza contro i colpi portati ai diritti sociali e politici”.
Ma, in realtà, il saluto dei sindacati tedeschi agli scioperi in Francia non era platonico, esso si inseriva già nella prospettiva delle loro manovre future. Queste manovre si palesavano in tutta la loro ampiezza nel mese di aprile. E’ il momento scelto da Kohl per annunciare un piano di austerità senza precedenti: congelamento dei salari nella funzione pubblica, diminuzione delle indennità di disoccupazione e delle prestazioni di protezione sociale, aumento dei tempi di lavoro, aumento dell’età per la pensione, abbandono del principio dell’indennizzazione al 100% delle assenze per malattia. E ciò che è più eclatante è il modo in cui è annunciato questo piano. Come scrive il giornale francese Le Monde del 20 giugno 1996: “Imponendo in maniera autoritaria il suo piano di risparmio di 50 miliardi di marchi alla fine del mese di aprile, il cancelliere Kohl ha dismesso gli abiti del moderatore - a cui era tanto affezionato - per prendere quelli del decisionista... Per la prima volta, il “metodo Kohl” comincia a somigliare al “metodo Juppè”.”
Per i sindacati, è una vera provocazione alla quale bisogna rispondere con dei nuovi metodi di azione: “Noi abbiamo abbandonato il consenso per cominciare lo scontro” (Dieter Schulte, presidente del DGB). Lo scenario “alla francese”, nella sua variante tedesca, è messo in piedi. Si assiste allora ad un crescendo di radicalismo nell’atteggiamento dei sindacati: “scioperi di avvertimento” e manifestazioni nel settore pubblico (come all’inizio dell’autunno 1995 in Francia): gli asili, i trasporti pubblici, le poste, i servizi di pulizie sono coinvolti. Come in Francia i mass media fanno un gran rumore su questi movimenti, dando l’idea di un paese paralizzato e non risparmiando la loro simpatia verso di essi. Il riferimento agli scioperi della fine del 1995 sono sempre presenti ed i sindacati fanno anche sventolare delle bandiere francesi nelle manifestazioni. Schulte, invocando “l’autunno caldo” francese, promette, nel settore industriale una “estate calda”. E’ allora che comincia la preparazione della grande manifestazione del 15 giugno che è annunciata in partenza come “la più massiccia dopo il 1945”. Schulte avverte che non sarà “che l’inizio di aspri conflitti sociali che potrebbero portare a delle condizioni alla francese”. Ancora, mentre alcune settimane prima aveva affermato che “non era il caso di chiamare ad uno sciopero generale contro un governo eletto democraticamente”, il 10 giugno dichiara che “anche lo sciopero generale non è più escluso”. Pochi giorni prima della “marcia” su Bonn, i negoziati del settore pubblico arrivano ad un accordo che concede alla fine scarsi aumenti salariali e la promessa di non rimettere in discussione le indennità di malattia, il che permette ai sindacati di far apparire questo “rinculo” come risultato della efficacia delle loro azioni, come era successo in Francia quando il governo aveva fatto “marcia indietro” sul “Contratto di Piano” nelle ferrovie ed il pensionamento degli impiegati pubblici.
Alla fine, l’enorme successo del “tutti a Bonn” (350mila manifestanti) ottenuto grazie ad una campagna dei media senza precedenti e agli enormi mezzi messi in piazza dai sindacati (migliaia di pullman e quasi 100 treni speciali) appariva come una manifestazione di forza senza precedenti e nello stesso tempo permetteva di far passare in secondo piano il fatto che il governo non aveva ceduto sull’essenziale del suo piano di austerità.
Il carattere mondiale delle manovre della borghesia
Così, a pochi mesi di distanza, nei due principali paesi del continente europeo, la borghesia ha sviluppato due manovre molto simili, destinate non solo a far passare una valanga di attacchi brutali ma anche a dare una nuova immagine dei sindacati. Certo vi sono delle differenze nell’obiettivo posto da ciascuna delle due borghesie nazionali. per quel che riguarda la Francia, bisogna ridorare agli occhi degli operai lo stemma dei sindacati, uno stemma notevolmente offuscato dal loro sostegno alle politiche condotte dalla Sinistra quando era al governo, il che li aveva costretti a lasciare la prima fila ai coordinamenti nel compito di sabotaggio delle lotte durante lo sciopero dei ferrovieri nel 1986 e degli ospedalieri nel 1988. Per quanto riguarda la Germania, non vi era un problema di discredito dei sindacati. Nell’insieme questi organi dello Stato borghese godevano di una forte presenza nell’ambiente operaio. Però l’immagine che essi avevano presso la classe operaia era quella di specialisti dediti alla negoziazione, che riuscivano, attraverso tutte le “tavole rotonde” alle quali partecipavano, a preservare un po’ le acquisizioni dello “Stato sociale”, il che era facilitato evidentemente dalla maggiore resistenza del capitale tedesco alla crisi mondiale. Ma con la crescita delle difficoltà economiche di quest’ultimo (recessione nel 1995, livello di disoccupazione record, esplosione del deficit statale) questa immagine non poteva durare per molto tempo. Al tavolo dei negoziati, il governo ed il padronato non potranno proporre che attacchi sempre più duri al livello di vita della classe operaia e lo smantellamento dello “Stato sociale”. La prospettiva di esplosioni di collera operaia è ineluttabile ed è dunque importante che i sindacati, per essere all’altezza di sabotare e deviare la combattività cambino i loro abiti di “negoziatori” con quelli di organi della lotta operaia.
Ma al di là delle differenze nella situazione sociale dei due paesi, ciò che è importante è che tutti i punti comuni che vi sono tra questi due episodi aprano gli occhi di coloro che ancora pensano che gli scioperi della fine del 1995 in Francia siano stati “spontanei”, che abbiano “sorpreso la borghesia”, che sono stati voluti e provocati da questa per portare a buon fine la sua politica.
Inoltre, come la manovra della fine del 1995 in Francia aveva una portata internazionale, così non è solo ad uso interno che le varie forze della borghesia tedesca hanno svolto la loro manovra della primavera 1996. Per esempio, in Belgio, se la borghesia aveva organizzato nel corso dell’inverno una copia conforme dello scenario francese, ha dato poi prova del suo mimetismo riprendendo a suo vantaggio lo “scenario tedesco”. In effetti poco dopo la firma del “patto per il lavoro” in Germania, era stato firmato in Belgio un “contratto per l’occupazione” tra sindacati, padronato e governo che prevedeva, anche lì, diminuzioni di salario contro delle promesse di occupazione. Poi i sindacati si sono concessi una giravolta a 180° denunciando bruscamente questo accordo “dopo la consultazione della loro base”. Questa virata, molto enfatizzata dai media ha loro permesso di offrire una immagine di sè “democratica”, di “veri interpreti della volontà degli operai”, ripulendosi da ogni responsabilità nei piani di attacco alla classe operaia preparati dal governo (nel quale partecipa il Partito socialista, tradizionale alleato del sindacato più “combattivo”, la FGTB).
Ma se la dimensione internazionale delle manovre della borghesia francese della fine del 1995, non si è fermata al Belgio, come si è appena visto con le manovre della borghesia tedesca della primavera, la portata di queste ultime non si limita affatto a questo piccolo paese. In realtà l’agitazione sindacale in Germania, ampiamente diffusa dalla televisione nei vari paesi ha un ruolo simile agli scioperi in Francia. Ancora una volta si tratta di rafforzare le illusioni sui sindacati. L’immagine di impronta “combattiva” dei sindacati francesi, grazie alla copertura dei massmedia mondiali, ha potuto rimbalzare sui suoi confratelli degli altri paesi. Inoltre, la radicalizzazione dei sindacati tedeschi, le loro minacce di una “estate calda” e i commenti allarmistici dei media degli altri paesi sulla “fine del consenso alla tedesca” rilanciano a loro volta l’idea che i sindacati sono capaci, anche dove hanno una tradizione di accordi e negoziazioni, di essere degli autentici “organismi di lotta” per la classe operaia e anche efficaci, capaci di imporre, contro l’austerità del governo e dei padroni, la difesa degli interessi operai.
oOo
E’ a livello mondiale che la borghesia mette in atto la sua strategia di fronte alla classe operaia. La storia ci ha insegnato che tutti i contrasti di interesse tra le borghesie nazionali, le rivalità commerciali, gli antagonismi imperialisti, scompaiono quando si tratta di affrontare la sola forza della società che rappresenta un pericolo mortale per la classe dominante, il proletariato. E’ in modo coordinato, di concerto che le borghesie elaborano i loro piani contro di esso.
Oggi, di fronte alle lotte operaie che si preparano, la classe dominante dovrà tendere mille trappole per tentare di sabotarle, ridurle e svuotarle, per fare in modo che esse non permettano una presa di coscienza da parte del proletariato delle prospettive finali di queste lotte, la rivoluzione comunista. Nulla sarebbe più tragico per la classe operaia del sottovalutare la forza del suo nemico, la sua capacità di tendere tali trappole, di organizzarsi a livello mondiale per renderle più efficaci. Tocca ai comunisti di stanarle e denunciarle agli occhi della loro classe. Se non lo sanno fare, non meritano questo nome.
FM, 24 giugno 1996
1) Uno degli esempi eclatanti di questa riscrittura dei fatti è il modo in cui è stata riportata la ripresa del lavoro dopo gli scioperi: non sarebbe cominciata che dopo una settimana dall’annuncio del “passo indietro” del governo, il che è falso.
2) E’ vero che i bordighisti non sono nuovi alle contraddizioni: verso la fine degli anni 1970, mentre in Francia si svolgeva una agitazione tra gli operai immigrati, si potevano vedere i militanti del PCInt. spiegare agli immigrati sbigottiti che dovevano rivendicare il diritto di voto per potersi ... astenere. Più ridicolo di un bordighista, non si può! E’ anche vero che quando dei militanti della CCI hanno tentato di intervenire in un raggruppamento di immigrati per difendervi la necessità di non lasciarsi chiudere in delle rivendicazioni borghesi, quelli del PCInt. hanno dato man forte ai maoisti per cacciarli...
3) Bisogna notare che il n. 3 di L’esclave salarié (“ES”, bastardo parassitario dell’ex Ferment Ouvrier Révolutionnaire), ci fornisce una interpretazione originale dell’analisi della CCI sulla manovra della borghesia. “Ci teniamo a felicitarci con la cci (ES trova molto spiritoso scrivere in minuscolo le iniziali della nostra organizzazione) per la sua ragguardevole analisi che ci lascia pieni di ammirazione e ci chiediamo come questa élite pensante riesca ad infiltrarsi nella classe borghese per trarne tali informazioni sui suoi piani e le sue trappole. E’ da chiedersi se la cci non venga invitata agli incontri della borghesia e allo studio dei suoi comportamenti antioperai contattata in segreto e nei riti della franco-massoneria.” Marx non era francomassone e non era invitato ai meeting della borghesia ma ha dedicato una gran parte della sua attività militante a studiare, chiarire e denunciare i piani e le trappole della borghesia. Bisogna credere che i redattori di ES non hanno mai letto Le lotte di classe in Francia o La guerra civile in Francia. Sarebbe logico da parte di persone che disprezzano il pensare, che non è monopolio di una “élite”: Non era necessario essere massoni per scoprire che gli scioperi della fine del 1995 in Francia erano il risultato di una manovra borghese: bastava osservare in quale modo essi erano presentati ed incensati dai massmedia in tutti i paesi d’Europa e d’America, fino in India, in Australia ed in Giappone. E’ vero che la presenza in questi paesi di sezioni o di simpatizzanti della CCI ha facilitato il suo lavoro, ma la vera causa della povertà politica di ES non sta nella sua scarsa estensione geografica. Ciò che è provinciale di questo gruppo è innanzitutto la sua intelligenza politica, provinciale... e “minuscola”.
Uomini politici, economisti e giornalisti vari ci hanno ormai abituato alle più stravaganti teorizzazioni, pur di nascondere il fallimento del capitalismo e giustificare la serie di attacchi senza fine contro le condizioni di vita della classe operaia.
Venticinque anni fa, un presidente americano portavoce del conservatorismo più retrivo, Nixon, si sgolava a proclamare: "Siamo tutti Keynesiani". Erano tempi in cui la borghesia cercava di rispondere alla crisi con "l’intervento dello Stato" e lo sviluppo dello "Stato sociale " come elisir magico. Era in nome di queste politiche che si chiedeva ai lavoratori qualche sacrificio momentaneo per "uscire dal tunnel".
Negli anni 80, di fronte all'evidenza del marasma economico, bisognò trovare qualcosa di nuovo. Ed ecco che il responsabile di tutti i mali diventa lo Stato ed il nuovo elisir magico é “meno Stato”. Sono gli anni d'oro della “Reaganomics”, che provocano la maggior ondata mondiale di licenziamenti dopo gli anni '30, una politica organizzata dallo Stato.
Oggi, la crisi del capitalismo ha raggiunto un livello tale di gravità che tutti gli Stati industrializzati hanno dovuto mettere all'ordine del giorno la liquidazione pura e semplice di quello che restava degli ammortizzatori sociali dello "Stato previdenziale" (sussidio di disoccupazione, pensioni, sanità, educazione; ma anche indennità dì licenziamento, assicurazioni, durata della giornata di lavoro, sicurezza, etc.). Questo attacco spietato, questo salto qualitativo nella tendenza all'impoverimento assoluto preannunciata da Karl Marx, viene accompagnato e giustificato con una nuova teoria: "la mondializzazione dell'economia mondiale"
Questa volta i servitori del capitale hanno veramente scoperto l'acqua calda! Cercano di spacciare con centocinquanta anni di ritardo quella che sarebbe "la grande novità di fine secolo" e che Engels costatava già nei Princìpi del Comunismo, scritti nel 1847: "Le cose sono arrivate ad un punto tale che l'invenzione di un macchinario nuovo qui in Inghilterra, potrà, nello spazio di un anno, condannare alla fame milioni di operai in Cina. Così la grande industria ha collegato tutti i popoli della terra, ha unito in un solo mercato tutti ì mercati locali, ha preparato dappertutto il terreno per la civiltà ed il progresso ed ha fatto tutto questo in un modo tale che tutto quello che si realizza nei paesi civilizzati si ripercuote necessariamente in tutti gli altri."
Il capitalismo ha bisogno di estendersi a scala mondiale, imponendo il suo sistema di sfruttamento salariato in tutti gli angoli del pianeta. L'integrazione nel mercato mondiale, agli inizi del secolo, di tutti i territori significativi del pianeta e la difficoltà di trovarne di nuovi, capaci di soddisfare le esigenze continue di espansione del capitalismo, hanno segnato l'entrata dell’ordine borghese nella sua fase di decadenza, come i rivoluzionari sostengono da ottanta anni.
Nel quadro di questa saturazione cronica dei mercati, il nostro secolo ha visto un inasprirsi senza precedenti della concorrenza intercapitalista. Tutti i capitali nazionali sono obbligati ad una doppia tattica: da una parte proteggere i propri prodotti con tutta una serie di misure (monetarie, legislative, etc.) dagli assalti dei concorrenti, dall'altra cercare di convincere questi ultimi ad aprire le porte dei loro mercati alle proprie merci (trattati commerciali, accordi bilaterali, etc.). Quando gli economisti parlano di mondializzazione, cercano di far credere che il capitalismo possa amministrarsi in modo cosciente ed unificato grazie alle regole dettate dal mercato mondiale. E' vero esattamente il contrario: il mercato mondiale impone le sue leggi, ma questo avviene in un quadro caratterizzato dai tentativi disperati di ogni capitale nazionale di sfuggire a queste leggi e caricarne il peso sui concorrenti. Il mercato mondiale attuale ha voglia di essere "mondializzato", non per questo riesce a creare un quadro di progresso e di unificazione! La tendenza dominante del capitalismo decadente é alla disarticolazione del mercato mondiale, dilaniato dalle potenti forze centrifughe delle economie nazionali strutturate in Stati ipertrofici che tentano in tutti i modi (compresi quelli militari) di proteggere i prodotti dello sfruttamento dei "loro" lavoratori contro le mani avide dei loro concorrenti. Mentre nel secolo scorso la concorrenza fra nazioni contribuiva a formare ed unificare il mercato mondiale, la concorrenza fra Stati del nostro secolo tende al risultato opposto: la disgregazione e la decomposizione del mercato mondiale.
E' proprio per questa ragione che la "mondializzazione" può imporsi solo con la forza. Nel mondo uscito dalla spartizione di Yalta nel '45, USA ed URSS avevano approfittato della disciplina imposta dai blocchi imperialisti per creare tutta una serie di organismi per regolamentare (a loro vantaggio, ovviamente) il commercio mondiale: GATT, FMI, Mercato Comune, il Comecon per il blocco russo, etc. Espressione della potenza economico‑militare dei capifila dei blocchi, questi organismi non potevano in ogni caso eliminare le tendenze all’anarchia e organizzare un mercato mondiale armonico ed unificato. Con la sparizione dei due blocchi dopo l’89, la tendenza al caos ed alla concorrenza si é enormemente rafforzata.
La “mondializzazione” porrà fine a questa tendenza? A sentire i suoi apostoli, la "mondializzazione" prende le mosse da un mercato mondiale "già unificato" ed avrà un "effetto salutare" su tutte le economie e permetterà al mondo intero di uscire dalla crisi liberandolo dagli "egoismi nazionali". In effetti, se si prendono in esame le varie caratteristiche della "mondializzazione", non ce n'é una che possa in qualche modo eliminare il caos in cui si trova il mercato mondiale e che la crisi continua ad aggravare. Tanto per cominciare, le "transazioni elettroniche via Internet" non faranno che aggravare il rischio dei mancati pagamenti, già elevatissimo, contribuendo così ad aumentare ancora il peso già insopportabile dell’indebitamento. Per quello che riguarda la "mondializzazione" dei mercati monetari e finanziari, ci siamo già espressi in precedenza: "Un crac finanziario é inevitabile. Sotto certi aspetti, é già in corso. Anche dal punto di vista del capitalismo, un bel colpo di spillo nella “bolla speculativa" é indispensabile (...). Oggi, la bolla speculativa e, soprattutto, l’indebitamento degli Stati si sono gonfiati in modo allarmante. In una tale situazione, nessuno può prevedere dove arriverà la violenza dell’esplosione. Quello che é certo é che si tratterà di una distruzione massiccia di capitale fittizio che getterà nella rovina settori interi del capi-tale mondiale” (“Tormenta finanziaria: siamo alla follia?”, Révue Internationale n° 81, 1995).
