70 anni fa, nel maggio 1936, esplodeva in Francia un'immensa ondata di scioperi operai spontanei contro l'aggravamento dello sfruttamento provocato dalla crisi economica e dallo sviluppo dell'economia di guerra. Nel luglio dello stesso anno, in Spagna, di fronte al sollevamento militare di Franco la classe operaia scendeva immediatamente in sciopero generale e prendeva le armi per rispondere all'attacco. Numerosi rivoluzionari, fino ai più celebri, come Trotsky, credettero di vedere in questi avvenimenti l'inizio di una nuova ondata rivoluzionaria internazionale. In realtà, a causa di un'analisi superficiale delle forze in campo, si lasciarono indurre in errore dall'adesione entusiasta degli operai e dalla "radicalità" di certi discorsi. Sulla base di un'analisi lucida del rapporto di forze a livello internazionale, la Sinistra Comunista d'Italia, nella sua rivista Bilan, comprese che i Fronti popolari, lungi dall'essere espressione di uno sviluppo del movimento rivoluzionario, esprimevano proprio il contrario: un movimento crescente che andava ad intrappolare la classe operaia in un'ideologia nazionalista, democratica e l'abbandono della lotta contro le conseguenze della crisi storica del capitalismo: "Il Fronte popolare si è rivelato essere il processo reale della dissoluzione della coscienza di classe dei proletari, l'arma destinata a mantenere, in tutte le circostanze della loro vita sociale e politica, gli operai sul campo del sostegno della società borghese" (Bilan n°31, maggio-giugno 1936). Infatti, rapidamente, sia in Francia che in Spagna, l'apparato politico della sinistra "socialista" e "comunista" saprà mettersi alla testa di questi movimenti e, chiudendo gli operai nella falsa alternativa fascismo/anti-fascismo, riuscirà a sabotarli dall'interno, ad orientarli verso la difesa dello Stato democratico ed alla fine a reclutare la classe operaia in Francia ed in Spagna per la carneficina inter-imperialista mondiale.
Oggi, in un contesto di lenta ripresa della lotta di classe e di rinascita di nuove generazioni alla ricerca di alternative radicali di fronte al fallimento sempre più evidente del capitalismo, il movimento alter-mondialista, come ATTAC, denuncia il liberismo selvaggio e la "dittatura del mercato" che "ruba il potere politico dalle mani degli Stati, e dunque dei cittadini "e chiama alla "difesa della democrazia contro il diktat finanziario". Questo "altro mondo" proposto dagli alter-mondialisti riconduce spesso a politiche molto attive durante gli anni 1930 o dagli anni 1950 a 70, dove lo Stato aveva, secondo loro, un posto più importante di attore economico diretto. In quest'ottica, la politica dei governi di Fronte popolare, con i loro programmi di controllo dell'economia da parte dello Stato, "d'unità delle forze popolari contro i capitalisti e la minaccia fascista", ed il programma di una "rivoluzione sociale", non può che essere presa ad esempio per dare man forte all'affermazione che un "altro mondo", un'altra politica, sono possibili in seno al capitalismo.
Così rievocare in occasione di questa 70ma ricorrenza il contesto ed il significato degli avvenimenti del 1936 é più che mai indispensabile:
- per ricordare le lezioni tragiche di quest'esperienze, in particolare la trappola fatale che costituisce, per la classe operaia, l'abbandono del campo della difesa intransigente dei suoi interessi specifici per sottoporsi alle necessità della lotta di un campo borghese contro l'altro;
- per denunciare la menzogna venduta dalla "sinistra" secondo cui quest'ultima sarebbe stata durante quegli avvenimenti l'incarnazione degli interessi della classe operaia, e mostrando al contrario come ne fu il becchino.
Gli anni 1930 - segnati dalla sconfitta dell'ondata rivoluzionaria degli anni 1917-23 e dal trionfo della controrivoluzione - si distinguono in maniera fondamentale dall'attuale periodo storico caratterizzato dal riemergere delle lotte e lo sviluppo, sebbene lento, della coscienza. Tuttavia, le nuove generazioni di proletari che cercano di liberarsi dalle ideologie controrivoluzionarie cozzano sempre contro questa stessa "sinistra", le sue trappole e le sue manipolazioni ideologiche, anche se questa porta gli abiti nuovi dell'alter-mondialismo. Ed esse non potranno riuscire a liberarsi se non riappropriandosi delle lezioni, pagate così care, dell'esperienza passata del proletariato.
Il Fronte popolare, un rafforzamento della lotta contro lo sfruttamento capitalista?
I Fronti popolari, che pretendevano di "unificare le forze popolari contro l'arroganza dei capitalisti e l'ascesa del fascismo", innescarono effettivamente una dinamica di rafforzamento della lotta contro lo sfruttamento capitalista? Rappresentarono una tappa sulla via dello sviluppo della rivoluzione? Per rispondere a questa domanda, un approccio marxista non può basarsi solo sulla radicalità dei discorsi e della violenza degli scontri sociali che a quell'epoca scossero vari paesi dell'Europa occidentale, ma su un'analisi del rapporto di forza tra le classi a scala internazionale e su tutta un'epoca storica. In quale contesto generale di forza e di debolezza del proletariato e della sua nemica mortale, la borghesia, si determinarono gli avvenimenti del 1936?
Dopo la potente ondata rivoluzionaria che obbligò la borghesia a mettere fine alla guerra, che portò la classe operaia a prendere il potere in Russia e fece vacillare il potere borghese in Germania e nell'insieme dell'Europa centrale, il proletariato subì per tutti gli anni 1920 una serie di sanguinose sconfitte. Lo schiacciamento del proletariato in Germania nel 1919, poi nel 1923, ad opera dei social-democratici del SPD e dei suoi "cani assetati di sangue", aprì la strada per l'arrivo di Hitler al governo. Il tragico isolamento della rivoluzione in Russia firmava la morte dell'Internazionale Comunista, lasciando così campo libero al trionfo della controrivoluzione stalinista che aveva annientato tutta la vecchia guardia dei bolscevichi e le forze vive del proletariato. Infine, gli ultimi soprassalti proletari furono spietatamente soffocati nel 1927 in Cina. Il corso della storia era stato rovesciato. La borghesia aveva ottenuto vittorie decisive sul proletariato internazionale ed il corso verso la rivoluzione mondiale lasciava il posto ad una marcia inesorabile verso la guerra mondiale, che significava il peggiore ritorno alla barbarie capitalista.
Tuttavia, queste schiaccianti sconfitte dei battaglioni d'avanguardia del proletariato mondiale non esclusero sussulti di combattività, talvolta importanti, in seno alla classe, in particolare nei paesi dove essa non aveva subito lo schiacciamento fisico o ideologico diretto nel quadro di scontri rivoluzionari del periodo 1917-1927. Così, durante la forte crisi economica degli anni 1930, nel luglio 1932, esplose in Belgio uno sciopero selvaggio dei minatori che prese velocemente una dimensione insurrezionale. A partire da un movimento contro l'imposizione di riduzioni dei salari nelle miniere del Borinage, il licenziamento degli scioperanti provocò un'estensione della lotta in tutta la provincia e scontri violenti con la gendarmeria. In Spagna, dagli anni 1931 al 1934 la classe operaia spagnola si lanciò, in numerosi movimenti di lotte represse selvaggiamente. Nell'ottobre 1934, è l'insieme delle zone minerarie delle Asturie e la cintura industriale di Oviedo e di Gijon che si lanciò in un'insurrezione suicida che fu schiacciata dal governo repubblicano e dal suo esercito dando adito ad una selvaggia repressione. Infine, in Francia, se la classe operaia era esaurita profondamente dalla politica "gauchiste" del PC la cui propaganda pretendeva, fino al 1934, che la rivoluzione fosse sempre imminente e che fossero necessari " soviet dappertutto ", essa, tuttavia, manifestava sempre una certa combattività. Durante l'estate 1935, confrontandosi con decreti legge che imponevano importanti riduzioni salariali ai lavoratori dello Stato, imponenti manifestazioni e violenti scontri con la polizia ebbero luogo negli arsenali di Tolone, Tarbes, Lorient e Brest. In questa ultima città, dopo che un operaio era stato colpito a morte dai calci dei militari, i lavoratori esasperati scatenarono violente manifestazioni e sommosse tra il 5 ed il 10 agosto 1935, facendo 3 morti e centinaia di feriti; decine di operai furono incarcerati1.
Queste manifestazioni di residua combattività, contrassegnata spesso dalla rabbia, la disperazione e lo smarrimento politico, costituivano in realtà "dei sussulti di disperazione" che non annullavano un contesto internazionale di sconfitta e di disgregazione delle forze operaie, come ricordava la rivista Bilan a proposito della Spagna : "Se il criterio internazionalista vuole dire qualche cosa, bisogna affermare che, sotto il segno di una crescita della controrivoluzione al livello mondiale, l'orientamento della Spagna, tra il1931 e 1936, poteva andare solamente verso una direzione parallela [al corso controrivoluzionario degli avvenimenti ndlr] e non nel corso inverso di uno sviluppo rivoluzionario. La rivoluzione non può raggiungere il suo pieno sviluppo se non come prodotto di una situazione rivoluzionaria a scala internazionale". (Bilan n°35, gennaio 1937).
Tuttavia, per reclutare gli operai dei paesi che non avevano subito lo schiacciamento di movimenti rivoluzionari, occorreva che le borghesie nazionali utilizzassero una particolare mistificazione. Là dove il proletariato era già stato schiacciato al termine di uno scontro diretto tra le classi, il reclutamento ideologico bellicista - dietro il fascismo o il nazismo, o da parte dello stalinismo, dietro l'ideologia specifica della "difesa della patria del socialismo", ottenuto essenzialmente per mezzo del terrore - apparivano come le forme particolari di sviluppo della controrivoluzione. A questi particolari regimi politici corrispondeva in modo generale, nei restanti paesi "democratici", lo stesso reclutamento guerriero realizzato sotto la bandiera dell'antifascismo. Per raggiungere tale scopo, le borghesie francesi e spagnole (ma anche altre, come per esempio quella belga) si servirono del raggiungimento della sinistra al governo per mobilitare la classe operaia dietro l'antifascismo in difesa dello Stato "democratico" e per mettere in opera l'economia di guerra.
Che le politiche del Fronte popolare non si svilupparono per rafforzare la dinamica delle lotte operaie era già chiaramente messo in evidenza dall'atteggiamento della sinistra verso le lotte proletarie rievocate sopra. Ciò si manifestò anche in Belgio. Durante gli scioperi insurrezionali del 1932 in questo paese, il Partito operaio belga (POB) e la sua commissione sindacale si rifiutarono di sostenere il movimento, ciò che orientò la rabbia dei lavoratori contro la social-democrazia: la Casa del Popolo di Charleroi sarà presa d'assalto dagli insorti mentre le tessere di membro del POB e dei suoi sindacati furono strappate e bruciate. Fu proprio per canalizzare la rabbia e la disperazione operaie che il POB porterà avanti fin dalla fine del 1933 il famoso "Piano del Lavoro", la sua alternativa "popolare" alla crisi del capitalismo.
In Spagna si manifestò in modo chiaro ciò che il proletariato poteva aspettarsi da un governo "repubblicano" e di "sinistra". Fin dai primi mesi della sua esistenza, la Repubblica spagnola mostrerà che in fatti di massacri di operai, non aveva niente da invidiare ai regimi fascisti: un gran numero di lotte degli anni 1930 vennero schiacciate dai governi repubblicani a cui fino al 1933 partecipò anche il PSOE. L'insurrezione suicida delle Asturie dell'ottobre 1934, incitata da un discorso "rivoluzionario" del PSOE in quel momento all'opposizione, venne isolata completamente da questo stesso PSOE e dal suo sindacato, l'UGT, che impedì ogni estensione del movimento. Da questo momento, Bilan pone in termini estremamente chiari la questione del significato dei regimi democratici di "sinistra":
"In effetti, dalla sua fondazione, nell'aprile 1931 e fino a dicembre 1931, la 'marcia a sinistra' della Repubblica spagnola, la formazione del governo Azana-Caballero-Lerroux, l'amputazione nel dicembre 1931 della sua ala destra rappresentata da Lerroux, non determina affatto condizioni favorevoli all'avanzamento delle posizioni di classe del proletariato o alla formazione di organismi capaci di dirigerne la lotta rivoluzionaria. E non si tratta per niente di vedere qui ciò che il governo repubblicano e radicale-socialista avrebbe dovuto fare per la salvezza della… rivoluzione comunista, ma di ricercare se sì o no, questa conversione a sinistra o all'estrema sinistra del capitalismo, questo concerto unanime che andava dai socialisti fino ai sindacalisti per la difesa della Repubblica, ha creato le condizioni dello sviluppo delle conquiste operaie e della marcia rivoluzionaria del proletariato. O, meglio ancora, se questa conversione non era dettata a sinistra dalla necessità, per il capitalismo, di ubriacare gli operai sconvolti [leggere presi al posto di sconvolti ndr] da un profondo slancio rivoluzionario, affinché non si orientassero verso la lotta rivoluzionaria (…)" (Bilan n°12, novembre 1934).
Infine, fu particolarmente significativo che gli scontri violenti di Brest e Tolone dell'estate 1935 esplosero nello stesso momento in si costituiva il Fronte popolare. Poiché queste lotte si erano sviluppate spontaneamente, contro le parole d'ordine dei leader politici e sindacali della "sinistra", questi non esitarono a trattare gli insorti da "provocatori" che turbavano "l'ordine repubblicano": "né il Fronte popolare, né i comunisti che sono nelle prime fila rompono i finestrini, saccheggiano i caffè, strappano le bandiere tricolori" (Editoriale dell'Humanité, 7 agosto 1935).
L'antifascismo lega i lavoratori alla difesa dello Stato borghese
I Fronti popolari non unirono tuttavia "le forze popolari di fronte all'ascesa del fascismo"? Di fronte all'arrivo al potere di Hitler in Germania all'inizio del 1933, la sinistra andò a sfruttare la spinta di frazioni di estrema destra o fascistizzante nei diversi paesi "democratici" per portare avanti la necessità della difesa della democrazia attraverso un largo fronte antifascista.
Questa strategia fu, per la prima volta, messa in pratica fin dall'inizio del 1934 in Francia e trovò il suo punto di partenza in un'enorme manipolazione. Il pretesto fu fornito dalla manifestazione violenta di protesta e di malcontento del 6 febbraio 1934 contro gli effetti della crisi e della corruzione dei governi della Terza Repubblica, manifestazione nella quale si erano infiltrati dei gruppi di estrema destra, ma anche militanti del PC. Alcuni giorni più tardi si assisté, tuttavia ad un brusco capovolgimento dell'atteggiamento del PC, legato ad un cambiamento di strategia emanato da Stalin e dall'Internazionale Comunista. Questi raccomandavano oramai di sostituire alla tattica "classe contro classe" una politica d'avvicinamento ai partiti socialisti. Da allora, il 6 febbraio fu presentato come una "offensiva fascista" ed un "tentativo di colpo di Stato" in Francia.
La sommossa del 6 febbraio 1934 permise alla sinistra di montare l'esistenza di un pericolo fascista in Francia e conformemente lanciare una larga campagna di mobilitazione dei lavoratori in nome dell'antifascismo e per la difesa della "democrazia". Lo sciopero generale lanciato nello stesso tempo dal PC e dallo SFIO fin dal 12 istillava l'antifascismo con la parola d'ordine "Unità! Unità contro il fascismo!" Il PCF assimilò velocemente il nuovo orientamento e la conferenza nazionale di Ivry di giugno '34 ebbe per unica questione all'ordine del giorno "l'organizzazione del Fronte unito di lotta antifascista"2, ciò che determinò velocemente la firma di un patto "di unità d'azione" tra il PC e lo SFIO il 27 luglio 1934.
Identificato il fascismo come "il nemico principale", l'antifascismo diventò allora il tema che permise di raggruppare tutte le forze della borghesia "innamorata di libertà" dietro la bandiera del Fronte popolare e dunque legare gli interessi del proletariato a quelli del capitale nazionale costituendo "l'alleanza della classe operaia con i lavoratori delle classi medie" per evitare alla Francia “la vergogna e le disgrazie della dittatura fascista", come dichiarò Maurice Thorez, segretario generale del PCF. Su tale scia, il PCF sviluppò il tema delle "200 famiglie ed i loro mercenari che saccheggiano la Francia e svendono l'interesse nazionale". Tutti, all'infuori di questi "capitalisti", subivano la crisi ed erano solidali e così si dissolveva la classe operaia ed i suoi interessi di classe nel popolo e la nazione contro "un pugno di parassiti": "Raccoglimento della Francia che fatica, che lavora e che si sbarazzerà dei parassiti che la erodono" (Comitato centrale del PCF, 02/11/1934).
D'altra parte, il fascismo veniva denunciato in modo isterico e quotidianamente come il solo guerrafondaio. Il Fronte popolare mobilitò allora la classe operaia nella difesa della patria contro l'invasore fascista ed il popolo tedesco venne identificato con il nazismo. Gli slogan del PCF esortano ad "acquistare francese!" e inneggiavano alla riconciliazione nazionale: "Noi, comunisti, che abbiamo riconciliato la bandiera tricolore dei nostri padri e la bandiera rossa delle nostre speranze" (M. Thorez, Radio Parigi, 17 aprile 1936). La sinistra trascinò così i proletari dietro il carro dello Stato attraverso il più esasperato nazionalismo, le peggiori espressioni dello sciovinismo e della xenofobia.
Questa campagna intensiva trovò la sua apoteosi nella celebrazione unitaria del 14 luglio 1935, sotto il tema della difesa "delle libertà democratiche conquistate dal popolo francese". L'appello del comitato organizzativo propose il seguente giuramento: "facciamo giuramento di restare uniti per difendere la democrazia, (…), per mettere la nostre libertà fuori dall'attentato del fascismo". Le manifestazioni si aprirono sulla costituzione pubblica del Fronte popolare, il 14 luglio 1935, facendo cantare la "Marsigliese" agli operai sotto i ritratti affiancati di Marx e di Robespierre e facendo loro gridare "Viva la Repubblica francese dei Soviet"! Così, grazie allo sviluppo della campagna elettorale per il "Fronte popolare della pace e del lavoro", i partiti di "sinistra" deviarono le lotte operaie dal campo di classe verso il campo elettorale della democrazia borghese, annegando il proletariato nella massa informe del "popolo della Francia" e lo reclutarono per la difesa degli interessi nazionali. "Era quella una conseguenza delle nuove posizioni del 14 luglio che rappresentavala conclusione logica della politica detta antifascista. La Repubblica non era il capitalismo, ma il regime della libertà, della democrazia che rappresenta, come si sa, la piattaforma stessa dell'antifascismo. Gli operai giuravano solennemente di difendere questa Repubblica contro i faziosi interni ed esterni, mentre Stalin raccomandava loro di approvare gli armamenti dell'imperialismo francese in nome della difesa dell'U.R.S.S" (Bilan n° 22, agosto-settembre 1935).
La stessa strategia di mobilitazione della classe operaia sul campo elettorale in difesa della democrazia, l'integrazione nell'insieme degli strati popolari e la mobilitazione per la difesa degli interessi nazionali, si ritrovava in diversi paesi. In Belgio, la mobilitazione dei lavoratori dietro la campagna intorno al "Piano del Lavoro" fu orchestrata con mezzi di propaganda psicologica che non avevano niente da invidiare a quella nazista o stalinista, e terminerà con l'entrata del POB al governo nel 1935. La propaganda antifascista, portata avantisoprattutto dalla sinistra del POB, trovò il suo culmine nel 1937 in un duello singolare a Bruxelles tra Degrelle, il capo del partito Fascista Rex, ed il primo ministro Van Zeeland che beneficiò dell'appoggio di tutte le forze "democratiche", compreso il PCB. Lo stesso anno, Spaak, uno dei dirigenti dell'ala sinistra del POB, sottolineava il "carattere nazionale" del programma socialista belga e propose di trasformare il partito in partito popolare, poiché difendeva l'interesse comune e non più l'interesse di una sola classe!
Tuttavia, fu nella Spagna che l'esempio francese ispirerà con maggior chiarezza la politica alla sinistra. Dopo i massacri nelle Asturie, anche il PSOE andò ad imperniare la sua propaganda sull'antifascismo, il "fronte unito di tutti i democratici" e sosterrà un programma di Fronte popolare di fronte al pericolo fascista. Nel gennaio 1935, firmerà col sindacato UGT, i partiti repubblicani, il PCE, un'alleanza di "Fronte popolare", con il sostegno critico della CNT3 e del POUM4. Questo "Fronte popolare" pretendeva sostituire apertamente la lotta operaia attraverso la scheda elettorale, con una lotta sul campo della borghesia contro la frazione "fascista" di questa, a favore della sua ala "antifascista" e "democratica". La lotta contro il capitalismo fu affossata a profitto di un illusorio "programma di riforme" del sistema che dovrebbe realizzare una "rivoluzione democratica". Mistificando il proletariato per mezzo di questo fallace fronte antifascista e democratico, la sinistra lo mobilitò sul campo elettorale ed ottenne un trionfo alle elezioni di febbraio 1936 : "Il fatto che nel 1936, dopo quest'esperienza [la coalizione repubblicana-socialista 1931-33 ndlr] molto indicativa sulla funzione della democrazia come mezzo di manovra per il mantenimento del regime capitalista, si è potuto di nuovo, come nel 1931-1933, spingere il proletariato spagnolo ad allinearsi su un piano non di classe ma di difesa della 'Repubblica', del 'Socialismo' e del 'Progresso' contro le forze della Monarchia, Clerico-fasciste e della reazione, dimostra la profondità dello smarrimento degli operai su questo settore spagnolo dove i proletari recentemente hanno dato prove di combattività e di spirito di sacrificio" (Bilan n° 28, febbraio-marzo 1936).
In realtà, la politica antifascista della sinistra e la costituzione di "Fronti popolari", riusciranno effettivamente ad atomizzare i lavoratori, a dissolverli nella popolazione, a mobilitarli per un adattamento democratico del capitalismo, mentre il veleno dello sciovinismo e del nazionalismo veniva istillato loro. Bilan non si ingannava quando commentò così la costituzione ufficiale della Fronte popolare il 14 luglio 1935: "è sotto il segno di imponenti manifestazioni di massa che il proletariato francese si dissolve in seno al regime capitalista. Malgrado migliaia e migliaia di operai che sfilano nelle vie di Parigi, si può affermare che sia in Francia che in Germania non esiste più una classe proletaria che lotta per i suoi obiettivi. A tale proposito, il 14 luglio segna un momento decisivo nel processo di disgregazione del proletariato e nella ricostituzione dell'unità sacrosanta della Nazione capitalista. (…) Gli operai hanno dunque tollerato la bandiera tricolore, cantato la 'Marsigliese' ed applaudito anche i Daladier, Cot ed altri ministri capitalisti che, con Blum, Cachin5, hanno solennemente giurato 'di dare pane ai lavoratori, lavoro alla gioventù e pace al mondo' o, in altri termini, piombo, caserme e guerra imperialista per tutti" (Bilan n° 21, luglio-agosto 1935).
Le misure economiche dei Fronti popolari : Lo Stato al servizio dei lavoratori?
Ma la sinistra non aveva, almeno attraverso i suoi programmi di rafforzamento del controllo da parte dello Stato sull'economia, limitato i tormenti della libera concorrenza del capitale "monopolistico" e protetto così le condizioni di vita e di lavoro della classe operaia? Di nuovo, è importante localizzare le misure esaltate dalla sinistra nel quadro generale della situazione del capitalismo.
Marcia verso la guerra e sviluppo dell'economia di guerra
Dopo la Prima Guerra mondiale, con il trattato di Versailles, la Germania si vide privata delle sue magre colonie e con pesanti debiti di guerra. Si trovò incastrata al centro dell'Europa e, da questo momento, si pose il problema che andrà a caratterizzare l'insieme della politica di tutti i paesi dell'Europa durante i due decenni seguenti. Con la ricostruzione della sua economia, la Germania si troverà davanti alla necessità imperiosa di trovare degli sbocchi per le sue merci e la sua espansione non potrà farsi che dentro un ambito europeo. Gli avvenimenti si accelerarono con l'arrivo di Hitler al potere nel 1933. Le necessità economiche che spinsero la Germania verso la guerra troveranno nell'ideologia nazista la loro espressione politica: la rimessa in causa del Trattato di Versailles, l'esigenza di uno "spazio vitale" che può essere solamente l'Europa.
Tutto ciò convinse precipitosamente certe frazioni della borghesia francese che non si sarebbe potuto evitare la guerra e che la Russia sovietica in tal caso sarebbe stata una buona alleata per far fallire le mire del pangermanismo. Tanto più che a livello internazionale, la situazione si chirificava: nello stesso periodo in cui la Germania lasciò la Società delle Nazioni, l'URSS vi entrava. Quest'ultima, in un primo tempo, aveva giocato la carta tedesca per lottare contro il blocco continentale che le democrazie occidentali le imponevano. Ma quando i legami della Germania con gli Stati Uniti si rafforzarono, avendo quest'ultimi investito e, col piano Dawes6, riportato a galla l'economia tedesca sostenendo la ricostruzione economica del "bastione" occidentale contro il comunismo, la Russia stalinista rivide tutta la sua politica estera per tentare di rompere quest'alleanza. In effetti, fino a tardi, importanti frazioni della borghesia dei paesi occidentali credettero possibile evitare la guerra con la Germania facendo alcune concessioni e soprattutto orientando la necessaria espansione della Germania verso l'Est. Monaco nel 1938 tradurrà ancora quest'incomprensione della situazione e della guerra che verrà.
Il viaggio che il ministro francese degli affari esteri, Laval, effettuò a Mosca nel maggio 1935 andò a sottolineare spettacolarmente questa disposizione dell'imperialismo sulla scacchiera europea con l'avvicinamento franco-russo: la firma di Stalin ad un trattato di cooperazione implicava un riconoscimento implicito da parte di quest'ultimo della politica di difesa francese ed un incoraggiamento al PCF a votare i crediti militari. Alcuni mesi più tardi, nell'agosto 35, il 7mo Congresso del PCUS andava a trarre a livello politico le conseguenze dalla possibilità per la Russia di un'alleanza con i paesi occidentali per fare fronte all'imperialismo tedesco. Dimitrov, il Segretario generale dell'Internazionale Comunista, designò il nuovo nemico che occorreva combattere: il fascismo. I socialisti che prima venivano scherniti violentemente diventarono una, tra altre, forza democratica con cui bisognava allearsi per vincere il nemico fascista. I partiti stalinisti, negli altri paesi, seguirono nella sua svolta politica a 180° il loro grande fratello maggiore, il PC russo, divenendo così i migliori difensori degli interessi imperialisti della sedicente "patria del socialismo".
