Frederick Engels ha predetto più di un secolo fa che il capitalismo, se lasciato libero di agire, avrebbe trascinato la società umana nella barbarie. Lo sviluppo della guerra imperialista durante gli ultimi cento anni ha dimostrato che questa orrenda previsione può realizzarsi. Oggi, il mondo capitalista offre un’altra via per l’apocalisse: il collasso ecologico, che potrebbe rendere la terra inospitale alla vita umana come lo è Marte. Malgrado i difensori dell’ordine capitalista riconoscano che questa è la prospettiva, non c’è nulla di efficace che possano fare per cambiare le cose, perché sia la guerra imperialista che lo scombussolamento del clima sono stati determinati dalla perpetuazione del loro morente modo di produzione.
Guerra imperialista = barbarie
Il fallimento della sanguinosa invasione dell’Iraq nel 2003 da parte della “coalizione” capeggiata dagli Stati Uniti segna un momento decisivo dello sviluppo della guerra imperialista verso la distruzione stessa della società. Dopo quattro anni l’Iraq, invece di essere liberata, è stata trasformata in quello che i giornalisti borghesi chiamano una “società spezzata”. E la situazione in Iraq, così come quella in Libano, in Palestina non sono che parti di un processo di disgregazione che minaccia di inghiottire nuove zone del globo, non escluso le metropoli centrali del capitalismo. Lungi dal creare un “nuovo ordine” in Medio Oriente, la presenza militare degli Stati Uniti ha generato solo più caos.
In un certo senso questa carneficina di massa non è nuova. La Prima Guerra Mondiale del 1914-18 è stata la prima micidiale tappa verso un futuro di barbarie. Con la sconfitta della Rivoluzione dell’ottobre 1917 e delle insurrezioni operaie che ha ispirato nel resto del mondo negli anni 20, si apre la via alla catastrofe del conflitto generalizzato con la Seconda Guerra Mondiale del 1939-45. I civili indifesi delle maggiori città diventano l’obiettivo principale dello sterminio di massa sistematico dei bombardamenti e il genocidio di migliaia e migliaia di esseri umani si attesta nel cuore della civile Europa.
Poi la “Guerra fredda” dal 1947all’89 produce una serie di carneficine altrettanto distruttive in Corea, nel Vietnam, in Cambogia e da un capo all’altro dell’Africa, mentre c’è la minaccia continua di un olocausto nucleare globale fra gli USA e l’URSS.
Quello che c’è di nuovo nella guerra imperialista oggi è che la possibilità della fine dell’insieme della società umana a causa di tale guerra appare ora più chiaramente. Con tutta la loro brutalità e le loro lacerazioni, le guerre mondiali del secolo scorso potevano ancora aprire dei periodi di relativa stabilità. Al contrario, tutti i focolai di guerra della situazione attuale non offrono alcuna prospettiva se non un ulteriore aumento della frammentazione sociale a tutti i livelli, del caos senza fine.
Il deterioramento della biosfera
Mentre rafforza la tendenza imperialista verso una barbarie sempre più evidente, il capitalismo in decomposizione accelera i suoi attacchi contro la biosfera con una ferocia tale da determinare un olocausto climatico che potrebbe anche spazzar via la civiltà umana e la stessa vita sulla terra. Dal rapporto della Commissione Intergovernativa sul Cambiamento Climatico del febbraio 2007 e dallo stesso recente G8, risulta chiaro che la teoria sul surriscaldamento del pianeta dovuto all’accumulazione di elevati livelli di anidride carbonica nell’atmosfera prodotti dalla combustione su larga scala di combustibili fossili, non è più solo un’ipotesi ma una teoria “molto probabile”. Le conseguenze di questo riscaldamento del pianeta prodotto dall’attività umana stanno già iniziando a manifestarsi in maniera allarmante: il cambiamento del tempo ha portato sia alla siccità che a ripetute inondazioni su larga scala, a ondate di caldo mortali nel Nord Europa ed a condizioni climatiche estreme letali per l’agricoltura, il che aumenta rapidamente la carestia, le malattie e gli esodi nel terzo mondo. Naturalmente il capitalismo non può essere incolpato per aver iniziato a bruciare combustibili fossili o per l’azione sull’ambiente di altri modi di produzione con conseguenze impreviste e dannose. Ciò sta accendendo dall'alba della civilizzazione umana.
Il capitalismo è tuttavia responsabile dell’enorme accelerazione del processo di distruzione ambientale. Questo è il risultato della ricerca forsennata di profitto del capitalismo e la conseguente negligenza per i bisogni umani e dell’ambiente, tranne laddove questi coincidano con l’obiettivo di accumulare ricchezza. L’intrinseca competitività fra i capitalisti, in particolare fra gli Stati nazionali, impedisce ogni cooperazione reale a livello mondiale.
Da parte della borghesia solo chiacchiere
I partiti politici della borghesia in tutti i paesi stano virando nelle varie tonalità di verde. Ma le eco-politiche di questi partiti, per quanto radicali possano apparire, nascondono deliberatamente la serietà del problema perché l’unica soluzione ad esso minaccia il sistema stesso di cui questi sono espressione. Il massimo che sanno dire i governi è che “la salvaguardia del pianeta è responsabilità di ognuno di noi”, quando in realtà la stragrande maggioranza degli uomini è privata di ogni potere politico e economico, di ogni controllo sulla produzione ed il consumo, su cosa e come si produce. E la borghesia, che invece ha pieno potere in queste decisioni, riesce sempre meno a soddisfare i bisogni umani e dell’ambiente per salvaguardare il profitto.
Basta guardare i risultati delle precedenti politiche dei governi per ridurre le emissioni dell’anidride carbonica per constatare la completa inefficacia degli Stati capitalisti. Anziché una stabilizzazione delle emissioni di gas serra ai livelli degli anni 90 entro il 2000, sulla quale si erano modestamente impegnati i firmatari del Protocollo di Kyoto nel 1995, alla fine del secolo c’è stato un aumento del 10,1% nei maggiori paesi industrializzati ed è previsto che ci sarà un aumentato del 25,3% entro il 2010.
C’è chi, riconoscendo che il profitto è un potente disincentivo ad un’efficace limitazione dell’inquinamento, crede che il problema possa essere risolto sostituendo le politiche liberali con soluzioni statali ben organizzate. Ma è chiaro, soprattutto a livello internazionale, che gli Stati capitalisti sono incapaci di cooperare su questo problema, perché ciascuno di loro dovrebbe farsi carico dei conseguenti costi economici. Il capitalismo è concorrenza ed oggi più che mai è dominato dalla regola del “tutti contro tutti”.
Per i proletari non tutto è perso, hanno ancora un mondo da conquistare
Sarebbe tuttavia sbagliato rassegnarsi e pensare che la società umana deve necessariamente cadere nell’oblio a causa di queste forti tendenze - di imperialismo e distruzione ambientale - verso una barbarie crescente. Il fatalismo di fronte all’inconsistenza di tutte le mezze misure capitaliste proposte per portare la pace e l’armonia con la natura è sbagliato quanto il credere in queste cure cosmetiche.
La società capitalista, così come ha sacrificato tutto all’ottenimento del profitto ed alla concorrenza, ha anche involontariamente prodotto gli elementi per la propria distruzione come sistema di sfruttamento. Ha generato i potenziali mezzi tecnologici e culturali per un sistema di produzione mondiale unificato e pianificato adattato ai bisogni degli esseri umani e della natura. Ha prodotto una classe, il proletariato, che non ha bisogno di pregiudizi nazionali o competitivi, ma ha tutto l’interesse a sviluppare la solidarietà internazionale. La classe operaia non ha interesse nel rapace desiderio di profitto. In altre parole il capitalismo ha posto le basi per un più elevato ordine sociale, per la sua sostituzione con il socialismo. Il capitalismo sta mostrandosi capace di distruggere la società umana, ma al tempo stesso ha generato il proprio affossatore, la classe operaia, che può preservare la società umana e elevarla a nuovi livelli.
Il capitalismo ha prodotto conoscenze scientifiche tali da identificare e misurare i gas invisibili come l’anidride carbonica sia nell’atmosfera attuale che nell’atmosfera di 10.000 anni fa. Gli scienziati possono identificare gli isotopi specifici dell’anidride carbonica che risultano dalla combustione dei combustibili fossili. La Comunità scientifica ha potuto testare e verificare l’ipotesi dell’effetto della serra. Tuttavia è finita da tempo l’epoca in cui il capitalismo, in quanto sistema sociale, poteva usare il metodo scientifico ed i suoi risultati a favore dell'’evoluzione dell’essere umano. L’insieme della ricerca e delle scoperte scientifiche sono oggi rivolte alla distruzione; all’elaborazione di sempre più sofisticati metodi di sterminio di massa. Soltanto un nuovo ordine sociale, una società comunista, può mettere la scienza al servizio di umanità.