Lo scopo della mondializzazione é in realtà abbastanza differente dalle melodie celestiali che ci sviolinano i suoi cantori. Si tratta di rispondere ai problemi urgenti posti dallo stato attuale della crisi e cioè l’abbassamento dei costi di produzione e la distruzione delle barriere protezionistiche per permettere ai capitalismi più forti di fare man bassa su mercati sempre più ridotti.
Rispetto alla necessità di abbassare i costi di produzione, abbiamo già sottolineato che: ''L’intensificazione della concorrenza tra capitalisti, esacerbata dalla crisi di sovrapproduzione e dalla rarità dei mercati solvibili, li spinge ad una modernizzazione ad oltranza dei processi di produzione, rimpiazzando gli uomini con le macchine, in una corsa sfrenata alla "riduzione dei costi". Questa stessa corsa li spinge a distaccare segmenti di produzione verso paesi in cui la mano d’opera é a miglior mercato (Cina e Sud-Est asiatico, tanto per fare un esempio di attualità)" ("Il cinismo della borghesia decadente", Révue Internationale n.78, 1994.
Questo secondo aspetto della riduzione dei costi (trasferimento di certi passaggi della produzione verso dei paesi a basso costo salariale) si é accentuato negli anni '90. Vediamo così i capitalisti democratici far ricorso ai graditi servigi del regime stalinista cinese per produrre a costi derisori compact, scarpe sportive, dischi rigidi per PC, modem, etc. Il decollo dei cosiddetti "dragoni asiatici" é basato sul fatto che la fabbricazione di computer, componenti elettronici, tessuti, etc. si va spostando verso questi paradisi dai "costi salariali infimi''. Il capitalismo in crisi non esita a profittare fino in fondo delle differenze di costi salariali: "I costi salariali totali nell'industria dei differenti paesi in via di sviluppo che producono ed esportano manufatti ma anche servizi, varia dal 3% (Madagascar, Vietnam) ad un massimo del 40% rispetto alla media dei paesi più ricchi d'Europa. La Cina varia dal 5 al 16%, mentre l'India é sul 3%. Con il crollo del blocco sovietico, esiste oggi alle porte dell'Unione Europea una riserva di mano d'opera il cui costo oscilla dal 5% (Romania) al 20% (Polonia, Ungheria) rispetto ai costi tedeschi." (1)
Un primo risultato della "mondializzazione" è dunque il calo del salario medio mondiale, ma anche i licenziamenti massicci nei grandi centri industriali, senza che le perdite di posti di lavoro siano compensate dalla creazione di nuovi nelle nuove fabbriche ultra automatizzate. Questa perdita di potere di acquisto dei lavoratori non fa che aggravare la malattia cronica del capitalismo (l'insufficienza dei mercati), riducendo la domanda nei paesi industrializzati senza compensarla con una crescita corrispondente nelle economie sottosviluppate (2).
Per quanto riguarda la distruzione delle barriere doganali é certamente vero che paesi come India, Messico o Brasile sono stati obbligati dalla pressione dei grandi ad abbassare le loro tasse protezionistiche, con il risultato di indebitarsi massicciamente (una tattica simile fu utilizzata negli anni 70 e portò alla catastrofe della crisi di indebitamento nel 1982). Ma i vantaggi per il capitale internazionale sono del tutto illusori: "..il recente crollo finanziario di un altro paese "esemplare", il Messico, la cui moneta ha perso la metà del suo valore da un giorno all'altro, e che ha avuto bisogno dell'iniezione urgente di crediti per 50 milioni di dollari (di gran lunga la più grande operazione di salvataggio nella storia del capitalismo) mostra cosa c'é dietro il miraggio dello "sviluppo" di certi paesi del terzo mondo." ("Risoluzione sulla situazione internazionale", Rivista internazionale n. 19).
Nei fatti la "mondializzazione" non riduce, ma esaspera il protezionismo e l’intervento dello Stato rispetto agli scambi commerciali:
‑ lo stesso Clinton, che nel '95 ha obbligato il Giappone ad aprire le frontiere ai prodotti americani, che non smette mai di predicare ai suoi "associati" la "libertà di commercio", ha dato il buon esempio non appena eletto aumentando le tasse sugli aerei, l'acciaio ed i prodotti agricoli esteri e limitando inoltre alle agenzie statali l'acquisto di prodotti stranieri;
- il celebre Uruguay Round, che ha portato alla sostituzione del precedente GATT con l'attuale Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC), non ha ottenuto che risultati di facciata: le tasse sono state eliminate in soli dieci settori industriali, mentre sono state ridotte del 30% in otto altri comparti, e tutto questo non da subito ma scaglionato nello spazio di dieci anni!
‑ un'espressione evidente del neoprotezionismo si trova nelle norme ecologiche, sanitarie e "per la qualità della vita". I paesi industrializzati impongono così degli standards irraggiungibili per i loro concorrenti più deboli: "...nella nuova OMC, i gruppi industriali, le organizzazioni sindacali ed i militanti ecologisti lottano affinché quei beni collettivi che sono l'ambiente, il benessere sociale, etc. e le norme che li regolano non siano dettate dal mercato, ma dalla sovranità nazionale che su questi punti non può tollerare limitazioni" (3).
La formazione di "zone regionali" (Unione europea, accordi del Sud-Est asiatico, Trattato di libero commercio nell'America del Nord, etc.) non contraddicono questa tendenza, ma esprimono il bisogno di gruppi di nazioni capitaliste di formarsi delle zone protette a partire dalle quali sfidare i rivali. Gli USA hanno replicato all'Unione Europea con il Trattato di libero commercio ed il Giappone si é fatto promotore dell'accordo fra i "dragoni" asiatici. Questi "gruppi regionali" tentano di proteggersi dalla concorrenza esterna, ma non per questo eliminano gli scontri commerciali fra partners al loro interno, anzi. Per farsene un'idea basta pensare alla "armoniosa" coabitazione nell'Unione Europea.
Il dato di fatto é che le tendenze più aberranti sviluppatesi sul terreno della decomposizione del mercato mondiale continuano a rafforzarsi: "Oggi l'insicurezza monetaria su scala mondiale é arrivata a livelli tali che riappare sempre più spesso quella forma arcaica di commercio che é lo scambio, e cioè il passaggio di mano di merci in cambio di merci, senza ricorrere all'intermediario della moneta" ("Un'economia corrosa dalla decomposizione", Révue Internationale n.75, 1993).
Un altro tipo di trucco a cui ricorrono gli Stati é la svalutazione delle proprie monete che rende meno care le proprie merci aumentando contemporaneamente quelle dei concorrenti. Tutti i tentativi di impedire questo tipo di manovre sono finiti con un nulla di fatto ed il crollo del Sistema Monetario Europeo é lì a dimostrarlo.
La “mondializzazione”, un attacco ideologico contro la classe operaia
Abbiamo fin qui dimostrato che la "mondializzazione" é uno schermo ideologico destinato a nascondere il fallimento del capitalismo. Le ambizioni di questa "teoria" vanno tuttavia più lontano, visto che (nelle teorizzazioni dei "mondializzatori" più estremisti) dovrebbe superare e "distruggere" gli Stati Nazionali, e scusate se é poco! Uno dei suoi cantori più accreditati, il giapponese Kenichi Ohmae, ci assicura che: "...per riassumere, in termini di flussi reali di attività economica, gli Stati‑nazioni hanno già perduto il loro ruolo di unità significative di partecipazione all'economia senza frontiere del mondo attuale" (4). In più, non esita a qualificare gli Stati come dei "filtri brutali" e ci promette le delizie dell’economia globale: "A mano a mano che aumenterà il numero di individui che supererà il filtro brutale che separa le geografie, residuato della vecchia economia mondiale, il controllo sull'attività economica passerà inevitabilmente dalle mani dei governi centrali degli Stati‑nazioni a quelle delle reti senza frontiere delle innumerevoli decisioni individuali, basate sul mercato." (4).
Fino ad oggi solo il proletariato combatteva lo Stato‑nazione. Ma, come si vede, l'audacia dei nuovi pensatori borghesi non ha limiti: ecco che si proclamano militanti della "lotta contro l'interesse nazionale".
Comunque, é nel quadro dell'offensiva ideologica antiproletaria che questa "fobia" antinazionale gioca il suo ruolo principale, cercando di piazzare i lavoratori di fronte ad una falsa contrapposizione:
‑ da una parte le forze politiche che difendono in modo deciso la "mondializzazione" (in Europa sono i partigiani di Maastricht), sottolineano la necessità di "superare gli egoismi nazionali retrogradi" per integrarsi in "vasti insiemi mondiali" che permetteranno di uscire dalla crisi;
‑ dall'altra i partiti di sinistra (soprattutto quando sono all'opposizione) ed i sindacati cercano di legare la difesa degli operai alla difesa dell'interesse nazionale, che sarebbe messo sotto i piedi dai governi "traditori della patria".
I sostenitori della "mondializzazione" scagliano le loro folgori contro il "minimo sociale garantito", e cioè la previdenza sociale, le indennità di licenziamento, i sussidi di disoccupazione, le pensioni, gli sgravi per l'educazione o gli alloggi, i limiti all'orario di lavoro, ai ritmi, al lavoro minorile, etc. Ecco, in breve, gli "orribili" pesi di cui lo Stato-nazione non può sbarazzarsi, prigioniero come é di quegli "spaventosi" gruppi di pressione che sono i lavoratori. E questo ci porta al nòcciolo della “mondializzazione", una volta levate di mezzo tutte le chiacchiere tipo: "superamento della crisi" o "internazionalismo di liberi individui su liberi mercati". Questo non é altro che l'ennesimo alibi per l'attacco imposto dalla crisi del capitale a tutti gli Stati nazionali: farla finita con il "minimo sociale garantito", quest'insieme di legislazioni del lavoro e di misure previdenziali che il capitale non può più permettersi.
Qui interviene l'altro aspetto dell'attacco ideologico della borghesia, quello portato avanti da sinistra e sindacati. Negli ultimi 50 anni il "minimo sociale garantito" é stato il faro del cosiddetto Welfare State, la copertura "sociale" del capitalismo di Stato. (questo "Stato Sociale" é stato contrabbandato come la prova vivente delle capacità rispettive del capitalismo di "addolcirsi" e dello Stato di fungere da luogo di incontro in cui le esigenze di padroni ed operai potessero trovare un terreno di intesa). Sindacati e partiti di sinistra (in particolare quando sono all'opposizione) si spacciano per grandi difensori dello "Stato Sociale", contrapponendo "l'interesse nazionale" di mantenere un "minimo sociale" al "cosmopolitismo senza patria“ dei governi. Questo é stato d'altronde un elemento non secondario delle manovre della borghesia francese durante le lotte dell'autunno '95, quando l'intero movimento é stato presentato come una spontanea rivolta popolare contro Maastricht e le corrispondenti misure di rigore, il tutto ben canalizzato ed imbrigliato dai sindacati.
Le contraddizioni di Battaglia Comunista rispetto alla “mondializzazione”
Il compito dei gruppi della Sinistra Comunista (base del futuro partito mondiale del proletariato) é di denunciare senza ambiguità questo veleno ideologico. Il proletariato non ha nulla da scegliere fra "mondializzazione" ed "interessi nazionali". Le sue rivendicazioni non si basano sulla difesa del Welfare State, ma sul terreno dei suoi interessi di classe, e la difesa di questi interessi non passa per il socialpatriottismo o per il mondialismo, ma per la distruzione dello Stato capitalista di tutti i paesi.
La questione della "mondializzazione" é stata trattata da Battaglia Comunista ( BC ) a più riprese sulla sua rivista teorica semestrale, Prometeo. Battaglia difende con fermezza una serie di principi della Sinistra Comunista che vogliamo qui sottolineare:
‑ denuncia senza concessioni la "mondializzazione" come un feroce attacco contro la classe operaia, evidenziando come essa si basi “sull’impoverimento progressivo del proletariato mondiale e sullo sviluppo delle più violente forme di supersfruttamento” (5);
‑ rigetta l'idea per cui la "mondializzazione" sarebbe un superamento delle contraddizioni del capitalismo: “Qui ci interessa sottolineare che anche le più recenti modificazioni intervenute nel sistema economico mondiale sono per intero riconducibili nell’ambito del processo di concentrazione-centralizzazione del capitale segnando senza dubbio una nuova fase, ma non il superamento delle contraddizioni immanenti al processo di accumulazione del capitale.” (5);
‑ riconosce che le ristrutturazioni e le "innovazioni tecnologiche" introdotte negli anni '80 e '90 non hanno portato ad ampliamenti del mercato mondiale: “Contrariamente alle aspettative, la ristrutturazione basata sull’introduzione di tecnologie sostitutive di manodopera senza la nascita di nuove attività produttive compensative, anziché rilanciare il cosiddetto “circolo virtuoso” che era stato alla base del poderoso sviluppo dell’economia mondiale nella prima fase del capitalismo monopolistico, lo interrompe. Per la prima volta gli investimenti supplementari anziché dar luogo a una espansione della base produttiva e a una crescita totale dei processi produttivi, ne determinano la riduzione sia relativa che assoluta” (5);
‑ rigetta ogni illusione sulla "mondializzazione" come forma armonica e pianificata della produzione, affermando senza il minimo equivoco che “si assiste così al paradosso di un sistema che mentre persegue, mediante il monopolio, il massimo della razionalità porta all’irrazionalità al suo grado più elevato: tutti contro tutti; ogni capitale contro tutti i capitali; i capitali contro il capitale” (5);
‑ ricorda che “il suo abbattimento (del capitalismo) non è la risultante matematica delle contraddizioni del mondo dell’economia; ma è opera del proletariato che prende coscienza che questo non è il migliore dei mondi possibili” (5).
Noi sosteniamo queste prese di posizione e, partendo da questo accordo di base, vogliamo combattere qualche confusione e contraddizione che a nostro avviso sono presenti nelle posizioni di Battaglia. Non si tratta di una polemica gratuita, ma di una precisa preoccupazione militante: di fronte all'aggravarsi della crisi é fondamentale denunciare le teorie fumose del tipo "mondializzazione", il cui obiettivo é proprio quello di impedire la presa di coscienza del fatto che il capitalismo oggi é proprio "il peggiore dei mondi possibili" e deve essere spazzato via dalla faccia del pianeta.
La prima cosa che ci sorprende é che BC pensi che “grazie ai progressi della microelettronica, sia per quanto riguarda le telecomunicazioni che l’organizzazione dei cicli produttivi, il pianeta è stato di fatto unificato” (5). I compagni si fanno imbrogliare dalle idiozie propagandate dalla borghesia sul "miracolo unificatore" basato sulle telecomunicazioni ed Internet, dimenticando che: "...da un lato la formazione di un mercato mondiale internazionalizza la vita economica, influenzando profondamente la vita di tutti i popoli; ma dall'altro lato si sviluppa, sempre più accentuata, la nazionalizzazione degli interessi capitalisti, ciò che illustra nel modo più evidente l'anarchia della concorrenza capitalista nel quadro dell'economia mondiale e conduce a violente convulsioni e catastrofi, ad un'immensa perdita di energia, mettendo così imperativamente all'ordine del giorno l'organizzazione di nuove forme di vita sociale." (6).
Un’altra debolezza di BC sta nella sua strana scoperta per cui “l’allora presidente degli Stati Uniti Nixon quando assunse la storica decisione di denunciare gli accordi di Bretton Woods e di dichiarare l’inconvertibilità del dollaro non immaginava neppure lontanamente che stava dando il via a uno dei più giganteschi processi di trasformazione che avesse conosciuto il modo di produzione capitalistico in tutta la sua storia.” ( Prometeo n. 9)
Ora, non si può analizzare come causa (la famosa decisione del 1971 di dichiarare la non convertibilità del dollaro) quello che non é stato altro che un effetto dell'aggravarsi della crisi capitalista e che in ogni caso non ha assolutamente alterato "i rapporti di dominio imperialisti". L’economicismo di BC, che abbiamo già avuto l'occasione di criticare, la spinge ad attribuire un peso spropositato ad un avvenimento che di per sè non ebbe alcuna conseguenza nello scontro tra i blocchi imperialisti allora esistenti (sovietico ed occidentale).
In ogni caso, il principale pericolo di questa posizione é di lasciare uno spiraglio alla mistificazione borghese secondo cui il capitalismo attuale é capace di "cambiare e trasformarsi". Per il passato, BC ha avuto la tendenza ad essere scombussolata da qualsiasi "trasformazione importante" la borghesia ci facesse balenare sotto il naso. Si é già lasciata sedurre dalle "novità" della "rivoluzione tecnologica", poi dal miraggio dei sedicenti favolosi mercati aperti dalla "liberazione" dei paesi dell'Est. Oggi prende per oro sonante alcune delle mistificazioni contenute nella cagnara intorno alla "mondializzazione": "Il passaggio alla centralizzazione della gestione delle variabili macroeconomiche su base continentale o per aree valutarie, per esempio, comporta per forza di cose una diversa distribuzione dei capitali nei vari settori produttivi e fra questi e quello finanziario. Non solo la piccola e media impresa, ma anche gruppi di grandi dimensioni rischiano di essere marginalizzati o assorbiti da altri con relativo declino delle rispettive posizioni di potere. Per molti paesi ciò può comportare rischi di frattura della stessa unità nazionale, come insegna la vicenda della ex Jugoslavia e dell'ex blocco sovietico. I rapporti di forza tra i diversi settori della borghesia mondiale sono destinati a profondi mutamenti e pertanto a generare, per un lungo periodo di tempo, un inasprimento della tensione e dei conflitti, con evidenti riflessi sugli stessi processi di mondializzazione dell'economia che potranno rallentare, quando non addirittura bloccarsi" (Prometeo n. 10, “Lo Stato a due dimensioni: la mondializzazione dell’economia e lo Stato”).