Una delle caratteristiche centrali delle politiche economiche della "sinistra" è proprio il rafforzamento delle misure d'intervento dello Stato per sostenere l'economia in crisi e il controllo statale su diversi settori dell'economia. Essa giustificava questo tipo di misure affermando che è "dall'economia dirigista, del Socialismo di Stato, [perché ndlr] che maturano le condizioni che devono permettere ai 'socialisti' di conquistare 'pacificamente' e progressivamente gli ingranaggi essenziali dello Stato" (Bilan n° 3, gennaio 1934). Queste misure erano sostenute con entusiasmo dall'insieme della socialdemocrazia europea. Vennero riprese nei programmi economici del Fronte popolare in Francia, conosciuti sotto il nome del piano Jouhaux. In Spagna, il programma della Fronte popolare si appoggiava su una larga politica di crediti agrari ed un vasto piano di lavori pubblici per il riassorbimento della disoccupazione, così come su delle leggi sociali che fissavano, per esempio, un salario minimo. Vediamo quale era il significato reale di tali programmi attraverso l'esame di uno dei loro grandi modelli, il "New Deal", messo in atto negli Stati Uniti dopo la crisi del 1929 dai democratici sotto Roosevelt, e l'analisi di una delle concretizzazioni teoriche più compiute di questo "Socialismo di Stato", il "Piano del Lavoro" del socialista belga Henri De Man.
Il "New Deal", messo in atto negli Stati Uniti a partire dal 1932, fu un piano di ricostruzione economica e di "pace sociale". L'intervento del governo mirava a ristabilire l'equilibrio del sistema bancario ed a rilanciare il mercato finanziario, a mettere in opera grandi lavori (dighe, programmi pubblici), e ad iniziare certi programmi sociali: attuazione di un sistema pensionistico, di un'assicurazione contro la disoccupazione, ecc.). Una nuova agenzia federale, la National Recovery Administration (NRA), aveva per missione di stabilizzare prezzi e salari cooperando con le imprese ed i sindacati. Creò la Public Works Administration (PWA) che doveva controllare l’attuazione della politica dei grandi lavori pubblici.
Il governo di Roosevelt aprì la via, foss’anche senza esserne consapevole, alla conquista degli ingranaggi essenziali dello Stato da parte del partito dei lavoratori? Per Bilan, è proprio vero il contrario: "L'intensità della crisi economica che imperversa, coniugata con la disoccupazione e la miseria di milioni di uomini, accumula le minacce di conflitti sociali temibili che il capitalismo americano deve dissipare o soffocare con tutti i mezzi in suo potere" (Bilan n° 3, gennaio 1934). Lungi dunque dall'essere misure in favore dei lavoratori, le misure di "pace sociale" furono attacchi diretti contro l'autonomia di classe del proletariato. "Roosevelt si è dato come scopo dirigere la classe operaia non verso un'opposizione di classe, ma verso la sua diluizione all'interno dello stesso regime capitalista, sotto il controllo dello Stato capitalista. Così, dei conflitti sociali non dovrebbero più sorgere dalla lotta reale - e di classe - tra gli operai ed i padronati ed essi si limiterebbero ad un'opposizione della classe operaia e della N.R.A, organismo dello Stato capitalista. Gli operai dovrebbero dunque rinunciare ad ogni iniziativa di lotta e affidare la loro sorte al proprio nemico " (Id).
Si trovano obiettivi simili nel "Piano del Lavoro" di Henri De Man? Quest'architetto principale di tali programmi di controllo Statale, grande ispiratore della maggior parte delle misure adottate tanto dai Fronti popolari che dai regimi fascisti (Mussolini era uno dei suoi grandi ammiratori) era il capo della scuola quadri del POB e, a partire da 1933, vicepresidente e grande divo del partito. Per De Man che aveva studiato profondamente gli sviluppi industriali e sociali negli Stati Uniti ed in Germania, era necessario abbandonare i "vecchi dogmi". Per lui, la base della lotta di classe è il sentimento d'inferiorità sociale dei lavoratori. Piuttosto che orientare il socialismo sulla soddisfazione dei bisogni materiali di una classe (i lavoratori), bisognava orientarlo verso i valori spirituali universali come la giustizia, il rispetto della personalità umana e la preoccupazione de "l'interesse generale". Finite dunque le contraddizioni inevitabili ed inconciliabili tra la classe operaia ed i capitalisti. Peraltro, proprio come la rivoluzione, bisognava rigettare anche il "vecchio riformismo" diventato inoperante in tempo di crisi: non serve più a niente rivendicare una parte più importante di una torta che si riduce sempre più, bisognava realizzare una nuova torta più grande. Ciò era l'obiettivo di quella che chiamava la "rivoluzione costruttiva". In quest'ottica, sviluppò per il "Congresso di Natale" 1933 del POB il suo "Piano del Lavoro" che prevedeva "riforme di struttura" del capitalismo:
- la nazionalizzazione delle banche che continuavano ad esistere ma che vendevano una parte delle loro azioni ad un'istituzione di credito dello Stato e che si sottoporranno agli orientamenti del Piano economico;
- questa stessa istituzione di credito dello Stato ricomprerà una parte delle azioni dei grandi monopoli in alcuni settori industriali di base, come l'energia, così che questi ultimi diverranno delle imprese miste, proprietà congiunte di privati e dello Stato;
- accanto a queste imprese "socie", continuava ad esistere un settore capitalista libero, stimolato e sostenuto dallo Stato;
- i sindacati saranno implicati direttamente in quest'economia mista di concertazione attraverso il "controllo operaio", orientamento che De Man propagò a partire dall'esperienze osservate nelle grandi fabbriche americane.
Queste "riforme di struttura", proposte da De Man, si orienteranno a favore della lotta della classe operaia? Per Bilan, De Man voleva "dimostrare che la lotta operaia deve limitarsi naturalmente agli obiettivi nazionali per forma e contenuto, che socializzazione significa nazionalizzazione progressiva dell'economia capitalista, o economia mista. Sotto la scusa della ‘azione immediata', De Man arriva a predicare l'adattamento nazionale degli operai nella 'nazione una ed indivisibile' e che (...) si offre come rifugio supremo degli operai repressi dalla reazione capitalista". In conclusione, "Le riforme di struttura di H.De Man hanno dunque per scopo riporre la lotta vera dei lavoratori - ed è quella la sua sola funzione - in un campo irreale, dove si esclude ogni lotta per la difesa degli interessi immediati e, attraverso di esso, storica del proletariato, in nome di una riforma di struttura che, nella sua concezione come nei suoi mezzi, può servire solamente alla borghesia per rafforzare il suo Stato di classe riducendo la classe operaia all'impotenza" (Bilan n° 4, febbraio 1934).
Ma Bilan va più lontano e situa l’attuazione del "Piano del Lavoro" rispetto al ruolo che giocava la sinistra nel quadro storico del periodo.
"L'avvento del fascismo in Germania mette fine ad un periodo decisivo della lotta operaia. (...). La socialdemocrazia che fu un elemento essenziale di queste sconfitte, è anche un elemento di ricostituzione organica della vita del capitalismo (...), essa adopera un nuovo linguaggio per continuare la sua funzione, rigetta un internazionalismo verbale non più necessario, per passare francamente alla preparazione ideologica dei proletari per la difesa della ‘ propria nazione'. (…), ed è in ciò che noi troviamo la vera origine del piano De Man. Quest'ultimo rappresenta il tentativo concreto di sancire, attraverso una mobilitazione adeguata, la sconfitta subita dall'internazionalismo rivoluzionario e la preparazione ideologica per l'incorporazione del proletariato alla lotta intorno al capitalismo per la guerra. E' per questo che il suo nazional-socialismo ha la stessa funzione del nazional-socialismo dei fascisti" (Bilan n° 4, febbraio 1934).
L'analisi del New Deal come del Piano De Man illustra con chiarezza che queste misure non miravano affatto a rafforzare la lotta proletaria contro il capitalismo ma a ridurre invece la classe operaia all'impotenza ed a sottometterla alle necessità della difesa della nazione. In questo senso, come notava Bilan, il piano De Man non si distingueva in niente dal programma di controllo dei regimi fascisti e nazisti attraverso lo Stato; o ancora dai piani quinquennali dello stalinismo applicati in URSS dal 1928 e che avevano del resto all'origine ispirato i democratici negli Stati Uniti.
Se tali misure furono generalizzate, fu perché esse corrispondevano ai bisogni del capitalismo decadente. In questo periodo, in realtà, la tendenza generale verso il capitalismo di Stato è una delle caratteristiche dominanti della vita sociale. "Ogni capitale nazionale, privato di ogni base per uno sviluppo potente, condannato ad una concorrenza imperialista acuta, è costretto ad organizzarsi nel modo più efficace per affrontare i suoi rivali, economicamente e militarmente, all'esterno, e, all'interno, fare fronte ad un'esacerbazione crescente delle contraddizioni sociali. La sola forza della società che sia capace di prendere in carico l'adempimento dei compiti che tale situazione impone è lo Stato. Effettivamente, solo lo Stato:
- può prendere in mano l'economia nazionale in modo globale e centralizzato ed attenuare la concorrenza interna che l'indebolisce per rafforzare la sua capacità ad affrontare come un tutto la concorrenza sul mercato mondiale;
- mettere in piedi la potenza militare necessaria alla difesa dei sui interessi di fronte all'esacerbazione degli antagonismi internazionali;
- infine, grazie alle forze di repressione e ad una burocrazia sempre più pesante, rafforzare la coesione interna della società minacciata dalla frammentazione per la decomposizione crescente dei suoi fondamenti economici (…)". (Piattaforma della CCI)
In realtà dunque, tutti questi programmi che miravano ad una nuova organizzazione della produzione nazionale sotto il controllo dello Stato, orientata interamente verso la guerra economica e verso la preparazione di una nuova carneficina mondiale (economia di guerra), corrispondevano e corrispondono perfettamente alle necessità di sopravvivenza degli Stati borghesi all'interno del periodo di decadenza.
Ma gli scioperi massicci di maggio-giugno 1936 in Francia e le misure sociali prese dal governo del Fronte popolare, proprio come la "rivoluzione spagnola" scatenata nel luglio 1936 fanno piazza pulita di queste analisi pessimiste, non confermano al contrario, nella pratica, la giustezza del percorso dei fronti "antifascisti" o "popolari", non rappresentano in fin dei conti l'espressione concreta di questa "rivoluzione sociale" in marcia? Esaminiamo uno dopo l'altro ciascuno dei movimenti citati.
Maggio-giugno 1936 in Francia: i lavoratori sono mobilitati dietro lo Stato democratico
La grande ondata di scioperi che seguirà fin dalla metà maggio la salita al governo del Fronte Popolare dopo la sua vittoria elettorale del 5 maggio 1936, confermavano tutti i limiti del movimento operaio, contrassegnato dall'insuccesso dell'ondata rivoluzionaria e dalla sottomissione alla cappa di piombo della controrivoluzione.
Fin dal 7 maggio, un'ondata di scioperi prese il via inizialmente nel settore aeronautico e poi nella metallurgia e l'automobile, con occupazioni spontanee di fabbriche. Queste lotte manifestavano soprattutto, malgrado tutta la loro combattività, quanto debole fosse la capacità dei lavoratori a condurre la lotta sul loro campo di classe. Infatti, fin dai primi giorni, la sinistra riuscirà a truccare in "vittoria operaia" la deviazione della combattività operaia sul campo del nazionalismo, dell'interesse nazionale. Se è vero che, per la prima volta, si assistette in Francia alle occupazioni di fabbriche, è anche la prima volta che si vedevano gli operai cantare al tempo stesso l'Internazionale e la Marsigliese, camminare dietro le pieghe della bandiera rossa mischiata a quelli della bandiera tricolore. L'apparato d'inquadramento costituito dal PC e dai sindacati fu padrone della situazione, riuscendo a chiudere nelle fabbriche gli operai che si lasciavano addormentare al suono della fisarmonica, mentre si decideva la loro sorte ai vertici, nei negoziati che termineranno con gli accordi di Matignon. Se c'era unità, non fu certamente quella della classe operaia ma sicuramente quella dell'inquadramento della borghesia sulla classe operaia. Quando alcuni irriducibili non compresero che dopo gli accordi bisognava riprendere il lavoro, l'Humanité s'incaricò di spiegare "che occorre capire quando uno sciopero deve finire ... bisogna sapere scendere anche al compromesso" (M. Thorez, discorso dell'11 giugno 1936) "che non bisogna spaventare i nostri amici radicali".
Durante il processo di Riom, intentato dal regime di Vichy contro i responsabile della "decadenza morale della Francia", lo stesso Blum si ricordò come le occupazioni di fabbrica andavano proprio nel senso della mobilitazione nazionale ricercata: "gli operai erano come i custodi, sorveglianti, ed anche, in un certo senso, come comproprietari. E constatare una comunità di diritti e di doveri nei confronti del patrimonio nazionale, non è questo che conduce ad assicurare ed a preparare la difesa comune, la difesa unanime?(...). È così questa misura che si crea poco a poco per gli operai una comproprietà della patria, che si insegna loro a difendere questa patria".
La sinistra ottenne ciò che voleva: aveva portato la combattività operaia sul campo sterile del nazionalismo, dell'interesse nazionale. "La borghesia è obbligata a ricorrere al Fronte popolare per canalizzare a suo profitto un'esplosione inevitabile della lotta di classe e non può farlo se non nella misura in cui il Fronte popolare appaia come un'emanazione della classe operaia e non come la forza capitalista che discioglie il proletariato per mobilitarlo per la guerra" (Bilan n° 32 Giugno-luglio 1936).
Per mettere fine ad ogni resistenza operaia, gli stalinisti andranno a massacrare a randellate coloro che "si lasciano indurre in un'azione sconsiderata", "quelli che non sanno finire uno sciopero" (M. Thorez, 8 giugno 1936) mentre il governo del Fronte popolare massacrava e mitragliava operai con i suoi gendarmi mobilitati a Clichy nel 1937. Brutalizzando o uccidendo le ultime minoranze di operai recalcitranti, la borghesia vinceva la sua scommessa trascinando l'insieme del proletariato francese alla difesa nazionale.
Fondamentalmente, il programma della Fronte popolare non aveva niente che potesse inquietare la borghesia. Il presidente del Partito radicale, E. Daladier, la rassicurava d'altronde fin dal 16 maggio: "Il programma del Fronte popolare non racchiude alcun articolo che possa turbare gli interessi legittimi di un qualsiasi cittadino, inquietare il risparmio, recare offesa ad alcuna forza sana del lavoro francese. Molti di quelli che l'hanno combattuto con più passione non l'avevano probabilmente letto mai" (L'oeuvre, 16 maggio 1936). Tuttavia, per poter diffondere l'ideologia anti-fascista ed essere completamente credibile nel suo ruolo di difensore della patria e dello Stato capitalista, la sinistra doveva per forza concedere qualche briciola. Gli accordi di Matignon e le pseudo conquiste del 1936 furono elementi determinanti per potere presentare l'arrivo della sinistra al potere come una "grande vittoria operaia", per spingere i proletari a fidarsi del Fronte popolare e farli aderire alla difesa dello Stato borghese fin nelle sue imprese guerriere.
Questo famoso accordo di Matignon, concluso il 7 giugno 1936, celebrato dalla CGT come una "vittoria sulla miseria", che attualmente ancora passa per un modello di "riforma sociale", è dunque la carota che si vende agli operai. Ma che cosa è esattamente?
Sotto l'apparenza di "concessioni" alla classe operaia, come gli aumenti di stipendio, le "40 ore", le "ferie pagate", la borghesia assicurava innanzitutto l'organizzazione della produzione sotto la direzione dello Stato "imparziale", come segnalava il leader della CGT Léon Jouhaux: "(...) l'inizio di un'era nuova, l'era delle relazioni dirette tra le due grandi forze economiche organizzate del paese. (…). Le decisioni sono state prese nella più completa indipendenza, sotto l'egida del governo, compiendo quest'ultimo, se necessario, un ruolo di arbitro che corrisponde alla sua funzione di rappresentante dell'interesse generale" (discorso radiodiffuso dell' 8 giugno 1936). Poi, avrebbe introdotto delle misure essenziali per fare accettare ai lavoratori un'intensificazione senza precedenti dei ritmi di produzione attraverso l'introduzione dei nuovi metodi di organizzazione del lavoro destinato a decuplicare i rendimenti orari tanto necessari per fare girare a pieno regime l'industria d'armamento. Sarà la generalizzazione del taylorismo, della lavorazione a catena e della dittatura del cronometro nella fabbrica.
Fu Léon Blum in persona che strapperà il velo "sociale" posto sulle leggi del 1936 in occasione del processo organizzato dal regime di Vichy a Riom nel 1942 cercando di fare del Fronte Popolare e delle 40 ore i responsabili della pesante sconfitta del 1940 in seguito all'assalto dell'esercito nazista:
"Il rendimento orario, di che cosa è funzione? (...) dipende dal buon coordinamento e dal buon adattamento dei movimenti dell'operaio alla sua macchina; dipende anche dalla condizione morale e fisica dell'operaio". C'é tutta una scuola in America, la scuola Taylor, la scuola degli ingegneri Bedeau, che vedete spostarsi nelle ispezioni che hanno spinto molto avanti lo studio dei metodi di organizzazione materiale che conduce al massimo rendimento orario della macchina, ciò che è precisamente il loro obiettivo. Ma c'é anche la scuola Gilbreth che ha studiato e ricercato i dati più favorevoli nelle condizioni fisiche dell'operaio affinché sia ottenuto questo rendimento. Il dato essenziale è ridurre la stanchezza dell'operaio. La giornata più corta, il tempo libero, il festivo pagato, il sentimento di una dignità, di un'uguaglianza conquistata, tutto ciò era, doveva essere, uno degli elementi che possono portare al massimo il rendimento orario estratto dalla macchina attraverso l'operaio".
Ecco come e perché le misure "sociali" del governo di Fronte popolare furono un passaggio obbligato per fare adattare i proletari ai nuovi metodi infernali di produzione che miravano all'armamento veloce della nazione prima di essere pronunciate le dichiarazioni ufficiali di guerra. Del resto, c'è da notare che le famose ferie pagate, sotto una forma o sotto un'altra, erano state concesse nella stessa epoca nella maggior parte dei paesi evoluti che s'incamminavano verso la guerra imponendo per questo ai loro operai gli stessi ritmi di produzione.
Così, nel giugno 1936, sotto l'ispirazione dei movimenti in Francia, esplose in Belgio uno sciopero degli scaricatori. Dopo avere provato a fermarlo, i sindacati riconobbero il movimento e l'orientarono verso rivendicazioni simili a quelle del Fronte popolare in Francia: aumento degli stipendi, settimana delle "40 ore" ed una settimana di ferie pagate. Il 15 giugno, il movimento si estese verso la Borinage e le regioni di Liège e Limburg, 350.000 operai entrano in sciopero in tutto il paese. Il risultato principale del movimento sarà un modo raffinato del sistema di concertazione sociale, attraverso la costituzione di una conferenza nazionale del lavoro dove padroni e sindacati si concertarono su un piano nazionale per ottimizzare il livello concorrenziale dell'industria belga.
Una volta ottenuti la fine degli scioperi e l'installazione duratura di un rendimento orario massimo dello sfruttamento della forza lavoro, non restava più al governo di Fronte Popolare che passare alla riconquista del terreno concesso. Gli aumenti salariali vennero assottigliati dall'inflazione alcuni mesi più tardi (aumento del 54% dei prezzi dei prodotti alimentari tra 1936 e 1938), le 40 ore saranno rimesse in causa dallo stesso Blum un anno dopo e dimenticate completamente quando il governo radicale di Daladier nel 1938 lanciò a pieno regime la macchina economica per la guerra, sopprimendo le maggiorazioni per le prime 250 ore di lavoro straordinario, annullando disposizioni delle convenzioni collettive che vietavano il lavoro a cottimo ed applicando delle sanzioni per ogni rifiuto di effettuare ore supplementari per la difesa nazionale: "(...) trattandosi delle fabbriche che lavorano per la difesa nazionale, le deroghe alla legge delle 40 h sono sempre state accordate. Inoltre, nel 1938, ho ottenuto dalle organizzazioni operaie un tipo di concordato, che portava a 45 h la durata del lavoro nelle fabbriche che operavano direttamente o non per la difesa nazionale". (Blum al processo di Riom). Infine, le ferie pagate, saranno divorate in un boccone poiché, su proposta del padronato, sostenuto dal governo Blum e dai sindacati, le feste di Natale e del Primo dell'anno saranno da recuperare. Una misura che si applicherà poi a tutte le feste legali e cioè 80 ore di lavoro supplementare che corrispondeva esattamente a 2 settimane di ferie pagate.
In quanto al riconoscimento dei delegati sindacali e delle convenzioni collettive, ciò non rappresentava in realtà che il rafforzamento dell'ascendente dei sindacati sugli operai attraverso il loro più largo insediamento nelle fabbriche. Per fare che cosa? Léon Jouhaux, socialista e dirigente sindacale, lo spiegò in questi termini: "le organizzazioni operaie [sindacati ndr] vogliono la pace sociale. Innanzitutto per non disturbare il governo di Fronte Popolare e, in seguito, per non frenare il riarmo". In effetti, quando la borghesia prepara la guerra, lo Stato si vede costretto a controllare l'insieme della società per orientare tutte le sue energie verso la macabra prospettiva. E, nella fabbrica è proprio il sindacato ad essere il più indicato per permettere allo Stato di sviluppare la sua presenza poliziesca.
Se si assiste ad una vittoria, è in verità quella, sinistra, del capitale che prepara la sola soluzione per risolvere la crisi: la guerra imperialista.
In Francia, fin dall'origine del Fronte popolare, dietro il suo slogan "Pace, pane, libertà" ed al di là dell'antifascismo e del pacifismo, la difesa degli interessi imperialisti della borghesia francese sarà mischiata alle illusioni democratiche. In questo quadro, la "sinistra" sfruttò abilmente la preparazione della guerra a livello internazionale per mostrare che il "pericolo fascista era alle porte del paese", organizzando per esempio una pubblicità sull'aggressione italiana in Etiopia. Più nettamente ancora, la SFIO ed il PC si divisero il lavoro rispetto alla guerra civile spagnola: mentre la SFIO rifiutava l'intervento in Spagna in nome del "pacifismo", il PC esaltava quest'intervento in nome della "lotta antifascista".
Da allora, se c'era un compito per il quale il capitale francese doveva essere debitore al governo di Fronte popolare, fu proprio quello di avere preparato la guerra. Ciò in tre maniere:
- innanzitutto, la sinistra potette utilizzare la gigantesca massa degli operai in sciopero come mezzo di pressione sulle forze più retrograde della borghesia, imponendo le misure necessarie alla salvaguardia del capitale nazionale di fronte alla crisi e facendo passare tutto ciò per una vittoria della classe operaia;
- poi, il Fronte popolare lanciò un programma di riarmo che passò dalla nazionalizzazione delle industrie di guerra e su cui Blum dichiarerà all'epoca del processo di Riom: "ho depositato un grande progetto fiscale... che mira a tendere tutte le forze della nazione verso il riarmo e che fa di questo sforzo di riarmo intensivo la condizione stessa, l'elemento stesso di un avviamento industriale ed economico definitivo. Esso esce risolutamente dall'economia liberale, si mette sul piano di un'economia di guerra".
In effetti, la sinistra era cosciente della guerra che stava per scoppiare; fu lei a spingere all'intesa franco-russo denunciando violentemente le tendenze favorevoli all’accordo di Monaco nella borghesia francese. Le "soluzioni" che essa portava alla crisi non erano differenti da quelle della Germania fascista, dell'America del New Deal o della Russia stalinista: sviluppo del settore improduttivo delle industrie d'armamento. Qualunque sia la maschera dietro cui si nascondeva il capitale, le misure economiche adottate erano le stesse. Come fece notare Bilan: "Non è per caso se questi grandi scioperi scoppiano nell'industria metallurgica iniziando nelle fabbriche di aerei […] è che si tratta di settori che lavorano oggi a pieno rendimento, a causa della politica di riarmo perseguita in tutti i paesi. Questo fatto provato dagli operai ha costretto quest'ultimi a dover scatenare il loro movimento per diminuire il ritmo frastornante della catena (…)"
- infine e soprattutto, il Fronte popolare ha portato la classe operaia sul suo peggiore terreno, quello della sua sconfitta e del suo schiacciamento: il nazionalismo.
Con l'isteria patriottarda che sviluppò la sinistra mediante l'anti-fascismo, il proletariato fu portato a difendere una frazione della borghesia contro un'altra, la democratica contro la fascista, uno Stato contro un altro, la Francia contro la Germania. Il PCF dichiarò: "E' giunta l'ora per realizzare effettivamente l'armamento generale del popolo, di realizzare le riforme profonde che assicureranno una potenza decuplicata dei mezzi militari e tecniche del paese. L'esercito del popolo, l'esercito degli operai e dei contadini ben inquadrati, molto istruiti, ben guidati dagli ufficiali fedeli alla Repubblica". E' in nome di questo "ideale" che i "comunisti" andranno a celebrare Giovanna d'arco "grande liberatrice della Francia", che il PC chiamò ad un Fronte francese e fece propria la parola d'ordine che era quella dell'estrema destra alcuni anni prima: "La Francia ai francesi!". Fu sotto il pretesto di difendere le libertà democratiche minacciate dal fascismo che furono portati i proletari ad accettare i sacrifici necessari per la salvezza del capitale francese ed alla fine ad accettare il sacrificio della loro vita nella carneficina della Seconda Guerra mondiale.
In questo compito di boia, il Fronte popolare trovò degli alleati efficaci presso i suoi critici di sinistra: il Partito Socialista Operaio e Contadino (PSOP) di Marceau Pivert, Trotskysti o Anarchici. Questi andranno a sostenere il ruolo di raccattatori degli elementi più combattivi della classe e si porranno costantemente come "più radicali", ma saranno in effetti più "radicali" nella mistificazione della classe operaia. Le Gioventù Socialiste della Senna, dove i trotskisti come Craipeau e Roux fecero dell'entrismo, furono i primi a raccomandare ed organizzare milizie anti-fasciste, gli amici di Pivert che si raggruppavano in seno al P.S.O.P saranno più virulenti nel criticare la "vigliaccheria di Monaco”. Tutti erano unanimi nel difendere la Repubblica spagnola a fianco degli antifascisti e tutti parteciperanno più tardi alla carneficina inter-imperialista in seno alla resistenza. Tutti diedero il loro obolo alla difesa del capitale nazionale, ben meritandosi la patria!
Luglio 1936 in Spagna: Il proletariato mandato al macello della guerra "civile"
Attraverso la costituzione del Fronte popolare (Frente Popular) e la sua vittoria alle elezioni di febbraio 1936, la borghesia aveva istillato in seno alla classe il veleno della "rivoluzione democratica" ed era riuscita così a legare la classe operaia alla difesa dello Stato "democratico" borghese. In effetti, quando una nuova ondata di scioperi esplose immediatamente dopo le elezioni, essa fu frenata e sabotata dalla sinistra e dagli anarchici perché "faceva il gioco dei padroni e della destra". Ciò si realizzò tragicamente all'epoca del Pronunciamiento militare del 19 luglio 1936. Di fronte al colpo di Stato, gli operai risposero immediatamente con scioperi, occupazioni di caserme ed il disarmo di soldati, contro le direttive del governo che invitava alla calma. Là dove gli appelli del governo vennero rispettati (" Il governo comanda, il Fronte popolare ubbidisce"), i militari prendono il controllo con un bagno di sangue.