Malgrado i 100 anni di declino del capitalismo e le severe sconfitte per la classe operaia, queste basi per la costruzione di una società nuova sono ancora intatte.
La ripresa del proletariato mondiale dal 1968 lo dimostra. Lo sviluppo della lotta di classe contro la pressione costante sulle condizioni di vita dei proletari nelle decadi successive ha impedito la barbara soluzione prospettata dalla “guerra fredda”: una terza guerra mondiale. Dal 1989 tuttavia e con la scomparsa dei blocchi imperialisti, la posizione difensiva della classe operaia non ha potuto impedire la successione di orribili guerre locali che minacciano di svilupparsi in una spirale senza controllo, estendendosi in un numero crescente di parti del pianeta. Nella fase attuale, di decomposizione del capitalismo, il tempo non gioca a favore del proletariato, specialmente perché c’è la pressione di una catastrofe ecologica che va aggiunta nell’equazione storica.
Dal 2003 la classe operaia ha ripreso la via della lotta con rinnovato vigore dopo il crollo del Blocco dell’Est che determinò un provvisorio arresto della ripresa iniziata nel 1968.
In queste condizioni di sviluppo della fiducia della classe in se stessa, l’incremento dei pericoli derivanti dalla guerra imperialista e dalla catastrofe ambientale, invece di indurre un sentimento di impotenza e di fatalismo, possono condurre ad una riflessione politica maggiore sulla posta in gioco nella situazione mondiale e sulla necessità di un rovesciamento rivoluzionario della società capitalista.
Como 5/5/7
(da World Revolution n°304)
La tragedia si è consumata veloce e profonda nel giro di pochi giorni. I motivi di tensione esistenti tra le due diverse frazioni della dirigenza palestinese facenti capo ad Hamas e ad Al Fatah rispettivamente erano diversi. Entrambi espressione del riscatto di una nazione palestinese contro l’eterno nemico israeliano, hanno espresso nel tempo questa ambizione di rivalsa con modalità diverse e concretamente opposte. Al Fatah esprimendo il versante ragionevole e collaborativo, Hamas esprimendo viceversa il versante oltranzista, carico anche di un forte fanatismo religioso. Le elezioni parlamentari dello scorso anno e la vittoria schiacciante di Hamas, che ha preso il pieno controllo del parlamento, con un presidente dell’Autorità Palestinese, Abu Mazen, che resta un moderato, hanno solo finito per produrre gli ingredienti per l’atto finale. Dopo una serie di scontri interni tra le due fazioni, alla fine si è arrivati ad una vera e propria resa dei conti, con uno scontro armato che ha portato alla presa del potere da parte di Hamas della striscia di Gaza mentre, per contromisura, il presidente Abu Mazen ha sciolto il precedente governo di coalizione e, dopo aver dichiarato lo stato di emergenza, ha messo su un nuovo governo “di emergenza” senza neanche l’avallo del parlamento (che non glielo darebbe data la sua composizione), profittando appunto dello stato di emergenza. Ma come si è arrivati a tanto?
La Palestina, cassa di risonanza di tutte le tensioni imperialiste
E’ dai tempi della guerra fredda che gli Usa utilizzano Israele come avamposto militare per controllare e tenere a bada i paesi arabi e tutta l’area mediorientale. E’ ugualmente dalla stessa epoca che la questione palestinese è stata invocata e propugnata da tutti i sedicenti liberatori di popoli, dagli ex paesi stalinisti fino ai vari partiti e movimenti di sinistra che hanno portato avanti l’illusione che per risolvere - o per lo meno lenire - le sofferenze di quel popolo occorresse arrivare all’edificazione di un suo stato. Di fatto gli uni come gli altri si sono serviti delle sofferenze di questi due popoli, entrambi particolarmente provati dalle traversie della storia, per metterli gli uni contro gli altri e per portare avanti la loro politica. Così lo sfascio che oggi possiamo osservare in Palestina è solo in minima parte attribuibile ai rancori antichi esistenti tra le diverse comunità sciite e sunnite e molto più il risultato dei giochi imperialisti che le varie potenze, grandi e meno grandi, hanno svolto e stanno svolgendo tuttora in quest’area. Giusto per ricordare qualche elemento che ha sicuramente concorso a caricare lo scontro tra le due frazioni, possiamo citare come Israele abbia in tutta una fase favorito lo sviluppo di Hamas ai danni di Al Fatah sperando così di ottenere proprio quello a cui siamo arrivati oggi, la perdita di credibilità dell’autorità palestinese e lo scontro tra le due frazioni:
“Quanto ad Hamas, chi conosce le vicende della Palestina occupata sa bene quanta parte abbiano avuto gli israeliani nell’insediamento degli islamisti a Gaza e in Cisgiordania. Come nella seconda metà degli Ottanta fossero visti, da Ariel Sharon in particolare, quali utili contendenti dell’Olp di Arafat. Come ne vennero favorite la crescita e le attività, così da produrre due risultati: uno certo, l’indebolimento dell’Olp, e un altro auspicabile, lo scontro interno tra le due fazioni” (La Repubblica, 14/06/07).
Nello stesso senso possiamo ricordare come l’assedio posto da Israele al quartiere generale del capo dell’Olp Arafat a Ramallah e durato un anno e mezzo e, più recentemente, la sospensione degli aiuti e dei finanziamenti all’autorità palestinese da parte di Usa e UE dopo la formazione del primo governo di Hamas, abbiano giocato entrambi a discreditare la componente moderata della borghesia palestinese, dando vigore alla sua ala estremista di Hamas.
Solo che oggi la situazione di frattura che si è creata in Palestina rischia di sfuggire di mano anche a coloro che in tempi lontani l’hanno innescata e può produrre una instabilità in tutta l’area di cui possono profittare soprattutto quelle potenze emergenti, Iran, Siria tra le principali, che partendo da una situazione di debolezza non possono che guadagnare da qualunque situazione in movimento. E’ per questo che la situazione palestinese costituisce un elemento di grande preoccupazione per le borghesie dei paesi dominanti, Usa in testa, e non è un caso che in seguito alla situazione che si è creata siano stati ripristinati con urgenza i finanziamenti all’autorità palestinese, proprio per dare forza a credibilità all’unica forza politica che in questo momento ha, almeno sulla carta, qualche vaga speranza di recuperare la situazione.
La Palestina, inferno dell’umanità
In tutto questo c’è da chiedersi come stanno e che dicono le popolazioni che vivono nei territori palestinesi. Purtroppo, se prima stavano male, adesso non possono che stare ancora peggio. Infatti la popolazione palestinese, già sottoposta alla doppia autorità dello stato palestinese e di quello israeliano, oggi addirittura si vede contesa tra due diversi governi che si reclamano entrambi il suo legittimo rappresentante, con atti di reciproche vendette e controvendette per i “traditori”, ovvero per quelli che incappano nelle maglie degli uni o degli altri carnefici, come è stato il caso di un miliziano di Al Fatah che è stato gettato da un palazzo di 18 piani dai guerriglieri di Hamas. Naturalmente poco dopo è stato reso lo stesso sporco servizio dai “moderati” di Al Fatah che non hanno esitato a sottoporre allo stesso tipo di supplizio un combattente di Hamas. Questo tipo di esecuzioni sono del tutto consuete nei ranghi delle milizie e del popolo palestinesi, oggi “giustificate” dallo scontro tra fazioni, ieri semplicemente alimentate dal sospetto di non essere del tutto fedeli alla causa palestinese e di avere delle simpatie per Israele. In altri termini lo stesso pacifismo, in Palestina, può essere visto come elemento di tradimento e giudicato passibile di esecuzione capitale. E’ questa la cultura di libertà che porta dentro il popolo palestinese? E’ la guerra civile il risultato degli sforzi di un popolo che da decenni si batte per uno stato proprio? In realtà, se siamo arrivati a questo, non è perché “il popolo” palestinese abbia delle cattive qualità, non abbia la capacità di esprimere una cultura della libertà, ecc., ma perché oggi come oggi, in una fase di crisi storica del capitalismo, non è più ai popoli che può essere demandato il compito di fare sviluppare questo o quel paese. In un’epoca di declino storico e di crisi irreversibile di tutta la società, solo la classe operaia e la sua lotta per il socialismo può mettere fine alle sofferenze dell’umanità. La frattura del ministato palestinese in due sub-unità in lotta fra di loro è la dimostrazione storica della mistificazione che ha sempre accompagnato la parola d’ordine della lotta per lo stato palestinese. La guerra che si combattono due diversi eserciti agli ordini di due diversi e contrapposti governi palestinesi, le sofferenze del popolo palestinese, preso in una trappola dai cannoni di Israele e dalle mitragliatrici di Hamas e di Al Fatah, l’incubo di migliaia di persone che cercano di scappare dalla trappola di Gaza per andare in Cisgiordania dovendo attraversare oltre 40 chilometri di territorio israeliano, esprimono fino in fondo quanto sia falsa la prospettiva di uno stato palestinese come soluzione delle sofferenze del suo popolo. Hamas come Al Fatah, Hezbollah come al Qaida, sono tutte bande criminali al pari di tutte le altre borghesie del mondo, alla ricerca di uno spazio imperialista in un mondo in disfacimento. E’ solo la classe operaia che, polarizzando intorno a sé gli strati popolari non sfruttatori, può dare una risposta in positivo alla tragedia dell’epoca che viviamo.