Bisogna dire che si é un tantino sconcertati nello scoprire che le tensioni imperialiste, il crollo delle nazioni, la guerra nella ex Jugoslavia, non si spiegano con la decadenza e la decomposizione del capitalismo, con l'aggravarsi della sua crisi storica, ma che sarebbero dei fenomeni interni al processo di "mondializzazione"! BC qui scivola dal quadro di analisi proprio alla Sinistra Comunista (decadenza e crisi storica del capitalismo) al quadro ideologico borghese della "mondializzazione". E' per contro essenziale che i gruppi della Sinistra Comunista non cedano a queste mistificazioni e mantengano fermamente la posizione rivoluzionaria, che afferma che nella decadenza, e più concretamente nel periodo di crisi aperta a partire dalla fine degli anni '60, i diversi tentativi del capitalismo di frenare il suo degrado non hanno prodotto alcun cambiamento reale, ma unicamente ed esclusivamente un aggravarsi ed accelerarsi del degrado stesso (7). Nella nostra risposta al BIPR nella Révue Internationale n.82, affermiamo chiaramente che noi non vogliamo ignorare questi tentativi, vogliamo al contrario analizzarli nel quadro delle posizioni della Sinistra Comunista, ma senza abboccare all'amo che di volta in volta ci tende la borghesia.
“Mondializzazione” e Stato nazionale
Il rischio insito nelle contraddizioni di BC appare in tutta la sua gravità a proposito del ruolo degli Stati nazionali, che in seguito alla "mondializzazione" sarebbe profondamente alterato ed indebolito. BC non arriva certo a sostenere, come il samurai Kenichi Ohmae, che lo Stato nazionale sia in caduta libera, ed infatti mantiene tutta una serie di discriminanti che noi condividiamo:
‑ lo Stato nazionale conserva la stessa natura di classe;
‑ é un fattore attivo dei "cambiamenti" in atto nel capitalismo odierno;
‑ non é entrato in crisi.
Ciononostante si afferma: "Sicuramente uno degli aspetti più interessanti della mondializzazione dell'economia (..) é dato dalla tendenza all'integrazione trasversale e transnazionale di grandi concentrazioni industriali che per dimensioni e potere superano di gran lunga quello degli Stati nazionali." (Prometeo n° 10).
Ciò che si può dedurre da questi "aspetti interessanti" é che nel capitalismo esisterebbero delle entità superiori agli Stati nazionali, i famosi monopoli "transnazionali". Si tratta di una vecchia tesi revisionista che si oppone al principio marxista per cui l'unità suprema del capitalismo é rappresentata dallo Stato, dal capitale nazionale. Il capitalismo non può superare il quadro della nazione, ancor meno diventare internazionalista. Il suo "internazionalismo", come abbiamo visto, consiste nella pretesa di dominare le nazioni rivali o di conquistare la fetta più grande possibile del mercato mondiale.
Nell'editoriale di Prometeo n. 9 vediamo confermata questa revisione del marxismo: “Le multinazionali produttive e/o finanziarie superano per potenza e per interessi economici in gioco le varie formazioni statali che attraversano. Il fatto che le banche centrali dei diversi stati non siano in grado di reggere e contrastare le ondate speculative che un pugno di mostruosi gruppi finanziari scatenano giornalmente, dice molto del mutato rapporto fra gli stati stessi”.
Dobbiamo ricordare che questi poveri Stati impotenti sono appunto quelli che possiedono (o quantomeno controllano completamente) questi giganti finanziari? É' proprio necessario rivelare a BC che questo "pugno di mostri" é costituito da "rispettabili" istituzioni bancarie i cui responsabili sono nominati direttamente o indirettamente dai rispettivi Stati nazionali?
Non solo BC abbocca all'amo di questa pretesa opposizione fra Stati e multinazionali, ma va ancora più lontano e scopre che: “per questa ragione capitali sempre più grandi... hanno dato luogo alla nascita di colossi che controllano ormai l’intera economia mondiale. Basti pensare che mentre dagli anni trenta fino a tutti gli anni settanta, i cosiddetti Big Three, ovvero le tre più grandi imprese del mondo erano tre case automobilistiche: le statunitensi General Motors, Chrysler e Ford; oggi sono tre fondi pensioni anche essi statunitensi: Fidelity Investments, Vanguard group e Capital Research & Mamagement. Il potere accumulato da queste società finanziarie è immenso e travalica di gran lunga quello dei singoli stati che di fatto hanno perduto negli ultimi dieci anni qualunque capacità di controllo dell’economia mondiale” (Prometeo n° 9).
Vale la pena di ricordare che durante gli anni '70 il mito delle famose multinazionali andava fortissimo: gli extraparlamentari ci ripetevano continuamente che il capitale era "transnazionale" e che per questo la "grande rivendicazione" operaia doveva essere la difesa dell'autonomia nazionale contro un "pugno di apolidi". Battaglia, ovviamente, si contrappone con forza a simili mistificazioni, ma, in qualche modo, ne ammette una giustificazione "teorica", nella misura in cui riconosce la possibilità di un'opposizione, o quanto meno di una divergenza di fondo di interessi tra Stati e monopoli "trasversali agli Stati nazionali" (per usare la definizione della stessa BC).
In realtà le multinazionali sono strumenti dei loro Stati nazionali. IBM, General Motors, Exxon, etc. sono controllate con tutta una serie di fili dallo Stato americano: una percentuale importante della loro produzione (il 40% per l'IBM) é acquistata direttamente dallo Stato, che influisce direttamente o indirettamente sulla nomina dei direttori (8). Una copia di ogni nuovo prototipo informatico é obbligatoriamente inviata al Pentagono. E' proprio incredibile che BC abbocchi alla menzogna del superpotere planetario costituito dai primi tre Fondi di Investimento. In primo luogo le società di investimento non hanno un'autonomia reale, ma sono strumenti delle banche, delle casse di risparmio e di varie propaggini statali, come i sindacati, le casse di previdenza, etc. In secondo luogo, sono sottomesse ad una stretta regolamentazione da parte dello Stato, che fissa le percentuali che debbono investire in azioni, obbligazioni, buoni del Tesoro, titoli esteri, etc.
“Mondializzazione” e capitalismo di Stato
Tutto questo ci porta alla questione essenziale, quella del capitalismo di Stato. Uno dei tratti essenziali del capitalismo decadente risiede nella concentrazione del capitale nelle mani dello Stato, che diventa l'entità intorno alla quale ogni capitale nazionale si organizza per lo scontro, tanto contro il proprio proletariato che contro gli altri capitali nazionali. Gli Stati non sono strumenti delle imprese, per grandi che queste ultime possano essere. Nel capitalismo decadente é esattamente il contrario a verificarsi: i grandi monopoli, le banche si sottomettono ai diktat dello Stato e ne assecondano il più possibile gli orientamenti. L'esistenza nel capitalismo di poteri sovranazionali che “attraversano" gli Stati e gli ordinano la politica da seguire é impossibile. Al contrario, le multinazionali sono utilizzate dai rispettivi Stati come strumenti al servizio dei loro interessi commerciali ed imperialisti. Sia chiaro che noi non vogliamo assolutamente dire che grandi imprese come la Ford o la Exxon siano pure e semplici marionette nelle mani dei loro Stati. E' certamente vero che cercano di promuovere e difendere i loro interessi particolari, i quali, a volte, possono entrare in contraddizione con quelli del loro Stato. Ma é anche vero che nel capitalismo di Stato "alla occidentale" si é realizzata una reale fusione fra capitale privato e statale, in modo che globalmente, al di là dei conflitti e delle contraddizioni interne che non possono mancare, essi agiscono sempre in modo coerente in difesa degli interessi nazionali del capitale e sotto la bandiera del loro Stato.
BC obietta che é difficile determinare a quale Stato appartenga, per esempio, la Shell (a capitale anglo‑olandese) o altre multinazionali ad azionariato misto. A parte il fatto che si tratta di casi abbastanza eccezionali, insignificanti a livello del capitale mondiale, il fatto fondamentale é che non sono i titoli di proprietà a determinare veramente chi controlla una compagnia. Nel capitalismo di Stato, é lo Stato che dirige e determina il funzionamento delle imprese, anche se non ne detiene ufficialmente neanche un'azione. E' lui che regola i prezzi, i contratti collettivi, i tassi di esportazione, i tassi di produzione, etc. E' lui che condiziona le vendite delle imprese, di cui é spesso il principale cliente. E' lui che tiene le cose in pugno e, attraverso la politica monetaria, creditizia e fiscale, dirige l'evoluzione del "libero mercato". Battaglia trascura questo aspetto essenziale dell'analisi marxista sulla decadenza del capitalismo e preferisce restare fedele ad un aspetto parziale dello sforzo di Lenin ed altri rivoluzionari della sua epoca per comprendere tutta l'ampiezza della questione dell'imperialismo: la teoria sul capitale finanziario, che Lenin riprese dall' "austro‑marxista" Hilferding. Nel suo libro sull'argomento, Lenin individua chiaramente l'imperialismo come fase decadente del capitalismo, ciò che mette all'ordine del giorno la rivoluzione proletaria. Purtroppo lo caratterizza sulla base dello sviluppo del capitale finanziario come mostro parassita emergente dal processo di concentrazione del capitale, ulteriore fase di sviluppo dei monopoli.
Ma in realtà: "... numerosi aspetti della definizione di Lenin dell'imperialismo oggi sono inadeguati, ed alcuni lo erano anche nel momento in cui furono elaborati. Nei fatti il periodo in cui il capitale sembrava essere dominato da un'oligarchia del "capitale finanziario e dai 'cartelli dei monopoli internazionali" cedeva già il passo ad una nuova fase nel corso della prima guerra mondiale, l’era del capitalismo di Stato, dell'economia di guerra permanente. In un'epoca di continue rivalità interimperialiste sul mercato mondiale, il capitale tende tutto a concentrarsi intorno all'apparato di Stato che sottomette e disciplina ai bisogni della sopravvivenza militare/economica tutte le frazioni particolari del capitale." ("Sull'imperialismo", Révue Internationale n° 19, 1979.
Quello che in Lenin era un errore legato al difficile processo di comprensione dell'imperialismo, nelle mani di BC rischia di diventare una pericolosa aberrazione. In primo luogo, la teoria della "concentrazione in super monopoli transnazionali" va nella direzione opposta alla posizione marxista sulla concentrazione nazionale del capitale in seno allo Stato, sulla tendenza al capitalismo di Stato, a cui partecipano tutte le frazioni della borghesia, quali che siano i loro legami e ramificazioni a livello internazionale. In secondo luogo, questa teoria apre uno spiraglio verso la teoria del "super‑imperalismo" di Kautsky. In effetti, é sorprendente che BC critichi la teoria kautskiana solo per l'illusione di superare l'anarchia della produzione, senza criticarla sull'essenziale: l'illusione che il capitale possa unirsi al di sopra delle barriere nazionali. Questa critica parziale si spiega col fatto che Battaglia ammette l'esistenza di unità sopranazionali, anche se rigetta, giustamente, la tesi estrema della "fusione delle nazioni". In terzo luogo, Battaglia sviluppa l'idea che lo Stato nel quadro della "mondializzazione" avrebbe due dimensioni: una in difesa degli interessi multinazionali, e l'altra subordinata, al servizio degli interessi nazionali: "Si va delineando in maniera sempre più marcata uno Stato che articola il suo intervento nel mondo dell'economia su due livelli: uno che afferisce al centro sovranazionale preposto alla gestione centralizzata della massa monetaria ed alla determinazione delle variabili macroeconomiche per l'area valutaria di riferimento, ed uno locale di controllo della compatibilità di queste ultime con quelle nazionali" (Prometeo n° 10).
Battaglia fa veramente camminare il mondo sulla testa! Basta osservare le peripezie dell'Unione Europea per convincersi del contrario: ogni Stato nazionale pensa esclusivamente agli interessi del proprio capitale nazionale e non si comporta in alcun modo come una specie di "delegato" degli interessi "europei", come farebbero credere le formulazioni ambigue di BC. Lasciandosi trascinare dalle proprie speculazioni sugli interessi "transnazionali" questi compagni arrivano a conclusioni incredibili: i conflitti interimperialisti attuali non degenererebbero in guerra imperialista generalizzata perché, “... una volta scomparso il confronto tra blocco dell’Ovest e blocco dell’Est per implosione di quest’ultimo, non sono precisati con chiarezza i fondamenti di un nuovo confronto strategico. Gli interessi strategici dei grandi e veri centri del potere economico non si sono finora espressi in confronto strategico tra Stati, perché agiscono trasversalmente a questi” (Prometeo n° 9).
Questa é una confusione veramente grave. La guerra imperialista non sarebbe più uno scontro fra capitali nazionali armati fino ai denti (secondo la definizione di Lenin), bensì fra gruppi transnazionali che si servirebbero degli Stati nazionali. Questi ultimi non sarebbero più i protagonisti e responsabili della guerra, ma semplici agenti di mostri transnazionali che "li attraverserebbero". E' una fortuna che BC non vada fino in fondo in questa aberrazione. E' una fortuna, perché questo la condurrebbe a sostenere che la lotta proletaria contro la guerra imperialista non deve essere più lotta contro gli Stati nazionali, ma lotta per "liberare" questi ultimi dall'abbraccio degli interessi transnazionali. Che é poi quello che già dicono i demagoghi dell'estrema sinistra più o meno extraparlamentare.
Su queste cose bisogna essere seri e Battaglia deve essere coerente con il quadro di posizioni della Sinistra Comunista, facendo una critica a fondo delle sue speculazioni sui monopoli ed i mostri finanziari. Deve radicalmente eliminare dalle sue parole d'ordine aberrazioni come “si inaugura una nuova era caratterizzata dalla dittatura del mercato finanziario” (Prometeo n° 9). Queste debolezze prestano il fianco alla penetrazione di mistificazioni borghesi come la "mondializzazione" o come le pretese alternative fra interessi nazionali ed interessi transnazionali, fra Maastricht e gli interessi popolari, tra il Trattato per il Libero Commercio e gli interessi dei popoli oppressi.
Tutto questo potrebbe condurre BC a difendere qualcuna fra le tesi e le mistificazioni della classe dominante, contribuendo così all'indebolimento della coscienza e della lotta operaia. E' non é sicuramente questo il ruolo di un'organizzazione rivoluzionaria del proletariato.
Adalen
1) Annuario Mondiale l996, "Impiego ed ineguaglianza".
2) "Questo sviluppo economico non può non influenzare in tempi brevi la produzione dei paesi più industrializzati, i cui Stati si indignano delle pratiche commerciali "sleali" di queste economie emergenti" ("Risoluzione sulla situazione internazionale", Rivista internazionale n° 19)
3) Annuario Mondiale l996, "Cosa cambierà con l'OMC"
4) K. Ohmae, "Lo sviluppo delle economie regionali".
5) Prometeo n.9, "I capitali contro il capitale".
6) N. Buckarin, "L'economia mondiale e l'imperialismo".
7) La desolante incoerenza di BC appare chiaramente quando dichiara; “In realtà il capitalismo è sempre uguale a se stesso e non sta facendo altro che organizzarsi in chiave di autoconservazione secondo le linee di sviluppo dettate dalla legge della caduta tendenziale del saggio medio del profitto”. Prometeo n.9.
8) Molti uomini politici americani, ma anche europei, dopo aver occupato posti al Senato o nell'amministrazione statale, diventano dirigenti delle grandi multinazionali.
Assieme alla lotta del bolscevismo contro il menscevismo all'inizio del secolo, il confronto fra il marxismo e l'anarchismo nella Prima Internazionale - l'Associazione Internazionale dei Lavoratori (AIL)- costituisce probabilmente l'esempio più illustre della difesa dei principi organizzativi proletari nelle storia del movimento operaio. E’ essenziale per i rivoluzionari di oggi - che sono separati da mezzo secolo di controrivoluzione staliniana dalla storia organizzativa vivente della loro classe- riappropriarsi delle lezioni di questa esperienza. Questo articolo si concentrerà sulla “preistoria” di questa battaglia al fine di mettere in evidenza come Bakunin sia arrivato a concepire la presa del controllo del movimento operaio mediante una organizzazione segreta sotto il suo personale controllo. Mostreremo altresì come questa concezione di Bakunin lo abbia inevitabilmente condotto ad essere manipolato dalla classe dominante allo scopo di distruggere l’AIL. E mostreremo ancora le radici fondamentalmente antiproletarie delle concezioni di Bakunin proprio sul piano organizzativo.
IL SIGNIFICATO STORICO DELLA LOTTA DEL MARXISMO CONTRO L'ANARCHISMO ORGANIZZATIVO
L'AIL si è spenta soprattutto a causa della lotta tra Marx e Bakunin, lotta che, al Congresso dell'Aia del 1872, ha trovato la sua prima conclusione con l'esclusione di Bakunin e del suo braccio destro, James Guillaume. Ma ciò che gli storici borghesi presentano come uno scontro tra personalità - e gli anarchici come una lotta tra la versione “autoritaria” e quella "libertaria" del socialismo- era in realtà una lotta dell'insieme dell'AIL contro coloro che ne avevano beffato gli statuti. Bakunin et Guillaume all'Aia furono esclusi perché avevano costituito una “fratellanza” segreta in seno all'AIL, un'organizzazione nell'organizzazione avente una struttura e degli statuti propri. Questa organizzazione, la sedicente “Alleanza per la democrazia socialista”, aveva un'esistenza ed un'attività nascoste ed il suo fine era quello di togliere l'AIL dal controllo dei suoi membri e di porla sotto quello di Bakunin.