Tuttavia, l'illusione della "rivoluzione spagnola" venne rafforzata dalla pseudo "scomparsa" dello Stato capitalista repubblicano, e dalla non esistenza della borghesia, il tutto nascosto dietro uno pseudo "governo operaio" ed organismi "più a sinistra" come "il Comitato centrale delle Milizie antifasciste" o il "Consiglio centrale dell'economia" che mantenevano l'illusione di un doppio potere. In nome di questo "cambiamento rivoluzionario", osì facilmente raggiunto, la borghesia chiese ed ottenne dagli operai la Sacra Unionr, intorno al solo ed unico obiettivo di battere Franco. Ora, "L'alternativa non sta tra Azaña e Franco, ma tra borghesia e proletariato; che l'uno o l'altro dei due partner sia battuto, ciò non impedisce a quello che sarà realmente vinto, il proletariato, che pagherà le spese della vittoria di Azaña o di Franco" (Bilan n° 33, luglio-agosto 1936).
Molto rapidamente, il governo repubblicano di Fronte popolare, con l'aiuto della CNT e del POUM, deviò così la reazione operaia contro il colpo di Stato franchista verso la lotta antifascista e fece manovre di reclutamento per spostare la lotta di una battaglia sociale, economica e politica contro l'insieme delle forze della borghesia, verso lo scontro militare nelle trincee unicamente contro Franco; l'armamento degli operai fu concesso solamente per mandarli a farsi massacrare sul fronte militare della "guerra civile", al di fuori dal loro campo di classe. "Si potrebbe supporre che l'armamento degli operai contenga delle virtù congenite dal punto di vista politico e che una volta materialmente armati, gli operai potranno sbarazzarsi dei capi traditori per passare alle forme superiori della loro lotta. Niente di tutto ciò. Gli operai che il Fronte Popolare è riuscito ad incorporare alla borghesia, poiché combattono sotto la direzione e per la vittoria di una frazione borghese, non hanno alcuna possibilità di evolvere su alle posizioni di classe" (Bilan n° 33, luglio-agosto 1936).
Le illusioni di una "rivoluzione sociale"
La guerra di Spagna sviluppò ancora un altro mito, un'altra menzogna. Sostituendo alla guerra di classe del proletariato contro il capitalismo la guerra tra "Democrazia" e" Fascismo", il Fronte popolare snaturava anche il contenuto della rivoluzione: l'obiettivo centrale non era più la distruzione dello Stato borghese e la presa del potere politico da parte del proletariato ma delle pretese misure di socializzazione e di gestione operaia delle fabbriche. Sono soprattutto gli anarchici e certe tendenze che si dicevano consiliariste che esaltarono in modo particolare questo mito, proclamando anche che, in quella Spagna repubblicana, antifascista e stalinista, la conquista delle posizioni socialiste erano ben più avanzate di quelle raggiunte dalla Rivoluzione d'ottobre in Russia.
Senza sviluppare qui questa questione, bisogna sottolineare tuttavia che queste misure, anche se fossero state più radicali di quanto non erano in realtà, non avrebbero potuto per niente cambiare il carattere fondamentalmente controrivoluzionario dello svolgimento degli avvenimenti in Spagna. Per la borghesia come per il proletariato, il punto centrale della rivoluzione può essere solamente quello della distruzione o della conservazione dello Stato capitalista.
Il capitalismo può adattarsi non solo momentaneamente alle misure di autogestione o delle pretese socializzazioni (realizzazioni di cooperative) degli sfruttamenti agricoli aspettando la possibilità di riportarli all'ordine alla prima occasione propizia, ma può anche perfettamente stimolarli come mezzi di mistificazione e di deviazione delle energie del proletariato verso le conquiste illusorie per distoglierlo dall'obiettivo centrale della Rivoluzione: distruzione del potere capitalista, il suo Stato.
L'esaltazione delle pretese misure sociali come il culmine della Rivoluzione è solamente una radicalità a parole che deviò il proletariato dalla sua lotta rivoluzionaria contro lo Stato e camuffò la sua mobilitazione come carne da cannone al servizio della borghesia. Avendo lasciato il suo campo di classe, il proletariato sarà arruolato non solo nelle milizie antifasciste degli anarchici e dei "poumisti" e sarà mandato al massacro come carne da cannone sui fronti, ma conoscerà inoltre un selvaggio supersfruttamento e sempre più sacrifici in nome della produzione per la guerra "di liberazione", dell'economia di guerra antifascista: riduzione degli stipendi, inflazione, razionamenti, militarizzazione del lavoro, allungamento delle giornate di lavoro. E quando il proletariato esasperato si sollevò, a Barcellona in maggio 1937, il Fronte popolare e la Generalidad di Barcellona, dove partecipavano attivamente gli anarchici, repressero apertamente e massacrarono la classe operaia di questa città, mentre i franchisti misero fine alle ostilità per permettere ai boia di sinistra di schiacciare nel sangue il sollevamento operaio.
Dai socialdemocratici agli estremisti, tutti erano daccordo, comprese certe frazioni di destra della borghesia, nel vedere nella salita della sinistra al governo in 1936 in Francia ed in Spagna (ma anche, probabilmente in modo meno spettacolare, in altri paesi come la Svezia o il Belgio) una grande vittoria della classe operaia ed un segno della sua combattività e della sua forza negli anni '30. Di fronte a queste manipolazioni ideologiche, i rivoluzionari d'oggi, come i loro predecessori nel rivista Bilan, hanno il dovere di affermare il carattere mistificatore dei Fronti popolari e delle "rivoluzioni sociali" cui questi pretendevano dare inizio. L'arrivo al potere della sinistra in quell'epoca esprimeva al contrario la profondità della sconfitta del proletariato mondiale, e permise un reclutamento diretto della classe operaia in Francia ed in Spagna nella guerra imperialista che tutta la borghesia stava preparando, per arruolarlo massicciamente dietro la mistificazione dell'ideologia anti-fascista.
" (…) Ed io pensavo soprattutto che era un immenso risultato ed un immenso servizio reso aver riportato queste masse e questa élite operaia all'amore ed al sentimento del dovere verso la patria" (dichiarazioni di Blum al processo di Riom).
Il "1936" segna per la classe operaia uno dei periodi più neri della controrivoluzione, dove le peggiori sconfitte della classe operaia le furono presentate come vittorie; dove, di fronte ad un proletariato che subiva ancora il contraccolpo dello schiacciamento dell'ondata rivoluzionaria iniziata in 1917, la borghesia poté imporre quasi senza colpo ferire la sua "soluzione" alla crisi: la guerra.
Jos
1. Leggere B. Kermoal, "Collera operaia alla vigilia del Fronte popolare", Le Monde diplomatique, giugno 2006, p.28.
2. Le citazioni riguardanti il Fronte popolare sono tratte generalmente da L. Bodin e J. Touchard, Fronte popolare 1936, Parigi: Armand Colin, 1985.
3. Confederazione nazionali del Lavoro, centrale anarco-sindacalista.
4. Partito Operaio di unificazione Marxista, piccolo partito concentrato in Catalogna che rappresentava l'estrema sinistra "radicale" della Socialdemocrazia. Faceva parte del "Bureau di Londra" che raggruppava internazionalmente le correnti socialiste di sinistra (SAPD tedesco, PSOP francese, Independent Labour Party britannico, ecc.).
5. Edouard Daladier: dirigente del Partito Radicale, numerose volte ministro a partire dal 1924 (in particolare delle Colonie e della Guerra) capo del governo nel 1933, 1934 e 1938. È a questo titolo che il 30 settembre 1938 firmò gli accordi di Monaco. Pierre Cot: cominciò la sua carriera politica come radicale e la finì come compagno di strada del PCF. Fu nominato ministro dell'Air (Aviazione) nel 1933 da Daladier. Léon Blum: capo storico dello SFIO (partito socialista) dopo la scissione del Congresso di Tours del 1920 da cui si formò il Partito comunista. Marcel Cachin: figura mitica del PCF, direttore de L'Umanité dal 1918 al 1958. I suoi stati di servizio sono eloquenti: fu interventista durante la prima guerra mondiale e, a questo titolo, fu mandato dal governo francese per dare a Mussolini, allora socialista, il denaro che gli doveva permettere di fondare Il popolo di Italia destinato a fare propaganda per l'entrata dell'Italia in guerra. Nel 1917, dopo la rivoluzione di febbraio, fu mandato in Russia per convincere il Governo provvisorio a proseguire la guerra. Nel 1918, si vantò di avere pianto quando la bandiera francese sventolava di nuovo su Strasburgo per la vittoria della Francia sulla Germania. Nel 1920, raggiunse il PCF, costituendo la destra del partito a fianco a Frossard. Tutta la sua vita si è distinta per il suo arrivismo e la sua servilità ciò che gli permise di condividere con talento tutte le svolte del PCF.
6. Piano adottato, su proposta del banchiere americano Charles Dawes, dalla Conferenza di Londra nell'agosto 1924 che raggruppava i vincitori della guerra e la Germania. Questo piano alleggerì questo paese dai "risarcimenti di guerra" che esso doveva pagare ai suoi vincitori (principalmente alla Francia), ciò che gli permise di rilanciare la sua economia e favorire gli investimenti americani…
Di fronte alla guerra che devasta in permanenza il Medio Oriente e recentemente di fronte al conflitto che insanguina il Libano ed Israele, la posizione dei rivoluzionari non deve avere la benché minima ambiguità. Per questo sosteniamo interamente le rare voci internazionaliste e rivoluzionarie che emergono in questa regione, come quella del gruppo Enternasyonalist Komunist Sol in Turchia. Nella sua presa di posizione sulla situazione in Libano ed in Palestina, che abbiamo riprodotto in vari organi della nostra stampa territoriale, questo gruppo respinge fermamente ogni sostegno alle cricche e fazioni borghesi rivali che si affrontano e le cui vittime dirette sono milioni di proletari che siano d'origine palestinese, ebrea, sciita, sunnita, kurda, drusa o altro. Esso ha giustamente affermato che "l’imperialismo è la politica naturale che pratica qualsiasi Stato nazionale o qualsiasi organizzazione che funziona come uno Stato nazionale”. Ha anche denunciato il fatto che "in Turchia, come nel resto del mondo, la maggior parte dei gauchistes ha dato il suo sostegno totale all’OLP ed ad Hamas. Nell'ultimo conflitto, questi si sono espressi unanimemente per dire ‘siamo tutti Hezbollah’. Seguendo questa logica che consiste nel dire ‘il nemico del mio nemico è mio amico’, hanno sostenuto a pieno questa violenta organizzazione che ha spinto la classe operaia in una disastrosa guerra nazionalistica. Questo sostegno dei gauchistes al nazionalismo ci mostra perché questi non hanno molto da dire di diverso da ciò che dice l’MPH (Partito del Movimento Nazionale - i Lupi grigi fascisti) (...) La guerra tra Hezbollah ed Israele e la guerra in Palestina sono entrambe guerre interimperialiste ed i diversi campi in gioco utilizzano tutti il nazionalismo per trascinare la classe operaia della regione nel proprio campo. Più gli operai saranno aspirati nel nazionalismo, più perderanno la loro capacità di agire come classe. È per questo che né Israele, né Hezbollah, né l’OLP, né Hamas devono essere sostenuti, in nessuna circostanza". Ciò dimostra che la prospettiva proletaria vive e si afferma sempre, non solo attraverso lo sviluppo delle lotte della classe operaia ovunque nel mondo: in Europa, negli Stati Uniti, in America latina, in India o nel Bangladesh, ma anche attraverso la comparsa, in vari paesi, di piccoli gruppi e di elementi politicizzati che cercano di difendere le posizioni internazionaliste che sono il segno distintivo della politica proletaria.
La guerra in Libano costituirà una nuova tappa nella messa a ferro e fuoco di tutto il Medio Oriente e nella caduta del pianeta in un caos sempre più incontrollabile, una guerra alla quale tutte le potenze imperialiste avranno contribuito, dalle più grandi alle più piccole, in seno alla pretesa “Comunità internazionale”. 7000 bombardamenti aerei sul solo territorio libanese, senza contare gli innumerevoli lanci di razzi sul Nord di Israele, più di 1200 morti in Libano ed in Israele (di cui più di 300 bambini di meno di 12 anni), circa 5000 feriti, un milione di civili che hanno dovuto fuggire dalle bombe o dalle zone di combattimento. Altri, troppo poveri per fuggire, che si rintanano come possono con la paura in corpo... Interi quartieri, interi villaggi ridotti allo stato di rovine, ospedali straripati e pieni fino a scoppiare: questo il bilancio di un mese di guerra in Libano ed in Israele in seguito all'offensiva di Tsahal per ridurre l'influenza crescente dello Hezbollah, in risposta ad uno dei tanti attacchi omicidi delle milizie islamiche al di là della frontiera israelo-libanese. Le distruzioni sono valutate a 6 miliardi di euro, senza contare il costo militare della guerra stessa.
È una vera e propria politica di terra bruciata quella che lo Stato israeliano persegue con una brutalità, una crudeltà ed un accanimento incredibili contro le popolazioni civili dei villaggi del Libano del Sud, cacciate senza riguardo dalle loro terre, dalle loro case, ridotte a crepare di fame, senza acqua potabile, esposte alle peggiori epidemie. 90 ponti e innumerevoli vie di comunicazione sistematicamente tagliati (strade, autostrade...), 3 centrali elettriche e migliaia di abitazioni distrutte, un inquinamento dilagante, bombardamenti incessanti. Il governo israeliano ed il suo esercito non hanno smesso di proclamare la loro volontà di “risparmiare i civili” e massacri come quelli di Canaa sono stati definiti “incidenti spiacevoli” (come famosi i “danni collaterali” nelle guerre del Golfo e nei Balcani). Ma guarda caso, è tra la popolazione civile che si contano il maggior numero di vittime, e di gran lunga: 90% degli uccisi!
Quanto a l’Hezbollah, benché con mezzi più limitati e dunque meno spettacolari, esso ha praticato esattamente la stessa politica omicida e sanguinaria di bombardamento a tutto spiano, con i suoi missili che si accaniscono contro la popolazione civile e le città del nord di Israele (il 75% dei morti fanno parte delle popolazioni arabe che questo pretendeva di proteggere).
Sono tutti guerrafondai
Il vicolo cieco della situazione in Medio Oriente si era già concretizzato con l'arrivo al potere di Hamas nei territori palestinesi (che l’intransigenza del governo israeliano avrà contribuito a causare, “radicalizzando” una maggioranza della popolazione palestinese) e la lacerazione aperta tra le frazioni della borghesia palestinese, soprattutto tra Fatah ed Hamas, che impedisce ormai ogni soluzione negoziata. Dinanzi a questo vicolo cieco la reazione di Israele è stata quella che, oggi nel mondo, è la favorita di tutti gli stati: la fuga in avanti. Per ribadire la sua autorità Israele ha cambiato versante allo scopo di fermare l'influenza crescente di Hezbollah nel Sud Libano, aiutato, finanziato ed armato dal regime iraniano. Il pretesto invocato da Israele per iniziare la guerra è stato la liberazione di due soldati israeliani fatti prigionieri da Hezbollah: quattro mesi dopo sono sempre prigionieri delle milizie sciite. L'altra ragione invocata era “neutralizzare” e disarmare Hezbollah i cui attacchi ed incursioni sul suolo israeliano nel Sud Libano avrebbero costituito una minaccia permanente per la sicurezza dello Stato ebreo.
Alla fine l'operazione di guerra si chiude con una sconfitta cocente, che mette brutalmente fine al mito della invincibilità, dell'invulnerabilità dell'esercito israeliano. Civili e soldati nell'ambito della borghesia israeliana si rinviano la responsabilità di una guerra mal preparata. Al contrario, Hezbollah esce rafforzato dal conflitto ed ha acquisito una legittimità nuova, attraverso la sua resistenza, agli occhi delle popolazioni arabe. Hezbollah, come Hamas, era in partenza solo una delle tante milizie islamiche che si sono costituite contro lo Stato di Israele. È nato in occasione dell'offensiva israeliana nel Libano del Sud nel 1982. Grazie alla sua componente sciita è prosperato beneficiando del copioso aiuto finanziario del regime degli ayatollah e dei mullah iraniani. Anche la Siria lo ha utilizzato fornendogli un importante sostegno logistico che le ha permesso di farne una base di retroguardia quando è stata costretta nel 2005 a ritirarsi dal Libano. Questa banda di assassini sanguinari ha saputo allo stesso tempo tessere con pazienza una potente rete di sergenti reclutatori attraverso la copertura di un aiuto medico, sanitario e sociale, alimentato dai generosi fondi tratti della manna petrolifera dello Stato iraniano. Questi fondi gli permettono anche di finanziare le riparazioni delle case distrutte o danneggiate dalle bombe ed i razzi, allo scopo di arruolare la popolazione civile nelle sue fila. Abbiamo potuto vedere dai vari reportage che questa “armata dell'ombra” è composta da numerosi bambini tra i 10 ed i 15 anni che servono da carne da cannone in questi sanguinari regolamenti di conto.
La Siria e l'Iran formano momentaneamente il blocco più omogeneo attorno ad Hamas o ad Hezbollah. l'Iran mostra chiaramente le sue ambizioni a diventare la principale potenza imperialista della regione e il possesso dell'arma atomica gli garantirebbe in effetti questo ruolo. Questa è giustamente una delle grandi preoccupazioni della potenza americana poiché, dalla sua fondazione nel 1979, la “Repubblica islamica” ha manifestato un'ostilità permanente agli Stati Uniti.
E’ dunque con il segnale di via libera da parte degli USA che si è iniziata l'offensiva israeliana contro il Libano. Sprofondati fino al collo nel pantano della guerra in Iraq e in Afghanistan, e dopo il fallimento del loro “piano di pace” per regolare la questione palestinese, gli Stati Uniti possono soltanto constatare il fallimento palese della loro strategia che mira ad instaurare la “Pax americana” nel Vicino e Medio Oriente. In particolare, la presenza americana in Iraq da tre anni si è tradotta in un caos sanguinoso, una vera guerra civile terribile tra fazioni rivali, attentati quotidiani che colpiscono ciecamente la popolazione, al ritmo di 80-100 morti al giorno.
In questo contesto era fuori questione per gli Stati Uniti intervenire in prima persona quando il loro obiettivo nella regione è prendersela con questi Stati denunciati come “terroristi” ed incarnazione “dell'asse del male”, che sarebbero appunto la Siria e soprattutto l'Iran di cui Hezbollah ha il sostegno. L'offensiva israeliana che doveva fungere da avvertimento a questi due Stati dimostra la perfetta convergenza di interessi tra la Casa Bianca e la borghesia israeliana. È per questo che il fallimento di Israele segna anche un nuovo arretramento degli Stati Uniti ed un ulteriore indebolimento della leadership americana.
Il cinismo e l’ipocrisia di tutte le grandi potenze
Il colmo del cinismo e dell’ipocrisia è raggiunto dall’ONU che, per tutto il tempo, non ha fatto che proclamare la sua “volontà di pace” pur lamentando la propria “impotenza”(1). Questa è un’odiosa menzogna. Questo "covo di briganti" (secondo il termine usato da Lenin a proposito dell'antenato dell'ONU, la Società delle Nazioni) è la palude dove si trastullano i più mostruosi coccodrilli del pianeta. I cinque Stati membri permanenti del Consiglio di Sicurezza sono i maggiori predatori della terra:
- Gli Stati Uniti, la cui egemonia si basa sulla più potente armata militare del mondo ed i cui misfatti, dalla proclamazione nel 1990 “di un’era di pace e di prosperità” da parte di Bush Senior, si commentano da soli (le due guerre del Golfo, l’intervento nei Balcani, l’occupazione dell’Iraq, la guerra in Afghanistan...).
- La Russia, responsabile delle peggiori atrocità all’epoca delle sue due guerre in Cecenia, che avendo mal digerito l’implosione dell’URSS e rimuginando un desiderio di rivincita, manifesta oggi nuove pretese imperialiste, approfittando della posizione di debolezza degli Stati Uniti. È per ciò che gioca la carta del sostegno all’Iran e più discretamente a Hezbollah.
- La Cina che, approfittando della sua crescente influenza economica, sogna di accedere alle nuove zone di influenza fuori dall’Asia del Sud-est. E in particolare fa gli occhi dolci all'Iran, partner economico privilegiato che gli dispensa la manna petrolifera ad una tariffa particolarmente vantaggiosa. Ciascuna di queste due potenze, ognuno per proprio conto, non ha fatto che cercare di sabotare le risoluzioni dell'ONU di cui erano parte pregnante.
- La Gran Bretagna che ha accompagnato fino a questo momento le principali spedizioni punitive degli Stati Uniti per la difesa dei propri interessi. Essa intende riconquistare la zona d’influenza di cui disponeva attraverso il suo vecchio protettorato in questa regione (principalmente Iran ed Iraq).
- La borghesia francese è sempre nostalgica dell’epoca in cui si spartiva le zone d'influenza in Medio Oriente con la Gran Bretagna. Per questo si è ricongiunta al piano americano sul Libano, intorno alla famosa risoluzione 1201 dell'ONU, che mette assieme anche il piano di re-impiego del FINUL. Per questo ha accettato di portare il suo impegno nel Libano del Sud da 400 a 2.000 soldati nell'ambito della FINUL.
Anche altre potenze sono in lizza, come l’Italia che, in cambio del più grosso contingente delle forze dell’ONU si vedrà affidare dopo febbraio 2006 il comando supremo del FINUL in Libano. Così, appena qualche mese dopo il ritiro delle truppe italiane dall’Iraq, Prodi dopo avere criticato aspramente l’impegno dell’equipe Berlusconi in Iraq, presenta la stessa minestra in Libano confermando le ambizioni dell’Italia ad avere un suo posto nella corte dei grandi, a rischio di lasciarci le penne. Ciò dimostra che tutte le potenze sguazzano nella guerra.
Il Medio Oriente offre oggi un concentrato del carattere irrazionale della guerra, dove ogni imperialismo vi si infila sempre più per difendere i propri interessi al prezzo di un'estensione sempre più ampia e devastante dei conflitti, i quali implicano un numero di Stati sempre grande.
L'estendersi delle zone di scontro nel mondo è una manifestazione del carattere inevitabile della barbarie di guerra del capitalismo. La guerra ed il militarismo sono realmente diventati il modo di vita permanente del capitalismo decadente in piena decomposizione. Questa è una delle caratteristiche essenziali del tragico vicolo cieco di un sistema che non ha null’altro da offrire all'umanità se non seminare miseria e morte.
La borghesia americana è in un vicolo cieco
Il gendarme garante della conservazione “dell'ordine mondiale” è oggi esso stesso un attivo e potente fattore d'accelerazione del caos.
Come è possibile che il primo esercito del mondo, dotato dei mezzi tecnologici più moderni, dei servizi di informazioni più potenti, di armi sofisticate capaci di individuare e raggiungere con precisione degli obiettivi a migliaia di chilometri di distanza, si ritrovi intrappolato in un tale pantano? Come è possibile che gli Stati Uniti, il paese più potente del mondo, sia diretto da un mezzo imbecille circondato da una banda di attivisti poco conforme all'immagine tradizionale di una “grande democrazia” borghese responsabile? È vero che Bush junior, qualificato dallo scrittore Norman Mailer “il peggior presidente della storia degli Stati Uniti: ignorante, arrogante e completamente stupido”, si è circondato di una equipe di “teste pensanti” particolarmente “calde” che gli dettano la “sua” politica: dal vicepresidente Dick Cheney al segretario di Stato alla Difesa Donald Rumsfeld, passando per il suo guru-manager Karl Rove e per il “teorico” Paul Wolfowitz. Quest'ultimo fin dall'inizio degli anni 1990 si è fatto il portavoce più conseguente di una “dottrina” che enunciava chiaramente che “la missione politica e militare essenziale dell'America per il dopo-guerra fredda consisterà nel fare in modo che nessuna superpotenza rivale possa emergere in Europa dell'Ovest, in Asia o nei territori dell'ex Unione sovietica”. Questa “dottrina” è stata resa pubblica nel marzo 1992 quando la borghesia americana si illudeva ancora sul successo della sua strategia, all’indomani del crollo dell'URSS e della riunificazione della Germania. Questa gente, qualche anno fa, dichiarava che per mobilitare la nazione, imporre al mondo intero i valori democratici dell'America ed impedire le rivalità imperialiste, “ci vorrebbe un nuovo Pearl Harbor”. Bisogna ricordare che l'attacco alla base delle forze navali americane da parte del Giappone nel dicembre 1941, che fece 4500 morti e feriti da parte americana, permise l'entrata in guerra degli Stati Uniti a fianco degli Alleati facendo oscillare un'opinione pubblica fino ad allora in gran parte reticente all’entrata in guerra, mentre le più alte autorità politiche americane erano al corrente del progetto di attacco e non intervennero. Da quando Cheney e compagni sono arrivati al potere, grazie alla vittoria di Bush junior nel 2000, non hanno fatto altro che attuare la politica prevista: gli attentati dell'11 settembre gli sono serviti da “un nuovo Pearl Harbor” ed è in nome della loro nuova crociata contro il terrorismo che hanno potuto giustificare l'invasione dell'Afghanistan, poi dell’Iraq, varare nuovi programmi militari particolarmente costosi, senza dimenticare un rafforzamento senza precedenti del controllo poliziesco sulla popolazione. Il fatto che gli Stati Uniti si danno tali dirigenti che giocano con le sorti del pianeta come tanti apprendisti stregoni obbedisce alla stessa logica del capitalismo decadente in crisi che ha portato al potere Hitler in Germania in un altro periodo. Non è questo o quell’individuo al vertice dello Stato che fa evolvere il capitalismo in un senso o nell’altro, è al contrario questo sistema in piena deliquescenza che permette a questo o quell'individuo, rappresentativo di questa evoluzione e capace di metterla in atto, di accedere al potere. Ciò esprime chiaramente l’impasse storica nella quale il capitalismo spinge l'umanità.
Il bilancio di questa politica è sconfortante: 3000 soldati morti dall'inizio della guerra in Iraq tre anni fa (di cui più di 2800 per le truppe americane), 655.000 iracheni sono periti tra marzo 2003 e luglio 2006, mentre gli attentati mortali e gli scontri tra frazioni sciite e sunnite si sono intensificati. Sono 160.000 i soldati che occupano il suolo iracheno sotto l'alto comando degli Stati Uniti e che si ritrovano incapaci di “garantire la missione di mantenimento dell'ordine” in un paese sul bordo dell’esplosione e della guerra civile. Al nord, le milizie sciite tentano di imporre la loro legge e moltiplicano le dimostrazioni di forza, al sud gli attivisti sunniti, che rivendicano con orgoglio i loro legami con i talebani ed Al Qaida, hanno appena auto-proclamato una “repubblica islamica” mentre al centro, nella regione di Bagdad, la popolazione è esposta a bande di saccheggiatori, ad autobombe e la minima uscita isolata delle truppe americane si espone ad un’imboscata.