Ezechiele, 22 giugno 2007
1. Ma solo di nome, perché stalinisti di fatto.
Più di un anno fa, in Francia, mentre il movimento dei giovani faceva ritirare al governo un progetto di legge che aumentava la precarietà dei lavoratori1, la classe dominante ha lanciato una campagna elettorale assordante in vista delle elezioni presidenziali … della primavera del 2007! Come in Italia nel 2005-2006 la campagna ha imperversato per un anno, con tutto l’aiuto della “suspense” sul possibile esito, e di attori ed altri artisti che si sono battuti per convincere tutti che bisognava votare, che la “vera” vittoria era nelle urne. In particolare cantanti e sportivi hanno fatto tutta una pressione verso i giovani, soprattutto delle periferie, per farli iscrivere alle liste elettorali e andare a votare per non perdere l’occasione di decidere “loro stessi” del proprio destino! Quest’anno le elezioni in Francia sono al centro di tutte le preoccupazioni, onnipresenti alla televisione, alla radio e sulla stampa (i lavoratori italiani possono smettere di illudersi di essere stati i soli ad avere questo privilegio!). Votare, questo “atto civico” è oggi sentito dalla grande maggioranza della popolazione come un vero dovere. In questo clima, chi osa confessare ai propri colleghi o a quelli che conosce che lui non vota, si attira immediatamente i fulmini e la disapprovazione generale. L’interesse suscitato da tutto questo lavorio sembra ben reale visto l’elevato tasso di partecipazione alle presidenziali. Dopo il primo turno tutta la classe dirigente si è felicitata di questa alta partecipazione, come “vittoria della democrazia, che non si è smentita al secondo turno.
Ufficialmente la posta in gioco di queste elezioni era molto importante: tutti i candidati parlavano di “rottura” radicale, di cambiamenti che avrebbero fatto uscire la Francia dal marasma economico. Per la classe operaia, inquietarsi per il futuro, voler mettere fine al degrado continuo delle proprie condizioni di vita è certamente legittimo. O, per dire meglio, è una necessità. Ma veramente è mobilitandosi massicciamente sul terreno elettorale che i lavoratori potevano far fronte insieme a tutti questi attacchi? Per la borghesia il diritto al voto è un bene prezioso. Grazie ad esso ogni cittadino ha il potere di decidere la politica che si deve fare nel suo comune, nella sua provincia, nella sua regione, nella sua nazione. Questo è il fondamento della democrazia. Ma questo “potere” non è in realtà una farsa? Ad ogni elezione formalmente si scontrano progetti differenti per l’avvenire della società. Ma in realtà in Francia i due grandi partiti in lizza si sono alternati al potere in questi ultimi anni ed hanno, in tutta evidenza, condotto la stessa politica di attacchi contro le condizioni di vita della classe operaia, con il risultato di una disoccupazione crescente, condizioni sempre più precarie per tutti i lavoratori, espulsioni di immigrati, e così via.
Nell’attuale campagna c’è stata una drammatizzazione degli obiettivi: la destra ha messo avanti l’insicurezza che avrebbe regnato in Francia se lei avesse perso, la sinistra ha polarizzato l’attenzione sull’ultra-liberalismo, l’autoritarismo, e addirittura il fascismo del candidato di destra. Però è stata la sinistra che indicando di votare Chirac nel 2002 per “sbarrare la strada all’estrema destra” ha favorito la promozione di Sarkosy. Oggi essa avanza lo stesso scenario con il suo “tutto, meno che Sarkosy”! La realtà è che gli attacchi antioperai non sono affatto legati alle personalità. E’ la logica stessa del capitalismo che spinge i suoi politici ad adottare questa o quella misura. Tanto è vero che tutti gli attacchi annunciati dal nuovo governo Fillon facevano parte anche del “piano d’azione” di Ségolène Royal: riforma delle pensioni e dei regimi speciali, smantellamento progressivo della copertura sanitaria, aumento dei carichi di lavoro…
E non poteva essere altrimenti. Tutte queste misure sono necessarie per la competitività dell’economia nazionale e quindi ogni frazione al potere deve metterle in atto. Ancora una volta l’esperienza ci mostra che destra e sinistra agiscono in perfetta continuità. E’ sempre la borghesia che vince le elezioni e i proletari non hanno niente da aspettarsi da questa mascherata. Se la borghesia si da tanto da fare per spingere i cittadini a votare, è per deviare l'attenzione della classe operaia su un falso terreno, ed in particolare le giovani generazioni che hanno mostrato la loro preoccupazione per il futuro della società nelle lotte della primavera 2006. Nella democrazia borghese, una volta ogni cinque anni, la società fa finta di mettere su un grande dibattito collettivo in cui tutti sono coinvolti. Nella lotta, al contrario questa implicazione di tutti è reale. Nelle assemblee generali autenticamente proletarie, la parola è data a tutti, i dibattiti sono aperti e fraterni, e, soprattutto, i delegati sono revocabili. Il terreno elettorale è IL terreno della borghesia. Su questo terreno tutte le armi sono nelle mani della classe dominante. E’ essa che ne esce ogni volta vittoriosa e il proletariato ogni volta vinto. Invece nelle manifestazioni, nelle fabbriche, nelle assemblee generali, gli operai possono unirsi, organizzarsi e battersi collettivamente. La solidarietà della classe operaia è una delle chiavi dell’avvenire, contrariamente a questi piccoli pezzi di carta chiamati schede elettorali! Il risultato delle elezioni rappresenta un successo per la borghesia francese, ma essa non potrà impedire che si continui a sviluppare tutta una preoccupazione sul proprio avvenire nella classe operaia, perché le manifestazioni del fallimento del capitalismo si amplificano e spingono sempre più gli operai del mondo intero a lottare per un’altra prospettiva.
E
1. Vedi le “Tesi sul movimento degli studenti in Francia”, su Rivista Internazionale n. 28
La storia della Repubblica italiana è stata certamente costellata da una miriade di colpi di scena parlamentari e politici, con crisi governative e relative cadute degli esecutivi. Ma oggi assistiamo a qualcosa di nuovo: gli ultimi governi non arrivano neanche a formarsi che già devono far fronte a una serie di turbolenze interne che li rendono fragili e deboli, turbolenze spesso causate non tanto dall’opposizione o “dalla piazza”, quanto dalle stesse componenti della maggioranza. E’ stato così per il primo governo Berlusconi che è addirittura caduto per mano dell’alleato leghista che tirava sul prezzo dell’alleanza. Lo stesso è stato per il primo governo Prodi, anch’esso caduto di fronte al voto contrario di Rifondazione Comunista e ripiegando sul governo D’Alema. Il secondo governo Berlusconi è certo rimasto più a lungo, ma a costo di quale logoramento interno e con l’uscita dell’UDC dall’alleanza della CDL a fine legislatura. Oggi abbiamo un secondo governo Prodi che non smentisce questo andamento avendo già subito, con la sua risicata maggioranza, una prima crisi parlamentare per il voto contrario di alcuni elementi interni alla maggioranza sul caso Afghanistan e continuamente traballante per le infinite liti che sorgono al suo interno. Cos’è dunque che sta succedendo?