UNA LOTTA A MORTE TRA DIVERSE POSIZIONI ORGANIZZATIVE
La lotta che si è svolta nell'AIL non era dunque una lotta fra l'“autorità” e la “libertà”, ma piuttosto fra principi organizzativi completamente opposti ed inconciliabili.
1) Da un lato vi era la posizione, difesa nella maniera più determinata da Marx e da Engels ma che era anche quella dell'insieme del Consiglio Generale e della grande maggioranza dei membri dell’AIL, secondo la quale una organizzazione proletaria non può dipendere dalla volontà degli individui, dai capricci dei “compagni dirigenti”, ma deve funzionare secondo regole obbligatorie sulle quali tutti sono d'accordo e che sono valide per tutti: gli statuti. Gli statuti devono garantire il carattere unitario, centralizzato, collettivo di una tale organizzazione, permettere che i dibattiti politici prendano una forma aperta e disciplinata e che le decisioni prese riguardino tutti i suoi membri. Chiunque è in disaccordo con le decisioni dell'organizzazione o non è più d'accordo con dei punti degli statuti, ecc., ha non solo la possibilità ma anche il dovere di presentare le sue critiche apertamente di fronte all'insieme dell'organizzazione, ma nel quadro previsto a questo fine. Questa concezione organizzativa che l'Associazione Internazionale dei Lavoratori ha sviluppato per se stessa corrispondeva al carattere collettivo, unitario e rivoluzionario del proletariato.
2) Dall'altro lato Bakunin rappresentava la visione elitista piccolo-borghese dei “capi geniali” la cui chiarezza politica e la cui straordinaria determinazione avrebbero dovuto garantire la "passione" e la traiettoria rivoluzionarie. Questi capi si consideravano dunque "moralmente giustificati" a raccogliere e organizzare i loro discepoli all’insaputa dell'organizzazione al fine di prenderne il controllo e di assicurare che questa compisse la loro missione storica. Poiché l'insieme dei membri è considerato troppo stupido per capire la necessità di simili messia rivoluzionari, essi devono essere condotti a fare ciò che si considera essere "buono per loro" senza che ne siano coscienti e perfino contro la loro volontà. Gli statuti, le decisioni sovrane dei congressi o degli organi eletti valgono per gli altri, ma non per l’élite.
Questo era il punto di vista di Bakunin. Prima di raggiungere l'AIL, egli ha spiegato ai suoi discepoli perché l'AIL non era una organizzazione rivoluzionaria: i proudhoniani erano diventati riformisti, i blanquisti erano invecchiati ed il Consiglio Generale, dominato secondo loro dai tedeschi, era assieme a questi "autoritario". E' interessante vedere come Bakunin considerava l'AIL come la somma delle sue parti. Secondo Bakunin, ciò che mancava prima di tutto era la "volontà" rivoluzionaria. E' questo che l'Alleanza voleva assicurare passando sopra i programmi e gli statuti e ingannando i suoi membri.
Per Bakunin, l'organizzazione che il proletariato aveva forgiato, che aveva costruito nel corso di anni di lavoro accanito, non valeva niente. Per lui ciò che avevano significato erano le sette cospiratrici che egli stesso aveva creato e controllato. Non era l'organizzazione di classe che lo interessava, ma il suo proprio ruolo personale e la propria reputazione, la sua propria "libertà" anarchica o ciò che oggi si chiama la "realizzazione di sé". Per Bakunin ed i suoi simili il movimento operaio non era nient'altro che il tramite per la realizzazione della loro individualità e dei loro progetti.
SENZA ORGANIZZAZIONE RIVOLUZIONARIA, NIENTE MOVIMENTO OPERAIO RIVOLUZIONARIO
Marx ed Engels, al contrario, sapevano ciò che vuole dire la costruzione dell'organizzazione per il proletariato. Mentre i libri di storia pretendono che il conflitto fra Marx e Bakunin era essenzialmente di natura politica generale, la storia reale dell'AIL rivela, innanzitutto, una lotta per l'organizzazione. Qualcosa che è particolarmente noioso per gli storici borghesi, ma che per noi, al contrario, è estremamente importante e ricco di lezioni. Ciò che ci mostra Marx è che senza organizzazione rivoluzionaria non può esserci né movimento di classe rivoluzionario, né teoria rivoluzionaria.
Nei fatti, l'idea che la solidità, lo sviluppo e la crescita organizzativa sono dei prerequisiti per lo sviluppo programmatico del movimento operaio, si trova alla base stessa dell'attività politica di Marx e di Engels (1). I fondatori del socialismo scientifico sapevano bene che la coscienza della classe proletaria non può essere il prodotto di individui, ma richiede un quadro organizzato e collettivo. E' per questo che la costruzione dell'organizzazione rivoluzionaria è uno dei compiti più importanti e difficili del proletariato.
LA LOTTA A PROPOSITO DEGLI STATUTI
In nessuna altra occasione Marx ed Engels hanno lottato con tanta determinazione e in maniera così fruttuosa per la comprensione di questa questione come nei ranghi dell'AIL. Fondata nel 1864, l'AIL è sorta in un'epoca in cui il movimento operaio organizzato era ancora principalmente dominato da ideologie e sette piccolo-borghesi e riformiste. Ai suoi inizi, l'Associazione Internazionale dei Lavoratori si componeva di differenti tendenze. Al suo interno avevano un ruolo preponderante i rappresentanti opportunisti delle trade-unions inglesi, del proudhonismo riformista piccolo-borghese dei paesi latini, del blanquismo cospirativo e, in Germania, della setta dominata da Lassalle. Benché i vari programmi e le differenti visioni fossero opposte le une alle altre, i rivoluzionari dell'epoca erano sotto la pressione enorme del raggruppamento della classe operaia che reclamava l'unità. Durante la prima riunione a Londra, quasi nessuno aveva la minima idea del modo in cui questo raggruppamento poteva avvenire. In questa situazione, gli elementi veramente proletari con Marx in testa hanno lavorato per rimandare temporaneamente la chiarificazione teorica fra i differenti gruppi. I lunghi anni di esperienza politica dei rivoluzionari e l'ondata internazionale delle lotte dell'insieme della classe dovevano essere utilizzati per forgiare l'organizzazione unitaria. L'unità internazionale di questa organizzazione, incarnata dai suoi organi centrali - in particolare dal Consiglio Generale - e dagli statuti che dovevano essere accettati da tutti i membri, doveva permettere all'AIL di chiarificare, passo dopo passo, le divergenze politiche e di raggiungere un punto di vista unificato.
Il contributo più decisivo del marxismo alla fondazione dell’AIL risiede dunque chiaramente a livello della questione organizzativa. Le diverse sette presenti alla riunione di fondazione non erano in grado di concretizzare la volontà di legami internazionali che gli operai inglesi e francesi, per primi, reclamavano. Il gruppo borghese Atto di fratellanza, adepto di Mazzini, voleva imporre gli statuti cospirativi di una setta segreta. L'"Indirizzo inaugurale" presentato da Marx in qualità di delegato del comitato organizzativo difendeva il carattere proletario e unitario dell'organizzazione e stabiliva la base indispensabile per un ulteriore lavoro di chiarificazione. Se l’AIL ha potuto, in seguito, andare più lontano e superare le visioni cospiratrici, settarie, piccolo-borghesi ed utopiste, è perché, in primo luogo, le sue correnti, in maniera più o meno disciplinata, si sono sottomesse a delle regole comuni.
La specificità dei bakuninisti è consistita viceversa nel rifiuto di rispettare gli statuti. E’ per questo che l'Alleanza di Bakunin doveva distruggere il primo partito del proletariato. La lotta contro l'Alleanza è rimasta nella storia come il grande confronto fra marxismo e anarchismo. E' certo così, ma al centro di questo scontro non c’erano questioni politiche generali quali i rapporti con lo Stato, ma principi organizzativi.
I proudhoniani, ad esempio, condividevano molti dei punti di vista di Bakunin, ma essi erano per la chiarificazione delle loro posizioni secondo le regole dell'organizzazione. Essi ritenevano che gli statuti dell'organizzazione dovessero essere rispettati da tutti i membri senza eccezione. E' su questa base che i "collettivisti" belgi in particolare sono stati capaci di avvicinarsi al marxismo su diverse questioni importanti. Il loro portavoce più conosciuto, De Paepe, era uno dei principali combattenti contro il tipo di organizzazione segreta che Bakunin credeva necessaria.
LA FRATELLANZA SEGRETA DI BAKUNIN
Questa questione si trovava proprio al centro della lotta dell’AIL contro Bakunin. Anche gli storici anarchici ammettono il fatto che quando questi ha raggiunto l’AIL nel 1869, disponeva di una fratellanza segreta con la quale voleva prendere il controllo dell’AIL.
"Ecco una società che, sotto la maschera dell'anarchismo più oltranzista, dirige i suoi colpi non contro i governi esistenti, ma contro i rivoluzionari che non accettano la sua ortodossia, né la sua direzione. Fondata dalla minoranza di un congresso borghese, essa si intrufola nei ranghi dell'organizzazione internazionale della classe operaia, tenta all'inizio di tenerla in pugno e lavora poi per disorganizzarla quando vede che il suo piano fallisce. Essa sostituisce sfrontatamente il suo programma settario e le sue idee ristrette al largo programma, alle grandi aspirazioni della nostra Associazione; organizza nelle sezioni pubbliche dell'Internazionale le sue piccole sezioni segrete che, obbedendo alle stesse parole d'ordine, in molti casi riescono a dominare le sezioni pubbliche tramite la loro azione concertata; attacca pubblicamente, nei suoi giornali, tutti gli elementi che rifiutano di assoggettarsi alla sua volontà; provoca la guerra aperta ‑si tratta delle sue stesse parole‑ nei nostri ranghi". Tali sono i termini del rapporto "Un complotto contro l'Internazionale", documento pubblicato su ordine del Congresso Internazionale dell'Aia del 1872.
La lotta di Bakunin e dei suoi amici contro l'Internazionale era contemporaneamente il prodotto della situazione storica specifica dell'epoca e di fattori più generali che esistono anche oggi. Alla base delle sue attività si trova l'infiltrazione dell'individualismo e dello spirito fazioso piccolo-borghesi, incapaci di sottomettersi alla volontà e alla disciplina dell'organizzazione. A questo si aggiunge l'atteggiamento cospirativo della bohème declassata che non poteva fare a meno di intrighi e complotti al fine del perseguimento di scopi personali. Il movimento operaio si è sempre scontrato con simili atteggiamenti perché l'organizzazione non può mai mettersi completamente al riparo dall'influenza delle altre classi della società. D'altro lato il complotto di Bakunin ha preso la forma storica concreta di una organizzazione segreta di un tipo che apparteneva al passato del movimento operaio dell'epoca. Dobbiamo studiare la storia concreta di Bakunin per comprendere quegli aspetti di carattere generale che sono importanti anche per noi, ai giorni nostri.
IL BAKUNINISMO SI OPPONE ALLA ROTTURA DEL PROLETARIATO CON IL SETTARISMO PICCOLO-BORGHESE
La fondazione dell’AIL, segnando la fine del periodo di controrivoluzione aperto nel 1849, provocò delle reazioni di paura e di odio estremamente forti (secondo Marx perfino esagerate) nelle classi dominanti: fra i resti dell'aristocrazia feudale e, soprattutto, da parte della borghesia in quanto nemica storica diretta del proletariato. Furono inviati spie e agenti provocatori per infiltrare i suoi ranghi. Furono montate contro di essa campagne coordinate di calunnie spesso isteriche. Le sue attività furono impedite o anche represse dalla polizia ogni volta che era possibile. I suoi membri erano sottoposti a processi e gettati in galera. Ma tutte queste misure risultavano inefficaci perché la lotta di classe e l'attività rivoluzionaria continuavano a svilupparsi. Solo con la disfatta della Comune di Parigi cominciò a prendere il sopravvento lo scompiglio nei ranghi della I Internazionale.
Ciò che allarmava maggiormente la borghesia, a parte l'unificazione internazionale del suo nemico, era la crescita del marxismo e il fatto che il movimento operaio abbandonasse la forma settaria di organizzazione clandestina e divenisse un movimento di massa. La borghesia si sentiva ben più sicura quando il movimento operaio rivoluzionario prendeva la forma di raggruppamenti settari, segreti e chiusi, attorno ad un'unica figura dirigente, che rappresentavano uno schema utopistico, da complotto, più o meno completamente isolati dal proletariato nel suo insieme. Tali sette potevano essere sorvegliate, infiltrate, deviate e manipolate molto più facilmente di un'organizzazione di massa la cui forza e la cui principale sicurezza risiedono nell'ancoraggio all'insieme della classe operaia. Per la borghesia ciò che rappresentava un pericolo per il suo dominio di classe era innanzitutto la prospettiva dell'attività socialista rivoluzionaria verso il proletariato come classe, cosa che le sette del periodo precedente non potevano assumere. Il legame fra il socialismo e la lotta di classe, fra il Manifesto Comunista e i vasti movimenti di sciopero, fra gli aspetti economici e quelli politici della lotta di classe del proletariato è proprio quello che ha causato tante notti insonni alla borghesia a partire dal 1864. E' questo che spiega la crudeltà incredibile con la quale la borghesia ha massacrato la Comune di Parigi come la solidarietà internazionale di tutte le frazioni della classe sfruttatrice con questo massacro.
Così uno dei temi principali della propaganda borghese contro la I Internazionale era l'accusa secondo la quale dietro l’AIL ci sarebbe stata una potente organizzazione segreta che avrebbe cospirato per abbattere l'ordine dominante. Dietro questa propaganda, che costituiva una scusa ulteriore per le misure di repressione, c'era anzitutto il tentativo di convincere gli operai che ciò che temeva di più la borghesia erano i cospiratori piuttosto che i movimenti di massa. Le classi sfruttatrici fecero di tutto per incoraggiare le differenti sette ed i vari cospiratori, che erano ancora attivi nel movimento operaio, a svilupparsi a spese del marxismo e del movimento di massa. In Germania, Bismarck incoraggiò la setta lassalliana a resistere ai movimenti di massa della classe e alle tradizioni marxiste della Lega dei Comunisti. In Francia la stampa, ma anche agenti provocatori, tentarono di attizzare la sfiducia già esistente dei cospiratori blanquisti nei confronti dell'attività di massa dell'AIL. Nei paesi slavi e latini fu lanciata una campagna isterica contro un cosiddetto "dominio tedesco" dell'AIL operato da "marxisti che adorano lo stato autoritario".
Ma fu prima di tutto Bakunin a sentirsi incoraggiato da questa propaganda. Prima del 1864 Bakunin aveva riconosciuto, suo malgrado, almeno parzialmente la superiorità del marxismo sulla sua visione putschista e piccolo-borghese del socialismo rivoluzionario. Dopo la fondazione dell'AIL e con l'assalto politico della borghesia contro di essa, Bakunin si sentì confermato e rafforzato nella sua sfiducia verso il marxismo e il movimento proletario. In Italia, che era divenuto il centro delle sue attività, le diverse società segrete ‑ i carbonari, Mazzini, la Camorra, ecc.‑ che avevano cominciato a denunciare l'AIL e a combattere la sua influenza nella penisola, acclamarono Bakunin come un "vero" rivoluzionario. Ci furono dichiarazioni pubbliche che chiedevano a Bakunin di prendere la direzione della rivoluzione proletaria europea. Il panslavismo di Bakunin era salutato come il naturale alleato dell'Italia contro l'occupazione delle forze austriache. In contrapposizione si faceva presente che Marx considerava l'unificazione della Germania più importante di quella dell'Italia come fattore per lo sviluppo della rivoluzione in Europa. Le autorità italiane così come le parti più chiaroveggenti delle autorità svizzere cominciarono allora a tollerare con benevolenza la presenza di Bakunin mentre prima egli era stato vittima della repressione statale europea più brutale.
Il dibattito organizzativo sulla questione della cospirazione
Michail Bakunin, figlio di gente piuttosto povera, ruppe con il suo ambiente e la sua classe a causa di una grande sete di libertà personale, cosa che all'epoca non poteva raggiungere né nell'esercito né nella burocrazia statale, né nella proprietà terriera. Questa motivazione mostra già la distanza che separava la sua carriera politica dal carattere collettivo e disciplinato della classe operaia. All'epoca il proletariato in Russia era appena esistente. Quando, agli inizi degli anni '40, Bakunin arrivò in Europa come rifugiato politico recante con sé già una storia di cospirazioni politiche, fervevano già nel movimento operaio i dibattiti sulle questioni organizzative e particolarmente in Francia.
Il movimento operaio rivoluzionario era allora organizzato principalmente sottoforma di società segrete. Questa forma era sorta non solo perché le organizzazioni operaie erano fuori legge, ma anche perché il proletariato, ancora numericamente debole e appena uscito dall’artigianato piccolo-borghese, non aveva trovato ancora la via che gli era propria. Come scrive Marx a proposito della situazione in Francia:
"Si sa che fino al 1830, i borghesi liberali erano alla testa delle congiure contro la Restaurazione. Dopo la Rivoluzione di Luglio, i borghesi repubblicani presero il loro posto; il proletariato, già preparato alla cospirazione sotto la Restaurazione, apparve in prima linea nella misura in cui i borghesi repubblicani, spaventati dai combattimenti di strada pur vani, rinculavano dinanzi la cospirazione. La “Società delle Stagioni” con la quale Blanqui e Barbès fecero i tumulti del 1830 era già esclusivamente proletaria, così come lo erano, dopo la disfatta, le "Nuove Stagioni" (...). Queste cospirazioni non inglobarono mai, naturalmente, la grande massa del proletariato parigino (...).”