Le guerre in Iraq ed in Afghanistan assorbono somme colossali che aumentano sempre più il deficit di bilancio e precipitano gli Stati Uniti in un indebitamento faraonico. La situazione in Afghanistan non è meno catastrofica. La caccia all’uomo interminabile contro Al Qaïda e la presenza anche qui di un esercito d'occupazione ridanno credito ai talebani cacciati dal potere nel 2002 ma che, riarmati dall'Iran e più discretamente dalla Cina, moltiplicano le imboscate e gli attentati. I “demoni terroristi” che sono Bin Laden o il regime dei talebani sono del resto, l’uno e l'altro, delle “creature” degli Stati Uniti per far fronte all’ex-URSS all'epoca dei blocchi imperialisti, dopo l'invasione delle truppe russe in Afghanistan. Il primo è una ex-spia reclutata dalla CIA nel 1979 che, dopo aver servito ad Istanbul, da intermediario finanziario in un traffico d’armi dell'Arabia Saudita e degli Stati Uniti verso la macchia afgana, è diventato “naturalmente”, fin dall'inizio dell'intervento russo, l'intermediario degli americani per distribuire il finanziamento della resistenza afgana. I secondi sono stati armati e finanziati dagli Stati Uniti ed il loro accesso al potere si è compiuto con la completa benedizione dello Zio Sam.
È anche evidente che la grande crociata contro il terrorismo lungi dal portare alla sua estirpazione ha avuto, al contrario, come solo effetto il proliferare delle azioni terroristiche e degli attentati kamikaze dove il solo obiettivo è di fare maggiori vittime possibili. Oggi, la Casa Bianca resta impotente di fronte agli sberleffi più umilianti che gli infligge lo Stato iraniano. Ciò fa ringalluzzire potenze di quarto o quinto ordine come la Corea del Nord che si è permessa di procedere l'8 ottobre ad una prova nucleare che ne fa l'8° paese detentore dell'arma atomica. Questa enorme sfida mette in pericolo l'equilibrio di tutto il Sud-est asiatico e consolida le aspirazioni di altri Stati a dotarsi dell'arma nucleare. Giustifica inoltre una nuova militarizzazione ed il rapido riarmamento del Giappone che si orienta verso la produzione di armi nucleari per far fronte al suo immediato vicino. Questo è “l'effetto domino” della fuga davanti nel militarismo ed il “ciascuno per sé”.
Bisogna anche ricordare la situazione di caos terribile che imperversa in Medio Oriente ed in particolare nella striscia di Gaza. Dopo la vittoria elettorale di Hamas a fine gennaio, è stato sospeso l'aiuto internazionale diretto ed il governo israeliano ha organizzato il blocco dei trasferimenti di fondi delle entrate fiscali e doganali all'Autorità palestinese. 165.000 funzionari non vengono pagati da 7 mesi, ma la loro rabbia e quella di tutta una popolazione, di cui il 70% vive al di sotto della soglia di povertà con un tasso di disoccupazione del 44%, viene facilmente recuperata negli scontri di strada che ancora una volta contrappongono regolarmente, dal 1 ottobre, le milizie di Hamas a quelle di Fatah. I tentativi di formare un governo di unione nazionale abortiscono l’uno dopo l’altro. Mentre si stava ritirando dal Libano del Sud, Tsahal ha assalito di nuovo le zone di confine con l'Egitto al limite della striscia di Gaza ed ha ripreso a bombardare missili sulla città di Rafah, con la scusa di dare la caccia agli attivisti di Hamas. Per quelli che possono ancora avere lavoro, i controlli sono incessanti. La popolazione vive in un clima di terrore e d'insicurezza permanenti. Dal 25 giugno sono stati registrati 300 morti in questo territorio.
Il fiasco della politica americana è dunque palese. È per questo che si assiste ad un'ampia rimessa in discussione dell'amministrazione Bush, anche nel proprio campo, quello dei repubblicani. Le cerimonie di commemorazione del 5° anniversario dell'11 settembre sono state l'occasione di critiche incendiarie contro Bush, riprese poi dai mass media americani. Cinque anni fa la CCI è stata accusata di avere una visione machiavellica della storia quando cercava di dimostrare l'ipotesi che la Casa-Bianca aveva lasciato con cognizione di causa che si perpetrassero gli attentati per giustificare le avventure militari in preparazione (2). Oggi, un numero incredibile di libri, documentari, articoli su Internet non soltanto rimettono in discussione la versione ufficiale dell'11 settembre, ma in buona parte avanzano teorie molto più “forti” e denunciano un complotto ed una manipolazione concertata dell’equipe di Bush. Nella stessa popolazione, secondo i sondaggi recenti, più di un terzo degli americani e quasi la metà della popolazione di New York pensa che c’è stata una manipolazione degli attentati, che l'11 settembre è stato un "inside job" (un “lavoro dall'interno”).
Inoltre, il 60% della popolazione americana pensa che la guerra in Iraq sia una “cattiva cosa” e tra questa la maggior parte non crede alla tesi della detenzione di potenziale nucleare né ai legami di Saddam con Al Qaida e pensa che questi sono stati solo dei pretesti per giustificare un intervento in Iraq. Una mezza dozzina di libri recenti (di cui quello del giornalista-vedetta Bob Woodward che sollevò lo scandalo del Watergate all'epoca di Nixon) elabora atti d'accusa implacabili per denunciare questa “menzogna” di Stato e richiedere il ritiro delle truppe dall’Iraq. Questo non significa affatto che la politica militariste degli Stati Uniti può essere sabotata, ma è pur vero che il governo è costretto a tener conto ed a mettere in luce le sue contraddizioni per tentare di adattarsi.
La presunta ultima "gaffe" di Bush che ammette il parallelo con la guerra in Vietnam è concomitante con le "fughe"... orchestrate dalle interviste accordate da James Baker stesso. Il piano dell'ex capo di Stato-maggiore dell'era Reagan, poi segretario di Stato all'epoca di Bush padre raccomanda l'apertura del dialogo con la Siria e l'Iran e soprattutto un ritiro parziale delle truppe di Iraq. Questo tentativo di arginare la situazione sottolinea il livello d'indebolimento della borghesia americana per la quale il ritiro puro è semplice dall’Iraq sarebbe l'affronto più scottante della sua storia, cosa che non può permettersi. Il parallelo con il Vietnam è in realtà una sottovalutazione ingannevole. All'epoca, il ritiro delle truppe dal Vietnam permise agli Stati Uniti un riorientamento strategico benefico delle sue alleanze e gli permise di attirare la Cina nel proprio campo contro l’ex-URSS. Oggi il ritiro delle truppe americane dall’Iraq sarebbe una capitolazione pura e semplice senza alcuna contropartita e comporterebbe un discredito completo della potenza americana. Comporterebbe allo stesso tempo l’esplosione del paese che porterebbe ad un aggravamento considerevole del caos in tutta la regione. Queste contraddizioni sono le manifestazioni evidenti della crisi e l'indebolimento della leadership americana e dell’acuirsi del “ciascuno per sé” testimone del caos crescente nelle relazioni internazionali. Un cambiamento della maggioranza al prossimo Congresso, in occasione delle prossime elezioni di “metà-mandato”, ed anche l’eventuale elezione di un presidente democratico, tra due anni, non potrebbe portare a nessun’altra "scelta" diversa dalla fuga in avanti nelle avventure militari. L’equipe di “eccitati” che governa a Washington ha dato prova di un livello d'incompetenza raramente raggiunto da un'amministrazione americana. Ma indipendentemente dalle equipe che si succederanno, non si potrà cambiare il dato di fondo: di fronte ad un sistema capitalista che sprofonda nella sua crisi mortale, la classe dominante non è capace di dare altra risposta che la fuga davanti nella barbarie guerriera. E la prima borghesia mondiale potrà solo mantenere il suo posto in questo dominio.
La lotta di classe è la sola alternativa alla barbarie capitalista
Negli Stati Uniti, il peso del sciovinismo dispiegato nel periodo successivo all'11 settembre è in gran parte scomparso con l'esperienza del doppio fiasco della lotta antiterrorista e della paralisi della guerra in Iraq. Le campagne di reclutamento dell'esercito penano a trovare candidati pronti ad andare a farsi ammazzare in Iraq, mentre le truppe sono prese dalla demoralizzazione. Nonostante i rischi, migliaia di diserzioni si producono sul campo. Si è constatato che più di un migliaio di disertori si sono rifugiati in Canada.
Questa situazione non riflette soltanto l’impasse della borghesia ma annuncia un'altra alternativa. Il peso sempre più insopportabile della guerra e della barbarie nella società è una dimensione indispensabile della presa di coscienza da parte dei proletari sul fallimento irrimediabile del sistema capitalista. La sola risposta che la classe operaia può opporre alla guerra imperialista, la sola solidarietà che può dare ai suoi fratelli di classe esposti ai peggiori massacri, è mobilitarsi sul suo terreno di classe contro i propri sfruttatori. È battersi e sviluppare le sue lotte sul terreno sociale contro la propria borghesia nazionale. E questo la classe operaia ha iniziato a farlo nello sciopero di solidarietà che hanno fatto i dipendenti dell'aeroporto di Heathrow nell'agosto 2005, in pena campagna antiterrorista dopo gli attentati di Londra, verso gli operai pakistani licenziati dall'impresa di ristorazione Gate Gourmet. Come lo ha fatto con la mobilitazione dei futuri proletari contro il CPE in Francia o degli operai della metallurgia a Vigo in Spagna. Come lo hanno fatto sul suolo americano i 18.000 meccanici della Boeing nel settembre 2005 che si sono opposti alla riduzione dell'importo della loro pensione pur rifiutando la discriminazione di trattamento tra i giovani e vecchi operai. Come lo hanno fatto gli operai della metropolitana e dei trasporti pubblici in uno sciopero a New York la vigilia di Natale lo scorso anno. Di fronte ad un attacco sulle pensioni che riguardava esplicitamente soltanto coloro che sarebbero stati assunti in futuro, hanno affermato la loro presa di coscienza che battersi per il futuro dei propri figli fa parte della propria lotta. Queste lotte sono ancora deboli ed il cammino che porterà ad un scontro decisivo tra il proletariato e la borghesia è ancora lungo e difficile, ma esse testimoniano una ripresa delle lotte di classe su scala internazionale. Costituiscono il solo barlume di speranza possibile di un futuro diverso, di un'alternativa per l'umanità alla barbarie capitalista.
W (21 ottobre)
1. Questo cinismo e questa ipocrisia sono venute in piena luce sul campo, attraverso un episodio degli ultimi giorni della guerra : un convoglio composto da una parte della popolazione di un villaggio libanese, tra cui molte donne e bambini che cercavano di fuggire dalla zona dei combattimenti, è andato in panne ed è stato preso di mira dalle mitragliatrici di Tsahal. I membri del convoglio hanno allora cercato rifugio presso un campo dell’ONU nelle vicinanze. Gli è stato risposto che per loro era impossibile accoglierli, che loro non avevano nessun mandato per farlo. La maggior parte (58) sono morti sotto le mitragliate dell’esercito israeliano e sotto lo sguardo passivo delle forze della FINUL (secondo la testimonianza ad un telegiornale di una madre di famiglia sopravvissuta).
2. Vedi l’articolo “Pearl Habour 1941, le ‘Torri Gemelle’ 2001, Il machiavellismo della borghesia”, Rivoluzione Internazionale n.124, febbraio-marzo 2002
Caro compagno,
Abbiamo ricevuto volentieri la tua ultima lettera e salutiamo di nuovo i tuoi contributi sulla legge del valore e sull’autogestione. Essi fanno parte dell’indispensabile discussione tra comunisti per definire con il massimo rigore il programma della rivoluzione proletaria. Ecco come tu abbordi il problema:
“Nel vostro libro, la decadenza del capitalismo, voi dite che sotto il socialismo la produzione delle merci sarà eliminata. Ma è impossibile liquidare la produzione delle merci senza abolire la legge del valore. Dalla teoria di Marx, sotto il socialismo, i prodotti del lavoro saranno scambiati secondo la quantità dei tempi di lavoro necessari (secondo il lavoro), cioè conformemente alla legge del valore.”
-“nel vostro opuscolo Piattaforma della CCI [4], il punto 11 s’intitola: “L’autogestione: autosfruttamento del proletariato” Che cosa vuol dire autosfruttamento? Lo sfruttamento è l’appropriazione dei prodotti del lavoro altrui. Se capisco bene, l’autosfruttamento è l’appropriazione dei prodotti del proprio lavoro. Così Robinson Crosué, si autosfruttava quando consumava i prodotti del suo proprio lavoro. Robinson Crosué sfruttava se stesso.”
Cercheremo di rispondere a queste due questioni, mostrando come esse siano legate.
Il carattere storico e transitorio della legge del valore.
Nella tua lettera del 26 dicembre 2004 tu citi un passaggio della Critica del programma di Gotha di Marx: “egli [il produttore individuale] riceve dalla società uno scontrino da cui risulta che egli ha prestato tanto lavoro (dopo la detrazione del suo lavoro per i fondi comuni), e con questo scontrino egli ritira dal fondo sociale tanti mezzi di consumo quanto equivale ad un lavoro corrispondente. La stessa quantità di lavoro che egli ha dato alla società in una forma, la riceve in un’altra.
Domina qui evidentemente lo stesso principio che regola lo scambio delle merci in quanto è scambio di valori uguali. (1)
L’idea essenziale difesa da Marx qui, è che dopo la rivoluzione, allorché il proletariato detiene il potere, è ancora necessario per tutto un periodo allineare i “salari” degli operai sul tempo di lavoro e, in conseguenza, di calcolare i tempi di lavoro contenuti nei prodotti, al fine di arrivare ad un “valore di scambio” dei prodotti che può essere espresso in “buoni di lavoro”. La produzione delle merci, la legge del valore, e dunque il mercato, sussistono ancora, e noi siamo d’accordo con lui. Noi comprendiamo dunque la tua sorpresa quando, nel nostro libro La decadenza del capitalismo, tu hai letto che nel socialismo la produzione delle merci sarebbe scomparsa. Nei fatti si tratta di un malinteso sui termini. In effetti nella nostra stampa noi utilizziamo sempre la parola socialismo come un sinonimo di comunismo come scopo finale del proletariato: una società senza classi e senza Stato dove i prodotti del lavoro non saranno più delle merci, dove la legge del valore sarà stata eliminata. Dall’epoca in cui scriveva Miseria della filosofia (1847), Marx era chiaro su questo: nel comunismo non ci sarà più scambio, non ci saranno più merci: “in una società futura, dove l’antagonismo di classe sarà cessato, dove non ci saranno più classi, l’uso non sarà più determinato dal minimo del tempo di produzione; ma il tempo di produzione che si consacrerà ai differenti oggetti sarà determinato dal loro grado di utilizzazione sociale.”(2) In questo stadio, il valore si scambio sarà stato abolito. La comunità umana riunificata, attraverso i suoi organi amministrativi incaricati della pianificazione centralizzata della produzione, deciderà quale quantità di lavoro dovrà essere consacrata alla produzione di questo o quel prodotto. Ma essa non avrà più bisogno del “passaggio” dello scambio come avviene nel capitalismo perché l’importante è il grado di utilizzazione sociale dei prodotti. Noi saremo allora in una società dell’abbondanza dove non solamente i bisogni più elementari dell’essere umano sono soddisfatti ma dove questi stessi bisogni conoscono un formidabile sviluppo. In questa società lo stesso lavoro avrà completamente cambiato natura: essendo il tempo consacrato alla creazione dei bisogni di sussistenza ridotto al minimo, il lavoro diverrà per la prima volta una attività veramente libera. La distribuzione, come la produzione, cambieranno ugualmente di natura. Poco importa ormai il tempo consacrato dall’individuo alla produzione sociale, regnerà solo il principio: “da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni!”
L’identificazione e la difesa di questo scopo finale della lotta proletaria – una società senza classi, senza Stato né frontiere nazionali, senza merci – attraversano tutta l’opera di Marx, Engels e dei rivoluzionari delle generazioni successive. È importante ricordarlo poiché questo scopo determina profondamente il movimento che conduce ad esso e i mezzi necessari a metterlo in opera.
Dopo l’esperienza della rivoluzione russa, poi della controrivoluzione stalinista, noi pensiamo che è preferibile per la chiarezza di parlare d’un “periodo di transizione dal capitalismo al socialismo” piuttosto che di “socialismo” o di “fase inferiore del comunismo”. È evidente che non si tratta di una semplice questione di terminologia. In effetti, la dittatura del proletariato non può essere concepita come una società stabile, né come un modo di produzione specifico. È una società in piena evoluzione, tesa verso la realizzazione di uno scopo finale, di sconvolgimenti sociali e politici, dove gli antichi rapporti di produzione sono attaccati e declinano mentre appaiono e si rafforzano i nuovi. Nella “Critica del programma di Gotha”, prima del passaggio citato all’inizio di questo articolo Marx precisa che: “quella con cui abbiamo da far qui, è una società comunista, non come si è sviluppata sulla propria base, ma viceversa [sottolineato da noi], come emerge dalla società capitalista; che porta quindi ancora sotto ogni rapporto, economico, morale, spirituale, le impronte materne della vecchia società dal cui seno essa è uscita.”(3) Qualche pagine dopo, afferma chiaramente: “tra la società capitalista e la società comunista si situa il periodo di trasformazione rivoluzionaria dell’una nell’altra. A questo periodo corrisponde ugualmente un periodo di transizione politica dove lo Stato non sarebbe essere altra cosa che la dittatura rivoluzionaria del proletariato.”
La nostra lettera precedente aveva permesso, sembra, di eliminare questo malinteso e la tua risposta esprimeva un accordo sul fondo. “dalla mia comprensione del marxismo, questo periodo di transizione si chiama socialismo. Io non parlo del comunismo del mercato, ma del socialismo di mercato. (..) Con l’aumento delle forze produttive, la distribuzione in funzione del lavoro si trasforma in distribuzione secondo i bisogni, il socialismo si trasforma passo a passo in comunismo e il mercato scomparirà nel tempo.”
Nella tua lettera del 26 dicembre 2004, tu sottolineavi che esistono tre forme di distribuzione dei prodotti basati sui tempi di lavoro socialmente necessari contenuti in essi:
- attraverso l’intermediario del denaro (D), nel qual caso lo scambio delle merci (M) si effettua sotto la forma M – D – M;
- attraverso l’intermediario di un buono di lavoro (B) di cui parlava di cui parlava Marx: M – B – M
- direttamente sotto la forma del baratto; M – M
E tu notavi che, nei tre casi, noi avevamo a che fare con uno scambio di merci, quindi con l’esistenza di un mercato, cioè con una società che utilizza un equivalente generale, la moneta, per esprimere il tempo di lavoro, anche se la moneta non è necessaria nel caso arcaico del baratto per determinare l’equivalenza. Come tu dici: “La moneta e i buoni sono quasi la stessa cosa, perché misurano la stessa cosa – il tempo di lavoro. La differenza tra i due è la stessa che c’è tra un regolo graduato in centimetri e un altro graduato in pollici.” Siamo d’accordo con te per dire che è con questa situazione economica che si confronterà il proletariato dopo la presa del potere e che ignorare ciò significa una regressione in rapporto al marxismo. Tanto più che la guerra civile tra il proletariato e la borghesia a scala mondiale provocherà numerose distruzioni che comporteranno una diminuzione della produzione. Incessantemente i comunisti devono combattere le illusioni su una estinzione rapida e senza problemi della legge del valore. La necessità per il proletariato di portare a termine la soppressione dello scambio e di creare le condizioni del deperimento dello Stato, farà del periodo di transizione un periodo di sconvolgimento rivoluzionario come l’umanità non ha mai conosciuto. Malgrado queste precisazioni, è evidente che un disaccordo sussiste. Tu scrivi, per esempio, nella stessa lettera: “sotto il socialismo i prodotti del lavoro saranno scambiati secondo la quantità di lavoro socialmente necessario. E là dove i prodotti del lavoro sono scambiati secondo la quantità di lavoro, il mercato e la produzione delle merci continuano ad esistere. In conseguenza, per abolire la produzione delle merci occorre abolire la distribuzione basata sulla quantità di lavoro. Dunque, se voi volete abolire la produzione delle merci, voi dovete abolire il socialismo. Se voi vi considerate marxisti, voi dovete riconoscere che il socialismo nella sua essenza è basato sul mercato. Altrimenti andate dagli anarchici!”
Da ciò che abbiamo visto prima, noi supponiamo che tu designi per “socialismo” il periodo di transizione dal capitalismo al comunismo. Questo periodo resta, per sua definizione, instabile: o il proletariato è vittorioso, e “l’economia di transizione” è trasformata nel senso del comunismo, cioè verso l’abolizione dell’economia mercantile; o il proletariato perde terreno, le leggi del mercato si riaffermano, e c’è il pericolo che la strada verso la controrivoluzione sia aperta.
L’ignoranza degli anarchici
Ancora nella stessa lettera, tu scrivi che si trova questa ignoranza presso gli anarchici. In effetti, per loro, l’emancipazione dell’umanità riposa unicamente su uno sforzo di volontà e, in conseguenza il comunismo potrebbe vedere l’alba in qualsiasi epoca storica. Così facendo essi rigettano ogni conoscenza scientifica dello sviluppo sociale e di conseguenza sono incapaci di comprendere quale ruolo possono giocarvi la lotta di classe e la volontà umana. Nella sua Prefazione al Capitale, Marx rispondeva, senza nominarli, agli anarchici che negano l’inevitabilità di un periodo di transizione: “Se pure una società è arrivata a scoprire la legge di natura del proprio movimento – e scopo ultimo di questa opera è rivelare la legge economica del movimento della società moderna – non può né saltare né togliere di mezzo con decreti le fasi naturali dello svolgimento. Ma può abbreviare e attutire le doglie del parto.”(4)
Secondo Marx ed Engels, la necessità della dittatura del proletariato, cioè di un periodo di transizione tra i due modi di produzione “stabili” che costituiscono il capitalismo e il comunismo, riposa su due fondamenti:
- l’impossibilità di uno sbocciare del comunismo nel seno del capitalismo (contrariamente al capitalismo che si sviluppò nel seno del feudalesimo);
- il fatto che il formidabile sviluppo delle forza produttive ottenuto dal capitalismo è ancora insufficiente per permettere il pieno soddisfacimento dei bisogni umani che caratterizza il comunismo.
Gli anarchici non solo sono evidentemente incapaci di comprendere ciò, ma in più la loro “visione del comunismo” non supera in alcun modo lo stretto orizzonte borghese. Lo si può constatare già nell’opera di Proudhon. Per quest'ultimo, l'economia politica è la scienza suprema e si ostina ad individuare in ogni categoria economica capitalista i buoni ed i cattivi lati. La parte buona dello scambio è che mette faccia a faccia due valori uguali. Il lato buono della concorrenza è l'emulazione. E troverà inevitabilmente un qualcosa di buono nella proprietà privata: "Ma è ovvio che se la disuguaglianza è uno degli attributi della proprietà, non è tutta la proprietà; poiché ciò che rende la proprietà deliziosa, come diceva non so più quale filosofo, è la facoltà di disporre a volontà non soltanto del valore del suo bene ma della sua natura specifica, sfruttarlo a proprio piacimento, di rintanarsi e di richiudersi, di farne l’ uso che l'interesse, la passione ed il capriccio vi suggeriscono.” (5)
Ci annunciavano il regno della libertà, ci buschiamo sogni limitati e meschini del piccolo produttore. Per gli anarchici, la società ideale è soltanto un capitalismo idealizzato dove regneranno da padrone lo scambio e la legge del valore, cioè le condizioni dello sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo. Al contrario, il marxismo si presenta come una critica radicale del capitalismo che difende la prospettiva di una vera emancipazione del proletariato e, allo stesso tempo, dell'umanità tutta intera. Marx ed Engels hanno sempre combattuto il comunismo grezzo che limitava la rivoluzione alla sfera della distribuzione e che arrivava semplicemente ad una divisione della miseria. Gli opponevano l’esplosione delle forze produttive liberate dagli ostacoli del capitalismo. Non richiedevano soltanto la soddisfazione delle necessità elementari dell'essere umano ma ancora il compimento di quest'ultimo, il superamento della separazione tra l'individuo e la comunità, lo sviluppo di tutte le facoltà dell'individuo attualmente soffocate dalla piovra della divisione del lavoro: “In una fase più elevata della società comunista, dopo che è scomparsa la subordinazione servile degli individui alla divisione del lavoro, e quindi anche il contrasto di lavoro intellettuale e corporale; dopo che il lavoro non è divenuto soltanto mezzo di vita, ma anche il primo bisogno della vita; dopo che con lo sviluppo generale degli individui sono cresciute anche le forze produttive e tutte le sorgenti delle ricchezze sociali scorrono in tutta la loro pienezza, - solo allora l'angusto orizzonte giuridico borghese può essere superato, e la società può scrivere sulle sue bandiere: ‘da ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni!”(6)
Con ciò, il marxismo non cede alle frasi roboanti del radicalismo piccolo borghese e dell'utopia; sa che il solo mezzo per uscire dal capitalismo, sono l'eliminazione del lavoro salariato e dello scambio che riassumono tutte le contraddizioni del capitalismo, che sono la causa ultima delle guerre, delle crisi e della miseria che devastano la società. La politica economica messa in opera dalla dittatura del proletariato è completamente volta verso questo scopo. Secondo questa concezione, non c'è trasmutazione spontanea ma distruzione dei rapporti sociali capitalisti.
Questo richiamo ci permette di sottolineare l’estrema confusione con la quale gli anarchici pretendono di superare la separazione dell'operaio con i prodotti del suo lavoro. Nella loro visione, diventando proprietari della fabbrica dove lavorano, gli operai diventano inevitabilmente proprietari dei prodotti del loro lavoro. Li dominano infine, ne ottengono anche l'integrità del piacere. Risultato: la proprietà è diventata eterna e sacra. Siamo qui in presenza di un regime di tipo federalista ereditato dai modi di produzione precapitalisti. È lo stesso procedimento di Lassalle. Quest'ultimo ha appreso da Marx che lo sfruttamento si traduce nell'estrazione di plusvalore. Richiediamo di conseguenza per l'operaio il prodotto integrale del lavoro ed il problema è regolato. Così facendo, come dice Engels nell'Anti-Dühring: “si ritira alla società la funzione progressiva più importante della società, l’accumulazione; la si rimette nelle mani e all’arbitrio degli individui.”(7). Dopo i lavori di Marx, queste confusioni sul lavoro, la forza lavoro ed il prodotto del lavoro sono diventate propriamente inammissibili. Questo sproloquio teorico comune a Lassalle ed agli anarchici forma la base delle concezioni sull’autogestione. Qui, non ci si orienta più verso l'abolizione dello scambio ed il comunismo, si moltiplicano gli ostacoli sul proprio cammino. Ecco come Marx, sempre nella Critica del programma di Gotha, conclude la critica aspra di queste concezioni: "mi sono occupato ampiamente del ‘frutto integrale del lavoro’ da una parte, dall’altra parte dell’‘ugual diritto’ della ‘giusta ripartizione’, per mostrare quanto si vaneggia, allorché da un lato si vogliono nuovamente imporre come dogmi al nostro partito concetti, che in un certo momento avevano un senso, ma ora sono diventati frasi antiquate; e, dall’altro lato, quanto la concezione realistica, così faticosamente fatta acquisire al partito ma che ora si è radicata in esso, viene di nuovo deformata con fandonie ideologiche di carattere giuridico e simili, così comuni tra i democratici e i socialisti francesi.”(8)
Da questo punto di vista, ci sembra che tu ti fermi nel cammino del tuo ragionamento. Tu sei d’accordo con noi per dire che, durante questo periodo, non ci sarà sfruttamento della classe operaia per il fatto che sarà il proletariato ad esercitare il potere, a causa del processo di collettivizzazione dei mezzi di produzione, perché il pluslavoro non ha più la forma di un plusvalore destinato all'accumulo del capitale ma è destinato (una volta defalcato il fondo di riserva e ciò che è destinato ai membri improduttivi della società) alla soddisfazione crescente dei bisogni sociali. Dici molto giustamente: "La differenza tra il socialismo [periodo di transizione] ed il capitalismo consiste nel fatto che sotto il socialismo la mano d'opera non esiste in quanto merce" (lettera del 23 gennaio 2005). Ma affermi nella lettera successiva: "La legge del valore resterà in vigore completamente, non parzialmente". Ciò che rafforza ancora la tua espressione: "socialismo di mercato”. Vedi bene la necessità di attaccare il salariato ma non quella di attaccare lo scambio commerciale. Ora, i due sono legati profondamente.