La decomposizione dell’apparato politico della borghesia
Quello che avviene in Italia è l’espressione di un fenomeno di dimensione più generale che la nostra organizzazione ha denominato fase di decomposizione e che ha generato, tra le sue conseguenze più importanti, il crollo dei due blocchi imperialisti. A partire da questa situazione, diversamente da quanto accadeva ancora una ventina di anni fa, quando i singoli paesi del mondo tendevano ad allinearsi dietro una delle due grandi superpotenze, oggi come oggi, in mancanza di questa polarizzazione a livello imperialista, i singoli paesi tendono a giocare ognuno le proprie carte sullo scacchiere internazionale. Ciò ha profondamente alterato la vita politica della borghesia in paesi come l’Italia dove, finita l’epoca del controllo ferreo da parte degli USA sul nostro paese attraverso un partito come la Democrazia Cristiana, le componenti politiche (di nuova generazione o riciclate dalla prima Repubblica) hanno potuto giocare più liberamente un loro ruolo. Ma sta proprio qui il problema. Di fronte ad uno scenario in cui mancano degli elementi di riferimento forti, anche se mistificati, come potevano essere all’epoca il modello sovietico (scambiato erroneamente per patria del socialismo) e il modello americano (scambiato a sua volta per patria della democrazia), in mancanza di un dovere categorico a rimanere allineati su una certa politica, questi partiti tendono a perdere tanto la loro identità quanto ogni senso di coerenza politica, tendendo sempre più ad andare ognuno per proprio conto, seguendo la logica del vantaggio immediato e perdendo ogni visione di prospettiva. Questa perdita di coerenza comporta altresì la pletora di partiti e partitini che, particolarmente nella maggioranza dell’attuale governo Prodi, ha raggiunto una dimensione farsesca, producendo una fragilizzazione di quella che, sulla carta, dovrebbe essere la componente più seria e solida della borghesia. D’altra parte, confrontato ad una situazione di difficoltà economica che impone misure sempre più antipopolari che il governo Prodi non ha mancato di portare avanti con la sua finanziaria, il decreto Bersani e tutta la politica finora condotta, l’attuale maggioranza, come già quella di Berlusconi a fine legislatura, soffre di una forte perdita di credibilità finendo per subire uno scacco matto alle recenti elezioni amministrative.
I difficili tentativi della borghesia di far fronte alla propria perdita di identità e di unità
Naturalmente la borghesia, benché colpita da questa perdita di prospettiva, è dotata al suo interno di componenti più serie e lungimiranti - come ad esempio la compagine di Prodi - che si rendono conto che la gente ha sempre meno fiducia nelle istituzioni e che si affaccia l’idea che “destra o sinistra sono ormai la stessa cosa”. Questo è un problema per la borghesia che punta sulla mistificazione democratica delle elezioni per avere un controllo sulla popolazione e, se dal punto di vista economico, non ci può fare niente, la cosa su cui può puntare è dare un’immagine per lo meno più seria di chi sta al governo. E’ in questa chiave che vanno letti i tentativi che si stanno portando avanti per compattare i partiti della borghesia per avere delle maggioranze più salde. Questo fenomeno è presente sia a destra che a sinistra, con Berlusconi da un lato che spinge verso un’alleanza più vincolante se non un vero e proprio partito unico, e la sinistra che, con maggiore determinazione che per il passato, porta avanti il progetto del partito democratico. Ma, come già detto, l’impresa non è facile perché finanche questo tentativo di vincere la frammentazione è visto da altri come opportunità per acquisire migliori posti, scavalcare dei rivali-alleati, ecc. Tutto questo alimenta la turbolenza politica a cui stiamo assistendo da un anno a questa parte:
“Come si fa a dare un’immagine di buon governo, quando i ministri e gli alleati della tua maggioranza sono i primi a smontare i provvedimenti che prendi? Ormai il dissenso precede addirittura il provvedimento da cui si dissente. Basta che lo annunci, e c’è subito qualcuno che si ritiene titolato a criticare, per aumentare la visibilità sua e quella del suo partito. (…) Il “panino” dei tg è il simbolo di questo pessimo andazzo: se dissenti ci sei dentro, se no sei fuori”. (La Repubblica 30/5/07).
Queste parole di Prodi sono particolarmente significative ed esprimono bene la dinamica impazzita a cui assistiamo tutti i giorni. In pratica, in assenza di un qualunque connotato ideale e/o politico che caratterizzi concretamente questo o quel partito, quello che dà vigore alle varie parrocchiette politiche è la loro visibilità, la loro capacità di farsi sentire. Perciò, come giustamente arguisce Prodi, “se dissenti ci sei dentro, se no sei fuori”, cioè se punti i piedi e contesti la tua stessa maggioranza, sei dentro cioè sei visibile in tv e quindi in qualche modo acquisti popolarità rispetto ai tuoi stessi alleati; se non lo fai, sei scavalcato dagli altri.
La dinamica di decomposizione dello Stato
Ma il fenomeno della decomposizione non riguarda soltanto i partiti della borghesia, ma più in generale l’insieme della società borghese, ivi comprese le stesse strutture dello Stato. Per comprendere ciò è importante prendere in considerazione quanto sta succedendo da qualche anno in Italia a proposito di intrighi e scandali intorno a Telekom Serbia e commissione Mitrokin, di dossier raccolti indebitamente dai servizi segreti dello Stato, di una tendenza della Guardia di Finanza a muoversi “come un corpo separato”, fino ad arrivare ai recentissimi dossier sulle intercettazioni telefoniche che riguardano gli stessi DS, da Fassino a D’Alema. Tutto questo ha portato un giornale come la Repubblica a parlare dell’insorgere di una nuova P2:
“Si può dire che quel che fa capolino con l’offensiva del generale (Speciale, ndr) è una varietà modernizzata della loggia P2. La si può definire così, una P2, soltanto per semplificazione evocativa anche se il segno caratteristico di questa consorteria non è l’affiliazione alla massoneria (anche se massoni vi abitano), ma la pervasività – sotterranea, irresponsabile, incontrollata, trasversale – del suo potere di pressione, di condizionamento, di ricatto.” (La Repubblica 4/6/07).
Ma cosa sarebbe questa “consorteria”?
“Di quel network di potere occulto e trasversale, ormai si sa o si dovrebbe sapere. E’ un “apparato” legale/clandestino deforme, scandaloso, ma del tutto “visibile”. Nasce con la connessione abusiva dello spionaggio militare con diverse branche dell’investigazione, soprattutto l’intelligence business, della Guardia di Finanza; con agenzie di investigazione che lavorano in outsourcing; con la Security privata di grandi aziende come Telecom, dove esiste una “control room” e una “struttura S2OC” «capace di fare qualsiasi cosa, anche intercettazioni vocali: può entrare in tutti i sistemi, gestirli, eventualmente dirottare le conversazioni su utenze in uso, con la possibilità di cancellarne la traccia senza essere specificamente autorizzato.»” (La Repubblica 4/6/07).
A sentire queste parole sembra quasi di tornare ai tempi bui dei tentativi di golpe in Italia, preparati e mai portati a termine dal generale De Lorenzo nel 1964 o dal principe Borghese nel dicembre 1970 o delle trame piduiste di Gelli durate fino a tutti gli anni ’70. Ma è questo lo scenario che si profila davanti a noi? Certamente no, anzitutto per il fatto che, oggi ancora più che allora, una soluzione forte non è proprio all’ordine del giorno perché la borghesia ha a che fare con il risveglio lento ma deciso di una coscienza di classe contro il quale non sono adatte misure autoritarie quanto piuttosto le mistificazioni della democrazia. Ma anche perché assistiamo oggi a qualche cosa di inedito, ovvero a una tendenza di questo coacervo di forze a non stare né con la destra né con la sinistra, ma di compattarsi semplicemente in maniera autonoma per fare i propri interessi, attraverso una politica di veleni, pressioni e ricatti:
“Prima della campagna elettorale del 2006, l’apparato legale/clandestino programma e realizza una campagna di discredito contro Romano Prodi. Sarebbe un errore, però, considerare il network “al servizio” del centrodestra. Quell’apparato legale/clandestino, a cavallo tra due legislature, si è “autonomizzato”, si è “privatizzato”, è autoreferenziale. Raccoglie e gestisce informazioni in proprio. (…) Con accorta disciplina, il network spionistico sa essere il virus e il terapeuta della malattia del sistema politico italiano che impedisce, all’uno come all’altro schieramento, di riconoscersi la legittimità (morale prima che politica) di governare. Alimenta così la sindrome di Berlusconi consegnandogli dossier sul complotto mediatico-giudiziario. La cura con una pianificazione di annientamento dei presunti complottardi. Eccita il “complesso berlusconiano” della sinistra e lenisce quello stato psicoemotivo, prima che politico, con informazioni sulle mosse vere o presunte del temuto spauracchio. Quanto più il conflitto pubblico precipita oscurandosi in un sottosuolo, dove poteri frantumati, deboli, nevrotici tentano di rafforzarsi o difendersi; tanto più il network è in grado di essere custode dell’opaca natura del potere italiano o il giocatore in più che può favorire la vittoria nella contesa.” (La Repubblica 4/6/07).