(Marx-Engels, La Nuova Gazzetta renana - Rivista Politica ed Economica, IV, aprile 1850)
Ma gli elementi proletari non si sono limitati a questa rottura decisiva con la borghesia. Essi hanno cominciato a mettere in discussione nella pratica il dominio della cospirazione e dei cospiratori:
"Man mano che il proletariato parigino entrava in scena in quanto partito, questi cospiratori persero la loro influenza dirigente, furono dispersi e trovarono una pericolosa concorrenza nelle società segrete proletarie che non si proponevano come scopo immediato l'insurrezione, ma l'organizzazione e la formazione del proletariato. Già l'insurrezione del 1839 aveva un carattere nettamente proletario e comunista. Ma dopo ci furono delle scissioni a proposito delle quali i vecchi cospiratori si disgregarono veramente. Ora, si trattava di scissioni che nascevano dal bisogno degli operai di intendersi sui loro interessi di classe e che si manifestavano in parte nelle vecchie congiure e in parte nelle nuove società di propaganda. L'agitazione comunista che Cabet intraprese con forza subito dopo il 1839, le polemiche che si accesero nello stesso seno del partito comunista, debordarono il quadro dei cospiratori. Chenu come De la Hodde riconobbero che i comuniste erano di gran lunga la frazione più potente del proletariato rivoluzionario dell'epoca della rivoluzione di febbraio. I cospiratori, al fine di non perdere la loro influenza sugli operai e, dunque, degli "habits noirs", dovettero seguire questo movimento ed adottare delle idee socialiste e comuniste". (ibid)
La conclusione intermedia di questo processo fu la Lega dei Comunisti che non solo adottò il Manifesto del Partito Comunista, ma anche i primi statuti proletari di un partito di classe liberatosi da ogni cospirazione:
"Di conseguenza la Lega dei Comunisti non era una società cospiratrice, ma una società che si sforzava in segreto di creare l'organizzazione del partito proletario, dato che il proletariato tedesco è ufficialmente privo “igni et aqua", del diritto di scrivere, di parlare e di associarsi. Dire che una tale società cospira è come dire che l'elettricità e il vapore cospirano contro lo statu quo" (Marx, Rivelazioni sul processo dei comunisti a Colonia, 1853).
E' ugualmente questo problema che ha condotto alla scissione della tendenza Willich-Schapper:
"Così una frazione si distacca -o, se si preferisce, fu distaccata- dalla Lega dei Comunisti; essa si richiamava se non a cospirazioni reali, almeno all'apparenza della cospirazione, perciò all'alleanza diretta con gli eroi democratici del momento, la frazione Willich-Schapper".
Ciò che non andava a genio a questa gente è la stessa cosa che aveva allontanato Bakunin dal movimento operaio:
"E' evidente che una tale società segreta che ha per fine non la creazione del partito di governo, ma del partito di opposizione dell'avvenire, non poteva sedurre granché degli individui che, da una parte, volevano mascherare la propria nullità personale riempiendosi la bocca sotto il mantello teatrale delle cospirazioni e, d'altra parte, desideravano soddisfare la loro limitata ambizione per il giorno della prossima rivoluzione, ma prima di tutto, avere una sembianza di importanza momentanea, partecipare alla festa demagogica ed essere ben accolti dai ciarlatani democratici" (ibid.).
Dopo la sconfitta delle rivoluzioni europee del 1848-49, la Lega dimostrò ancora una volta a qual punto aveva superato la natura di setta. Essa tentò, attraverso un raggruppamento con i Cartisti in Inghilterra ed i Blanquisti in Francia, di formare una nuova organizzazione internazionale: la Società universale dei Comunisti Rivoluzionari. Una tale organizzazione doveva essere retta da statuti applicabili internazionalmente a tutti i suoi membri, abolendo la separazione tra una direzione segreta e i membri considerati come massa di manovra. Questo progetto, proprio come la Lega stessa, è affondato a causa del riflusso internazionale del proletariato dopo la sconfitta della rivoluzione. E' perciò che solo dieci anni dopo, con l'apparizione di una nuova ondata rivoluzionaria e la fondazione dell'AIL, poté essere inferto il colpo decisivo contro il settarismo.
I primi principi organizzativi proletari
All'epoca in cui Bakunin tornò in Europa occidentale dalla Siberia, all'inizio degli anni ‘60, le prime principali lezioni della lotta organizzativa del proletariato erano già state tirate ed erano alla portata di chiunque le volesse assimilare. Queste lezioni erano state acquisite attraverso anni di esperienza amara durante i quali gli operai erano stati utilizzati come carne da cannone dalla borghesia e dalla piccola borghesia nella lotta contro il feudalesimo. Durante questa lotta, gli elementi rivoluzionari proletari si erano separati dalla borghesia non soltanto politicamente, ma anche organizzativamente ed avevano sviluppato principi organizzativi in sintonia con la loro natura di classe. I nuovi statuti definivano l'organizzazione come un organismo cosciente, collettivo ed unito. La separazione fra la base ‑composta di operai incoscienti della vita politica reale dell'organizzazione‑ e la direzione ‑composta da cospiratori professionali‑ era superata. I nuovi principi di centralizzazione rigorosa, compresa l'organizzazione del lavoro illegale, escludevano la possibilità di una organizzazione segreta all’interno dell'organizzazione o alla sua testa. Mentre la piccola borghesia e soprattutto gli elementi declassati radicalizzati avevano giustificato la necessità di un funzionamento segreto di una parte dell'organizzazione rispetto all'insieme di questa come mezzo di protezione verso il nemico di classe, la nuova comprensione proletaria mostrava che questa élite cospiratrice favoriva l'infiltrazione della classe nemica, in particolare della polizia politica, nei ranghi proletari. E' innanzitutto la Lega dei Comunisti che ha dimostrato che la trasparenza e la solidità organizzativa costituiscono la migliore protezione contro la distruzione da parte dello Stato.
Marx aveva già tracciato un ritratto dei cospiratori di Parigi prima della rivoluzione del 1848 che poteva facilmente applicarsi allo stesso Bakunin. Vi troviamo una chiara espressione della critica della natura piccolo-borghese del settarismo che apriva largamente la porta non soltanto alla polizia ma anche alla bohème declassata:
"La loro esistenza incerta, dipendente per ciascuno più dal caso che dalla loro attività; la loro vita sregolata i cui punti di ritrovo sono le osterie, luoghi di incontro dei cospiratori; la loro inevitabile vicinanza con ogni sorta di elementi loschi, tutto ciò li pone nell'ambiente che a Parigi si chiama la bohème. Questi bohème democratici di origine proletaria ‑esiste anche una bohème di origine borghese, questi democratici bighelloni e queste colonne da bar‑ o sono degli operai che hanno abbandonato il loro lavoro cadendo in completa dissoluzione oppure dei soggetti che provenendo dal sottoproletariato si portano dietro le abitudini dissolute della classe di origine. Si capisce dunque come, in queste condizioni, pressoché in tutti i processi cospirativi si ritrovi mescolato qualche pregiudicato.
Tutta la vita di questi cospiratori di professione porta il marchio della bohème. Sergenti reclutatori della congiura, essi si trascinano da un'osteria all'altra, prendono il polso degli operai, scelgono le loro persone, le attirano nella cospirazione abbindolandoli e facendo pagare sia alla cassa della società sia al nuovo amico i litri dell'inevitabile consumo. (...) In ogni momento può essere chiamato sulle barricate e cadervi; al più piccolo dei suoi passi la polizia gli tende delle trappole che possono portarlo in galera. Tali pericoli insaporiscono il mestiere e gli danno fascino: maggiore è l'incertezza, più il cospiratore si affretta a goderne il momento. Nello stesso tempo, l'abitudine al pericolo lo rende del tutto indifferente alla vita e alla libertà" (ibid.).
Occorre dire che questa gente "(...) disprezza al massimo la preparazione teorica degli operai per quanto riguarda i loro interessi di classe" (ibid.).
"Il tratto essenziale della vita del cospiratore è la lotta contro la polizia, con la quale egli intrattiene lo stesso rapporto che ha il ladro o la prostituta. La polizia non tollera solamente i cospiratori come un male necessario: li tollera come centri facili da sorvegliare (...). I congiurati sono in contatto continuo con la polizia, entrano in ogni momento in collusione con essa; danno la caccia alle spie, come le spie danno la caccia ai cospiratori. Lo spionaggio è una delle loro maggiori occupazioni. Così, in queste condizioni, non c'è da stupirsi che , favorito dalla miseria e dalla prigione , dalle minacce e dalle promesse, si effettui il piccolo salto che separa il cospiratore artigianale dallo spione stipendiato dalla polizia."
Questa è la comprensione che si trova alla base degli statuti dell'AIL e che ha inquietato abbastanza la borghesia, per cui essa ha espresso la sua preferenza per Bakunin.
LA POLITICA COSPIRATIVA DI BAKUNIN IN ITALIA
Per comprendere come Bakunin abbia potuto finire per essere manipolato dalle classi dominanti contro l'AIL, è necessario ricordare brevemente la sua traiettoria politica così come la situazione politica in Italia dopo il 1864. Gli storici anarchici cantano le lodi del "grande lavoro rivoluzionario" di Bakunin in Italia dove questi ha creato una serie di sette segrete e ha tentato di infiltrare e di guadagnare influenza in diverse "cospirazioni". Essi pensano in genere che sia stata l'Italia ad innalzare Bakunin sul piedistallo di "papa dell'Europa rivoluzionaria". Ma siccome evitano accuratamente di entrare nei dettagli della realtà di questo ambiente, occorre disturbarli un po’.
Bakunin ha conquistato la sua reputazione nel campo socialista grazie alla sua partecipazione alla rivoluzione del 1848-49 come dirigente a Dresda. Imprigionato, estradato in Russia e infine esiliato in Siberia, Bakunin è ritornato in Europa dopo essere riuscito a fuggire nel 1861. Appena arrivato a Londra, è andato a trovare Herzen, il noto leader rivoluzionario liberale russo. Là ha immediatamente cominciato a raggruppare, indipendentemente da Herzen, l'emigrazione politica attorno alla propria persona. Si trattava di un circolo di slavi di cui Bakunin si è circondato attraverso un panslavismo appena tinteggiato di anarchismo. Si è tenuto ben lontano dal movimento operaio inglese, come dai comunisti, soprattutto dal Club d'Educazione degli Operai tedeschi di Londra. Non avendo possibilità di cospirazioni (si stava preparando la fondazione dell'AIL), è partito in Italia nel 1864 a cercare discepoli per il suo "panslavismo" reazionario e i suoi raggruppamenti segreti.
"In Italia trovò una grande quantità di società politiche segrete; trovò una intelligentsja declassata pronta in ogni momento a lasciarsi trascinare nei complotti, una massa contadina costantemente ai limiti della fame e infine un sottoproletariato brulicante, rappresentato soprattutto dai lazzaroni di Napoli, città dove, dopo un breve soggiorno a Firenze, non aveva tardato a stabilirsi e dove visse parecchi anni". (F. Mehring, Karl Marx, biografia.)
Bakunin ha evitato gli operai dell'Europa occidentale a favore dei declassati italiani.
Le società segrete come veicolo di rivolta
Nel periodo di reazione che fece seguito alla sconfitta di Napoleone e durante la quale la Santa Alleanza sotto Metternich applicava il principio dell'intervento armato contro ogni sollevamento sociale, le classi della società escluse dal potere erano obbligate ad organizzarsi in società segrete. Questo non era il caso solo degli operai, della piccola borghesia e del contadiname, ma ugualmente per parti della borghesia liberale e anche per gli aristocratici insoddisfatti. Quasi tutte le cospirazioni a partire dal 1820, quelle dei decabristi in Russia o dei Carbonari in Italia, si organizzavano secondo il modello della massoneria che era sorta in Inghilterra nel 17° secolo e i cui fini di "fratellanza internazionale" e di resistenza alla Chiesa cattolica avevano attirato europei illuminati come Diderot e Voltaire, Lessing e Goethe, Puskin e altri. Ma come molte delle cose di questo "secolo dei lumi", come i "despoti illuminati" quali Caterina, Federico il Grande o Maria Teresa, la massoneria aveva un'essenza reazionaria sotto una forma ideologica mistica, di una organizzazione di élite con differenti “gradi” di “iniziazione”, con un carattere aristocratico tenebroso e con le sue tendenze alla cospirazione e alla manipolazione. In Italia, che all'epoca era la Mecca delle società segrete non proletarie, delle manovre e delle cospirazioni a briglia sciolta, si sono sviluppate a partire dal 1820 e 1830 le strutture dei guelfi, dei federati, degli adelfi e dei carbonari. La più famosa di esse, la Carboneria, era una società segreta terrorista che difendeva un misticismo cattolico e le cui strutture e “simboli” provenivano dalla massoneria.
Ma all'epoca in cui Bakunin era andato in Italia, i carbonari si trovavano già all'ombra della cospirazione di Mazzini. I mazziniani rappresentavano un passo avanti rispetto ai carbonari poiché lottavano per una repubblica italiana unita e centralizzata. Mazzini non lavorava solo in maniera sotterranea, ma faceva anche dell'agitazione verso la popolazione. Dopo il 1848 si sono formate perfino delle sezioni operaie. Mazzini rappresentava così un progresso organizzativo poiché aveva abolito il sistema dei carbonari secondo il quale i militanti di base dovevano seguire ciecamente e senza saperne molto gli ordini della direzione sotto pena la morte. Ma, da quando l'AIL si è eretta a forza indipendente dal suo controllo, Mazzini ha cominciato a combatterla come una minaccia al suo movimento nazionalista.
Quando Bakunin è arrivato a Napoli, ha immediatamente condotto una lotta contro Mazzini ‑ma dal punto di vista dei carbonari di cui difendeva i metodi! Lungi dallo stare in guardia, Bakunin si è tuffato in tutto questo torbido ambiente con lo scopo di prendere la direzione del movimento cospirativo. Ha fondato, così, l'Alleanza della Democrazia Socialista con, alla testa, la Fratellanza Internazionale segreta, un "ordine di rivoluzionari disciplinati”.
Un ambiente manipolato dalla reazione
L'aristocratico rivoluzionario declassato Bakunin ha trovato in Italia un terreno ancora più adatto che in Russia. E' là che la sua concezione organizzativa è maturata fino al suo completo sviluppo. E’ da una cupa palude che si è sviluppata tutta una serie di organizzazioni antiproletarie. Questi raggruppamenti di aristocratici rovinati, spesso depravati, di giovani declassati o anche di semplici criminali gli sembravano più rivoluzionari del proletariato. Uno di questi gruppi era la Camorra, che corrispondeva alla visione romantica di Bakunin sul banditismo rivoluzionario. La dominazione della Camorra, organizzazione segreta che proveniva da una organizzazione di forzati a Napoli, era diventata quasi ufficiale dopo l'amnistia del 1860. In Sicilia, verso la stessa epoca, l'ala armata dell'aristocrazia rurale spossessata infiltrava l'organizzazione locale segreta di Mazzini. A partire dal quel momento essa si è autonominata “Mafia”, che corrispondeva alle iniziali del suo slogan di battaglia "Mazzini Autorizza Furti, Incendi, Avvelenamenti". Bakunin non ha saputo denunciare questi elementi, né distanziarsene chiaramente.
In questo ambiente la manipolazione diretta dello stato non poteva certo mancare. Possiamo affermare con sicurezza che questa manipolazione ha giocato un ruolo nel modo in cui l'ambiente italiano ha celebrato Bakunin come la vera alternativa rivoluzionaria di fronte alla "dittatura tedesca di Marx". Questa propaganda era nei fatti identica a quella che diffondevano gli organi di polizia di Luigi Bonaparte in Francia.
Come dice Engels, i carbonari e molti dei gruppi similari erano manipolati e infiltrati dai servizi segreti russi o altri (vedi Engels, La politica estera dello zarismo russo). Questa infiltrazione di Stato si è rafforzata soprattutto dopo la sconfitta della rivoluzione europea del 1848. Il dittatore francese, l'avventuriero Luigi Napoleone che, dopo la sconfitta di questa rivoluzione è diventato il ferro di lancia della controrivoluzione che ne è seguita, si è alleato con Palmerston a Londra ma soprattutto con la Russia allo scopo di mantenere sotto controllo il proletariato europeo. A partire dal 1864, la polizia segreta di Luigi Napoleone era in azione soprattutto per distruggere l'AIL. Uno dei suoi agenti era il "Sig. Vogt", associato a Lassalle, che ha calunniato Marx in pubblico come capo di una banda di ricattatori.
Ma l'asse principale della diplomazia segreta di Luigi Napoleone si trovava in Italia dove la Francia cercava di sfruttare il movimento nazionale ai suoi fini. Nel 1859, Marx ed Engels hanno sottolineato che alla testa dello Stato francese si trovava un ex‑membro dei carbonari. (La politica monetaria in Europa - La posizione di Luigi Napoleone).
Bakunin che si trovava in questo pantano fino al collo, evidentemente avrebbe potuto manipolare questa massa di spazzatura per i propri scopi rivoluzionari. Ma in realtà fu lui ad essere manipolato. A tutt’oggi noi non conosciamo in dettaglio tutti gli “elementi” con i quali "cospirava". Ma esistono però delle indicazioni. Per esempio nel 1865 Bakunin redige, come viene riportato dallo storico Max Nettlau, i suoi Manoscritti massonici, “uno scritto che si fissava come scopo quello di proporre le idee di Bakunin alla massoneria italiana”.
“I manoscritti massonici fanno riferimento al Sillabo di triste memoria, la condanna da parte del Papa del pensiero umano del dicembre 1864; Bakunin voleva unirsi all'indignazione sollevata contro il papa per spingere avanti la massoneria, o la sua frazione suscettibile di evolvere; comincia perfino a dire che, per diventare un corpo vivente e utile, la massoneria deve rimettersi seriamente al servizio dell'umanità.” (Max Nettlau, Storia dell'anarchismo, tomo 2).