La legge del valore scoperta da Marx non consiste solamente nel delucidare l'origine del valore delle merci, essa risolve l'enigma della riproduzione allargata del capitale. Anche se il proletario riceve dalla vendita della sua forza lavoro uno stipendio che corrisponde al suo valore reale, fornisce tuttavia un valore molto superiore nel processo di produzione. Lo sfruttamento che permette che sia estratto così un tale plusvalore dal lavoro del proletario esisteva già nella produzione commerciale semplice a partire dalla quale il capitalismo è nato e si è sviluppato. Non è dunque possibile sopprimere lo sfruttamento del proletariato senza attaccare lo scambio commerciale. È ciò che ci spiega chiaramente Engels ne L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato: "non appena i produttori non consumarono più direttamente il loro prodotto, ma lo passarono in altre mani nello scambio, perdettero il dominio su di esso. Non sapevano più che cosa ne sarebbe avvenuto; era data la possibilità che il prodotto, un giorno, venisse adoperato contro il produttore per sfruttarlo ed opprimerlo. Perciò nessuna società può mantenere durevolmente il dominio sulla propria produzione e il controllo sugli effetti sociali del suo processo di produzione a meno che non abolisca lo scambio tra individui."(9)
Se la legge del valore resta "in vigore completamente ", come tu affermi, allora il proletariato resterà una classe sfruttata. Affinché lo sfruttamento cessi durante il periodo di transizione, non basta che la borghesia sia stata espropriata. Occorre ancora che i mezzi di produzione smettano di esistere in quanto capitale. Al principio capitalista del lavoro morto, del lavoro accumulato, cui si sottomette il lavoro vivo in vista della produzione di plusvalore, bisogna sostituire il principio del lavoro vivo che domina il lavoro accumulato in vista di una produzione destinata alla soddisfazione dei bisogni dei membri della società. La dittatura del proletariato dovrà in questo senso combattere il produttivismo assurdo e catastrofico del capitalismo. Come diceva la Sinistra Comunista di Francia, " La parte di pluslavoro che il proletariato potrà prelevare sarà forse in principio grande tanto quanto sotto il capitalismo. Il principio economico socialista non potrebbe dunque essere distinto, nella grandezza immediata, dal rapporto tra il lavoro pagato e non pagato. Solo la tendenza della curva, la tendenza all'avvicinamento del rapporto potrà servire come indicazione dell'evoluzione dell'economia ed essere il barometro che indica la natura di classe della produzione.”(10)
L’autogestione, una trappola mortale per il proletariato
La seconda questione in discussione è trattata al punto 11 della nostra piattaforma: "l'autogestione, auto-sfruttamento del proletariato". Tu affermi qui un netto disaccordo con la nostra posizione. Ti sembra inconcepibile che gli operai stessi possano sfruttarsi. "ma non comprendo affatto", scrivi, "come è possibile sfruttarsi, è quasi la stessa cosa di derubarsi." Dalle grandi lotte operaie della fine degli anni 1960, la maggior parte delle nostre sezioni è stata confrontata concretamente alla questione dell'autogestione da parte degli operai della "loro" impresa nell'ambito della società capitalista. Hanno potuto dunque verificare nella pratica che sotto la maschera dell’autogestione si nasconde la trappola dell'isolamento teso dai sindacati. Gli esempi sono infatti numerosi: la fabbrica di orologi Lip in Francia nel 1973, Quaregnon e Salik in Belgio nel 1978-79, Triumph in Inghilterra nella stessa epoca e recentemente nella miniera di Tower Colliery in Galles. Ogni volta lo scenario è lo stesso: la minaccia di fallimento causa la lotta degli operai, i sindacati organizzano l'isolamento della lotta e finiscono per ottenere la sconfitta facendo balenare il riacquisto della fabbrica dagli operai ed i quadri, a costo di versare, se necessario, molti mesi di salario o il premio di licenziamento per aumentare il capitale dell'impresa. Nel 1979, la fabbrica Lip, nel frattempo diventata cooperativa operaia, è costretta a chiudere sotto la pressione della concorrenza. In occasione dell'ultima assemblea generale, un operaio esprime la sua collera e la sua disperazione di fronte ai delegati sindacali che erano diventati in realtà i veri proprietari dell'impresa: "Voi siete ignobili! Oggi siete voi che ci mettete alla porta... Ci avete mentito!"(11) Far accettare i sacrifici che la crisi economica impone, esige di soffocare all’origine le lotte operaie di resistenza, ecco l'utilità della parola d'ordine dell'autogestione.
Questa posizione di principio è interamente conforme al marxismo. Occorre inoltre osservare che non siamo i primi ad utilizzare la nozione d'auto-sfruttamento degli operai. Ecco ciò che scriveva Rosa Luxemburg in 1898:
"Ma nell'economia capitalista lo scambio domina la produzione e, in considerazione della concorrenza, fa dello sfruttamento spietato, cioè del predominio totale degli interessi del capitale sul processo produttivo, la condizione per l’esistenza dell’impresa. Ciò si manifesta in pratica nella necessità di rendere il lavoro il più possibile intensivo, di abbreviarlo o allungarlo a seconda della situazione di mercato, di ingaggiare la forza-lavoro o licenziarla e metterla sul lastrico a seconda delle richieste del mercato dello smercio, in una parola nel mettere in pratica tutti i metodi conosciuti che rendono un'impresa capitalista capace di essere concorrenziale. Nella cooperativa di produzione ne deriva la necessità contraddittoria per i lavoratori di governare se stessi con tutto l'assolutismo che si richiede, di svolgere con se stessi il ruolo dell’imprenditore capitalistico. Per questa contraddizione la cooperativa produttiva va in rovina, riconvertendosi in impresa capitalista oppure, nel caso che gli interessi dei lavoratori siano più forti, sciogliendosi.”(12).
Quando gli operai svolgono "riguardo a essi stessi il ruolo di imprenditori capitalisti", è ciò che noi chiamiamo auto-sfruttamento. La tua difesa dell'autogestione si appoggia sull'esperienza delle cooperative operaie al 19° secolo e tu citi in particolare la "Risoluzione sul lavoro cooperativo", adottata al primo congresso dell’AIT. Infatti, Marx ed Engels hanno varie volte incoraggiato il movimento cooperativo, principalmente le cooperative di produzione, non così tanto per i loro risultati pratici ma piuttosto perché consolidavano l'idea che i proletari avrebbero potuto molto bene fare a meno dei capitalisti. È per questo che si sono affrettati a sottolineare i limiti, i rischi incessanti ch’esse possano cadere più o meno direttamente sotto il controllo della borghesia. La loro preoccupazione era di evitare che le cooperative non deviassero gli operai dalla prospettiva rivoluzionaria, dalla necessità della conquista del potere su tutta la società. Questa risoluzione afferma:
"a) Riconosciamo il movimento cooperativo come una delle forze trasformatrici della società presente, fondata sull'antagonismo delle classi. Il suo grande merito è di mostrare praticamente che il sistema attuale di subordinazione del lavoro al capitale, dispotico e impoverente, può essere soppiantato dal sistema repubblicano dell'associazione dei produttori liberi ed uguali.
b) Ma il sistema cooperativo ristretto alle forme minuscole derivate dagli sforzi individuali degli schiavi salariati, è impotente a trasformare di per sé la società capitalista. Per convertire la produzione sociale in un ampio ed armonioso sistema di lavoro cooperativo, sono indispensabili dei cambiamenti generali. Questi cambiamenti non saranno mai ottenuti senza l'occupazione delle forze organizzate della società. Dunque, il potere dello Stato, strappato dalle mani dei capitalisti e dei proprietari terrieri, deve essere trattato dai produttori stessi."(13)
Tu citi del resto la prima parte di questo passaggio ma non la seconda che gli dà pertanto un'illuminazione fondamentale e che riflette molto più fedelmente il vero pensiero di Marx. Si sa che nella 1a Internazionale, Marx era obbligato a coesistere con tutta una serie di scuole socialiste confuse che sperava di far progredire. Prendendo coscienza di sé, il movimento operaio si sbarazzerà delle "ricette dottrinarie” e Marx vi contribuì attivamente. Le associazioni cooperative appartenevano a questo tipo dottrinario ed intendevano sostituirsi alla lotta di classe, alla protezione degli operai, alla lotta sindacale ed anche al rovesciamento della società capitalista. Per Marx, era indispensabile che la classe operaia si elevasse all'altezza di una comprensione teorica di ciò che essa doveva realizzare nella pratica. In questo senso, la formula: "un ampio ed armonioso sistema di lavoro cooperativo" designa innegabilmente nel suo spirito la società comunista e non una federazione di cooperative operaie.
La prima parte di questa risoluzione significa per te che la lotta per le riforme non è contraddittoria con il rovesciamento rivoluzionario del capitalismo, che ne è complementare. Ma questa complementarità era possibile soltanto all'epoca del capitalismo progressista, epoca in cui la borghesia poteva ancora svolgere un ruolo rivoluzionario rispetto alle vestigia del feudalesimo e dove gli operai dovevano partecipare alle lotte parlamentari e sindacali per il riconoscimento dei diritti democratici, per imporre grandi riforme sociali per accelerare la comparsa delle condizioni della rivoluzione comunista. Oggi, al contrario, viviamo l'epoca della decadenza del capitalismo. Con lo scoppio della prima guerra mondiale, con l'emergenza di un nuovo periodo del capitalismo, quella dell’imperialismo, della decadenza, le riforme sono diventate impossibili. Senza questo passo storico proprio del marxismo, si finisce per dimenticare l'avvertimento di Lenin in La rivoluzione proletaria ed il rinnegato Kautsky: "uno dei metodi più ipocriti dell’opportunismo consiste nel ripetere una posizione valida in passato." Affermi che, secondo Marx, "il socialismo sorge nell'ambito della società borghese vecchia e morente." Se leggiamo il Manifesto comunista, ad esempio, non troviamo da nessuna parte tale idea. Marx ed Engels spiegano che la borghesia aveva sviluppato nuove rapporti di produzione gradualmente nell'ambito del feudalesimo e che la sua rivoluzione politica viene a completare la sovranità economica acquisita prima. Mostrano in seguito che il processo è inverso per il proletariato: "Tutte le classi, che fino ad ora s’impossessarono del potere, cercarono sempre di consolidare la posizione raggiunta, con l’assoggettare la società tutta intera alle condizioni del loro particolare modo di acquisizione. I proletari, invece, solo per una via possono impossessarsi delle forze produttive sociali, ed è quella di abolire il modo con il quale essi conseguono un provento, il che importa che si abolisca tutto l’attuale sistema di appropriazione. I proletari non hanno nulla di proprio da assicurare, essi hanno solo da abolire ogni sicurezza privata, ed ogni privata garanzia.” (Manifesto del Partito Comunista, “Borghesi e Proletari”)
La rivoluzione politica del proletariato rappresenta la condizione indispensabile per la nascita di nuove relazioni di produzione. Ciò che sorge nell'ambito della società borghese, sono le condizioni del socialismo, non il socialismo stesso.
Le crudeli leggi della concorrenza
Per sostenere la tua argomentazione, sviluppi l'idea che "la decadenza significa il ristagno economico, la fioritura della delinquenza, l'aumento della miseria e della disoccupazione, un potere di Stato debole ed instabile (un esempio che colpisce sono gli imperi militari nell'antica Roma che si mantenevano solo per alcuni mesi), la lotta di classe acuta. E la cosa principale che non avete citato nel vostro libro La decadenza del capitalismo, è la comparsa di nuovi rapporti di classe al centro della vecchia società che muore. Nell'impero romano erano i coloni, gli schiavi nelle aziende agricole, dunque dei servi nella loro essenza. Nel periodo della distruzione della società borghese, sono le imprese autogestite, più precisamente le cooperative." È vero che, nel capitalismo decadente, la società borghese è segnata da una grande instabilità. La borghesia deve fare fronte ad un indebolimento economico senza precedenti, la crisi di sovrapproduzione esercita le sue devastazioni a causa dell'insufficienza dei mercati solvibili su scala internazionale, le rivalità imperialiste si inaspriscono e portano alla guerra mondiale. Precisamente, la borghesia risponde a questa situazione con un rafforzamento dello Stato come fu già il caso nella decadenza dell'impero romano e, riguardo al feudalesimo, con la monarchia assoluta. L'aggravarsi della concorrenza, la necessità di un eccessivo sfruttamento del proletariato, la comparsa di una disoccupazione massiccia, uno Stato totalitario che estende i suoi tentacoli a tutta la società civile (e non uno "Stato debole ed instabile"), ecco precisamente le ragioni che rendono ormai impossibile la sopravvivenza delle cooperative operaie.
Siamo completamente d'accordo con te per dire che sono "i comunisti di Sinistra che avevano ragione sulla questione (del capitalismo di Stato) e non Lenin." Avevano capito intuitivamente che il capitalismo si rafforzava in Russia anche in assenza di una borghesia privata e che il potere della classe operaia era in pericolo. Infatti, sotto la pressione dell'isolamento della rivoluzione, i Consigli Operai hanno perso il potere a profitto dello Stato con il quale il partito bolscevico si era completamente identificato. Ma non siamo d'accordo con i rimedi proposti dall'opposizione operaia della Kollontai. Richiedere che la gestione delle imprese e lo scambio dei prodotti passassero sotto il controllo operaio di ogni fabbrica poteva soltanto peggiorare il problema, renderlo ancora più complicato. Non soltanto gli operai avrebbero ottenuto soltanto un potere simbolico ma avrebbero in più perso la loro unità di classe che si era realizzata così magnificamente con il sorgere dei Consigli Operai e l'influenza di un reale partito d'avanguardia nel loro seno, il partito bolscevico.
Al contrario tu pensi che: "è molto più facile e comodo per gli operai controllare la produzione a livello di imprese (...) Dopo l’ottobre ’17, l'economia è stata gestita in modo centralizzato. Concludendo, il socialismo si è degradato in capitalismo di Stato, nonostante la volontà dei bolscevichi. (...) Dunque, sotto il socialismo, i consigli operai non avranno la funzione di gestire l'economia, non progetteranno la produzione né distribuiranno i prodotti. Se si attribuiscono queste funzioni ai Consigli Operai, il socialismo evolverà inevitabilmente verso il capitalismo di Stato." Per quanto ci riguarda, siamo convinti che la centralizzazione sia fondamentale per il potere operaio. Se ritiri la centralizzazione del socialismo, allora ottieni le Comunità autonome anarchiche ed una regressione delle forze produttive. Ciò che è avvenuto in Russia, è che una forza centralizzata, lo Stato, ha soppiantato un'altra forza centralizzata, i Consigli Operai. Da dove è dunque venuta la burocrazia, la nuova borghesia staliniana? Essa è venuta dallo Stato, non dai Consigli Operai che, quanto a loro, hanno subito un processo di deterioramento che li ha condotti alla morte. Non è la centralizzazione che è la causa della decomposizione della rivoluzione russa. Se i Consigli Operai sono stati indeboliti a questo punto, se gli stessi bolscevichi si sono fatti fagocitare dallo Stato, è a causa dell'isolamento della rivoluzione. Le mitragliatrici che assassinavano il proletariato tedesco raggiungevano, indirettamente, il proletariato russo che, immediatamente, diventò soltanto un gigante ferito, indebolito, esangue. Nuova conferma di questa grande lezione della rivoluzione russa: il socialismo è impossibile in un solo paese!
Per concludere, ritorniamo alla tua concezione dell'autogestione delle imprese sotto il capitalismo.(14) In queste cooperative, gli operai decidono collettivamente la ripartizione del profitto. Il lavoro salariato non esiste più, "gli operai ricevono il valore d'uso e non il valore di scambio della loro forza lavoro." Inizialmente, pensiamo che ci sia qui una confusione tra "valore di scambio" e "valore d'uso": quest'ultimo esprime l'utilità di ciò che è prodotto, l'impiego che se ne può fare. E precisamente, una delle specificità fondamentali, rispetto alle altre epoche della storia, del processo di produzione messo in atto dal proletariato moderno, è precisamente che i valori d'uso che produce possono essere adattati soltanto dalla società intera: contrariamente alle scarpe (ad esempio) prodotte dall'artigiano ciabattino, le centinaia di milioni di chip prodotti dagli operai di Intel o AMD non hanno alcun valore d'uso "in sé"; il loro valore d'uso esiste soltanto come componenti di altre macchine prodotte da altri operai in altre fabbriche e che rientrano nella catena di produzione di altre fabbriche ancora. La stessa cosa è vera anche per i "ciabattini" moderni: gli operai di Jinjiang in Cina producono 700 milioni di scarpe all'anno, si ha difficoltà ad immaginare che potrebbero portarle tutte! Inoltre immaginiamoci una tale fabbrica autogestita remunerare gli operai in mietitrebbiatrici, per definizione indivisibili e tale altra in penne a sfera.
Ma ammettiamo, come dici, che gli operai ricevano l'equivalente allo stesso tempo del capitale variabile e del plusvalore prodotto. Non possono tuttavia consumare completamente il profitto dell'impresa ma soltanto una parte relativamente debole, dovendo il rimanente essere trasformato in nuovi mezzi di produzione. Infatti, le leggi della concorrenza (poiché siamo qui in una situazione di concorrenza) fanno sì che qualsiasi impresa deve ingrandirsi ed aumentare la sua produttività se non vuole perire. Una parte del profitto è dunque accumulata e trasformata nuovamente in capitale. E necessariamente una parte importante tanto quanto quella di una fabbrica non autogestita, altrimenti l'impresa autogestita non si ingrandirà rapidamente come le altre e finirà per scomparire.
Almeno, i costi di produzione della fabbrica autogestita devono essere così bassi come quelli del resto dell'economia capitalista, altrimenti non troverà acquirenti per i suoi prodotti. Ciò vuol dire inevitabilmente che gli operai delle fabbriche autogestite dovranno allineare i loro salari ed il loro ritmo di lavoro su quelli degli operai impiegati da imprese capitaliste: in una parola, dovranno auto-sfruttarsi. In più, ci troviamo nelle stesse condizioni di sfruttamento che in qualsiasi altra impresa poiché la forza lavoro resta sottoposta, alienata al lavoro morto, al lavoro accumulato, al capitale. Al massimo possono recuperare la frazione del profitto che, nell'impresa capitalista tradizionale, va al consumo personale del proprietario o costituisce i dividendi degli azionisti. Gli operai che si erano rallegrati di avere ottenuto un supplemento al loro salario dovranno rapidamente prendere un tono più basso. I capi che avevano eletto in tutta fiducia, sapranno rapidamente convincerli a rendere questo supplemento ed anche ad acconsentire delle riduzioni salariali. "Né la trasformazione in società per azioni, né la trasformazione in proprietà di Stato, (né la trasformazione in imprese autogestite, potremmo aggiungere) elimina la qualità di capitale delle forze produttive", dice Engels nell'Anti-Dühring. La trasformazione dello statuto giuridico delle imprese non cambia nulla nella loro natura capitalista. Poiché il capitale non è una forma di proprietà, è un rapporto sociale. Solo la rivoluzione politica del proletariato, imponendo un nuovo orientamento alla produzione sociale può eliminare il capitale. Ma non può ottenerlo arretrando rispetto al livello di socializzazione internazionale raggiunto sotto il capitalismo. Deve al contrario completare questa socializzazione rompendo il quadro nazionale, il quadro dell'impresa e la divisione del lavoro. La parola d'ordine del Manifesto comunista prenderà allora tutto il suo senso: "proletari di tutti i paesi, unitevi!". Aspettando una tua risposta, ricevi i nostri saluti fraterni e comunisti.
CCI, 22 novembre 2005
1. Karl Marx, Critica del programma di Gotha, Laboratorio Politico, pag. 22
2. K. Marx, Miseria della filosofia,
3. K. Marx, Critica del programma di Gotha, idem, pag. 21
4. K. Marx, Prefazione della prima edizione del libro primo del Capitale, Newton Compton Editori, pag. 6
5. Pierre Joseph Proudhon, Che cos’è la proprietà?
6. K. Marx, Critica del programma di Gotha, idem, pag. 23
7. Friedrich Engels, Anti-Dühring
8. K.Marx, Critica del programma di Gotha, idem, pag. 24
9. F. Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, cap.V , Ed. Riuniti, pag.140.
10. “L’esperienza russa” Internationalisme n° 10, maggio 1946, ripubblicato nella Revue Internazionale n° 61, 2° trim. 1990
11. Révolution Internationale n° 67, nov. 1979
12. Rosa Luxemburg, Riforma sociale o rivoluzione? Newton Compton Editori. Parte seconda: “sindacati, cooperative e democrazia politica” pag. 51
13. K. Marx, Risoluzione del Primo congresso dell’AIT (riunito a Ginevra nel settembre 1866).
14. Per citare la tua lettera: “l’autogestione (nel pieno senso del termine), è quando gli operai gestiscono la loro impresa anche condividendosi i profitti. In realtà, l'impresa è diventata proprietà degli operai."
"Per me, le imprese cooperative hanno le caratteristiche seguenti:
1) l’assenza completa del lavoro salariato,
2) l'elezione di tutti i responsabili,
3) la distribuzione dei profitti da parte del collettivo dei lavoratori dell'impresa."
"Nelle imprese in cui il lavoro salariato non esiste, cioè quando gli operai ricevono il valore d'uso (il capitale variabile + il plusvalore) e non il valore di scambio della loro forza lavoro (il capitale variabile), la produzione è dieci volte più efficace."
"Gli operai fabbricano prodotti, li vendono sul mercato. Con ciò che hanno guadagnato, possono comperare l'equivalente della stessa quantità di lavoro da altri operai. C'è stata una distribuzione effettuata sulla base della quantità di lavoro. In seguito, una parte del valore va al rinnovo dei mezzi di produzione, mentre l'altra va al consumo individuale degli operai.”
Nel numero 122 della nostra Révue Internationale (in francese) abbiamo pubblicato un articolo sul ciclo di conferenze dei gruppi della Sinistra Comunista che si erano tenute fra il 1977 e il 1980. In esso sottolineavamo il passo in avanti che queste conferenze costituivano e deploravamo che esse fossero state deliberatamente sabotate da due dei principali gruppi partecipanti, il Partito Comunista Internazionalista PCInt-Battaglia Comunista) e la Communist Worker’s Organisation (CWO), oggi principali sezioni del Bureau Internazionale per il Partito Rivoluzionario (BIPR). L’iniziativa di questo ciclo di conferenze era stata presa dal PCInt che nel 1976 aveva lanciato un appello per la loro tenuta e, nel 1977, aveva organizzato la prima conferenza a Milano. Nei fatti se la convocazione a questa conferenza non era stato un fallimento colossale era perché, contrariamente agli altri gruppi che inizialmente avevano annunciato la loro partecipazione ma che non si presentarono, la CCI si era attrezzata per inviarvi una delegazione importante. La convocazione delle due conferenze successive non fu più iniziativa del solo PCInt, ma di un “Comitato tecnico” nel cui lavoro la CCI si impegnò con la massima serietà, in particolare organizzando le due conferenze a Parigi, dove si trova la sezione più importante della nostra organizzazione. La serietà di questo lavoro non è estranea al fatto che a queste conferenze partecipò un numero di gruppi ben più consistente e che esse siano state preparate attraverso la pubblicazione preventiva di bollettini preparatori. Introducendo di straforo, alla fine dei dibattiti della terza conferenza, un criterio supplementare di “selezione” per le future conferenze, iniziativa che aveva lo scopo esplicito di eliminare la nostra organizzazione da queste, il PCInt, con la complicità della CWO (convinta a seguito di lunghe discussioni di corridoio) si prese la responsabilità di demolire tutto il lavoro che era stato fatto. In effetti la IV conferenza, che si tenne infine nel settembre del 1982, costituì la conferma del carattere catastrofico dell’atteggiamento adottato dal PCInt e dalla CWO alla fine della III.
E’ quello che vogliamo mettere in evidenza con il seguente articolo che si basa essenzialmente sul processo verbale in inglese di questa conferenza pubblicato nel 1984 (due anni dopo la sua tenuta) come opuscolo dal BIPR (costituitosi nel 1983) (1).
Nell’indirizzo di apertura di questa conferenza, la CWO, che l’aveva organizzata a Londra, richiama le tre conferenze precedenti, e in particolare la III:
“Sei gruppi hanno partecipato alla III conferenza il cui ordine del giorno comprendeva la crisi economica e le prospettive per la lotta di classe nonché il ruolo e i compiti del partito. I dibattiti di questa conferenza hanno confermato i domini di accordo che erano già stati messi in evidenza, ma che si erano impantanati per quanto riguarda la discussione sul ruolo e i compiti del partito. Affinchè le future conferenze potessero andare al di là della semplice reiterazione del bisogno del partito con la ripetizione delle stesse argomentazioni sul suo ruolo e i suoi compiti, il PCInt ha proposto un criterio aggiuntivo di partecipazione alle conferenze e cioè l’accettazione che il partito deve giocare un ruolo dirigente nella lotta di classe. Ciò ha fatto apparire una chiara divisione tra i gruppi che comprendono che il partito ha dei compiti già oggi e che esso deve assumere un ruolo dirigente nella lotta di classe e quelli che rigettano l’idea che il partito dovrebbe essere organizzato nella classe oggi al fine di poter assumere un ruolo dirigente nella rivoluzione di domani. Solo la CWO ha sostenuto la risoluzione del PCInt e la III conferenza si è dispersa nel disordine.
A causa di ciò oggi sono presenti meno gruppi, ma ora esistono le basi per cominciare un processo di chiarificazione sui compiti reali del partito. In questo senso la dissoluzione dell’ultima conferenza non fu una separazione totalmente negativa. Come la CWO ha scritto in Revolutionary Perspectives n. 18 nella relazione sulla III conferenza: ‘ Qualunque cosa si deciderà in futuro, la III conferenza significa che il lavoro internazionale tra i comunisti procederà su delle basi differenti da quelle del passato’ (…)
Sebbene oggi abbiamo un numero di partecipanti inferiori a quelli della II e III conferenza, partiamo da basi più chiare e più serie. Noi speriamo che questa conferenza dimostri questa serietà con una volontà di dibattere e di discutere al fine di influenzare le nostre rispettive posizioni, piuttosto che imbastire delle polemiche sterili e cercare di utilizzare le conferenze come una arena pubblicitaria per il proprio gruppo.”