Ancora una volta dobbiamo dire che non ci meravigliamo dell’esistenza di questa dinamica subdolamente infedele ed eversiva che anima settori dello Stato e che in altre circostanze avrebbe fatto gridare al pericolo di golpe. Ma, contrariamente al passato, oggi questo agglomerato di realtà, questo network, come viene chiamato nell’articolo citato, non risponde neanche più alla logica del partito golpista di una volta. Non potendo trovare nel mondo politico reale degli sponsor che siano in grado di raccogliere questa offerta di aiuto, “quell’apparato legale/clandestino (…) si è “autonomizzato”, si è “privatizzato”, è autoreferenziale.” Così questo network spionistico si mette in proprio ed agisce per conto proprio, “sa essere il virus e il terapeuta della malattia del sistema politico italiano che impedisce, all’uno come all’altro schieramento, di riconoscersi la legittimità (morale prima che politica) di governare.”
Se abbiamo dedicato tutto un articolo a delle questioni “interne” alla borghesia è perché questa cerca e cercherà sempre più di utilizzare le sue stesse contraddizioni e beghe interne contro i proletari, per farli schierare, per farli compattare intorno ad una vacua democrazia contro un presunto pericolo di golpe, di trame oscure, ecc. ecc. La realtà è invece che questa società, in mancanza di una qualunque prospettiva, fosse pure quella di un’entrata in guerra nell’illusione folle di guadagnare sul campo di battaglia un maggiore spazio imperialista, si accartoccia su se stessa, si sfalda ogni giorno di più, facendoci capire che, in Italia come negli Usa o in Russia o in Cina, non c’è alcuna prospettiva per l’umanità. L’unica possibilità per arrestare il processo di sfaldamento, di perdita di coerenza, di decomposizione che sta vivendo la società borghese in questa fase è che il proletariato imponga la sola soluzione storica che esiste oggi, la rivoluzione proletaria per abbattere questa società e instaurare la società comunista.
Ezechiele, 11 giugno 2007
All’inizio dell’anno un’ondata di scioperi ha toccato numerosi settori in Egitto: le fabbriche di cemento, gli allevamenti di pollame, le miniere, i trasporti urbani e le ferrovie. Nel settore sanitario, e soprattutto nell’industria tessile, gli operai hanno scatenato una serie di scioperi illegali contro il forte abbassamento degli stipendi reali e le riduzioni dei premi di incentivazione. Il carattere combattivo e spontaneo di queste lotte può essere colto dalla descrizione che segue che riporta come, nello scorso dicembre, sia scoppiata la lotta nel grande complesso di tessitura e filatura nel nord del Cairo, Mahalla al-Kubra’s Misr, epicentro del movimento. Le citazioni sono tratte dal testo di Gioele Beinin e Hossam el-Hamalawy dal titolo: “Gli operai del tessile egiziano si scontrano con il nuovo ordine economico”, pubblicato sui siti “Middle East Report Ondine” e libcom.org, e basato su interviste a due operai della fabbrica, Muhammed’Attar e Sayyid Habib.
“I 24.000 operai del complesso di tessitura e filatura Mahalla al-Kubra’s Misr erano in attesa di notizie sulle promesse fatte il 3 marzo 2006, secondo le quali il Primo ministro, Ahmad Nazif, avrebbe decretato un aumento del premio annuo per tutti gli operai del settore pubblico industrializzato di 100 lire egiziane (17$) corrispondenti ad un premio di due mesi di salari. Gli ultimi aumenti di premi annui, da 75 a 100 lire, risalivano al 1984.
«Abbiamo letto il decreto ed abbiamo cominciato a parlarne in fabbrica» dice Attar. «Anche le autorità del sindacato pro-governativo pubblicavano la notizia come un loro successo». Continua poi: «Arrivò dunque dicembre (periodo in cui sono pagati i premi annui) e ognuno era ansioso. Ci accorgemmo allora che eravamo stati presi in giro. Ci venivano offerte le stesse vecchie 100 lire. In realtà 89 lire, per essere più precisi, a causa delle detrazioni (per le tasse)»”.
Uno spirito di lotta era nell’aria. Nei due giorni seguenti, gruppi di operai rifiutarono di accettare il salario in segno di protesta. Poi, il 7 dicembre, migliaia di operai della squadra della mattina cominciarono a riunirsi nel Mahalla’s Tal’at Harb Square, davanti all’entrata della fabbrica. Il ritmo del lavoro in fabbrica era già rallentato ma la produzione si bloccò quando 3000 operaie dell’abbigliamento lasciarono il posto di lavoro e si diressero verso le sezioni del tessile e della filatura dove i loro colleghi maschi non avevano fermato ancora le macchine. Le operaie gridarono cantando: “Dove sono gli uomini? Ecco le donne!” Con vergogna, gli uomini si unirono allo sciopero.
Circa 10.000 operai si radunarono sulla piazza, gridando “Due mesi! Due mesi!” per affermare la loro rivendicazione sui premi promessi. La polizia antisommossa si era dispiegata velocemente intorno alla fabbrica e nella città, ma non impegnò alcuna azione per reprimere la manifestazione. “Erano impressionati dal nostro numero” dice Attar. “Speravano che sarebbe rientrata con la notte o all’indomani”. Incoraggiata dalla polizia di Stato, la direzione offrì un premio di stipendio di 21 giorni. Ma, come ricorda ridendo Attar, “le operaie massacrarono quasi tutti i rappresentanti della direzione che venivano a negoziare”.
“Come calò la notte, dice Sayyid Habib, gli operai fecero fatica a convincere le donne a fare ritorno alle loro case. Volevano restare e dormire sul posto. Ci vollero ore per convincerle a rientrare presso le loro famiglie per ritornare l’indomani”. Sorridendo Attar aggiunge: “Le donne erano più combattive degli uomini. Erano sotto la pressione dell’intimidazione della polizia antisommossa e delle loro minacce, ma tenevano duro”.
Prima delle preghiere della sera, la polizia antisommossa si precipitò sulle porte della fabbrica. Settanta operai, tra cui Attar e Habib, erano dentro a dormire. “Gli ufficiali della polizia di Stato ci dissero che eravamo poco numerosi e che era meglio uscire” dice Attar. “Ma non sapevano quanti di noi erano rimasti all’interno. Mentimmo dicendo loro che eravamo migliaia”. Attar e Habib svegliarono velocemente i loro compagni e gli operai, tutti insieme, cominciarono a colpire rumorosamente sulle sbarre di acciaio. “Svegliammo tutti nel complesso e nella città. I nostri cellulari impazzirono perché chiamavamo le nostre famiglie e gli amici all’esterno, chiedendo loro di aprire le finestre e di fare sapere alla polizia che ci guardavano. Chiamammo tutti gli operai che conoscevamo per dir loro di precipitarsi verso la fabbrica”.
In quel momento la polizia aveva tagliato l’acqua e l’elettricità alla fabbrica. Gli agenti dello Stato si precipitarono verso le stazioni per dire agli operai che venivano dall’esterno della città che la fabbrica era stata chiusa a causa di una disfunzione elettrica. L’astuzia mancò il suo obiettivo.
“Arrivarono più di 20.000 operai”, racconta Attar. “Abbiamo organizzato una manifestazione massiccia e dei falsi funerali ai nostri padroni. Le donne ci portarono del cibo e delle sigarette e si unirono alla marcia.
I servizi di sicurezza erano paralizzati. I bambini delle scuole elementari e gli studenti delle scuole superiori vicine si riversarono in strada in sostegno agli scioperanti. Il quarto giorno dell’occupazione della fabbrica, gli ufficiali del governo, terrorizzati, offrirono un premio di 45 giorni di stipendio e diedero l’assicurazione che la compagnia non sarebbe stata privatizzata. Lo sciopero fu sospeso, con l’umiliazione di una federazione sindacale controllata dal governo grazie al successo dell’azione non autorizzata degli operai della filatura e del tessile di Misr”.