Nettlau tenta perfino di provare, paragonando diverse citazioni, che Bakunin aveva influenzato il pensiero della massoneria dell’epoca. In realtà è successo proprio il contrario. E' in questo peiodo che Bakunin ha adottato parti dell'ideologia delle società segrete mistiche della massoneria. Una visione del mondo che Engels descriveva già perfettamente alla fine degli anni '40 a proposito di Heinzen:
“Egli prende gli scrittori comunisti per dei profeti o dei preti che detengono una saggezza segreta che nascondono ai non iniziati per tenerli in soggezione (...) come se i rappresentanti del comunismo avessero interesse a mantenere gli operai all'oscuro, come se li manipolassero come facevano gli illuminati del secolo scorso nei confronti del popolo" (Engels, I Comunisti e Karl Heinzen, 1847).
Risiede là la chiave del "mistero" bakuninista secondo il quale nella società anarchica futura, senza Stato né autorità, occorrerà sempre una società segreta.
Marx ed Engels, senza riferirsi a Bakunin, hanno espresso tutto questo in rapporto al filosofo inglese e pseudosocialista dell'epoca, Carlyle:
"La differenza di classe, storicamente prodotta, diventa così una differenza naturale che si deve riconoscere e venerare come parte dell'eterna legge della natura, inchinandosi dinanzi a ciò che è nobile e saggio nella natura: il culto del genio. Tutta la concezione del processo di sviluppo storico diventa una pallida trivialità della saggezza degli illuminati e dei massoni del secolo scorso (...). Eccoci alla vecchia questione di sapere chi dovrebbe di fatto regnare, questione dibattuta in lungo e in largo con grande superbia; essa riceve in fin dei conti la risposta logica: regneranno coloro che possiedono nobiltà, saggezza e sapere (...)" (Engels, La Nuova Gazzetta Renana - Rivista economica e politica, IV, 1850).
Bakunin “scopre” l'Internazionale
Fin dall'inizio, la borghesia europea ha cercato di utilizzare il pantano delle società segrete italiane contro l'Internazionale. Già all'epoca della sua fondazione nel 1864 a Londra, gli amici di Mazzini avevano tentato di imporre i loro statuti settari e di prendere dunque il controllo dell'Associazione. Il rappresentante di Mazzini in quel momento, Major Wolff, sarebbe stato smascherato più tardi come agente di polizia. Dopo lo scacco di questo tentativo, la borghesia ha messo in piedi la Lega per la pace e la libertà e l'ha utilizzata per attirare Bakunin nella ragnatela di coloro che volevano minare l'AIL.
Bakunin attendeva la "rivoluzione" in Italia. Mentre manovrava nella palude della nobiltà rovinata, della gioventù declassata e del sottoproletariato urbano, l'Associazione Internazionale dei lavoratori si era sviluppata, senza la sua partecipazione, fino a diventare la forza rivoluzionaria dominante nel mondo. Bakunin ha dovuto riconoscere che, nel suo tentativo di diventare il papa rivoluzionario d'Europa, aveva scelto il cavallo sbagliato. Fu allora, nel 1867, che venne fondata la Lega per la pace e la Libertà, evidentemente contro l'AIL. Bakunin con la sua "fratellanza" ha raggiunto la Lega allo scopo di "unire la Lega ‑con la Fratellanza al suo interno come forza rivoluzionaria ispiratrice‑ all'Internazionale" (Nettlau, ibid.).
Logicamente, ma senza neanche accorgersene, facendo questo passo Bakunin diventava il ferro di lancia del tentativo delle classi dominanti di distruggere l'AIL.
La “Lega per la Pace e la Libertà”
La Lega, originata dall'idea del capo guerrigliero italiano Giuseppe Garibaldi e del poeta francese Victor Hugo, fu fondata più particolarmente dalla borghesia svizzera e sostenuta da parti di società segrete italiane. La sua propaganda pacifista di disarmo e la sua rivendicazione degli "Stati Uniti d'Europa" avevano in realtà come scopo principale quello di indebolire e dividere l'AIL. In un’epoca in cui l'Europa era divisa in una parte occidentale dal capitalismo sviluppato e una parte orientale "feudale" sotto la sciabola russa, l'appello al disarmo costituiva una rivendicazione ben accetta dalla diplomazia russa. L'AIL, come tutto il movimento operaio, aveva fin dall'inizio adottato lo slogan del ripristino di una Polonia democratica come bastione contro la Russia che, in successive riprese, aveva costituito il pilastro della reazione europea. La lega denunciava ora questa politica come "militarista", mentre il panslavismo di Bakunin era presentato come autenticamente rivoluzionario e diretto contro ogni militarismo. In questa maniera, la borghesia ha rafforzato i bakuninisti contro l'AIL:
"L'Alleanza della democrazia socialista è di origine completamente borghese. Essa non è uscita dall'Internazionale; è uno scarto della Lega per la Pace e la Libertà, società nata morta dei repubblicani borghesi. L'Internazionale era già fortemente strutturata quando Michail Bakunin si mise in testa di giocare il ruolo da emancipatore del proletariato. Essa gli offriva un campo d'azione come a qualsiasi altro membro. Per diventare qualcuno, avrebbe dovuto prima guadagnarsi i galloni con un lavoro assiduo e spassionato; egli credette di trovare una migliore probabilità e una via più facile dal lato dei borghesi della Lega." ("Un complotto contro l'Internazionale, L'Alleanza della democrazia socialista e l'Associazione Internazionale dei Lavoratori", Rapporto e documenti pubblicati da parte del Congresso Internazionale dell'Aia).
La proposta fatta da Bakunin di una alleanza della Lega con l'AIL fu però rifiutata dal Congresso dell'AIL di Bruxelles. A quell'epoca era ormai chiaro che una maggioranza schiacciante rifiutava l'abbandono del sostegno alla Polonia contro la reazione russa. Così non c'era altro da fare per Bakunin che raggiungere l'AIL allo scopo di sabotarla dall'interno. Questo orientamento fu sostenuto dalla direzione della Lega all'interno della quale aveva già una base potente.
"L'alleanza fra borghesi e lavoratori sognata da Bakunin non doveva limitarsi ad un'alleanza pubblica. Gli statuti segreti dell'Alleanza della democrazia socialista (...) contengono delle indicazioni che mostrano che all'interno stesso della Lega, Bakunin aveva posto le basi di una società segreta che doveva dirigerla. Non solo i nomi dei gruppi dirigenti sono identici a quelli della Lega (...) ma gli statuti segreti dichiarano che la "maggior parte dei membri fondatori dell'Alleanza" sono dei "membri qui presenti al Congresso di Berna". (ibid.)
Coloro che conoscono la politica della Lega possono supporre che fin dall'inizio essa sia stata creata per utilizzare Bakunin contro l’AIL - un compito per il quale Bakunin era stato ben preparato in Italia. Il fatto stesso che parecchi attivisti vicini a Bakunin e alla Lega furono smascherati in seguito come agenti della polizia, parla chiaro in questo senso. Nei fatti, niente poteva essere più pericoloso per l'AIL che la corrosione dall'interno attraverso elementi che non erano, loro, agenti dello Stato e che avevano una certa reputazione nel movimento operaio, ma che perseguivano i loro scopi personali a spese del movimento.
Anche se Bakunin non intendeva servire in questa maniera la controrivoluzione, lui e quelli del par suo ne portano l'intera responsabilità per la maniera con cui si sono messi dalla parte degli elementi più reazionari e più loschi della classe dominante.
E' vero che l'Internazionale era cosciente dei pericoli che una simile infiltrazione rappresentava. La conferenza dei delegati riuniti a Londra, ad esempio, ha adottato la seguente risoluzione:
"Nei paesi in cui l'organizzazione regolare dell'Associazione Internazionale dei Lavoratori è diventata momentaneamente impraticabile in seguito all'intervento governativo, l'Associazione e i suoi gruppi locali potranno costituirsi con una diversa denominazione, ma ogni costituzione di sezioni internazionali sotto forma di società segrete è e resta formalmente vietata" ("Risoluzione generale relativa ai paesi in cui l'organizzazione regolare dell'Internazionale impedita dal governo" adottata alla conferenza di Londra, settembre 1871).
Marx, che aveva proposto la risoluzione, la giustifica così:
"In Francia e in Italia, dove esiste una situazione politica tale che associarsi costituisce reato, le persone saranno fortemente inclini a lasciarsi trascinare nelle società segrete il cui risultato è sempre negativo. Allo stato presente, questo tipo di organizzazione si trova in contraddizione con lo sviluppo del movimento proletario perché le società segrete, invece di educare gli operai, li sottomettono a leggi autoritarie e mistiche che impediscono la loro autonomia e ne stornano la coscienza in una falsa direzione" (Intervento di Marx alla Conferenza di Londra del settembre 1871).
KR.
1) E' chiaro che il punto di partenza per la fondazione di una organizzazione rivoluzionaria è l'accordo su un programma politico. Niente è più estraneo al marxismo ‑e più in generale al movimento operaio‑ che i raggruppamenti senza principi programmatici. Ciò detto, il programma del proletariato, contrariamente alla visione difesa dalla corrente bordighista, non è dato una volta per tutte. Al contrario esso si sviluppa, si arricchisce, corregge gli eventuali errori attraverso l'esperienza viva della classe operaia. Al momento della fondazione dell'AIL, vale a dire ai primi passi del movimento operaio, l'essenziale di questo programma, ciò che stabilisce l'appartenenza di una organizzazione al campo proletario, si riassume in qualche principio generale che si trova nelle premesse degli statuti dell'Internazionale. Ora Bakunin ed i suoi adepti non rimettono in causa queste “premesse”. Il loro attacco contro l'AIL punta principalmente contro gli stessi statuti, le regole di funzionamento. Ciò non vuole dire che si possa operare una separazione fra programma e statuti. Per il fatto stesso che questi ultimi esprimono e concretizzano dei principi essenziali propri della classe operaia e di nessuna altra classe, essi sono parte integrante del programma.
Nella prima parte di questo articolo (Rivista Internazionale n. 19) abbiamo tentato di riappropriarci dell'esperienza storica rivoluzionaria della classe operaia in Cina. L'eroico tentativo insurrezionale del proletariato di Shanghai il 21 marzo 1927 fu, al tempo stesso, il punto culminante del formidabile movimento della classe operaia iniziato in Cina nel 1919 e l'ultima esplosione dell'ondata rivoluzionaria internazionale che aveva fatto tremare il mondo a partire dal 1917. Tuttavia, le forze alleate della reazione capitalista (il Kuomintang, i "Signori della guerra" e le grandi potenze imperialiste), rafforzate dalla complicità dell'Esecutivo di una Terza Internazionale (IC) in pieno processo di degenerazione, arrivarono a distruggere questo movimento da cima in fondo.
Gli avvenimenti successivi non ebbero più niente a che fare con la rivoluzione proletaria. Ciò che la storia ufficiale chiama "rivoluzione popolare cinese" non fu, in realtà, che una successione sfrenata di lotte per il controllo del paese fra frazioni borghesi antagoniste. La Cina era diventata una "regione calda" accanto alle dispute imperialiste che sarebbero sfociate nella 2a guerra mondiale.
La liquidazione del partito proletario
Secondo la storia ufficiale, il 1928 è una data decisiva per la vita del Partito Comunista Cinese (PCC) poiché quell'anno ci fu la creazione dell' "Armata Rossa" e l'inizio della "nuova strategia" basata sulla mobilitazione dei contadini, promossi "pilastri" della "rivoluzione popolare". Questa fu effettivamente una data decisiva per il PCC, ma non nel senso dato dalla storia ufficiale. L'anno 1928 fu, di fatto, quello della liquidazione del Partito Comunista della Cina in quanto strumento della classe operaia. La comprensione di questo avvenimento è la base per comprendere l'evoluzione posteriore della Cina.
Da una parte il partito fu disarticolato e brutalmente decimato con la disfatta del proletariato. Come abbiamo già detto, circa 25.000 militanti comunisti furono assassinati e parecchie migliaia soffrirono le persecuzioni del Kuomintang. Questi militanti erano l'avanguardia del proletariato rivoluzionario delle grandi città che si era raggruppato massicciamente nel partito durante gli anni precedenti, in mancanza di organizzazioni unitarie sul tipo dei consigli operai. D'ora in poi, non solo il partito non vedrà più l'adesione di nuove ondate di operai, ma la sua stessa composizione sociale si trasformerà radicalmente insieme ai suoi principi politici, come vedremo in seguito.
Ma la liquidazione del partito non fu soltanto fisica, fu prima di tutto una liquidazione politica. Il periodo di repressione feroce contro il PCC coincise con l'irresistibile ascesa dello stalinismo in URSS e nell'Internazionale. La simultaneità di questi avvenimenti favorì in maniera drammatica l'opportunismo che da anni era stato inoculato nel PCC dall'Esecutivo dell'IC, fino a provocarne un processo di degenerazione folgorante.
Fra il mese di agosto e di dicembre 1927, si vide così il PCC prendere la testa di una serie di tentativi avventuristici, caotici e disperati, fra i quali possiamo citare in particolare la "rivolta d'autunno" (sollevamento di qualche migliaia di contadini in alcune regioni che si trovavano sotto l'influenza del PCC), l'ammutinamento dei reggimenti nazionalisti di Nanchang (fra i quali agivano alcuni comunisti) e infine, dall' 11 al 14 dicembre, la sedicente “insurrezione” di Canton, che in realtà non fu che un tentativo di insurrezione pianificato e che, non beneficiando del sostegno dell'insieme del proletariato della città, terminò in un nuovo bagno di sangue. Tutte queste azioni si conclusero con disfatte disastrose a beneficio delle forze del Kuomintang, accelerando la dispersione e la demoralizzazione del Partito, provocando infine lo schiacciamento degli ultimi soprassalti rivoluzionari della classe operaia.
Questi tentativi avventuristici erano stati voluti da elementi che Stalin aveva piazzato alla testa del PCC, e avevano come obiettivo quello di giustificare la tesi di Stalin sull' "ascesa della rivoluzione cinese", benché queste sconfitte furono poi utilizzate, a posteriori, per espellere, con manovre sordide, proprio coloro che vi si erano opposti.
Il 1928 fu l'anno del trionfo totale della controrivoluzione staliniana. Il IX Plenum dell'IC convalidò il “rifiuto del trotskismo” come condizione d'adesione e, per finire, il VI Congresso adottò la teoria del "socialismo in un solo paese", cioè l'abbandono dell'internazionalismo rivoluzionario, momento che significò la fine dell'Internazionale in quanto organizzazione della classe operaia. E' in questo quadro che si tenne, in URSS, il VI Congresso del PCC che, per così dire, iniziò la stalinizzazione "ufficiale" del Partito prendendo la decisione di preparare una équipe di giovani dirigenti fedeli a Stalin in maniera incondizionata; ciò determinò il rovesciamento radicale del partito diventato ormai uno strumento del nuovo imperialismo russo in ascesa. Questa squadra di "studenti mancati" tentò di imporsi due anni dopo alla direzione del partito, nel 1930.
"L'Armata Rossa" e i nuovi "Signori della guerra"
La stalinizzazione non fu però l'unica espressione della degenerazione del PCC. La sconfitta di una serie di avventure nella seconda metà del 1927 provocò anche la fuga di certi gruppi che avevano partecipato alla lotta contro le truppe governative in regioni di difficile accesso. Questi gruppi cominciarono a riunirsi in distaccamenti militari e uno di questi era quello di Mao tse-tung.
Occorre precisare che Mao Tse-tung non aveva mai dato prova di particolare intransigenza proletaria. Aveva solo occupato un posto amministrativo di second'ordine durante l'alleanza fra il PCC e il Kuomintang e proprio fra i rappresentanti dell'ala opportunista. Una volta spezzata questa alleanza, era fuggito nella sua regione natale del Junan dove diresse la "rivolta contadina dell'autunno" conformemente alle direttive staliniane. Il disastro che concluse questa avventura lo forzò a ripiegare ancora di più fino al massiccio montagnoso del Chingkang, accompagnato da un centinaio di contadini. Per potervisi stabilire concluse un patto con i banditi che controllavano questa zona, apprendendo da essi i metodi d'assalto. Il suo gruppo infine si fuse con un distaccamento del Kuomintang comandato dall'ufficiale Chu Te, che era anch'egli in fuga verso la montagna dopo lo scacco del sollevamento di Nanchang.
Secondo la storia ufficiale, il gruppo di Mao Tse-tung sarebbe all'origine della sedicente Armata “Rossa" o "Popolare" e delle "basi rosse" (regioni controllate dal PCC). Mao avrebbe scoperto qualcosa come la "corretta strategia" per la rivoluzione cinese. A dire il vero, il gruppo di Mao non fu mai altro che uno dei molteplici distaccamenti simili che si formarono simultaneamente in una mezza dozzina di regioni. Tutti si impegnarono in una politica di reclutamento fra il contadiname, di avanzate e di occupazione di certe regioni, arrivando perfino a resistere agli assalti del Kuomintang per alcuni anni, fino al 1934. Ciò che occorre rimarcare qui è la fusione politica e ideologica che ebbe luogo fra l'ala opportunista del PCC, certe frazioni del Kuomintang (il partito ufficiale della borghesia nazionalista) e perfino dei mercenari provenienti da bande di contadini declassati. In realtà il dislocamento geografico che si operava sulla scena storica, dalle città verso le campagne, non corrispondeva semplicemente a un cambiamento di strategia, ma esprimeva la trasformazione della natura del PCC.