Il processo verbale della conferenza permette di farsi un’idea luminosa della “più grande serietà” che l’avrebbe distinta dalle precedenti.
L’organizzazione della conferenza
Innanzitutto conviene esaminare gli aspetti “tecnici” (che evidentemente hanno un significato e una incidenza politica) di preparazione e di tenuta della conferenza.
Contrariamente alle precedenti conferenze, non c’è un bollettino preparatorio. I documenti che sono circolati prima sono essenzialmente dei testi già pubblicati sulla stampa dei gruppi partecipanti. E a questo proposito una menzione speciale meritano i documenti proposti dal PCInt: si tratta di una lista impressionante di testi (compreso un libro) pubblicati dal PCInt sulle questioni all’ordine del giorno e che raccolgono diverse centinaia di pagine (vedere la lista nella circolare del PCInt del 25 agosto 1982, pag. 39). E tutto questo in italiano! Questa è certamente una lingua molto bella, e in questa lingua sono stati scritti documenti molto importanti nella storia del movimento operaio, a cominciare dagli studi di Labriola sul marxismo e soprattutto i testi fondamentali della Sinistra Comunista Italiana tra il 1920 e la seconda guerra mondiale. Purtroppo però l’italiano non è una lingua internazionale e possiamo ben immaginare le perplessità degli altri gruppi partecipanti davanti a questa montagna di documenti di cui essi non potevano conoscere il contenuto.
Bisogna tuttavia riconoscere che, nella stessa circolare, il PCInt si mostra preoccupato di questo problema di lingua: “Stiamo traducendo in inglese un altro documento relativo ai punti all’ordine del giorno, che vi sarà inviato il più presto possibile”. Disgraziatamente, in una lettera del 15 settembre ad un gruppo invitato si può leggere: ” Per ragioni tecniche, il testo promesso non sarà pronto che alla conferenza stessa” (pag. 40). Noi siamo ben coscienti delle difficoltà che i gruppi della sinistra comunista incontrano, a causa delle loro deboli forze, nel campo delle traduzioni, come in altri. Non vogliamo criticare questa debolezza del PCInt in sé. Ma qui l’incapacità di produrre in anticipo un documento comprensibile per gli altri partecipanti alla conferenza “per ragioni tecniche” non fa che rivelare la poca importanza che esso attribuiva alla questione. Se esso avesse accordato a questo tipo di attività la stessa “serietà” che gli aveva dedicato la CCI in precedenza, si sarebbe mobilitato molto di più per superare i “problemi tecnici”, a limite facendo ricorso ad un traduttore professionista.
La stessa conferenza si è scontrata con questo stesso problema di traduzioni, , come si capisce dal processo verbale:
“Il carattere relativamente breve degli interventi del PCInt è dovuto, in gran parte, alle limitazioni nelle traduzioni dall’italiano in inglese da parte del gruppo che ha organizzato la conferenza”.
Così, una buona parte delle spiegazioni e degli argomenti esposti dal PCInt sono andati persi, il che è evidentemente un peccato. La CWO sembra scusarsi della sue debole conoscenza della lingua italiana, ma a noi sembra che toccava al PCInt, se davvero avesse preso sul serio la conferenza, fare in maniera da inviare nella sua delegazione un compagno capace di esprimersi in inglese. Per una organizzazione che si vuole “partito” dovrebbe essere possibile trovare nei suoi ranghi un compagno di questo tipo. I compagni della CWO possono ritenere che quando la CCI era presente alle conferenze non faceva che “ripetere sempre gli stessi argomenti sul partito” ; possono anche lasciar capire che noi volessimo utilizzare queste conferenze come tribuna per la nostra politica di cappella. Comunque dovrebbero ben convenire che le capacità di organizzazione del tandem che essi hanno formato con il PCInt erano di gran lunga inferiori a quelle della CCI. E non è solo una questione di numero di militanti. E’ fondamentalmente la questione della comprensione dell’importanza di quelli che sono i compiti dei rivoluzionari oggi e della serietà che deve accompagnare il loro assolvimento. La CWO e il PCInt pensano che il partito (e i gruppi che lo starebbero preparando, cioè loro stessi) hanno il compito dell’organizzazione della lotta di classe. Questa non è la posizione della CCI (2). Tuttavia, nonostante le nostre debolezze, noi cerchiamo di organizzare al meglio possibile le attività che ci tocca compiere. Mentre questo non sembra il caso della CWO e del PCInt: forse pensano che se consacrano troppe energie e attenzione ai compiti di organizzazione oggi, saranno stanchi domani, quando si tratterà di “organizzare” la classe per la rivoluzione!
I gruppi partecipanti
Dal resoconto della conferenza apprendiamo che i gruppi inizialmente invitati erano i seguenti (circolare del 28 giugno 1982):
- Partito Comunista Internazionalista (Battaglia Comunista, Italia);
- Communist Worker’s Organisation (Gran Bretagna, Francia);
- L’Eveil internationaliste (Francia)
- Unity of Communist Militants (Iran)
- Wildcat (Stati Uniti)
- Kompol (Austria)
- Marxist Worker (Stati Uniti)
questi ultimi tre con lo statuto di “osservatori”.
Al momento della conferenza non c’erano che tre gruppi. Vediamo cosa era successo agli altri.
“Nel momento in cui si è tenuta la conferenza, Marxist Worker e Wildcat avevano apparentemente smesso di esistere” (p. 38). Si può qui giudicare la perspicacia della CWO e del PCInt che costituivano il Comitato tecnico incaricato di preparare la conferenza: nella loro grande preoccupazione di “selezionare” organizzazioni “veramente capaci di porre correttamente la questione del partito e di attribuirgli un ruolo dirigente nella rivoluzione di domani” si erano rivolti a dei gruppi che avevano preferito mettersi in vacanza attendendo il futuro partito (probabilmente per avere più forze così da essere capaci di giocare un “ruolo dirigente” al momento opportuno). D’altra parte si può dire che la conferenza l’ha scampata bella: se Wildcat fosse sopravvissuto e venuto alla conferenza, non avrebbe mancato di inquinarla con il suo “consiliarismo”, a confronto del quale quello che il PCInt rimprovera alla CCI è acqua di rose. Un consiliarismo che era comunque conosciuto ma che evidentemente soddisfaceva quei requisiti che viceversa consentivano di escludere la CCI.
Quanto agli altri gruppi che non sono venuti, lasciamo di nuovo la parola alla CWO:
“Sulla base degli avvenimenti che sono seguiti, sembra appropriato oggi definire il significato dell’ultima conferenza. E’ apparso che la mancata partecipazione dei due gruppi, che inizialmente erano stati d’accordo a partecipare, manifestava il loro allontanamento dal quadro delle conferenze. Kompol non ha più comunicato con noi, mentre l’Eveil internationaliste si è imbarcato in una traiettoria modernista che lo porta anche al di fuori del quadro del marxismo.” (Preambolo, pag. 1)
Ancora una volta, non si può che restare ammirati dall’intuito politico ampiamente mostrati dai gruppi organizzatori.
Veniamo ora al SUCM (Studenti sostenitori dell’UCM d’Iran), solo altro gruppo presente alla conferenza oltre i due che l’avevano convocata. Ecco cosa dice il resoconto a questo proposito:
“ Il SUCM ha cessato di esistere. I suoi membri si sono integrati in una organizzazione più ampia (l’Organizzazione dei Sostenitori del Partito Comunista d’Iran all’Estero – OSCPIA) che comprende gli ex membri del SUCM e quelli del Komala curdo. Malgrado la loro adesione iniziale ai criteri di partecipazione alle conferenza; malgrado la loro volontà di discutere e di mantenere relazioni con le organizzazioni appartenenti alla tradizione della Sinistra Comunista europea, il SUCM si è trovato bloccato dalla sua posizione di gruppo di sostegno di un gruppo più vasto in Iran, un gruppo che è diventato il Partito Comunista d’Iran nel settembre 1983. Lasciando da parte ogni polemica, sembra che questa data riveste una importanza obiettiva, confermata, per esempio, dalla traiettoria dei compagni del SUCM per quanto riguarda la questione della Repubblica democratica rivoluzionaria e le sue implicazioni. Al momento della IV conferenza il SUCM accettava chiaramente l’idea che delle vere guerre di liberazione nazionale sono impossibili nell’era dell’imperialismo, nel senso che non ci può essere un’autentica guerra di liberazione nazionale al di fuori della rivoluzione degli operai per l’instaurazione della dittatura proletaria. In seguito, tuttavia, il SUCM ha insistito sempre più sulla tesi che lotte comuniste possono emergere dalle lotte nazionali. Nei fatti la posizione teorica è stata diluita per essere conforme alle posizioni del PCd’Iran, posizioni che sono molto pericolose, come gli articoli nella stampa della CWO e del PCInt hanno dimostrato. Così, invece di approfondire il processo di chiarificazione e di spingere l’organizzazione iraniana verso posizioni più chiare e fortemente radicate nel terreno rivoluzionario, l’OSCPIA tenta di riconciliare con il Comunismo di sinistra le deformazioni del programma comunista manifestate dal SUCM e dal PCd’Iran. E’ inevitabile che ci siano deformazioni, in una forma o in un’altra, in un’area che non ha contatti con la tradizione della Sinistra Comunista o con la sua eredità di elaborazione teorica e di lotta politica. Tuttavia non è abitudine dei comunisti né nascondere queste deformazioni, né accettarle e adattarsi ad esse, ma contribuire a superarle. In questo l’OSCPIA ha perso un’occasione importante. Dato lo stato attuale delle divergenze non è possibile definire il PCd’Iran come una forza che possa reclamare il diritto di entrare di nuovo nel campo politico delimitato dalle conferenze della Sinistra Comunista.”
A voler credere alle spiegazioni date in questo passaggio, il SUCM, dopo la conferenza e preda del PCd’Iran sarebbe evoluto verso delle posizioni che non gli permetterebbe più di “ reclamare il diritto di entrare di nuovo nel campo politico delimitato dalle conferenze della Sinistra Comunista”. Insomma queste due organizzazioni si troverebbero nella stessa situazione della CCI, poiché anche la nostra organizzazione non potrebbe “reclamare un tale diritto” (3).
Nei fatti il PCd’Iran non era solo “al di fuori del campo politico delimitato dalle conferenze”, ma anche al di fuori del campo della classe operaia. Era una organizzazione pienamente borghese, di tendenza stalin-maoista. Si può restare affascinati dalla sottile diplomazia (al fine di evitare “la polemica” !) con cui il BIPR parla di questa organizzazione. Il BIPR non ama chiamare gatto un gatto. Preferisce dire che l’animale evocato non è un cane o un hamster, anche se è comunque un animale di compagnia. Questa maniera di procedere è molto conosciuta nel movimento operaio ed ha un nome: opportunismo, se le parole hanno ancora un senso. E’ vero che non è gradevole pensare che elementi con i quali qualche mese prima si è tenuta una conferenza nella prospettiva del futuro partito mondiale della rivoluzione sono diventati dei difensori patentati dell’ordine capitalista. Ed ammetterlo pubblicamente è ancora più difficile. Allora si preferisce dire che questi elementi, che vengono chiamati ancora “compagni”, “hanno perso un’occasione importante”, che si sono “trovati bloccati”, che la loro “posizione teorica è stata diluita per essere conforme alle posizioni del PCd’Iran”, posizioni che vengono qualificate “molto pericolose” per evitare di dire che sono borghesi.
Quello che il BIPR non vede, o non vuole vedere, o che semplicemente si rifiuta di riconoscere pubblicamente, è che l’evoluzione del SUCM verso un organo di difesa dell’ordine capitalista (ribattezzato “forza che non può reclamare il diritto di entrare nel campo politico delimitato dalle conferenze della Sinistra Comunista”) non è in realtà tale. Anche al momento della conferenza il SUCM era già un’organizzazione borghese di tendenza maoista. E’ questo che dimostrano, per quelli che vogliono vedere, i suoi interventi al momento della conferenza.
Gli interventi del SUCM
Riportiamo alcuni degli interventi del SUCM:
“… nelle condizioni del suo funzionamento normale e di non-crisi, il capitale, sul mercato interno dei paesi metropolitani, tollera le rivendicazioni del movimento sindacale ed è solo al momento dell’approfondimento della crisi che esso ricorre allo schiacciamento decisivo del movimento sindacale” (pag. 6)
Questa affermazione è per lo meno sorprendente da parte di un gruppo supposto di appartenere alla Sinistra Comunista. In realtà, nei paesi avanzati, non è il movimento sindacale che viene schiacciato quando la crisi si approfondisce, ma le lotte operaie con la complicità del movimento sindacale. Questo perfino i trotskysti sono capaci di riconoscerlo. Non il SUCM però che identifica senza problemi movimento sindacale e lotta di classe. Così, sulla questione del ruolo dei sindacati (che non è una questione secondaria, ma fra le più importanti) il SUCM si situa a destra del trotskysmo raggiungendo la posizione degli stalinisti o dei socialdemocratici. Ed è con un tale gruppo che la CWO e il PCInt si proponevano di cooperare in vista della formazione del partito mondiale.
Ma questo è solo l’antipasto:
“ Oggi il proletariato in Iran è alla vigilia della formazione del suo partito comunista e, con la forza di massa che c’è dietro il programma di questo partito, esso deve diventare un fattore indipendente e determinante negli sconvolgimenti attuali in Iran. La leadership incontestabile del Komala (4) sulla lotta di vasti settori di operai e di sfruttati nel Kurdistan, l’influenza che il marxismo rivoluzionario ha acquisito tra gli operai avanzati dell’Iran, l’esistenza di una vasta rete di nuclei operai che distribuiscono le pubblicazioni teoriche e operaie del marxismo rivoluzionario (…), a dispetto delle condizioni di terrore e repressione (…); la perdita di illusioni degli operai verso il populismo e il movimento verso il marxismo rivoluzionario, tutto ciò è indicativo del ruolo importante che il proletariato socialista dell’Iran giocherà nei prossimi avvenimenti. Dal punto di vista del proletariato mondiale, il significato di questa questione sta nel fatto che ora, dopo più di 50 anni, il vessillo rosso del comunismo è sul punto di diventare il vessillo della lotta degli operai di un paese dominato. L’innalzamento di questo vessillo in una parte del mondo è un appello per il proletariato mondiale per farla finita con la dispersione nelle sue fila, per unirsi come classe contro la borghesia mondiale per regolare i conti con essa.” (pagg. 10-11)
Di fronte a una tale dichiarazione si può scegliere fra tre ipotesi:
- abbiamo a che fare con elementi sinceri, ma che non hanno nessun senso della realtà;- oppure siamo di fronte a un grande bluff destinato a impressionare il pubblico ma che non si basa su nessuna realtà;
- oppure, ancora, effettivamente il PCd’Iran e il Komala hanno l’influenza che viene descritta, ma in questo caso una corrente politica che abbia una tale influenza non può che essere borghese, nelle condizioni storiche del 1982.
Se fosse buona la prima ipotesi, il primo suggerimento che bisognerebbe dare a tali elementi sarebbe quella di farsi curare.
Se invece abbiamo a che fare con un bluff, la discussione con elementi che mentono non può avere nessun interesse, anche se essi credono, in questo modo, di difendere delle posizioni comuniste. Come diceva Marx, “la verità è rivoluzionaria”, e se la menzogna è una delle armi preferite della propaganda borghese, essa non potrebbe in alcun modo far parte dell’arsenale del proletariato e della sua avanguardia comunista.
Resta la terza ipotesi: il SUCM era un gruppo non proletario, ma gauchiste, cioè borghese. Ed è questa natura borghese che traspariva chiaramente nelle discussione della conferenza sulla questione della “rivoluzione democratica” e del programma del partito. In effetti, nel mezzo di un intervento che si voleva teoricamente fondato, con tanto di citazioni in appoggio, sugli autori marxisti, Marx, e soprattutto Lenin, ecco cosa ci viene proposto:
“La crisi mondiale dell’imperialismo crea l’embrione per l’emergenza delle condizioni rivoluzionarie, ma questo embrione, proprio a causa delle differenti condizioni esistenti nei paesi dominati e nelle metropoli, è più sviluppato nei paesi dominati. Le prime scintille della rivoluzione socialista del proletariato mondiale contro il capitale e il capitalismo al suo stadio supremo illuminano il fuoco della rivoluzione democratica nei paesi dominati. Una rivoluzione che, da questo punto di vista, è una parte inseparabile della rivoluzione socialista mondiale ma che, a causa del suo isolamento, delle limitazioni nella forza degli operai e degli sfruttati nei paesi dominati, della mancanza delle condizioni oggettive in seno al proletariato di questi paesi da un lato, e dall’altro per la presenza di vaste masse di sfruttati non proletari rivoluzionari, prende inevitabilmente la forma e si sviluppa, in primo luogo, nel seno di una rivoluzione democratica. Quella attuale in Iran è una tale rivoluzione.” (pag. 7)
“ L’attuale rivoluzione è una rivoluzione democratica il cui compito è quello di eliminare gli ostacoli al libero sviluppo della lotta di classe del proletariato per il socialismo.
Il contenuto della vittoria di questa rivoluzione è l’instaurazione di un sistema politico democratico sotto la direzione del proletariato che, dal punto di vista economico, equivale alla negazione pratica della dominazione dell’imperialismo.” (pag. 8)
D’altra parte il SUCM denuncia la politica del governo di Khomeini al momento della guerra tra l’Iraq e l’Iran scoppiata nel settembre 1980, un anno dopo l’instaurazione della “Repubblica islamica”, in questi termini:
“L’attacco contro le acquisizioni democratiche dell’insurrezione (il sollevamento dell’inizio 1979 che cacciò lo Scià e permise la presa del potere da parte di Komeini) e la prevenzione contro l’esercizio dell’autorità democratica del popolo nella determinazione e nella conduzione dei suoi propri affari” (pag. 10)
Infine, il SUCM stabilisce una distinzione tra il programma minimo (che sarebbe quello della “Repubblica democratica”) e il programma massimo, il socialismo (pag. 8). Una tale distinzione veniva fatta nella socialdemocrazia ai tempi della II Internazionale, quando il capitalismo era ancora un sistema ascendente e la rivoluzione proletaria non era ancora all’ordine del giorno, però essa è stata rigettata dai rivoluzionari, compreso Trotsky e i suoi epigoni, per il periodo apertosi con la Prima Guerra Mondiale.
Gli interventi della CWO e del PCInt
Evidentemente, di fronte alle posizioni borghesi del SUCM, la CWO e il PCInt hanno difeso le posizioni della Sinistra Comunista.
Sulla questione sindacale, il PCInt ha fatto interventi moto chiari:
“Nessun sindacato può fare altra cosa se non restare su un terreno borghese (…) Nell’epoca imperialista, i comunisti non possono in nessuna circostanza pensare alla possibilità di raddrizzare i sindacati o di ricostruire nuovi sindacati. (…) I sindacati portano la classe alla sconfitta nella misura in cui mistificano questa con l’idea di difendere i suoi interessi attraverso il sindacalismo. E’ necessario distruggere i sindacati.” (pag. 12)
Queste sono formulazioni che la CCI potrebbe sottoscrivere a due mani. La sola cosa che bisogna rimpiangere è che lo stesso PCInt che enuncia queste posizioni in una presentazione sulle lotte in Polonia del 1980, non dice esplicitamente che esse sono totalmente opposte alle posizioni esposte dal SUCM poco prima sulla stessa questione. Forse non era stato abbastanza attento di fronte alle dichiarazioni del SUCM? Forse è un problema di lingua? Ma la CWO, essa, capisce bene l’inglese. O è forse una “tattica” per non dover ribattere immediatamente al SUCM?
Comunque, sulla questione della “rivoluzione democratica”, della “repubblica democratica” e del “programma minimo”, il PCInt e la CWO non possono fare altro che rigettare tali nozioni che non hanno niente a che vedere con il patrimonio programmatico della Sinistra Comunista:
“L’oppressione e la miseria delle masse non possono, di per sé stesso, condurre alla rivoluzione. Questa non può avvenire che quando esse sono dirette dal proletariato di queste regioni in legame con il proletariato mondiale (…) Dire che Marx le ha appoggiate [le rivendicazioni democratiche] nel passato e che, di conseguenza, dobbiamo appoggiarle anche noi oggi, in un’epoca differente, significa, come disse Lenin a proposito di un altro soggetto, citare le parole di Marx contro lo spirito di Marx. Oggi noi viviamo nell’epoca del declino del capitalismo e ciò significa che il proletariato non ha NIENTE DA GUADAGNARE nell’appoggiare questo o quel capitale nazionale, o anche questa o quella rivendicazione riformista. (…)
E’ un non senso suggerire che noi possiamo scrivere un programma che fornisca le basi obiettive per la lotta per il socialismo. O esistono le basi obiettive o non esistono. Come disse il PC d’Italia nelle sue tesi del 1922:”Noinon possiamo creare le basi obiettive con degli espedienti” (…) Solo la lotta per il socialismo stessa può distruggere l’imperialismo, non degli espedienti strutturali sulla democrazia o delle rivendicazioni minime.” (pag. 16)
Noi pensiamo che il ruolo del partito comunista nei paesi dominanti e in quelli dominati è lo stesso: Noi non includiamo nel programma comunista delle rivendicazioni minime del 19° secolo. (…) Noi vogliamo fare una rivoluzione comunista e non possiamo pervenirvi che mettendo avanti il programma comunista e mai includendo nel nostro programma rivendicazioni che possono essere recuperate dalla borghesia.” (pag. 18)
Potremmo moltiplicare le citazioni della CWO e del PCInt che difendono posizioni della Sinistra Comunista, così come quelle del SUCM che mettono in evidenza che esso non ha niente a che vedere con questa corrente, ma questo ci porterebbe a citare un buon terzo della brochure (5). Per chi sa leggere e conosce le posizioni del maoismo degli anni 70-80, è chiaro che il SUCM (che si prende la cura in parecchi suoi interventi di criticare le concezioni maoiste ufficiali) costituiva nei fatti una variante “di sinistra” e “critica” di questa corrente. D’altra parte, in due occasioni, la CWO constata le similitudini tra le posizioni del SUCM e quelle del maoismo:
“La nostra reale obiezioni concerne la teoria dell’aristocrazia operaia. Noi pensiamo che questi sono gli ultimi germi del populismo dell’UCM e che la sua origine è nel maoismo.” (pag. 18)
“Il passaggio sui contadini [nel “Programma dell’Unità dei Combattenti Comunisti” sottomesso alla conferenza] è l’ultimo residuo del populismo del SUCM. (…) La teoria sul contadiname è una reminiscenza del maoismo, qualcosa che noi rigettiamo totalmente.” (pag. 22)
Tuttavia queste osservazioni restano molto timide e “diplomatiche”. C’era, per esempio, una questione che la CWO e il PCInt avrebbero potuto porre al SUCM: è il significato del seguente passaggio che figura in uno dei testi presentati dal SUCM alla conferenza, il “Programma del Partito comunista”, adottato da UCM e Komala, e pubblicato nel maggio 1982, cioè 5 mesi prima della conferenza:
“La dominazione del revisionismo sul Partito comunista di Russia ha portato alla sconfitta e al riflusso della classe operaia mondiale in una delle sue principali piazzeforti”. Per revisionismo questo programma intendeva la revisione “kruscioviana” del “Marxismo-Leninismo”. Questa è esattamente la visione sostenuta dal maoismo e sarebbe stato interessante che il SUCM precisasse se esso considerava che prima di Krusciov il Partito comunista russo di Stalin era ancora un partito della classe operaia. Disgraziatamente questa domanda fondamentale non è stata posta né dal PCInt, né dalla CWO. Dobbiamo credere che queste due organizzazioni non avevano letto questo documento così essenziale in quanto rappresentava il programma del SUCM? Questa interpretazione va scartata perché sarebbe in totale disaccordo con la “serietà” rivendicata ad alta voce dalla CWO nel suo discorso d’apertura. D’altra parte parecchi interventi del PCInt e della CWO citano in maniera precisa dei passaggi di questo documento. Resta quindi un’altra interpretazione: queste due organizzazioni non hanno posto la questione perché avevano paura della risposta. In effetti come avrebbero potuto proseguire una conferenza con una organizzazione che avrebbe considerato come “rivoluzionario” e “comunista” Stalin, il principale capofila della controrivoluzione scatenata contro il proletariato negli anni ’30, l’assassino di migliaia di combattenti della rivoluzione d’Ottobre, il massacratore di decine di milioni di operai e di contadini russi?
Evidentemente sollevare questa questione non sarebbe stato molto “diplomatico” e rischiava di provocare un fiasco immediato della conferenza che si sarebbe ridotta ad un tete a tete tra PCInt e CWO, cioè i due gruppi che avevano adottato, alla III conferenza, il criterio supplementare destinato ad eliminare la CCI al fine di dare nuovo ossigeno alle conferenze.
Queste due organizzazioni hanno preferito sottolineare il totale accordo che esisteva tra la loro visione del ruolo del partito e quella difesa dal SUCM nella sua presentazione su questa questione in cui affermava che “il partito organizza tutti gli aspetti della lotta di classe del proletariato contro la borghesia e dirige la classe operaia nel compimento della rivoluzione sociale.” Che il partito preconizzato dal PCInt e dalla CWO abbia un programma completamente opposto a quello del SUCM (rivoluzione comunista o rivoluzione democratica), che l’uno o l’altro “organizzino” e “dirigano” le lotte in direzioni contrarie, ciò sembra avere un’importanza secondaria per la CWO e per il PCInt. L’essenziale è che il SUCM non abbia nessuna tendenza “consiliarista” come sarebbe il caso della CCI.
Epilogo
La conferenza si è conclusa con il riassunto dei punti di accordo e di disaccordo fatto dal presidium (6). La lista delle convergenze è nettamente più lunga. Per quanto riguarda le “aree di disaccordo”, è segnalata unicamente la questione della “rivoluzione democratica” su cui viene detto che:
“C’è bisogno di altre discussioni e chiarificazioni con il SUCM:
a) la rivoluzione democratica deve essere definita al momento della prossima conferenza.
b) Noi(il presidium) proponiamo che il metodo migliore sia quello di criticare attraverso un testo la visione del SUCM della rivoluzione democratica e che abbiamo una discussione più sviluppata sulle basi economiche dell’imperialismo” (pag. 37)
Della visione completamente opposta sul ruolo del sindacato che si è espressa durante la conferenza non viene detto nemmeno una parola, probabilmente perchè il SUCM ha approvato completamente la presentazione sulle lotte in Polonia in cui il PCInt aveva affrontato la questione nei termini che abbiamo visto prima (mentre il SUCM non poteva che essere in disaccordo con questa presentazione su questo punto).
Alla fine il SUCM e il PCInt si sono espressi:
SUCM: “è un anno che noi abbiamo contattato il PCInt e la CWO. Noi li ringraziamo del loro aiuto e apprezziamo il contatto con i due gruppi. Noi abbiamo cercato di trasmettere le critiche all’UCM in Iran. Siamo d’accordo con il riassunto.”