La vittoria di Mahalla aveva incoraggiato un certo numero di altri settori ad entrare in lotta, ed il movimento non era affatto finito. In aprile, il conflitto tra gli operai di Mahalla e lo Stato riemerse. Gli operai decisero di mandare un’importante delegazione al Cairo per negoziare (!) - con la Federazione generale dei sindacati - degli aumenti di stipendio e mettere sotto accusa il comitato sindacale di una fabbrica di Mahalla per aver sostenuto i padroni durante lo sciopero di dicembre. La risposta delle forze di polizia del governo fu di mettere la fabbrica in stato d’assedio. Gli operai si misero allora in sciopero e due altre grandi fabbriche tessili, Ghazl Shebeen e Kafr el-Dawwar, dichiararono la loro solidarietà con Mahalla. La presa di posizione di quest’ultima fu particolarmente lucida:
“Noi, operai del tessile di Kafr el-Dawwar, dichiariamo la nostra piena solidarietà con voi, per realizzare le vostre giuste rivendicazioni che sono uguali alle nostre. Denunciamo con forza l’assalto dei servizi di sicurezza che impediscono alla delegazione di operai (di Mahalla) di andare al quartier generale della Federazione generale dei sindacati al Cairo. Condanniamo anche la presa di posizione di Said el-Gohary (1) a Al-Masry Al-Youm della scorsa domenica, nella quale descrive il vostro movimento come un ‘non-senso’. Vi seguiamo con attenzione e dichiariamo la nostra solidarietà con lo sciopero degli operai delle confezioni dell’altro ieri, e con lo sciopero parziale nella fabbrica di seta.
Vogliamo farvi sapere che noi operai di Kafr el-Dawwar e voi di Mahalla marciamo nella stessa direzione, e che abbiamo un nemico. Sosteniamo il vostro movimento perché abbiamo le stesse rivendicazioni. Dalla fine del nostro sciopero della prima settimana di febbraio, il nostro Comitato sindacale di fabbrica non ha fatto niente per realizzare le rivendicazioni che erano all’origine del nostro sciopero. Il nostro Comitato sindacale di fabbrica ha colpito i nostri interessi... Esprimiamo il nostro sostegno alla vostra rivendicazione di riformare i salari. Noi, come voi, aspettiamo la fine di aprile per vedere se il ministro del lavoro accederà o no alle nostre rivendicazioni. Non mettiamo molta speranza nel ministro, non abbiamo visto alcun movimento da parte sua o di quella del Comitato sindacale di fabbrica. Possiamo contare solamente su noi stessi per realizzare le nostre rivendicazioni.
Pertanto insistiamo sul fatto che:
1. Siamo nella stessa barca, e ci imbarcheremo insieme nello stesso viaggio.
2. Dichiariamo la nostra piena solidarietà con le vostre rivendicazioni ed affermiamo che siamo pronti per un’azione di solidarietà, se decidete un’azione nell’industria.
3. Informeremo gli operai della seta artificiale, El-Beida Dyes e Misr Chemicals, della vostra lotta, e creeremo dei collegamenti per allargare il fronte di solidarietà. Tutti gli operai sono fratelli in tempi di lotta.
4. Dobbiamo creare un largo fronte per consolidare la nostra lotta contro i sindacati governativi. Dobbiamo rovesciare questi sindacati adesso, non domani” (Tradotto dal sito internet Arabawy).
Questa è una presa di posizione esemplare perché mostra la base fondamentale di tutta l’autentica solidarietà di classe attraverso le divisioni create dai sindacati e le imprese - la coscienza di appartenere alla stessa classe e di combattere uno stesso nemico. È anche estremamente chiara sul bisogno di lottare contro i sindacati.
Alcune lotte sono sorte anche altrove durante questo periodo: i netturbini di Giza hanno saccheggiato gli uffici della compagnia per protestare contro il mancato pagamento dei loro stipendi; 2700 operai del tessile a Monofiya hanno occupato una fabbrica; 4000 operai del tessile ad Alessandria si sono messi in sciopero per una seconda volta dopo che la direzione aveva tentato di decurtare la paga per lo sciopero precedente. Anche questi sono stati scioperi illegali, non-ufficiali.
Ci sono stati anche altri tentativi di rompere il movimento con la forza. La polizia chiuse o minacciò di chiudere il “Centro di servizi per i sindacati e gli operai” di Nagas Hammadi, Helwan and Mahalla. Questi centri erano accusati di fomentare “una cultura dello sciopero”.
L’esistenza di questi centri indica che esistono chiaramente dei tentativi di costruire dei sindacati nuovi. Inevitabilmente, in un paese come l’Egitto, dove gli operai hanno fatto solo l’esperienza di sindacati che agiscono apertamente come polizia di fabbrica, gli elementi più combattivi sono sensibili all’idea che la risposta al loro problema stia nella creazione di sindacati veramente “indipendenti”, come fu il caso degli operai polacchi nel 1980-81. Ma ciò che emerge molto chiaramente dal modo con cui lo sciopero è stato organizzato a Mahalla, attraverso le manifestazioni spontanee, le delegazioni massicce e le assemblee generali alle porte della fabbrica, è che gli operai sono più forti quando prendono direttamente le cose nelle loro proprie mani piuttosto che rimettere il loro potere ad un nuovo apparato sindacale.
In Egitto possono già vedersi i germi dello sciopero di massa - non solamente nella capacità degli operai nell’azione di massa spontanea, ma anche per l’alto livello di coscienza espressa nella presa di posizione di Kafr el-Dawwar.
Non c’è legame cosciente tra questi avvenimenti ed altre lotte in differenti parti del Medio Oriente che subiscono le divisioni imperialistiche: in Israele presso i portuali, gli impiegati del servizio pubblico e, più recentemente, le maestre di scuola in sciopero per aumenti salariali, e gli studenti che si sono scontrati con la polizia contro gli aumenti dei prezzi dell’insegnamento; in Iran dove il Primo Maggio migliaia di operai hanno scombussolato la manifestazione governativa ufficiale gridando slogan anti-governativi o hanno partecipato alle manifestazioni non autorizzate e si sono scontrati con una severa repressione poliziesca. Ma la simultaneità di questi movimenti ha la stessa origine: la via presa dal capitale a ridurre in povertà la classe operaia dovunque nel mondo. In questo senso, questi movimenti contengono i germi della futura unità internazionale del proletariato al di là del nazionalismo, della religione e della guerra imperialistica.
Amos 1/5/07
Da Révolution Internationale n° 380, giugno, 2007
1. Leader del sindacato della filatura e del tessile, Said El-Gohary, accusava tra l’altro gli operai “di essere terroristi che vogliono sabotare la compagnia”.
Da qualche tempo la CCI è in contatto con dei compagni nelle Filippine per sostenere lo sviluppo delle idee e dei principi della Sinistra comunista e per promuovere i legami fra i comunisti presenti nelle Filippine ed il resto del movimento internazionalista mondiale (vedi la nostra critica di “Ka Popoy” Lagman pubblicata sul nostro sito in lingua inglese). Le discussioni fra la CCI ed i compagni nelle Filippine ha inoltre portato alla creazione del gruppo “Internasyonalismo”, che pubblica i documenti di discussione, in filippino ed in inglese, su varie questioni teoriche, così come sulla situazione politica nelle Filippine ed a livello internazionale. Incoraggiamo i compagni a visitare il sito web di Internasyonalismo.
Il testo che pubblichiamo qui di seguito è una presa di posizione di Internasyonalismo sul significato del 1° Maggio. Noi condividiamo nel complesso il contenuto di questa presa di posizione, ma soprattutto salutiamo il risoluto spirito internazionalista in essa presente.
Diamo il benvenuto a questa nuova voce internazionalista che si sta facendo largo in un’importante frazione del proletariato dell’Estremo-Oriente.
Celebriamo il 1° Maggio sulla base dell’internazionalismo
Quest’anno, nel mondo intero, vediamo varie organizzazioni, partiti e Stati osservare la festa del 1° Maggio, il giorno della classe operaia internazionale. Possiamo leggere e sentire le loro diverse dichiarazioni e abbiamo visto le manifestazioni di queste organizzazioni al servizio dei becchini del capitalismo.
La destra della borghesia - esplicitamente pro-capitalista e pro-“globalizzazione” - la maggior parte della quale controlla governi e Stati di molti paesi, come nel passato, continua a dire agli operai che non c’è altro sistema che può salvarli dalla miseria se non il capitalismo e la globalizzazione; che il nemico della “pace” e del progresso è il terrorismo (nelle Filippine, il maoista CPP-NPA-NDF, il Moro secessionista MILF e i fanatici islamici di Abu Sayyaf e simili). La base del loro appello è difendere e sviluppare l’economia nazionale mentre si rafforza la competitività nel mercato mondiale. Stanno costringendo gli operai a sempre maggiori sacrifici per la loro borghese madrepatria!
Ancora una volta, questi squali senza scrupoli affamati di profitto promettono agli operai colpiti dalla miseria, come hanno già fatto in passato, che “se la nostra nazione si sviluppa, voi potrete trarne beneficio, dunque uniamoci ed aiutiamoci l’un l’altro per il nostro paese!”