Secondo gli storici maoisti, in effetti, l'"Armata Rossa" sarebbe un esercito di contadini guidati dal proletariato. Alla testa di questo esercito non si trovava certamente la classe operaia, ma dei militanti del PCC -per la maggior parte di origine piccolo-borghese- che non avevano mai pienamente aderito alle prospettive della lotta del proletariato, mescolati a ufficiali del Kuomintang. Questo miscuglio si consoliderà successivamente con un nuovo dislocamento di professori e di studenti nazionalisti e liberali verso la campagna; questi formarono più tardi i quadri "educatori" dei contadini durante la guerra contro il Giappone.
Socialmente, il PCC diventerà allora il rappresentante degli strati della borghesia e della piccola borghesia spiazzata dalle condizioni dominanti in Cina: intellettuali, militari di carriera che non trovavano posti né nei governi locali perché vi accedevano solo i notabili, né nel governo centrale di Ciang Kai-scek che era molto chiuso e monolitico. L'ideologia dei militanti dell'"Armata Rossa" divenne allora una specie di composto a base di stalinismo e di "sunyatsenismo". Un linguaggio pseudomarxista pieno di frasi sul proletariato che non facevano che sfumare leggermente ciò che era divenuto sempre più apertamente il vero obiettivo da raggiungere: stabilire con l'aiuto di un governo "amico" un governo borghese "democratico" per rimpiazzare il governo borghese "dittatoriale" di Ciang Kai-scek. Nelle condizioni create dalla decadenza del capitalismo, ciò implicava l'immersione totale del nuovo PCC e della sua "Armata Rossa" nei conflitti imperialisti.
Il contadiname cinese è forse una classe speciale?
E' tuttavia vero che i ranghi dell'"Armata Rossa" erano soprattutto costituiti da contadini poveri. Questo, unitamente al fatto che il Partito continuava a chiamarsi "comunista", si trova alla base della creazione del mito della "rivoluzione popolare cinese".
E’ in realtà dalla seconda metà degli anni '20 che apparvero delle teorizzazioni in seno al PCC, soprattutto fra quelli che non avevano fiducia nella classe operaia, sul carattere di classe del contadino cinese. Ad esempio, si poteva leggere che: "le grandi masse contadine si sono sollevate per compiere la loro missione storica ... distruggere le forze feudali rurali" (1). In altri termini, certi consideravano che il contadiname fosse una classe storica capace di realizzare certi obiettivi rivoluzionari indipendentemente dalle altre classi. Con la degenerazione politica del PCC, queste sedicenti teorizzazioni andarono molto più lontano, fino ad attribuire al contadino nientemeno che la funzione di rimpiazzare il proletariato nella lotta rivoluzionaria. (2)
Appoggiandosi sulla storia delle ribellioni contadine in Cina, si pretendeva di dimostrare l'esistenza di una "tradizione" (per non parlare di "coscienza") rivoluzionaria del contadino cinese. Ciò che ci dimostra in realtà la storia è proprio l'assenza di un progetto rivoluzionario storico fra il contadiname, sia esso cinese o di qualsiasi altra parte del mondo, come l'ha dimostrato mille volte il marxismo. Durante il periodo ascendente del capitalismo, esso poté nel migliore dei casi aprire la strada alle rivoluzioni borghesi, ma nella fase di decadenza, i contadini poveri non possono lottare in maniera rivoluzionaria che nella misura in cui essi aderiscono agli obiettivi rivoluzionari della classe operaia, perché altrimenti essi diventano strumenti della classe dominante.
La ribellione dei Taiping (principale e più "puro" movimento del mondo contadino cinese che scoppiò nel 1850 contro la dinastia manciù e fu totalmente disfatto solo nel 1864) aveva mostrato i limiti della lotta del contadiname. I Taiping volevano instaurare il regno di Dio sulla terra, una società senza proprietà privata individuale sulla quale avrebbe regnato un monarca legittimo, vero figlio di Dio che sarebbe stato il depositario di ogni ricchezza della comunità. Ciò vuole dire che anche se essi avevano riconosciuto la proprietà privata come fonte di tutti i mali, questa coscienza non era accompagnata -e non poteva esserlo in nessun caso- da un progetto reale della società futura ma da un utopico ritorno alla dinastia idilliaca perduta. Durante i primi anni, le potenze militari che stavano penetrando in Cina lasciarono fare i Taiping, utilizzandoli per indebolire la dinastia e la ribellione si estese a tutto il regno, ma i contadini furono incapaci di formare un governo centrale e di amministrare le terre. Il movimento raggiunge il suo punto culminante nel 1856 quando il tentativo di presa di Pechino, capitale imperiale, fallì. Il movimento cominciò allora ad estinguersi, vittima di una repressione massiccia alla quale collaborarono le potenze imperiali sopra nominate. Così la rivolta dei Taiping indebolì la dinastia manciù, ma non fu che per aprire le porte all'espansione imperialista della Gran Bretagna, della Francia e della Russia. Il contadiname aveva servito il piatto in tavola alla borghesia.
Anni più tardi, nel 1898, scoppiò un'altra rivolta di minore estensione, quella dei Boxer, diretta originariamente contro la dinastia e gli stranieri. Questa rivolta segnò, però, la decomposizione e la fine dei movimenti contadini indipendenti, dato che l'imperatrice riuscì ad impadronirsene e ad utilizzarla nella propria guerra contro gli stranieri. Con la disintegrazione della dinastia e la frammentazione della Cina agli inizi del secolo, molti contadini poveri o senza terra si arruolarono negli eserciti professionali dei signori della guerra regionali. Infine le tradizionali società segrete per la protezione dei contadini si trasformarono in mafie al servizio dei capitalisti, il cui ruolo nelle città era quello di controllare la forza lavoro e di spezzare gli scioperi.
Le teorizzazioni sulla natura rivoluzionaria del contadiname trovavano evidentemente la loro giustificazione nell'effettiva effervescenza dei contadini in particolare nel sud della Cina. Queste teorizzazioni però ignoravano totalmente il fatto che questi movimenti erano dovuti alla rivoluzione nelle grandi città industriali e che l'unica speranza di emancipazione dei contadini non poteva venire che dal proletariato urbano.
Ma la formazione di un'"Armata Rossa" non ebbe niente a vedere col proletariato, né con la sua rivoluzione. Si può dire che essa non ebbe niente a che fare con la costituzione di milizie rivoluzionarie caratteristiche dei periodi insurrezionali. E' certo che i contadini si arruolarono nell'"Armata Rossa"; spinti dalle terribili condizioni di vita che subivano, sperando di ottenere o difendere delle terre, cercando di ottenere un sussidio come soldati. Tutte queste ragioni erano esattamente quelle che li spingevano ad arruolarsi in qualsiasi altro esercito dei signori della guerra che pullulavano allora in Cina.
L'"Armata Rossa" dovette d'altronde, in un primo tempo, dare l'ordine alle sue truppe di finirla con i saccheggi delle regioni conquistate. Essa era un corpo totalmente estraneo al proletariato, come si poté verificare nel 1930 quando, dopo aver preso l'importante città di Ciangsha, non poté tenerla che per qualche giorno perché gli operai della città la ricevettero freddamente se non con ostilità e rifiutarono l'appello a sostenerla con una nuova "insurrezione".
La differenza fra questo esercito e i signori della guerra tradizionali risiedeva nel fatto che questi si erano già stabiliti nella struttura sociale cinese e facevano visibilmente parte della classe dominante, mentre i primi lottavano per prenderne il posto, cosa che permetteva loro di alimentare le speranze dei contadini, di avere una maggiore flessibilità nel momento di cambiare alleanze e di vendersi all'imperialismo migliore offerente.
Riassumendo, si potrebbe dire che la disfatta della classe operaia nel 1927 non proiettò il contadino alla testa della rivoluzione, ma, proprio al contrario lo gettò nella tempesta dei conflitti nazionalisti e imperialisti nei quali non giocò che il ruolo di carne da cannone.
I conflitti imperialisti
Da quando il proletariato fu schiacciato, il Kuomintang diventò per un certo tempo l'istituzione più importante della Cina, la sola forza in grado di garantire l'unità del paese -combattendo o alleandosi ai signori della guerra regionali - e, da questo fatto, divenne la posta in gioco delle dispute fra potenze imperialiste. Ne abbiamo già parlato quando abbiamo detto che dal 1911 lo sforzo delle grandi potenze imperialiste traspariva dietro i conflitti per formare un governo nazionale. All'inizio degli anni '30 il rapporto di forze fra di esse si era modificato sotto diversi aspetti.
Da un lato, a partire dalla controrivoluzione staliniana iniziò una nuova politica imperialista russa. La "difesa della patria socialista" implicava la creazione di una zona di influenza attorno ad essa, cosa che gli serviva da protezione. Tutto questo si traduceva, in Cina, con il sostegno alle "basi rosse" formate a partire dal 1928 alle quali Stalin predicava un avvenire radioso, ma anche e soprattutto con la ricerca di un'alleanza con il governo kuomintangista.
Da un altro lato, gli Stati Uniti mostravano sempre più la volontà di dominare esclusivamente tutte le regioni bagnate dal Pacifico, rimpiazzando, grazie al loro crescente dominio economico, le vecchie potenze quali la Francia o la Gran Bretagna nei loro imperi coloniali. Per riuscirvi occorreva mettere fine ai sogni espansionisti del Giappone. Era, in ogni caso evidente che dall'inizio del secolo il Pacifico sarebbe stato troppo stretto per gli USA ed il Giappone. La contesa fra le due potenze scoppia in realtà dieci anni prima del bombardamento di Pearl Harbour, nella guerra per il controllo della Cina e del governo del Kuomintang.
Fu in fin dei conti il Giappone che dovette prendere l'iniziativa del conflitto imperialista in Cina, poiché tutte le potenze impegnate in questo paese erano quelle che avevano maggior bisogno di mercati, di materie prime e di manodopera a buon mercato. Il Giappone occupò la Manciuria nel settembre 1931 e dal gennaio 1932 invase le province del nord della Cina stabilendo una testa di ponte a Shanghai dopo avere bombardato "preventivamente" i quartieri operai della città. Il Giappone arrivò ad allearsi con alcuni signori della guerra e cominciò ad instaurare quelli che furono chiamati i "regimi fantoccio". D'altronde Ciang Kai-scek offrì solo un simulacro di resistenza all'invasione essendo già in trattative col Giappone. Fu allora che USA e URSS reagirono, ciascuno per proprio conto, facendo pressioni sul governo di Ciang Kai-scek affinché effettivamente resistesse all'invasione giapponese. Gli USA reagirono, però, con più calma, in quanto aspettavano che il Giappone si logorasse in una lunga e stancante guerra in Cina, cosa che non mancò di accadere. Stalin, quanto a lui, ordinò nel 1932 alle "basi rosse" di dichiarare guerra al Giappone, stabilendo al tempo stesso delle relazioni diplomatiche col governo di Ciang Kai-scek nel momento in cui questi lanciava furiosi attacchi contro le "basi rosse". Nel 1933, Mao Tse-tung e Fang Chi-ming proposero un'alleanza con alcuni generali del Kuomintang che si erano ribellati a Ciang Kai-scek a causa della sua politica di collaborazione col Giappone, ma gli "studenti ribelli" rifiutarono questa alleanza ... per non indebolire i legami che si stavano tessendo tra l'URSS e il regime di Ciang Kai-scek. Questo episodio mostra a qual punto il PCC si era impegnato nel gioco delle lotte e delle alleanze interborghesi, sebbene Stalin, in quel momento, considerasse l'"Armata Rossa" solo come un "elemento di pressione" e avesse preferito appoggiarsi su un'alleanza duratura con Ciang Kai-scek.
La "Lunga Marcia" ... verso la guerra imperialista
E' in questo quadro di tensioni imperialiste crescenti che durante l'estate 1934 i distaccamenti dell'"Armata Rossa" di stanza nelle basi guerrigliere del sud e del centro del paese cominciarono a spostarsi verso il nord-ovest, verso le regioni rurali più lontane dal controllo del Kuomintang e a concentrarsi nella regione del Cian-si. Questo episodio, conosciuto come La Lunga Marcia è, secondo la storia ufficiale, l'atto più significativo ed epico della "rivoluzione popolare cinese". I libri di storia rigurgitano di atti di eroismo che narrano l'odissea di questi reggimenti attraverso paludi, torrenti e montagne...L'analisi degli avvenimenti mette, però, rapidamente allo scoperto i sordidi interessi borghesi che erano in gioco in questo episodio.
L'obiettivo fondamentale della Lunga marcia era prima di tutto l'imbrigliamento dei contadini nella guerra imperialista che era in atto fra il Giappone, la Cina, la Russia e gli USA. Di fatto Po Ku (staliniano, membro del gruppo degli "studenti ribelli") aveva già posto il problema dell'eventualità della mobilitazione dei reggimenti dell' "Armata Rossa" per lottare contro i giapponesi. I libri di storia sottolineano che l'uscita della regione meridionale del Cian-Si dalla "zona sovietica" fu il risultato dell'insopportabile assedio messo in atto dal Kuomintang, ma restano reticenti al momento di spiegare che le forze dell'"Armata Rossa" furono espulse a causa del cambiamento di tattica ordinato dagli stalinisti, passando dalla forma di guerriglia, che aveva permesso all'"Armata Rossa" di resistere per anni, alla forma di combattimenti frontali contro il Kuomintang. Questi combattimenti provocarono la rottura della frontiera di "sicurezza" che proteggeva la zona della guerriglia e l'urgenza della necessità di abbandonarla. Ma ciò non fu per niente il "grave errore" degli "studenti ribelli" (più tardi accusati da Mao benché abbia egli stesso partecipato a questa strategia): proprio il contrario, fu un successo per gli obiettivi degli stalinisti che volevano indurre i contadini ad abbandonare le terre che fino a quel momento avevano difeso, per marciare verso il nord e concentrarsi in una sola armata regolare per la guerra che si stava annunciando.
I libri di storia tentano anche di dare alla lunga marcia un contenuto classista, una specie di movimento sociale o di lotta di classe. L'"Armata Rossa" avrebbe seminato il "seme della rivoluzione" al suo passaggio, sia con la propaganda, sia distribuendo la terra ai contadini. Queste azioni avevano il solo scopo di utilizzare i contadini per proteggere la retroguardia delle truppe dell' "Armata Rossa". Dall'inizio della Lunga Marcia, la popolazione civile che abitava nelle "basi rosse" fu utilizzata per coprire la ritirata dell' Armata. Questa tattica, salutata per la sua astuzia dagli storici, consistente nel lasciare le popolazioni civili da bersaglio al fine di proteggere le manovre dell'esercito regolare, è caratteristica delle classi sfruttatrici e non c'è niente di eroico nel lasciare assassinare donne, vecchi e bambini per proteggere soldati.
La Lunga Marcia non fu una via della lotta di classe , fu la via verso accordi ed alleanze con coloro che fino a quel momento erano classificati come "reazionari feudali e capitalisti" e che, come per magia, divenivano "buoni patrioti". Il 1° agosto 1935, quando i reggimenti della Lunga Marcia erano di stanza a Sechuan, il PCC lanciò un appello all'unità nazionale di tutte le classi per espellere il Giappone fuori della Cina. In altri termini, il PCC chiamava tutti i lavoratori ad abbandonare la lotta di classe per riunirsi con i loro sfruttatori e servire da carne da cannone nella guerra che doveva liberare questi ultimi. Questo appello era un'applicazione anticipata di risoluzioni del VII e ultimo congresso dell'IC che si teneva nella medesima epoca e che lanciò le famose parole d'ordine del "fronte popolare antifascista", grazie al quale i partiti comunisti stalinizzati poterono collaborare con le loro borghesie nazionali e diventare i migliori strumenti per mandare i lavoratori a farsi uccidere nella seconda carneficina imperialista.
La Lunga Marcia raggiunge ufficialmente il suo apogeo nell'ottobre 1935, quando il distaccamento di Mao arriva a Ye-Nan (provincia di Shan-Si nel nord-ovest del paese). Anni più tardi, il maoismo farà della Lunga marcia l'opera gloriosa ed esclusiva di Mao Tse-tung. La storia ufficiale preferisce passare sotto silenzio il fatto che Mao non aveva fatto che prendere la testa di una "base rossa" che esisteva già prima del suo arrivo e che arrivò con 7.000 dei 90.000 uomini che erano partiti con lui da Kiangsi, visto che parecchie migliaia di militari erano morti (più spesso per difficoltà naturali che in seguito ad attacchi del Kuomintang), e altre migliaia erano rimaste a Sechuan, separati da una scissione fra cricche dirigenti. Non è che alla fine del 1936 che il grosso dell' "Armata Rossa" si concentrò realmente quando arrivarono i reggimenti provenienti da Junan e Sechan.
L'alleanza del PCC con il Kuomintang
Nel 1936 lo sforzo di reclutamento dei contadini da parte del PCC fu sostenuto da ondate di centinaia di studenti nazionalisti che andarono verso la campagna dopo il movimento antigiapponese degli intellettuali borghesi alla fine del 1935 (3). Non bisogna certamente dedurne che gli studenti erano diventati comunisti, ma piuttosto che il PCC era diventato un organo riconosciuto dalla borghesia avente gli stessi interessi di classe.
La borghesia cinese però non era unanime nella sua opposizione al Giappone. Era divisa in funzione delle tendenze rispettive di ciascuna delle sue frazioni verso le grandi potenze. Lo si può verificare esaminando il caso del generalissimo Ciang Kai-scek che, come abbiamo visto, non si decideva ad intraprendere una campagna frontale contro il Giappone e aspettava che il combattimento fra le grandi potenze indicasse chiaramente da quale parte orientarsi. I generali del Kuomintang e i signori della guerra locali erano altrettanto divisi per gli stessi motivi.