PCInt: “siamo d’accordo con il riassunto. Anche noi siamo contenti di incontrare dei compagni che vengono dall’Iran. Certamente le discussioni con essi devono essere sviluppate al fine di trovare una soluzione politica alle divergenze su cui si è focalizzata questa conferenza.”
Così, contrariamente alla III che si era “dispersa nel disordine”, come aveva ricordato al CWO nel discorso d’apertura, la “IV conferenza” si è conclusa con la volontà di tutti i partecipanti di proseguire la discussione. Cosa è avvenuto in seguito è noto.
Nei fatti ci è voluto un momento buono perché la CWO e il PCInt aprissero (un po’!) gli occhi sulla natura dei loro interlocutori e questo solamente quando questi ultimi hanno gettato la maschera. Così, parecchi mesi dopo la “IV conferenza”, la CWO, nella sua conferenza territoriale, ha preso violentemente posizione contro la CCI che si era permessa, come sua abitudine, chiamare gatto un gatto e un gruppo borghese un gruppo borghese:
“Gli interventi del SUCM sono consistiti principalmente in lusinghe verso la CWO: la loro sola obiezione è consistita nel suggerire con sottigliezza alla CWO di portare un sostegno ‘critico’ e ‘condizionato’ ai movimenti nazionali. Questo suggerimento è rimasto senza risposta da parte della CWO la cui collera è stata invece riservata alla CCI quando abbiamo cercato di sollevare la questione di fondo della presenza del SUCM; allora la CWO si è preoccupata di far tacere il compagno della CCI prima che egli avesse potuto pronunciare più di dieci parole.” (World Revolution n. 60, maggio 1983, “Quando traccerai la linea, CWO?”)
È lo stesso atteggiamento che abbiamo ritrovato durante una riunione pubblica della CCI a Leeds:
“Gli interventi più veementi della CWO erano principalmente per sostenere il SUCM contro le ‘affermazioni infondate’ della CCI sulla natura di classe dell’UCM e del Komala e dopo per salutare la demagogia del SUCM come il contributo più chiaro alla riunione. Strillare contro i comunisti perché essi mettono in guardia il movimento rivoluzionario contro l’invasione dell’ideologia borghese non era che il passo successivo dell’atteggiamento settario della CWO verso la CCI.” (ibidem)
Questo atteggiamento che riserva le sue frecce più appuntite contro le tendenze che mettono in guardia contro il pericolo rappresentato dalle organizzazioni borghesi e che prende, in questa maniera, la difesa di questi ultimi non è nuovo nel movimento operaio. E’ l’atteggiamento della direzione centrista dell’Internazionale Comunista quando preconizzò il “Fronte Unico” con i partiti socialisti, un atteggiamento che la Sinistra Comunista giustamente denunciò.
E’ per questo che la conferenza che si è tenuta a Londra nel settembre1982 non merita assolutamente il titolo di “IV conferenza dei gruppi della Sinistra Comunista”. Da una parte perché essa si è tenuta con la presenza di un gruppo che non appartiene al proletariato, e, ancor meno, alla Sinistra Comunista, il SUCM; dall’altra perché in questa conferenza era totalmente assente lo spirito e l’atteggiamento politico che caratterizzano la Sinistra Comunista, che consistono in una ricerca scrupolosa della chiarezza, in intransigenza contro tutte le manifestazioni di penetrazione di visioni borghesi in seno al proletariato e contro l’opportunismo (7).
Questo non è l’avviso del BIPR che, nella conclusione della presentazione della brochure, ci dice:
“Tuttavia la validità o meno della IV conferenza non dipende dalla partecipazione del SUCM (che, come per tutti gli altri gruppi, dipendeva alla sua accettazione dei criteri sviluppati dalla I alla III).
La IV conferenza ha confermato lo sviluppo di una tendenza politica chiara nell’ambiente politico internazionale, una tendenza che riconosce che è compito dei rivoluzionari oggi sviluppare una presenza organizzata in seno alla lotta di classe e di lavorare concretamente per la formazione del partito internazionale. Se il futuro partito non è niente di più di una organizzazione che fa propaganda, cioè se esso non è un partito organizzato nella classe operaia nel suo insieme, esso non sarà capace di condurre la lotta di classe di domani alla sua conclusione vittoriosa.
La formazione del Bureau Internazionale per il Partito Rivoluzionario (BIPR) nel dicembre del 1983 è la manifestazione concreta di questa tendenza ed è in sé la prova della validità della IV conferenza. L’omogeneità politica raggiunta dal PCInt e dalla CWO (e confermata nel corso dei dibattiti con il SUCM) ha permesso ai due gruppi di compiere dei passi in avanti politici verso la formazione del futuro partito. La corrispondenza internazionale dei due gruppi ( e di altri membri del Bureau) è ora responsabilità del Bureau. Ma il Bureau va oltre il PCInt e la CWO, è un mezzo, per le organizzazioni e gli elementi emergenti nel mondo intero, di chiarificare le loro posizioni prendendo parte a un dibattito internazionale e al lavoro del Bureau stesso. Nei fatti è quel punto di riferimento internazionale che il PCInt preconizzava nel 1977 che potrebbe svilupparsi a partire dalle conferenze. Estendendo e sviluppando il suo lavoro all’interno di un quadro politico chiaramente definito, il Bureau sarà, in seguito, in condizione di convocare una V conferenza che segnerà un passo supplementare verso la formazione del partito internazionale.”
La V conferenza non c’è stata: dopo il fallimento e la ridicolaggine della IV (che i membri del BIPR non possono nascondersi, anche se cercano di nasconderli verso l’esterno), era in effetti preferibile fermare le spese. Ancora, e in questo il BIPR ha raggiunto i bordighisti, il BIPR stima oggi di essere la sola organizzazione al mondo capace di contribuire validamente alla formazione del futuro partito della rivoluzione mondiale (8). Noi non possiamo che lasciarlo a questi suoi sogni megalomani…. E alla sua triste incapacità a rappresentare la continuità di quello che la Sinistra Comunista ha apportato di meglio al movimento storico della classe operaia.
Fabienne
1. IV International Conference of Groups of the Communist Left – Proceedings, Texts, Correspondence
2. Il che non vuole assolutamente dire che noi sottostimiamo il ruolo del partito nella preparazione e nella realizzazione della rivoluzione. Esso è indispensabile per lo sviluppo della coscienza nella classe e per dare un orientamento politico alle sue battaglie, compreso sulla questione della sua auto-organizzazione. Ma questo non vuol dire che esso “organizza” le lotte della classe o la presa del potere, compito che tocca all’organizzazione specifica della classe, i consigli operai.
3. Bisogna essere chiari per il lettore: la CCI non si è mai sognata di “reclamare” un tale “diritto”. A partire dal momento in cui, durante la III conferenza, il PCInt e la CWO hanno esplicitamente affermato che essi volevano continuare le conferenze SENZA LA CCI, non ci è mai venuta l’idea di “forzare la mano” a queste organizzazioni (come avremmo potuto fare, per esempio, se noi ci fossimo astenuti al momento del voto sul criterio supplementare, visto che l’Eveil Internationaliste, che si era astenuto, è stato invitato alla IV). Questo non ci ha impedito, in seguito, di fare a questi gruppi delle proposte di lavoro comune ogni volta che noi l’abbiamo ritenuto necessario, in particolare delle prese di posizione di fronte a scontri imperialisti, proposte che sono state quasi sempre respinte.
4. Il Komala era una organizzazione guerrigliera legata al Partito Democratico Curdo.
5. Invitiamo i lettori che leggono l’inglese a richiederla al BIPR e a prenderne conoscenza nella sua integralità.
6. Bisogna notare che il PCInt ha accettato alla “IV conferenza” quello che si era ostinatamente rifiutato di fare nelle conferenze precedenti: che ci fosse una presa di posizione che riassumesse i punti d’accordo e di disaccordo. Il motivo del suo rifiuto era che esso non voleva adottare nessun documento in comune con gli altri gruppi a causa delle divergenze che esistevano tra di loro. Bisogna credere che per il PCInt le divergenze che esistono tra i gruppi della Sinistra Comunista sono più importanti di quelle che separa noi gruppi comunisti dai gruppi borghesi.
7. In questo senso la CWO aveva ragione a dire, all’apertura della conferenza, che: “il risultato della III conferenza significa che il lavoro internazionale tra comunisti deve procedere su basi diverse da quelle del passato.” Ben diverse, effettivamente, ma non nel buon senso per quello che riguarda il BIPR.
8. Per essere precisi fino in fondo, il rifiuto del BIPR di ogni discussione o di ogni lavoro comune con la CCI a causa di “divergenze troppo importanti” non si applica con lo stesso rigore verso altri gruppi. In diversi articoli della nostra Révue abbiamo sottolineato la sua apertura maggiore verso dei gruppi chiaramente consiliaristi come Red and Black Notes in Canada, o che non appartengono alla Sinistra Comunista, e nemmeno al campo proletario, come l’OCI in Italia (vedere in particolare “La visione marxista e la visione opportunista del partito nella politica di costruzione del partito”, Révue Internationale nn. 103 e 105).
Questa apertura viene applicata anche a degli elementi che si presentano come i soli difensori delle “vere posizioni della CCI” e che hanno costituito la “Frazione Interna della CCI” (FICCI), un piccolo gruppo parassitario che si è distinto per dei comportamenti inqualificabili come il furto di materiale della nostra organizzazione, il ricatto, lo spionaggio e anche delle minacce di morte contro uno dei nostri militanti. Nel suo Bollettino comunista n. 33, la FICCI riporta le discussioni che ha da parecchi anni con il BIPR e le presenta così: “Riannodando il filo di questa discussione, la frazione e il BIPR ridanno vita al ciclo delle Conferenze dei gruppi della Sinistra comunista che si sono tenute negli anni 70 e 80. E se le conferenze hanno condotto in parte ad un vicolo cieco, oggi è importante riprendere l’opera e portarla ad un livello superiore, tirando le lezioni del passato (…) di liberarsi dei malintesi, dei blocchi legati a questioni di terminologia, ad incomprensioni reciproche. Facendo questo siamo convinti che noi stiamo riprendendo, in qualche maniera, la fiaccola che la CCI ha abbandonato chiudendosi in un settarismo sempre più delirante”
La FICCI non precisa perché le conferenze sono state interrotte quando i suoi membri erano ancora nella CCI e avevano condiviso la nostra condanna del sabotaggio operato dal PCInt e dalla CWO. E’ una menzogna in più da mettere sul conto della FICCI, ma ce ne sono tante!
Ciò detto, risulta chiaramente che il BIPR accetta di discutere con degli elementi che affermano di difendere delle posizioni (quelle della CCI) che giustamente erano alla base del suo rifiuto di discutere con la CCI. E’ vero che la FICCI rappresenta dei grandi vantaggi rispetto alla CCI:
- essa passa il suo tempo a denigrare la nostra organizzazione;
- essa non rischia di “fare ombra” al BIPR, tenuto conto della sua importanza ridicola;;
- essa non trova parole abbastanza elogiative per adulare in permanenza questa organizzazione qualificata come solo polo di raggruppamento internazionale per il futuro partito rivoluzionario.
Ancora una volta constatiamo che la più bassa adulazione costituisce un eccellente “argomento” per convincere il BIPR ad accettare la discussione. Questo metodo era stato efficace nel 1982 da parte di un gruppo borghese come il SUCM, lo è ancora oggi da parte di una piccola banda di delinquenti.
Ciò detto, non sembra che il BIPR sia molto fiero delle discussione che mantiene con la FICCI visto che queste non hanno trovato posto nella sua stampa fino ad oggi e che il link verso il sito internet della FICCI sia sparito dal sito del BIPR da un bel po’ di tempo.
Queste tesi sono state adottate dalla CCI il 3 aprile 2006 mentre il movimento degli studenti stava ancora svolgendosi. In particolare, la grande manifestazione del 4 aprile, che il governo sperava meno potente della precedente del 28 marzo, ha superato quest’ultima ampiamente con una partecipazione ancora più importante di lavoratori del settore privato. Nel suo discorso del 31 marzo, il presidente Chirac aveva tentato una manovra ridicola: aveva annunciato la promulgazione della legge delle “Pari opportunità” ed aveva chiesto che il suo articolo 8 (il Contratto di Primo Impiego, principale motivo della collera degli studenti) non venisse applicato. Invece di indebolire la mobilitazione questa pietosa contorsione l’ha al contrario rafforzata. Inoltre, il pericolo di un’esplosione spontanea di scioperi nel settore direttamente produttivo, come si era verificato nel maggio1968, è diventato sempre più concreto. Il governo si è dovuto arrendere all’evidenza che le sue meschine manovre non sarebbero riuscite a rompere il movimento, per cui è stato costretto, non senza ulteriori contorsioni, a ritirare il CPE il 10 aprile. In effetti, le tesi prendevano ancora in considerazione la possibilità che il governo non cedesse. Ciò detto, l’epilogo della crisi che ha visto un tale indietreggiamento del governo, conferma e rafforza l’idea centrale delle tesi: l’importanza e la profondità della mobilitazione delle giovani generazioni della classe operaia in questi giorni della primavera 2006. Adesso che il governo ha ceduto sul CPE, il cui ritiro era la rivendicazione faro della mobilitazione, questa ha perso tutta la sua dinamicità. Ciò significa che le cose “ritornano come prima”, come evidentemente spera la borghesia? Certamente no. Come è detto nelle tesi: “questa classe [la borghesia] non potrà sopprimere tutta l’esperienza accumulata per settimane da decine di migliaia di futuri lavoratori, il loro risveglio alla politica e la loro presa di coscienza. È questo il vero tesoro per le lotte future del proletariato, un elemento di primo piano della capacità a proseguire per la propria strada verso la rivoluzione comunista”. E’ necessario che gli attori di questa magnifica lotta facciano fruttare questo tesoro, traendo tutti gli insegnamenti dalla loro esperienza, identificando con chiarezza quali sono state le vere forze ed anche le debolezze della loro lotta. E soprattutto che riescano a delineare la prospettiva che si presenta alla società, una prospettiva che era già inscritta nella loro lotta: di fronte agli attacchi sempre più violenti che un capitalismo in crisi mortale sferra inevitabilmente contro la classe sfruttata, la sola risposta possibile di questa è intensificare la propria lotta di resistenza e prepararsi a capovolgere questo sistema. Questa riflessione, come è stato per la lotta che si è conclusa, deve essere portata avanti in modo collettivo, attraverso dibattiti, nuove assemblee, circoli di discussione aperti, come lo sono state le assemblee generali, a tutti coloro che vogliono associarsi a questa riflessione, ed in particolare alle organizzazioni politiche che sostengono la lotta della classe operaia. Questa riflessione collettiva può essere condotta solo se viene mantenuto lo stesso stato d’animo fraterno, l’unità e la solidarietà che si sono manifestate nel corso della lotta. In questo senso, nel momento in cui la grande maggioranza di quelli che hanno partecipato alla lotta si è resa conto che questa era finita, sotto la sua forma precedente, non è più tempo di lotte di retroguardia, di blocchi ultraminoritari e “ad oltranza” che sono, in ogni caso, votati alla sconfitta e rischiano di provocare divisioni e tensioni tra quelli che, per settimane, hanno condotto una lotta di classe esemplare. (18 aprile 2003)
Il carattere proletario del movimento
1) La mobilitazione attuale degli studenti in Francia si presenta, fin da ora, come uno dei maggiori episodi della lotta di classe in questo paese dagli ultimi 15 anni, un episodio di un’importanza almeno comparabile alle lotte dell’autunno 1995 sul problema della riforma dello Stato sociale e della primavera 2003 nel settore pubblico sul problema delle pensioni. Quest’affermazione può sembrare paradossale nella misura in cui non sono stati i salariati a mobilitarsi come capofila (tranne la loro partecipazione ad un certo numero di giornate d’azione e di manifestazioni: 7 febbraio, 7 marzo, 18 marzo e 28 marzo) ma un settore della società che non è entrato ancora nel mondo del lavoro, la gioventù scolarizzata. Tuttavia, questo fatto non può in alcun modo mettere in discussione il carattere profondamente proletario di questo movimento. E ciò per le seguenti ragioni:
- nel corso degli ultimi decenni l’evoluzione dell’economia capitalista ha sempre più richiesto mano d’opera più formata e qualificata, per cui una forte proporzione di studenti delle Università (ed in queste sono inclusi gli Istituti Universitari di Tecnologia incaricati di dare una formazione relativamente breve a futuri “tecnici”, in realtà agli operai qualificati) alla fine dei suoi studi, andrà a raggiungere i ranghi della classe operaia (che lungi dal limitarsi ai soli operai dell’industria in “tuta blu”, include anche gli impiegati, i quadri medi delle imprese o della funzione pubblica, gli infermieri, la grande maggioranza degli insegnanti - maestri e professori delle secondarie, ecc.);
- parallelamente a questo fenomeno, l’origine sociale degli studenti ha conosciuto un’evoluzione significativa con un incremento importante degli studenti di origine operaia (secondo i criteri sopra enunciati), il che ha determinato l’esistenza di una proporzione molto elevata (nell’ordine della metà) di studenti che sono obbligati a lavorare per proseguire i loro studi o acquisire un minimo di autonomia rispetto alle famiglie;
- la rivendicazione principale intorno alla quale si è fatta la mobilitazione è il ritiro di un attacco economico (l’instaurazione di un Contratto di Primo impiego, CPE) che riguarda l’insieme della classe operaia e non solamente i futuri lavoratori oggi studenti, ma anche i giovani salariati, poiché l’esistenza nelle fabbriche di una mano d’opera sottomessa per due anni alla spada di Damocle di un licenziamento SENZA MOTIVO non può che pesare sugli altri lavoratori. La natura proletaria del movimento si è confermata fin dall’inizio attraverso il fatto che le assemblee generali hanno a maggioranza ritirato dalla lista quelle rivendicazioni che avevano un carattere esclusivamente “studentesco” (come la richiesta di ritirare il LMD - il sistema europeo di diplomi che è stato imposto recentemente in Francia e che penalizza una parte degli studenti di questo paese). Questa decisione corrispondeva alla volontà affermata fin dall’inizio dalla grande maggioranza degli studenti di, non solo ricercare la solidarietà dell’insieme della classe operaia (il termine abitualmente impiegato nelle AG è stato quello di “salariati”), ma anche di coinvolgerla nella lotta.
Le Assemblee Generali, polmone del movimento
2) Il carattere profondamente proletario del movimento si è manifestato anche nelle forme che questo si è dato, in particolare quelle delle assemblee generali sovrane in cui si manifesta una vita reale che non ha niente a che vedere con le caricature “di assemblee generali” convocate abitualmente dai sindacati nei posti di lavoro. E’ evidente che c’è una grande eterogeneità tra le differenti università in questo campo. Certe AG somigliano ancora molto alle assemblee sindacali, mentre altre sono sede di una vita e di una riflessione intensa, manifestando un alto grado di coinvolgimento e di maturità dei partecipanti. Tuttavia, al di là di questa eterogeneità, è notevole che molte assemblee sono riuscite a superare gli scogli dei primi giorni durante i quali si girava intorno a questioni tipo “bisogna votare sul fatto di votare o no su tale questione” (per esempio, la presenza o no nell’AG di persone esterne all’università, o sulla possibilità da parte di quest’ultime di prendere la parola), che aveva come conseguenza l’allontanamento di un gran numero di studenti e il fatto che le ultime decisioni venivano prese dai membri dei sindacati studenteschi o di organizzazioni politiche. Durante le prime due settimane del movimento la tendenza dominante nelle assemblee generali è stata quella di una presenza più numerosa di studenti, di una partecipazione sempre più ampia di questi nel prendere la parola, con una corrispondente riduzione degli interventi dei membri sindacali o delle organizzazioni politiche. La presa in carico crescente da parte dell’insieme delle assemblee della propria vita si è manifestata attraverso una riduzione tendenziale della presenza di quest’ultimi alla tribuna incaricata di organizzare i dibattiti a favore di quella di elementi che non avevano affiliazioni particolari o un’esperienza particolare prima del movimento. Nelle assemblee meglio organizzate si è potuto vedere un rinnovo quotidiano delle squadre (in genere 3 membri) incaricate di organizzare ed animare la vita dell’assemblea, mentre le assemblee meno vive e meno organizzate erano quelle “dirette” tutti i giorni dalla stessa squadra, spesso molto più pletorica delle prime. E’ necessario ancora segnalare come la tendenza delle assemblee sia stata verso la sostituzione di questo secondo modo di organizzazione con il primo. Uno degli elementi importanti di questa evoluzione è stata la partecipazione di delegazioni di studenti di una università alle AG di altre università, che oltre al rafforzamento del sentimento di forza e di solidarietà tra le differenti AG, ha permesso a quelle che si stavano indebolendo di ispirarsi ai punti forti di quelle che era più avanti1. Anche questa è una delle caratteristiche importanti della dinamica delle assemblee operaie in quei movimenti di classe che hanno raggiunto un livello importante di coscienza e di organizzazione.
3) Una delle manifestazioni maggiori del carattere proletario delle assemblee che si sono tenute nelle università durante questo periodo è il fatto che, da subito, la loro apertura verso l’esterno non si è limitata ai solo studenti di altre università ma si è estesa anche alla partecipazione di persone che non erano studenti. Innanzitutto, le AG hanno invitato il personale delle università (insegnante, tecnico e amministrativo – IATOS) non solo a partecipare ma anche a lottare insieme, e sono andate ben oltre. In particolare, lavoratori e pensionati, genitori e nonni di studenti e liceali in lotta, hanno ricevuto in genere un’accoglienza molto calorosa ed attenta da parte delle assemblee dal momento che i loro interventi miravano al rafforzamento ed all’estensione del movimento, in particolare vero i salariati. L’apertura delle assemblee a persone che non appartengono all’impresa o al settore direttamente coinvolto, non solo in quanto osservatori, ma come partecipanti attivi, è una componente estremamente importante del movimento della classe operaia. È chiaro che quando è necessario esprimere un voto per poter prendere una decisione, può essere necessario instaurare delle modalità che permettono alle sole persone che appartengono all’unità produttiva o geografica sulla quale si basa l’assemblea di partecipare a questa decisione, ciò per evitare l’“invasione” dell’assemblea da parte di professionisti della politica borghese o di elementi al suo servizio. A tal fine, uno dei mezzi utilizzati da molte assemblee studentesche è di non contabilizzare le mani levate ma le tessere studentesche presentate (che sono differenti da un’università all’altra). Quella dell’apertura delle assemblee è una questione cruciale per la lotta della classe operaia. Nella misura in cui in tempi “normali”, cioè al di fuori dei periodi di lotta intensa, gli elementi che hanno più audience nelle fila operaie sono quelli che appartengono alle organizzazioni della classe capitalista (sindacati o partiti politici di “sinistra”), la chiusura delle assemblee costituisce un eccellente mezzo per queste organizzazioni di conservare il loro controllo sui lavoratori a scapito della dinamica della lotta ed al servizio, evidentemente, degli interessi della borghesia. Nella storia delle lotte della classe operaia l’apertura delle assemblee, che permette agli elementi più avanzati della classe, ed in particolare alle organizzazioni rivoluzionarie, di contribuire alla presa di coscienza dei lavoratori in lotta, ha sempre costituito una linea di demarcazione tra le correnti che difendono un orientamento proletario e quelle che difendono l’ordine capitalista. Gli esempi sono numerosi. Tra i più significativi, possiamo segnalare quello del Congresso dei Consigli operai che si tenne a metà dicembre 1918 a Berlino dopo che il sollevamento dei soldati e degli operai contro la guerra, iniziato a novembre, costrinse la borghesia tedesca, non solo a mettere fine alla guerra, ma anche a sbarazzarsi del Kaiser ed a rimettere il potere politico nelle mani del partito socialdemocratico. Per l’immaturità della coscienza nella classe operaia e per le modalità di designazione dei delegati, questo Congresso fu dominato dai Socialdemocratici che vietarono sia la partecipazione di rappresentanti dei soviet rivoluzionari della Russia che quella di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, le due più eminenti figure del movimento rivoluzionario, con il pretesto che non erano operai. Questo Congresso decise alla fine di rimettere tutto il suo potere al governo diretto dalla Socialdemocrazia, un governo che un mese più tardi assassinava Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht. Un altro esempio significativo è quello del Congresso del 1866 dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori (AIT- I Internazionale) dove alcuni dirigenti francesi, come Tolain, un operaio cesellatore di bronzo, tentarono di imporre il fatto che “solo gli operai potevano votare al congresso”, una disposizione questa che mirava a colpire principalmente Karl Marx ed i compagni più vicini a lui. Durante La Comune di Parigi nel 1871 Marx fu uno dei più ardenti difensori di questa mentre Tolain era a Versailles tra i ranghi di coloro che organizzarono lo schiacciamento della Comune provocando 30.000 morti nelle fila operaie. Per quanto riguarda il movimento attuale degli studenti, è significativo che le maggiori resistenze all’apertura delle assemblee siano venute dai membri del sindacato studentesco UNEF, diretto dal Partito socialista, e che queste si siano tanto più aperte quanto più si riduceva l’influenza dell’UNEF al loro interno.