Ma nelle Filippine, come ovunque nel mondo, la disillusione della classe alle promesse della classe dominante e sfruttatrice si sta sviluppando sempre di più. Gli operai filippini sono sempre più disgustati da quello che sta accadendo alle loro condizioni di vita, mentre le diverse fazioni dei politici capitalisti li prendono in giro alternativamente con il “potere rivoluzionario del popolo” e le “le elezioni”.
I partiti di sinistra del capitale - i maoisti CPP e l’MLPP, il “leninista” PMP, le diverse sfumature di trotskysti, anarchici, radicali democratici e sindacalisti, anti-imperialisti nazionalisti e simili – pur usando parole diverse contro il “capitalismo” e contro la globalizzazione, sono al fondo uniti per rinchiudere gli operai nel quadro dello sviluppo nazionale (cioè del capitalismo nazionale), con parole che sono “musica” all’orecchio del proletariato filippino - democrazia e nazionalismo. Gridano slogan rivoluzionari e radicali per il “rovesciamento” del marcio sistema, ma in realtà è soltanto la fazione della borghesia al potere che vogliono rovesciare mentre aiutano l’altra fazione a sostituire la precedente. Mobilitano per la democrazia, che essenzialmente significa dare agli operai l’illusione che il sistema del capitalismo funziona finché il potere è nelle mani del “popolo”! Mentendo, spiegano al proletariato che la “dominazione straniera” è la causa di fondo della povertà e che sradicando questa causa, liberando il paese dall’“imperialismo”, il capitalismo si svilupperà. Quindi, come dicono i maoisti, la “democrazia popolare” o la “democrazia diretta” potrà diventare una realtà!
Benché il “leninista” PMP e i troschisti dichiarino formalmente il rovesciamento dello Stato capitalista ed il socialismo, essi non sono diversi dai democratici nel seminare l’illusione nella classe che “la democrazia è una strada necessaria per raggiungere il socialismo”. Mentre gli anarchici, che aborriscono ogni tipo di “autorità”, usano la “democrazia diretta” come slogan per ingannare la classe sfruttata fino al punto di formare “modelli comunitari” a livello locale.
Non c’è alcuna differenza sostanziale fra l’ala destra e quella di sinistra del capitale rispetto alla visione che portano avanti - difesa dell’economia nazionale e della democrazia - se non nell’uso di slogan conservatori o radicali; apertamente contro il socialismo ed il comunismo o difendendoli a parole. Entrambi si aiutano reciprocamente per in incatenare gli operai filippini in particolare, ed il proletariato mondiale in generale, alla mistificazione della democrazia e del nazionalismo.
La natura del proletariato e delle sue lotte
Il 1° Maggio è il giorno internazionale della classe operaia. In questo giorno, ancora una volta, dobbiamo mettere avanti la natura internazionale del proletariato come classe, che da decenni l’ala destra e di sinistra della borghesia stanno provando a nascondere ed alterare con le loro mistificazioni. E queste mistificazioni, grazie alla sinistra, hanno dominato la coscienza degli operai filippini per quasi un secolo. Gli operai non hanno patria; nessuna madrepatria da difendere e sviluppare. Il proletariato è una classe internazionale. Gli operai nel mondo, dovunque vivano e lavorino, hanno gli stessi interessi. Hanno un unico nemico - l’insieme della classe capitalista. I loro interessi non dipendono dagli interessi di questo o quel paese. Al contrario, i loro interessi si trasformeranno in realtà se tutte le frontiere nazionali saranno distrutte. Il socialismo ed il comunismo saranno realizzati a livello mondiale, non in un paese o in un gruppo di paesi.
L’internazionalismo è una delle due pietre miliari del vero movimento proletario. L’altra è il suo movimento indipendente, indipendente da altre classi ed in particolare da tutte le fazioni della classe capitalista. Queste sono le differenze basilari fra l’autentico movimento proletario e l’ala di sinistra del capitale nel capitalismo decadente.
Poiché il proletariato è una classe internazionale, per essere vittoriose, anche le sue lotte devono avere un carattere internazionale. E’ nel quadro della marcia verso la rivoluzione proletaria mondiale che deve essere basata la lotta di ogni frazione proletaria, in qualsiasi parte del pianeta. In questo contesto si può capire come “la lotta per il nazionalismo e la democrazia”, nell’attuale epoca storica di decadenza del capitalismo, sia anti-proletaria e faccia deviare le lotte della classe. Nella decadenza del capitalismo, le tattiche che appoggiano la “liberazione e la democrazia nazionale”, la lotta per le riforme, il “sindacalismo ed il parlamentarismo rivoluzionario” e il “frante unito”, sono tutte contro-rivoluzionarie.
Il 1° Maggio 2007 nelle Filippine
Fondamentalmente non c’è alcuna distinzione sull’essenza della “celebrazione” fatta nelle Filippine con il resto del mondo – tutte dominate e controllate dalla destra e dalla sinistra del capitale. La sinistra filippina usa il 1° Maggio come veicolo di propaganda per il proprio opportunismo elettorale. Presunta sostenitrice degli interessi della classe, la costringe a partecipare al brutale e ingannevole circo elettorale delle diverse fazioni della classe capitalista. Ma con il lento emergere di rivoluzionari nelle Filippine che stanno iniziando a rivalutare la loro pratica sulle basi dell’internazionalismo e dell’autonomia del movimento operaio; che si avviano in un processo di chiarificazione teorica, possiamo dire che effettivamente quest’anno c’è qualcosa da celebrare il 1° Maggio!
La messa in discussione da parte di una manciata di comunisti nelle Filippine della propria pratica è un elemento della dinamica di sviluppo della coscienza comunista internazionalista in molte parti del mondo a partire dagli anni 60. La conferenza internazionale di marxisti rivoluzionari in Corea nello scorso 2006 è stata una chiara manifestazione del fatto che anche in paesi in cui gli scritti della Sinistra comunista non sono stati ancora letti e studiati, dopo circa 100 anni, ora ci sono rivoluzionari ed operai che, sulla base delle proprie esperienze nella decadenza del capitalismo e del fallimento delle vecchie concezioni e tattiche ereditate dalle varie organizzazioni di “sinistra”, stanno riflettendo sulle loro vecchie teorie che i 50 anni di contro-rivoluzione gli avevano fatto credere “invarianti”.
Anche se la classe operaia filippina, sempre più disillusa contro questo marcio sistema, è ancora mistificata dai fallimentari dogmi della “sinistra”, siamo fortemente fiduciosi che essa al più presto, come parte di una classe internazionale e sulla base della propria esperienza, eleverà la propria coscienza collettiva e costruirà le proprie organizzazioni, come parte dello sforzo complessivo in tutto il mondo per costruire il futuro partito comunista internazionale.
GLI OPERAI NON HANNO PATRIA!
OPERAI DEL MONDO, UNITEVI!
INTERNASYONALISMO, 1 maggio, 2007
La CCI on line in filippino
Grazie agli sforzi dei compagni del gruppo Internasyonalismo siamo in grado di aprire un nuovo sito web in lingua filippina, dove abbiamo pubblicato alcuni dei testi di base della CCI: speriamo di poter pubblicare più testi in filippino nei prossimi mesi.
Il 14 aprile scorso si è tenuto a Milano un “convegno contro l’aggressione imperialista nel Medio Oriente” organizzato dal “Comitato di lotta internazionalista (…) nato agli inizi del 2005 come sforzo unitario di alcuni compagni e gruppi politici di Milano, Torino, Genova, La Spezia, Pavia, Roma, con lo scopo di agire nel movimento reale, nelle lotte sociali e di classe su un terreno conseguentemente anticapitalista che, necessariamente, per esserlo, deve esercitare la sua politica in un fronte internazionale e con posizioni internazionaliste”. (1)
Pur sapendo che avrebbe attirato un insieme eterogeneo e frastagliato di componenti politiche, noi abbiamo aderito con convinzione a questa iniziativa riconoscendo in essa un momento di una dinamica ben più ampia, di dimensione internazionale, che vede sorgere una nuova generazione di elementi politicizzati alla ricerca di una strada da percorrere per uscire dall’inferno di questa società. In particolare abbiamo colto, nella lettera di invito al convegno, diversi spunti interessanti. Tra gli altri ce ne sono due che vogliamo riprendere. Il primo, in cui si afferma che:
“La necessità di confrontarsi nel reale scontro politico e di classe, ci spinge ad accelerare ogni iniziativa per andare ad un lavoro comune con forze ed individui che hanno, come noi, l’obiettivo di sviluppare un movimento politico internazionalista partendo altresì dall’approfondimento delle questioni teoriche alla luce del "laboratorio politico” espresso dal movimento dei lavoratori, senza settarismi, ma su alcune discriminanti e coordinate del marxismo.” (2),
costituisce un ottimo biglietto da visita nella misura in cui, come si evince dai passaggi da noi sottolineati, si parla della necessità di unificare le forze che si pongono su un piano internazionalista ma sulla base di un approfondimento delle questioni teoriche che sia fatto senza settarismi ma a partire dal marxismo.