E' in questa situazione che si verificò il famoso "incidente di Sian". Nel dicembre 1936, Ciang Hseh-liang (un generale antigiapponese del Kuomintang) e Yang Hu-Cheng, signore della guerra di Sian che tratteneva buoni rapporti con il PCC, misero Ciang Kai-scek in stato d'arresto e avevano intenzione di condurlo a giudizio per alto tradimento. Stalin però ordinò immediatamente al PCC -e senza discutere- non solo di liberare Ciang Kai-scek, ma di arruolare il suo esercito nel Fronte Popolare. Nei giorni seguenti ebbero luogo dei negoziati fra il PCC, rappresentato da Ciu En-lai, Yeh Cien-ying (come dire Stalin), gli USA rappresentati da Tu-song, il più potente e corrotto monopolista della Cina, parente di Ciang, e Ciang stesso che fu finalmente obbligato a porsi dalla parte degli USA e dell'URSS in alleanza provvisoria contro il Giappone; fu solo a questo prezzo che poté continuare ad essere il capo del governo nazionale e poté mettere sotto i sui ordini il PCC e l' "Armata Rossa" (che ribattezzò Ottavo Reggimento). Ciu En-lai e altri "comunisti" parteciparono a questo governo di Ciang mentre gli USA e l'URSS davano aiuto militare a Ciang Kai-scek. Quanto a Ciang Hsue-liang e Yang Hu-ceng furono lasciati alla vendetta di Ciang Kai-scek che imprigionò il primo e assassinò il secondo.
Così fu firmata la nuova alleanza fra il PCC il Kuomintang. E solo grazie alle contorsioni ideologiche più grottesche e alla propaganda più abbietta il PCC poté giustificare verso i lavoratori il trattato con Ciang Kai-scek, questo carnefice che aveva schiacciato la rivoluzione proletaria e assassinato decine di migliaia di operai e militanti comunisti nel 1927.
Le ostilità fra le forze armate del Kuomintang dirette da Ciang e l'"Armata Rossa" ripresero nel 1938. Questo permette agli storici ufficiali di far credere che il patto col Kuomintang non sarebbe stata che una tattica del PCC in seno alla "rivoluzione". Ma l'importanza storica reale di questo patto non è tanto nel successo o nel fiasco del patto fra il PCC e il Kuomintang quanto nella dimostrazione storica dell'assenza di antagonismo di classe fra le due forze; nella dimostrazione che il PCC non aveva più niente a che fare con il partito proletario degli anni '20 che aveva affrontato il capitale e che era poi divenuto uno strumento nelle mani della borghesia, il campione dell'inquadramento dei contadini per la carneficina imperialista.
Bilan: una luce nella notte della controrivoluzione
Nel luglio 1937 il Giappone iniziò l'invasione della Cina e fu l'inizio della guerra sino-giapponese. Solo un pugno di gruppi rivoluzionari che sopravvissero alla controrivoluzione, quelli della Sinistra Comunista quali il gruppo dei Comunisti Internazionalisti d'Olanda o il gruppo della Sinistra Comunista Italiana che pubblicava in Francia la rivista Bilan, furono capaci di anticipare e di denunciare che ciò che succedeva in Cina non era né una "liberazione nazionale", né, tantomeno, una "rivoluzione", ma il predominio di una delle grandi potenze imperialiste con forti interessi nella regione: il Giappone, gli USA, o l'URSS. Che la guerra cino-giapponese, così come la guerra di Spagna e altri conflitti regionali, era il preludio sempre più assordante della seconda carneficina mondiale. Al contrario, l'Opposizione di Sinistra di Trotsky, che dalla sua costituzione era arrivata a denunciare la politica criminale di Stalin di collaborazione col Kuomintang come una delle cause della disfatta della rivoluzione in Cina, questa Opposizione di Sinistra, prigioniera di un'analisi errata del corso storico che gli faceva vedere in ciascun nuovo conflitto imperialista regionale una nuova possibilità rivoluzionaria e prigioniera, in generale, dell'opportunismo crescente, considerava la guerra cino-giapponese come "progressista", come un passo in avanti verso la "terza rivoluzione cinese". Fin dal 1937, Trotsky affermava, senza pudore, che "se c'è una guerra giusta, è la guerra del popolo cinese contro i suoi conquistatori... tutte le forze progressiste della Cina, senza concedere nulla al loro programma, alla loro indipendenza politica, faranno fino in fondo il loro dovere in questa guerra di liberazione, indipendentemente dal loro atteggiamento verso il governo di Ciang Kai-scek" (4). Con questa politica opportunista di difesa della patria "indipendentemente dal loro atteggiamento verso il governo", Trotsky apriva completamente le porte all'arruolamento degli operai nelle guerre imperialiste dietro i loro governi e alla trasformazione, a partire dalla seconda guerra mondiale, dei gruppi trotskisti in reclutatori di carne da cannone per il capitale. La Sinistra Comunista italiana, al contrario, nelle sue analisi sulla Cina, è stata in grado di mantenere fermamente la posizione internazionalista della classe operaia. La posizione sulla Cina costituì uno dei punti cruciali della rottura delle relazioni con l'Opposizione di sinistra di Trotsky. Ciò che si delineava era una frontiera di classe. Per Bilan, "Le posizioni comuniste di fronte agli avvenimenti cinesi, della Spagna e della situazione internazionale attuale non possono essere fissati che su una base dell'eliminazione rigorosa di tutte le forze agenti in seno al proletariato e che dicono al proletariato di partecipare al massacro della guerra imperialista" (5) "...Tutto il problema consiste a determinare quale classe conduce la guerra e a stabilire una politica corrispondente. Nel caso di cui ci occupiamo è impossibile negare che è la borghesia cinese che conduce la guerra e, sia che essa sia aggressore che aggredita, il dovere del proletariato è quello di lottare per il disfattismo rivoluzionario come in Giappone" (6). Nello stesso senso, la Frazione della Sinistra Comunista Internazionale (legata a Bilan) scriveva: "Dalla parte di Ciang Kai-scek, boia di Canton, lo stalinismo partecipa all'assassinio di operai e di contadini sotto la bandiera della "guerra d'indipendenza". E solo la rottura totale con il Fronte nazionale, la fraternizzazione con gli operai e i contadini giapponesi, la guerra civile contro il Kuomintang e tutti i suoi alleati, sotto la direzione di un partito di classe può salvarli" (7). La voce ferma dei gruppi della Sinistra Comunista non fu ascoltata da una classe operaia disfatta e demoralizzata che si lasciò trascinare alla carneficina mondiale. Il metodo di analisi, però, e le posizioni di questi gruppi rappresentarono la permanenza e l'approfondimento del marxismo e costituirono il ponte tra la vecchia generazione rivoluzionaria che aveva vissuto l'ondata insurrezionale del proletariato all'inizio del secolo e la nuova generazione rivoluzionaria che sorge con la fine degli anni '60.
1937-1949: con l'URSS o con gli Stati Uniti?
Come sappiamo, la seconda guerra mondiale terminò con la disfatta del Giappone e delle potenze dell'Asse nel 1945 e questa disfatta implicò l'abbandono totale delle Cina da parte di queste potenze. Ma la fine della guerra mondiale non segnò la fine delle contese imperialiste. Immediatamente si stabilisce la rivalità tra le due grandi potenze, USA e URSS che sottometteranno il mondo per più di quaranta anni. Nel momento in cui l'esercito giapponese si ritirava, la Cina diventava il terreno di scontri tra queste due potenze.
Non è fondamentale relazionare sulle vicissitudini della guerra sino-giapponese in questo articolo, il cui scopo è demistificare la sedicente "rivoluzione popolare cinese"; è però interessante sottolinearne due aspetti in legame con la politica condotta dal PCC dal 1937 al 1945.
Il primo concerne la spiegazione della rapida estensione delle zone occupate dall'"Armata Rossa" fra il 1936 e il 1945. Come abbiamo già detto, Ciang Kai-scek non era un partigiano dell'opposizione frontale del suo esercito ai giapponesi e tendeva a rifluire e a ritirarsi a ogni avanzata di questi ultimi. L'esercito giapponese avanzava rapidamente in territorio cinese ma non aveva la capacità di stabilire un'amministrazione propria nelle zone occupate: esso dovette limitarsi molto rapidamente a occupare le vie di comunicazione più importanti. Questa situazione provocò due fenomeni: il primo è che dato che i Signori della guerra regionali si trovavano isolati dal governo centrale, erano portati a collaborare sia con i giapponesi, nei famosi "governi fantoccio", sia con l'"Armata Rossa" per resistere all'invasione; il secondo è che il PCC seppe approfittare abilmente del vuoto politico creato dall'invasione giapponese nel nord est della Cina ed allestire la propria amministrazione.
Conosciuta col nome di "nuova democrazia", questa amministrazione è stata salutata dagli storici come un "regime democratico di tipo nuovo". La "novità" non era fittizia in quanto per la prima volta nella storia un partito "comunista" creava un governo di collaborazione di classe (8), si sforzava di mantenere i rapporti di sfruttamento e proteggeva gelosamente gli interessi della classe capitalista e dei grandi proprietari. Il PCC aveva compreso che non era indispensabile requisire le terre e darle ai contadini per ottenere il loro sostegno: afflitti da esazioni di ogni sorta, bastava una piccola diminuzione delle imposte (così piccola che i grandi proprietari e i capitalisti erano favorevoli) perché i contadini fossero favorevoli all'amministrazione del PCC e si arruolassero nell'"Armata Rossa". Parallelamente a questo "nuovo regime", il PCC creò anche un governo di collaborazione di classe (fra borghesia, grandi proprietari e contadini) conosciuto sotto il nome dei Tre Terzi, di cui un terzo dei posti era occupato dai "comunisti", un terzo dai membri delle organizzazioni contadine e il terzo rimanente, dai grandi proprietari e capitalisti. Ancora una volta le contor-sioni ideologiche più assurde dei teorici sullo stile di Mao furono necessari al PCC per "spiegare" ai lavoratori questo "nuovo tipo" di governo.
Un secondo aspetto della politica del PCC che occorre sottolineare è meno conosciuto in quanto per evidenti ragioni gli storici, sia maoisti che filoamericani, preferiscono occultarlo benché sia perfettamente documentato. L'implicazione dell'URSS nella guerra in Europa che le impedì di prestare un "aiuto" efficace al PCC per alcuni anni, le oscillazioni tra il Giappone e gli USA del governo di Ciang Kai-scek a partire dal 1938 nell'attesa dell'uscita dal conflitto mondiale (9) e l'impegno nella guerra nel Pacifico degli americani a partire dal 1941, tutti questi avvenimenti pesarono fortemente per fare oscillare il PCC dalla parte degli USA.
A partire dal 1944 una missione di osservatori del governo degli USA si stabilì nella "base rossa" dello Yenan, avente come scopo quello di sondare le possibilità di collaborazione fra Stati Uniti e PCC. Per i dirigenti di questo partito e in particolare per la cricca di Mao Tse-tung e Cun-teh, era chiaro che gli Stati Uniti sarebbero stati i vincitori della guerra e intravedevano la possibilità di sottomettersi sotto la loro tutela. La corrispondenza di John Service (10), uno dei responsabili di questa missione, segnala con insistenza a proposito del PCC che:
- il PCC considera come altamente improbabile l'instaurazione di un regime sovietico in Cina e ricerca piuttosto l'instaurazione di un regime "democratico" di tipo occidentale, ed è perfino disposto a partecipare a un governo di coalizione con Ciang Kai-scek pur di evitare una guerra civile alla fine della guerra contro il Giappone;
- il PCC pensa che sarà necessario un periodo molto lungo di parecchie decine di anni per lo sviluppo del capitalismo in Cina, condizione per l'instaurazione del socialismo. Se si raggiungesse, un giorno, il socialismo, questo si installerebbe in maniera progressiva e non attraverso espropriazioni violente. Che, dunque, mettendo in piedi un governo nazionale, il PCC sarebbe stato disposto a portare avanti una politica di "porte aperte" ai capitali stranieri e principalmente al capitale americano;
- il PCC, tenendo anche conto sia della debolezza dell'URSS che della corruzione di Ciang Kai-scek e della sua inclinazione verso il Giappone, desiderava l'aiuto politico, finanziario e militare degli Stati Uniti. Che era perfino disposto a cambiare nome (come aveva già fatto con l'"Armata Rossa") per potere beneficiare di questo aiuto.
I membri della missione americana insistettero presso il loro governo sul fatto che il futuro era dalla parte del PCC. Gli USA, però, non si decisero mai ad utilizzare dei "comunisti" e infine, un anno dopo, quando, nel 1945, il Giappone si ritirò e l'URSS invase il nord della Cina, non restò altra uscita al PCC e a Mao di allinearsi momentaneamente all'URSS.
Fra il 1946 e il 1949, la contesa fra le due superpotenze provocò direttamente lo scontro fra il PCC e il Kuomintang. Nel corso di questa guerra, molti generali del Kuomintang passarono armi e bagagli dalla parte delle "forze popolari". Da quel momento si possono contare quattro periodi nel corso dei quali la borghesia e la piccola borghesia rafforzarono il PCC. Quello che completò la disfatta della classe operaia del 1928, quello che trovò le sue origini nel movimento degli studenti nel 1935, la guerra contro il Giappone e, infine, quello che vide l'affondamento del Kuomintang. I "vecchi borghesi", ad eccezione dei grandi monopolisti direttamente legati a Ciang Kai-scek, si ritrovarono nel PCC e si mescolarono ai "nuovi" borghesi usciti dalla guerra.
Nel 1949 il PCC, alla testa della sedicente "Armata Rossa", prese il potere e proclamò la Repubblica Popolare. Ma tutto questo non ha niente a che vedere col comunismo. La natura di classe del partito "comunista" che prese il potere in Cina, era totalmente estranea al comunismo e totalmente antagonista al proletariato. Il regime che si instaurò allora non fu che una variante del capitalismo di stato. Il controllo dell'URSS sulla Cina durò solo una decina di anni e finì con la rottura delle relazioni fra i due. A partire dal 1960, la Cina tentò di "rendersi indipendente" dalle grandi potenze e pretese di alzarsi essa stessa al loro livello tentando di creare un "terzo blocco", ma dal 1970 dovette decidersi a orientarsi definitivamente verso il blocco occidentale dominato dagli USA. Molti storici, soprattutto russi, accusarono Mao di tradimento. I comunisti sanno molto bene che la virata di Mao verso gli Stati Uniti non fu un tradimento, ma la concretizzazione del suo sogno.
Ldo
1) Rapporto su un'inchiesta del movimento contadino a Junan, marzo 1927. Testi scelti su Mao Tse-tung
2) Isaac Deutscher arrivò anche lui a questa conclusione assurda che pretendeva che i settori declassati della borghesia e della piccola borghesia urbana potevano dirigere il Partito Comunista, mentre non c'erano motivi perché i contadini non potessero sostituirsi al proletariato in una rivoluzione di tipo "socialista" (Maoisme its origine and outlook. The chinese cultural revolution)
3) Bisogna ricordare che le università dell'epoca non erano università di massa come oggi a cui possono accedere alcuni figli di operai. Gli studenti di allora "erano i figli della borghesia opulenta o dei funzionari di governo; molti erano figli di intellettuali ... che avevano visto diminuire il loro reddito con la rovina della Cina e che potevano prevedere i disastri che avrebbe comportato la rivoluzione cinese" (E. Collotti Pischel, La rivoluzione cinese)
4) Lutte Ouvrière n. 1937-38, citato in "Bilan" n. 46, gennaio 1938
5) "Bilan" n. 45, novembre 1937
6) "Bilan" n. 46, gennaio 1938
7) "Communisme" n. 8, novembre 1937
8) Anche in URSS la borghesia era la classe dominante, ma si trattava di una borghesia nuova, sorta dalla controrivoluzione
9) Ciang Kai-scek si pose contro il PCC dal 1938. In agosto dichiarò fuori legge le organizzazioni del PCC e in ottobre chiuse la base di Shan-si. Fra il 1939 e il 1940 ci furono scontri fra il Kuomintang e l'"Armata Rossa" e nel corso del gennaio 1941, Ciang tese un'imboscata al 4° reggimento (un distaccamento dell'"Armata Rossa" che si era formato nel centro del paese). Egli cercava, con queste azioni, di conquistare la fiducia del Giappone senza tuttavia rompere con gli alleati, aspettando, per rompere, la fine della 2a guerra mondiale
10) Pubblicato nel 1974 al momento della svolta della Cina a favore degli USA, sotto il titolo di Lost chance in China. The world war II despatches of John S. Service, JW editore, Vintage book, 1974.
Links
[1] https://it.internationalism.org/en/tag/2/29/lotta-proletaria
[2] https://it.internationalism.org/en/tag/2/30/la-questione-sindacale
[3] https://it.internationalism.org/en/tag/vita-della-cci/risoluzioni-del-congresso
[4] https://it.internationalism.org/en/tag/2/39/organizzazione-rivoluzionaria
[5] https://it.internationalism.org/en/tag/sviluppo-della-coscienza-e-dell-organizzazione-proletaria/corrente-comunista-internazionale
[6] https://it.internationalism.org/en/tag/4/61/cina
[7] https://it.internationalism.org/en/tag/3/48/guerra
[8] https://it.internationalism.org/rivistainternazionale/200803/578/tesi-sulla-crisi-economica-e-politica-in-urss-e-nei-paesi-dellest
[9] https://it.internationalism.org/content/la-decomposizione-fase-ultima-della-decadenza-del-capitalismo
[10] https://it.internationalism.org/en/tag/vita-della-cci/corrispondenza-con-altri-gruppi
[11] https://it.internationalism.org/en/tag/7/111/bureau-internazionale-per-il-partito-rivoluzionario
[12] https://it.internationalism.org/en/tag/3/46/decomposizione
[13] https://it.internationalism.org/en/tag/7/110/bordighismo
[14] https://it.internationalism.org/en/tag/7/112/battaglia-comunista
[15] https://it.internationalism.org/en/tag/sviluppo-della-coscienza-e-dell-organizzazione-proletaria/prima-internazionale