Nel secondo passaggio si dice invece che:
“Molto tempo è passato dai tempi della funzione progressista e rivoluzionaria della borghesia lodata da Marx dalle pagine del Manifesto del 1848: oggi, le borghesie di questi Paesi dominati e/o controllati dall'imperialismo non giocano più un ruolo contro di esso per uno sviluppo unificante del mercato. La rivoluzione democratica d'Area può fondarsi solo sul ruolo autonomo del proletariato e le masse dei contadini poveri contro gli imperialismi e le varie borghesie che sono al governo nei Paesi del Medio Oriente o, come altri compagni sostengono, all’ordine del giorno vi può essere solo la rivoluzione socialista tout court. Queste due opzioni presenti nel nostro movimento, sono strategicamente diverse e come tali è di estrema importanza la loro soluzione politica per l'azione rivoluzionaria.” (3)
Nella nostra lettera di adesione al convegno, a cui abbiamo allegato un contributo sulla questione mediorientale (4), abbiamo dichiarato che eravamo “interessati ad avere una presenza e a partecipare alla discussione da voi promossa. In particolare saremo interessati a ricevere il materiale dei vari aderenti all’iniziativa e vi chiediamo se avete previsto uno spazio dove sia possibile esprimere dei commenti ai singoli contributi anche prima della data del 14 aprile, (o anche dopo) e in che forma. Vi chiediamo questo perché la questione della comprensione della natura e del ruolo dell’imperialismo nell’epoca attuale è di fondamentale importanza per comprendere il ruolo dei comunisti oggi e, se è vero, come appare dalla vostra stessa lettera di invito, che su questo ci sono diverse vedute nella vostra stessa associazione, tanto più c’è da attendersi, e non ce ne meravigliamo, una eterogeneità di vedute tra i partecipanti al convegno.”
La finalità di questo convegno poteva e doveva essere dunque l’analisi delle due opzioni, tanto più necessaria in quanto, come diceva la stessa lettera di invito, portavano a due strategie opposte. E in effetti nella mattinata gli interventi di vari partecipanti - tra cui il nostro - oltre ad esprimere le diverse analisi, hanno fatto presente la necessità di chiarimento su molte questioni. La funzione di un convegno dovrebbe essere questa, l’approfondimento delle analisi sulle questioni in oggetto, la richiesta reciproca di spiegazioni perché non sempre tutto è chiaro, la dimostrazione di un certo percorso. Non può essere invece la pura e semplice propaganda delle proprie posizioni, perché questo porterebbe non alla discussione ma all’ascolto fideistico, al mancato approfondimento, alla conoscenza superficiale delle questioni, all’attivismo puro e semplice. Il proletariato a livello mondiale, oggi più che mai, si trova in una fase cruciale, una fase di ripresa della lotta di classe e di crescita delle sue organizzazioni. È necessario quindi che i comunisti non improvvisino il percorso da scegliere o ricadano nelle trappole ideologiche della borghesia, è necessario rifarsi alle analisi politiche delle sue minoranze storiche e questo richiede una attenta riflessione, un confronto, un vaglio delle differenti prospettive.
Tutto questo è stato sottovalutato da molti partecipanti al convegno nella seconda parte della discussione, quella del pomeriggio. Ma più che una sottovalutazione si è trattato di una vera battaglia di tutto un settore politico che era presente al convegno e che era convinto che “agire subito” fosse l’essenziale, che credeva di perdere il treno della rivoluzione se non “si faceva qualcosa”, senza pensare che salire sul primo treno in partenza senza guardare in che direzione va fa correre addirittura il rischio di allontanarsi ancora di più dalla meta. Tutte le preoccupazioni di questi compagni sul fatto che il 1° di maggio si dovesse creare il cosiddetto spezzone rivoluzionario partiva dal principio implicito che gli altri 100.000 lavoratori, precari o disoccupati, presenti al corteo non avessero nulla da dire. La fissazione di fare a tutti i costi un volantino con le firme delle varie organizzazioni e sigle, che nelle intenzioni di questa componente del convegno avrebbe dovuto dare una impressione di unità e forza alla classe, prescinde completamente dal fatto che l’unità della classe operaia si compie attraverso un processo di presa di coscienza collettiva dei proletari sui problemi che gli stanno di fronte. Di conseguenza un volantino frutto di una serie di compromessi politici “per fare numero” e che non sia l’espressione di una reale convergenza politica basata su un confronto serio, non può che disorientare e demoralizzare ancora di più la classe operaia.
Passato il 1° di maggio questo cosiddetto spezzone di partito, eludendo la richiesta di approfondimento politico che proveniva dalla richiesta iniziale del convegno, ha cercato altri “appuntamenti” dove manifestare la sua forza, quali la manifestazione a Novara contro la costruzione di un nuovo aereo militare da parte della borghesia italiana, la manifestazione a Roma contro l’arrivo di Bush, ecc.
Le basi di questo “movimento”, che va alla ricerca di appuntamenti “per fare qualcosa”, a parte la correttezza o meno delle sue analisi politiche, poggiano sulla sabbia. E non è un caso che, leggendo le lettere della mail-list proletari_nowar nata dopo il convegno di Milano, si noti la sorpresa più che legittima di un iscritto sull’utilità di queste manifestazioni e sulla loro inconsistenza. “Di fronte al miserando esito della manifestazione del 19 maggio, invito i compagni del coordinamento proletario no war a non prendere lucciole per lanterne, mettendosi al rimorchio di iniziative promosse da organismi, molto bravi a suonare la gran cassa per mascherare la propria inconsistenza politica e sociale. La forza di questi organismi risiede solo nel loro rapporto con settori della borghesia, un rapporto mal celato dai cosiddetti sinistri «radicali», pronti a quei compromessi deteriori che aprono la via a pericolose derive moderate”.
Interventi come questi devono sempre più farsi avanti, prendere coraggio, proprio per aiutare quegli elementi che, spesso in tutta buona fede, vanno in direzione opposta, alla ricerca della chimera della occasione buona per dare la spallata decisiva, come quel compagno che, rispetto alla manifestazione del 9 giugno a Roma contro la visita di Bush, diceva: “Mi sembra che al corteo Campo Antimperialista e Carc siano stati gli unici a sottolineare il ruolo di Hamas ed Hezbollah nella resistenza all’imperialismo e al sionismo.” Quando non si discute fino in fondo, quando si evita il confronto e si cerca l’aggregazione per l’aggregazione, si finisce, in nome dell’iniziativa da portare avanti ad occhi chiusi, per lasciar passare come antimperialisti proprio i massacratori di proletari: dobbiamo ricordare noi quanto sta facendo in questi giorni Hamas in Cisgiordania contro altri palestinesi? Ritornando al convegno, alle due opzioni espresse, ricordiamoci che esse “sono strategicamente diverse e come tali è di estrema importanza la loro soluzione politica per l’azione rivoluzionaria.” Riprendere la discussione è necessario non per rincorrere il presidente americano di turno per le strade di Roma, ma per gettare le basi di un forte movimento proletario contro tutti i presidenti di tutte le borghesie di tutto il mondo.
Oblomov
1. Dalla lettera di invito di questo comitato, che si può contattare attraverso la mail: [email protected] [10].
2. idem, sottolineature nostre.
3. idem, sottolineature nostre.
3. “Guerra in Libano, in Medio Oriente, in Iraq. Esiste un’alternativa alla barbarie capitalista?”, estratto dalla Rivista Internazionale n° 28 e pubblicato anche sulla pagina italiana del nostro sito it.internationalism.org [11].
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[1] https://it.internationalism.org/en/tag/4/87/palestina
[2] https://it.internationalism.org/en/tag/2/33/la-questione-nazionale
[3] https://it.internationalism.org/en/tag/4/70/francia
[4] https://it.internationalism.org/en/tag/2/31/linganno-parlamentare
[5] https://it.internationalism.org/en/tag/4/75/italia
[6] https://it.internationalism.org/en/tag/situazione-italiana/politica-della-borghesia-italia
[7] https://it.internationalism.org/en/tag/3/46/decomposizione
[8] https://it.internationalism.org/en/tag/2/29/lotta-proletaria
[9] https://it.internationalism.org/en/tag/3/50/internazionalismo
[10] mailto:[email protected]
[11] https://it.internationalism.org
[12] https://it.internationalism.org/en/tag/3/49/imperialismo