Contrariamente al 1995 e al 2003, la borghesia è stata sorpresa dal movimento
4) Una delle caratteristiche più importanti dell’episodio attuale della lotta di classe in Francia, è che questa ha sorpreso quasi totalmente l’insieme dei settori della borghesia e del suo apparato politico (partiti di destra, di sinistra ed organizzazioni sindacali). Questo è uno degli elementi che permette di capire tanto la vitalità e la profondità del movimento, che la situazione estremamente delicata nella quale attualmente si trova la classe dominante in questo paese. In questo senso, bisogna fare una distinzione molto netta tra il presente movimento e le lotte di massa dell’autunno 1995 e della primavera 2003. La mobilitazione dei lavoratori del 1995 contro il “piano Juppé” di riforma dello Stato sociale fu in realtà orchestrata grazie ad una divisione di compiti molto abile tra il governo ed i sindacati. Il primo, con tutta l’arroganza di cui era capace il Primo Ministro dell’epoca Alain Juppé, aveva associò agli attacchi contro lo Stato sociale (riguardante tutti i salariati del settore pubblico e privato) quelli più specifici contro il regime pensionistico dei lavoratori della SNCF e di altre imprese pubbliche di trasporti,. I lavoratori di queste imprese costituirono così la punta di lancia della mobilitazione. Pochi giorni prima di Natale, mentre gli scioperi duravano da settimane, il governo fece qualche passo indietro sulla questione dei regimi speciali di pensionamento il che, in seguito all’appello dei sindacati, determinò la ripresa del lavoro nei settori coinvolti. Il ritorno al lavoro dei settori più all’avanguardia significò, evidentemente, la fine del movimento in tutti gli altri settori. Per quanto riguarda i sindacati, la maggior parte di essi (eccetto il CFDT) si mostrarono molto “combattivi” chiamando all’estensione del movimento ed alla tenuta di frequenti assemblee generali. Malgrado la sua ampiezza, la mobilitazione dei lavoratori non portò ad una vittoria ma, fondamentalmente, ad un insuccesso poiché la principale rivendicazione, il ritiro del “piano Juppé” di riforma dello Stato sociale, non venne soddisfatta. Tuttavia le concessioni del governo sulla questione dei regimi speciali di pensionamento, permisero ai sindacati di presentare questa sconfitta come una “vittoria”, e ciò gli permise di riverniciare il loro blasone alquanto sbiadito dai sabotaggi delle lotte operaie durante gli anni 1980. La mobilitazione del 2003 nella funzione pubblica face seguito alla decisione di prolungare la durata minima di vita lavorativa prima di potere beneficiare di una pensione a tasso pieno. Tutti i lavoratori furono colpiti da questa misura, ma quelli che manifestarono una maggiore combattività furono gli insegnanti e il personale degli istituti scolastici che, oltre che sulle pensioni, subivano un attacco supplementare con la scusa del “decentramento”. Gli insegnanti in generale non venivano presi di mira direttamente da questa misura ma essi si sentivano particolarmente coinvolti dall’attacco che colpiva dei colleghi di lavoro e dalla mobilitazione di questi. Inoltre, la decisione di portare a 40 anni e più il numero minimo di anni di lavoro per i settori della classe operaia che, a causa della durata del periodo di formazione professionale, non potevano cominciare a lavorare prima dei 23 anni (addirittura 25 anni) significava che questi avrebbero dovuto continuare a lavorare in condizioni sempre più faticose ed usuranti al di là dell’età legale della pensione 60 anni. Con uno stile differente da quello di Juppé nel 1995, il Primo Ministro Jean-Pierre Raffarin fece passare un messaggio dello stesso tipo dichiarando che “a governare non era la strada”. Alla fine, malgrado la combattività dei lavoratori dell’educazione e la loro tenacia (alcuni fecero fino a 6 settimane di sciopero), malgrado le manifestazioni tra le più grosse dopo il maggio 68, il movimento non poté far retrocedere il governo. Questo, quando la mobilitazione cominciò a ripiegare, decise di ritornare su alcune misure particolari riguardanti il personale non insegnante degli istituti scolastici al fine di distruggere l’unità che si era sviluppata tra le differenti categorie professionali e dunque la dinamica di mobilitazione. L’inevitabile ripresa del lavoro tra il personale delle scuole significò la fine del movimento che, come nel 1995, non riuscì a respingere l’attacco centrale del governo, quello contro le pensioni. Tuttavia, mentre era stato possibile presentare l’episodio del 1995 come una “vittoria” da parte dei sindacati, ciò che permise di rafforzare il loro ascendente sull’insieme dei lavoratori, quello del 2003 fu avvertito principalmente come un insuccesso (in particolare tra buona parte degli insegnanti che avevano perso quasi 6 settimane di stipendio), cosa che intaccò sensibilmente la fiducia dei lavoratori nei loro riguardi.
La debolezza politica della destra francese
5) Le caratteristiche maggiori degli attacchi della borghesia contro la classe operaia nel 1995 e nel 2003 si possono così riassumere:
- tutti e due corrispondevano alla necessità inevitabile per il capitalismo, di fronte alla crisi mondiale della sua economia ed all’erosione dei deficit pubblici, di perseguire lo smantellamento dei dispositivi dello Stato assistenziale messi in atto all’indomani della Seconda Guerra mondiale e, in particolare, lo Stato sociale e il sistema pensionistico;
- tutti e due sono stati preparati accuratamente dai differenti organi al servizio del capitalismo, in primo luogo il governo di destra e le organizzazioni sindacali, per infliggere una sconfitta alla classe operaia; una sconfitta sul piano economico, ma anche sul piano politico ed ideologico;
- tutti e due hanno utilizzato il metodo che consiste nel cumulare attacchi ad un settore particolare che viene quindi spinto all’avanguardia della mobilitazione, e ad “arretrare” poi su attacchi specifici che riguardano questo stesso settore per disarmare l’insieme del movimento;
- tuttavia pur utilizzando metodi simili, la dimensione politica dell’attacco della borghesia non è stato lo stesso nei due casi perché nel 1995 bisognava presentare il risultato della mobilitazione come una “vittoria” da mettere in conto ai sindacati, mentre nel 2003 l’evidenza della sconfitta rappresentava un elemento di demoralizzazione e di discredito dei sindacati. Per quanto riguarda la mobilitazione attuale è necessario mettere in evidenza che:
- il CPE non era affatto una misura indispensabile per l’economia francese e ciò si è manifestato in particolare col fatto che buona parte del padronato e dei deputati di destra non era favorevole, come d’altronde il resto della maggioranza dei membri del governo, in particolare i due ministri direttamente coinvolti, quello dell’impiego (Gerardo Larcher), e quello della “coesione sociale”, (Jean-Louis Borloo);
- il carattere non indispensabile dal punto di vista capitalista di questa misura si accompagna ad un’assenza quasi completa di preparazione per farla passare; mentre gli attacchi del 1995 e del 2003 erano stati preparati in anticipo attraverso “discussioni” con i sindacati (a tal punto che, nei due casi, uno dei grandi sindacati, la CFDT di colore socialdemocratico, aveva sostenuto i piani del governo), il CPE faceva parte di un lotto di misure raggruppate in una legge chiamata delle “Pari opportunità” sottoposta al Parlamento in modo precipitoso e senza discussione preliminare con i sindacati. Tra gli aspetti più odiosi della legge c’è il fatto che essa è supposta lottare contro la precarietà mentre nei fatti la istituzionalizza per i giovani lavoratori al di sotto dei 26 anni. Inoltre questa viene presentata come un “beneficio” per i giovani dei quartieri “difficili” che si erano rivoltati nell’autunno 2005, mentre contiene una serie di attacchi contro questi stessi giovani come il collocamento al lavoro degli adolescenti a partire da 14 anni, camuffato da apprendistato, ed il lavoro notturno per quelli di età maggiore a 15 anni.
6) Il carattere provocatorio del metodo del governo si è rivelato anche nel tentativo di fare passare la legge “alla selvaggia”, facendo appello a disposizioni della Costituzione che permettessero la sua adozione senza voto del Parlamento e prevedendone il passaggio davanti a questo durante il periodo delle vacanze scolastiche degli studenti e dei liceali. Tuttavia, questa “colossale finezza” del governo e del suo capo Villepin, si è ritorta contro di essi. Lungi dal superare in velocità ogni possibilità di mobilitazione, questa manovra abbastanza grossolana è riuscita solo ad aumentare ancora più la collera degli studenti e dei liceali ed a radicalizzare la loro mobilitazione. Anche nel 1995 il carattere provocatorio delle dichiarazioni e l’atteggiamento arrogante del Primo Ministro Juppé fu un elemento di radicalizzazione del movimento di sciopero. Ma all’epoca questo atteggiamento corrispondeva in pieno agli obiettivi della borghesia che aveva previsto la reazione dei lavoratori e che, in un contesto in cui la classe operaia subiva ancora con forza il peso delle campagne ideologiche seguite al crollo dei regimi sedicenti “socialisti” (che necessariamente limitava le potenzialità della lotta), aveva orchestrato una manovra destinata a ridare credibilità ai sindacati. Oggi, al contrario, è in modo involontario che il Primo Ministro è riuscito a polarizzare la collera della gioventù studentesca e quella di grande parte della classe operaia contro la sua politica. Durante l’estate 2005 Villepin era riuscito a fare passare senza difficoltà il CNE (Contratto Nuovo Impiego) che permette alle imprese con meno di 20 salariati di licenziare entro due anni dall’assunzione il lavoratore, qualunque sia la sua età, senza fornire il minimo motivo. All’inizio dell’inverno, ha creduto che poteva fare lo stesso per il CPE, estendendo a tutte le imprese, pubbliche o private, le stesse disposizioni del CNE ma per i minori di 26 anni. Il seguito gli ha dimostrato di aver fatto un grossolano errore di valutazione poiché, come tutti i media e tutte le forze politiche della borghesia ne convengono, il governo si è messo in una situazione molto delicata. Ad essere estremamente imbarazzato non è solamente il governo ma l’insieme dei partiti politici borghesi, di destra come di sinistra, e dei sindacati che, ognuno a modo suo, rimprovera a Villepin il suo “metodo”. Del resto, quest’ultimo ha riconosciuto in parte i suoi errori affermando d “essersi pentito” del metodo adoperato. È indiscutibile che ci sia stata una carenza di abilità politica da parte del governo e particolarmente da parte del suo capo. Dalla maggior parte delle formazioni di sinistra o sindacali, quest’ultimo è presentato come “autistico”2, un personaggio “arrogante” incapace di comprendere le vere aspirazioni del “popolo”. I suoi “amici” di destra (in particolare i sostenitori del suo grande rivale per le prossime elezioni presidenziali, Nicolas Sarkozy) insistono in particolare sul fatto che, non essendo mai stato eletto (contrariamente a Sarkozy che è stato deputato e sindaco di una città importante3 per lunghi anni) evidentemente fa fatica a tessere dei legami sul territorio, con la base “popolare”. Tra le righe si lascia intendere che il suo gusto per la poesia e le belle lettere rivelano che è una specie di “dilettante”, di “amatore” in politica. Ma il rimprovero che gli si fa in modo unanime (compreso il padronato) è di non aver fatto precedere la sua proposta di legge da una consultazione degli “attori sociali” o “corpi intermediari” (secondo i termini dei sociologi mediatici), in realtà dei sindacati. Questo rimprovero gli viene mosso con molta virulenza anche dal sindacato più “moderato”, il CFDT che nel 1995 e nel 2003 aveva sostenuto gli attacchi del governo. Si può dunque dire che, nelle circostanze presenti, la destra francese ha avuto il merito di guadagnarsi la sua reputazione di “destra più stupida del mondo”. Più in generale, conviene segnalare che la borghesia francese, in un certo senso, dimostra ancora una volta (e paga anche) la sua mancanza di padronanza del gioco politico che l’ha condotta agli “incidenti” elettorali come quello del 1981 e del 2002. Nel primo caso, a causa delle divisioni della destra, la sinistra arrivò al governo in contro tendenza all’orientamento che la borghesia degli altri grandi paesi avanzati si era data di fronte alla situazione sociale (in particolare in Gran Bretagna, in Germania, in Italia o negli Stati Uniti). Nel secondo caso, la sinistra (anche lei per divisioni interne) risultò assente al secondo giro elettorale presidenziale che si giocò tra Le Pen, il capo fila dell’estrema destra, e Chirac la cui rielezione avvenne grazie ai voti di sinistra concentrati su di lui, come “male minore”. In effetti, eletto con questi voti della sinistra, Chirac aveva le mani molto meno libere di come le avrebbe avute se avesse riportato la vittoria sul leader della sinistra, Lionel Jospin. Questa mancanza di legittimità di Chirac fa parte degli elementi che spiegano la debolezza del governo di destra di fronte alla classe operaia e la sua difficoltà ad attaccarlo. Ciò detto, questa debolezza politica della destra (in generale dell’apparato politico della borghesia francese) non le ha impedito di portare a termine nel 2003 un attacco massiccio contro la classe operaia sulle pensioni. Ed in particolare, non permette di spiegare l’ampiezza della lotta attuale, soprattutto la grande mobilitazione di centinaia di migliaia di giovani futuri lavoratori, la dinamica del movimento, le forme di lotta realmente proletarie.
Un’espressione della ripresa delle lotte e dello sviluppo della coscienza della classe operaia7) Anche nel 1968 la mobilitazione degli studenti e poi il formidabile sciopero dei lavoratori (9 milioni di scioperanti per parecchie settimane - più di 150 milioni di giornate di sciopero) risultarono in parte dagli errori commessi dal regime gollista alla fine del suo regno. L’atteggiamento provocatore delle autorità nei confronti degli studenti (entrata della polizia alla Sorbona il 3 maggio per la prima volta da centinaia di anni, fermo ed arresto di parecchi studenti che avevano tentato di opporsi con la forza al suo sgombro) fu un fattore di mobilitazione di massa durante la settimana dal 3 al 10 maggio. In seguito alla repressione feroce della notte tra il 10 e l’11 maggio ed all’emozione che ne era seguita in tutta l’opinione pubblica, il governo decise di fare marcia indietro sulle due rivendicazioni studentesche, la riapertura della Sorbona e la liberazione degli studenti arrestati la settimana precedente. Questo indietreggiamento del governo e l’enorme successo della manifestazione indetta dai sindacati il 13 maggio4 determinarono una serie di scioperi spontanei nelle grandi fabbriche, come alla Renault a Cléon ed alla Sud-Aviation a Nantes. Una delle motivazioni di questi scioperi, sostenuta principalmente dai giovani operai, era che se la determinazione degli studenti che avevano alcun peso nell’economia era riuscita a fare arretrare il governo, questo sarebbe stato obbligato ad indietreggiare anche di fronte a quella degli operai che dispongono di un mezzo di pressione più potente, lo sciopero. L’esempio degli operai di Nantes e di Cléon si propagò come polvere da sparo accesa prendendo di sorpresa i sindacati. Temendo di essere completamente scavalcati, questi furono obbligati a “prendere il treno in corsa” nel giro di due giorni indicendo lo sciopero che riuscì a coinvolgere 9 milioni di operai paralizzando l’economia del paese per parecchie settimane. Tuttavia, da quel momento, bisognava essere ciechi per considerare che un movimento di tale ampiezza poteva aveva solo cause contingenti o “nazionali”. Esso corrispondeva necessariamente ad una sensibile variazione su scala internazionale del rapporto di forze tra borghesia e proletariato a favore di quest’ultimo5. Il che fu confermato un anno dopo dal “Cordobazo” del 29 maggio 1969 in Argentina6, dall’autunno caldo italiano del 1969 (battezzato anche “Maggio rampante”), poi dai grandi scioperi del Baltico de “l’inverno polacco” 1970-71 e da molti altri movimenti, meno spettacolari, ma che confermavano tutti che Maggio 1968 non era stato per niente un fulmine a cielo sereno ma traduceva la ripresa storica del proletariato mondiale dopo più di quattro decenni di controrivoluzione.
8) Anche l’attuale movimento in Francia non può spiegarsi con semplici considerazioni particolari (“gli errori” del governo Villepin) o nazionali. In realtà, esso costituisce una chiara conferma di ciò che la CCI ha messo in evidenza sin dal 2003: una tendenza alla ripresa delle lotte della classe operaia internazionale ed ad uno sviluppo della coscienza al suo interno:
“Le mobilitazioni a grande scala della primavera 2003 in Francia ed in Austria rappresentano una svolta nella lotta di classe dopo il 1989. Esse sono un primo passo significativo nel recupero della combattività operaia dopo il più lungo periodo di riflusso dal 1968”. (Revue internationale n°117,”Rapporto sulla lotta di classe”)
“A dispetto di tutte queste difficoltà, il periodo di riflusso non ha significato affatto “la fine della lotta di classe”. Gli anni 1990 sono stati intervallati da un certo numero di movimenti che mostravano che il proletariato aveva ancora riserve di combattività intatta (per esempio, nel 1992 e nel 1997). Tuttavia, nessuno di questi movimenti ha rappresentato un reale cambiamento a livello di coscienza. Da qui l’importanza dei movimenti più recenti che, sebbene non abbiano avuto l’impatto spettacolare come quello del 1968 in Francia, rappresentano tuttavia una svolta nel rapporto di forza tra le classi. Le lotte del 2003-2005 hanno presentato le seguenti caratteristiche:
- hanno coinvolto settori significativi della classe operaia nei paesi del cuore del capitalismo mondiale (come in Francia nel 2003);
- hanno manifestato una preoccupazione per questioni più esplicitamente politiche; in particolare la questione delle pensioni pone il problema del futuro che la società capitalista riserva a tutti noi (…);
- la questione della solidarietà di classe è stata posta in modo più estesa e più esplicita rispetto a qualsiasi momento delle lotte degli anni 1980, in particolare nei recenti movimenti in Germania;
- esse sono state corredate dall’apparizione di una nuova generazione di elementi alla ricerca di chiarezza politica. Questa nuova generazione si è manifestata sia nel nuovo flusso di elementi apertamente politicizzati sia con nuovi strati di operai che entrano in lotta per la prima volta. Come si potuto vedere in certe manifestazioni importanti, si sta forgiando il solco per l’unità tra la nuova generazione e la “generazione del 68” -sia la minoranza politica che ha ricostruito il movimento comunista negli anni 1960 e 1970, sia gli strati più larghi di operai che hanno vissuto la ricca esperienza delle lotte di classe tra il 1968 e 1989”. (Rivista Internazionale n°27, “Risoluzione sulla situazione internazionale del 16 Congresso del CCI”)
Queste caratteristiche, evidenziate all’epoca del nostro 16°Congresso, si sono manifestate pienamente nel movimento attuale degli studenti in Francia:
Il legame tra generazioni di combattenti si è stabilito spontaneamente nelle assemblee studentesche: non solo i lavoratori più vecchi, compreso i pensionati, erano autorizzati a prendere la parola nelle AG, ma erano incoraggiati a farlo, ed i loro interventi, che esprimevano la loro esperienza di lotta, erano accolti con molta attenzione e calore dalla giovane generazione7. Da parte sua, la preoccupazione per l’avvenire (e non solo per una situazione immediata) è al centro stesso della mobilitazione che ingloba dei giovani che dovranno confrontarsi con il CPE solo fra parecchi anni (anche più di 5 anni per molti liceali). Questa preoccupazione per l’avvenire si era manifestata già nel 2003 sulla questione delle pensioni dove si sono potuti vedere numerosi giovani nelle manifestazioni, cosa che era già un indice di questa solidarietà tra generazioni della classe operaia. Attualmente la mobilitazione contro la precarietà e dunque contro la disoccupazione pone in modo implicito, ed esplicito per un numero crescente di studenti e giovani lavoratori, la domanda sull’avvenire che il capitalismo riserva alla società; preoccupazione che è condivisa anche da numerosi vecchi lavoratori chi si chiedono: “Quale società lasciamo ai nostri ragazzi?” Quella della solidarietà, in particolarmente tra generazioni ma anche tra differenti settori della classe operaia, è stata una delle domande chiave del movimento:
- solidarietà degli studenti tra loro, volontà di quelli che erano alla punta del movimento, i meglio organizzati, ad andare ad appoggiare i loro compagni confrontati a situazioni difficili (sensibilizzazione e mobilitazione degli studenti più reticenti, organizzazione e tenuta delle AG, ecc.);
- appello ai lavoratori salariati mettendo avanti il fatto che l’attacco governativo colpiva tutti i settori della classe operaia;
- sentimento di solidarietà tra i lavoratori, anche se questo sentimento non è sfociato in una estensione della lotta, a parte la partecipazione alle giornate d’azione ed alle manifestazioni;
- coscienza tra molti studenti che non sono loro i più minacciati dalla precarietà (che colpisce più pesantemente i giovani non diplomati), ma che la loro lotta riguarda ancora di più i giovani più sfavoriti, particolarmente quelli che abitano le “periferie” che erano “bruciate” l’autunno scorso. Le giovani generazioni riprendono la fiaccola della lotta
9) Una delle caratteristiche maggiori del movimento attuale è che esso è costituito dalle giovani generazioni. E ciò non è affatto un caso. Da alcuni anni la CCI aveva rilevato l’esistenza in seno alle nuove generazioni di un processo di riflessione in profondità, anche se non spettacolare, che si manifestava principalmente attraverso il risveglio ad una politica comunista di un numero molto più importante rispetto a prima di giovani elementi, alcuni dei quali hanno già raggiunto le nostre fila. Essa vi vedeva la “punta dell’iceberg” di un processo di presa di coscienza che interessava larghi settori delle nuove generazioni proletarie che, presto o tardi, sarebbero state impegnate in vaste lotte:
- “La nuova generazione di ‘elementi in ricerca’, la minoranza che si avvicina alle posizioni di classe, avrà un ruolo di un’importanza senza precedenti nelle future lotte della classe che dovranno confrontarsi alle loro implicazioni politiche molto più rapidamente e profondamente rispetto a quelle del 1968-1989. Questi elementi, che esprimono già uno sviluppo lento ma significativo della coscienza in profondità, contribuiranno ad aiutare l’estensione di massa della coscienza in tutta la classe”.(Revue internationale n°113, “Risoluzione sulla situazione internazionale del 15° Congresso della CCI”). Il movimento attuale degli studenti in Francia esprime l’emergere di questo processo sotterraneo iniziato da qualche anno. È il segno che il grosso dell’impatto delle campagne ideologiche orchestrate dal 1989 sulla “fine del comunismo”, “la scomparsa della lotta di classe” (cioè della classe operaia) è ora dietro di noi. All’indomani della ripresa storica del proletariato mondiale, a partire dal 1968, constatavamo che:
- “Il proletariato attuale è differente da quello tra le due guerre. Da una parte, come l’insieme dei pilastri dell’ideologia borghese, le mistificazioni che hanno nel passato schiacciato la coscienza proletaria si sono in parte esaurite progressivamente: il nazionalismo, le illusioni democratiche, l’anti-fascismo, utilizzate intensamente per mezzo secolo, non hanno più l’impatto di ieri. Dall’altra, le nuove generazioni operaie non hanno subito le sconfitte delle precedenti. I proletari che oggi si confrontano con la crisi, se non hanno l’esperienza dei loro genitori, non sono tuttavia prostrati nella stessa demoralizzazione. La formidabile reazione che, fin dal 1968-69, la classe operaia ha opposto alle prime manifestazioni della crisi significa che la borghesia oggi non è in grado di imporre la sola uscita che essa possa trovare per questa crisi: un nuovo olocausto mondiale. Prima deve poter vincere la classe operaia: la prospettiva attuale non è dunque la guerra imperialistica ma la guerra di classe generalizzata”(Manifesto della CCI, adottato al suo 1°Congresso nel gennaio 1976). All’epoca del nostro 8°Congresso, tredici anni più tardi, il rapporto sulla situazione internazionale completava questa analisi nei seguenti termini:
“Era necessario che le generazioni colpite dalla controrivoluzione dagli anni 30 ai 60 cedessero il posto a quelle che non l’avevano conosciuta, affinché il proletariato mondiale trovasse la forza di superarla. In modo simile (sebbene bisogna relativizzare un tale paragone sottolineando che tra le generazioni del 68 e le precedenti c’era stata una rottura storica, mentre tra le generazioni successive vi è stata continuità) la generazione che farà la rivoluzione non potrà essere quella che ha compiuto l’essenziale compito storico di aver aperto al proletariato mondiale una nuova prospettiva dopo la controrivoluzione più profonda della sua storia”. Alcuni mesi più tardi, il crollo dei regimi sedicenti “socialisti” e l’importante riflusso che questo avvenimento provocò nella classe operaia doveva concretizzare questa previsione. In realtà, fatte salve le dovute proporzioni, la ripresa attuale della lotta di classe può avere lo stesso valore della ripresa storica del 1968 dopo 40 anni di contro-rivoluzione: le generazioni che hanno subito la sconfitta e soprattutto la terribile pressione delle mistificazioni borghesi non potevano più animare un nuovo episodio di scontro tra classi. Nei fatti, a riprende oggi per prima la fiaccola della lotta è una generazione che non è stata colpita direttamente da esse perché durante queste campagne stava ancora alla scuola elementare.
La coscienza, ben più profonda di quella del 68, d’appartenere alla classe operaia
10) Il paragone tra le mobilitazioni studentesche di oggi in Francia e gli avvenimenti del maggio ‘68 permette di distinguere un certo numero di caratteristiche importanti del movimento attuale. La maggioranza degli studenti in lotta l’afferma attualmente con molta chiarezza: “la nostra lotta è differente da quella del Maggio 68”. Questo è completamente giusto, ma bisogna capire perché. La prima differenza, che è fondamentale, consiste nel fatto che il movimento del Maggio 1968 si è prodotto agli inizi della crisi aperta dell’economia capitalista mondiale, mentre questa dura ormai da quasi quattro decenni, con un forte aggravamento a partire dal 1974. Dal 1967 si assisteva ad un aumento del numero di disoccupati in parecchi paesi, particolarmente in Germania ed in Francia, il che costituiva una delle basi dell’inquietudine che cominciava ad emergere tra gli studenti ed anche del malcontento che costrinse la classe operaia ad impegnarsi nella lotta. Il numero dei disoccupati in Francia oggi è 10 volte più elevato di quello del maggio 68 e questa disoccupazione di massa (ufficialmente dell’ordine del 10% della popolazione attiva), dura già da parecchi decenni. Ne risulta tutta una serie di differenze. Anche se i primi danni della crisi hanno costituito uno degli elementi all’origine della collera studentesca nel 68, questi oggi non si presentano affatto negli stessi termini. All’epoca non c’era un pericolo maggiore di disoccupazione o di precarietà alla fine degli studi. L’inquietudine principale della gioventù studentesca di allora era di non poter oramai accedere allo stesso status sociale della generazione precedente di laureati. In effetti, la generazione del 68 fu la prima a doversi confrontare, con una certa brutalità, al fenomeno di “proletarizzazione dei quadri” studiato abbondantemente dai sociologi dell’epoca. Questo fenomeno era iniziato qualche anno prima, prima ancora che si manifestasse apertamente la crisi, in seguito al sensibile aumento del numero di studenti nelle università. Questo aumento derivava dai bisogni dell’economia, ma anche dalla volontà e dalla possibilità della generazione dei loro genitori (che aveva subito con la Seconda Guerra mondiale un periodo di privazioni considerevoli) di permettere ai propri figli di raggiungere una situazione economica e sociale superiora alla propria. Questa “massificazione” della popolazione studentesca aveva provocato da alcuni anni un malessere crescente risultante dalla permanenza in seno all’università di strutture e pratiche, in particolare un forte autoritarismo, ereditate da un tempo in cui solo un’elite poteva frequentarla,. Un’altra componente del malessere del mondo studentesco, che si fece sentire a partire dal 1964 negli Stati Uniti, fu la guerra del Vietnam che offuscava il mito del ruolo “civilizzatore” delle grandi democrazie occidentali e favoriva nei settori significativi della gioventù universitaria un’infatuazione per i temi terzomondisti - guevaristi o maoisti. Questi temi erano alimentati dalle teorie di “pensatori” “pseudo-rivoluzionari”, come Herbert Marcuse il quale annunciava “l’integrazione della classe operaia” e la nascita di nuove forze “rivoluzionarie” quali le “minoranze oppresse” (i neri, le donne, ecc.), i contadini del Terzo Mondo, e … gli studenti. Numerosi studenti di questo periodo si consideravano “rivoluzionari” proprio come consideravano “rivoluzionari” personaggi come Che Guevara, Ho Chi Min o Mao. Infine, una delle componenti della situazione dell’epoca era il divario molto importante tra le nuove generazioni e quella dei propri genitori verso cui erano rivolte molteplici critiche. In particolare, poiché questa generazione aveva lavorato duro per uscire dalla miseria e dalla fame, causate dalla Seconda Guerra mondiale, le era rimproverato di preoccuparsi solo del benessere materiale. Da qui il successo delle fantasie sulla “società di consumo” e di slogan come il “rifiuto del lavoro”. Figlia di una generazione che aveva subito con forza la controrivoluzione, la gioventù degli anni 60 le rimproverava il suo conformismo e la sua sottomissione all’esigenze del capitalismo. Reciprocamente, molti genitori non comprendevano e facevano fatica ad accettare il fatto che i loro figli trattavano con disprezzo i sacrifici che facevano per dare loro una situazione economica migliore della propria.
11) Il mondo di oggi è ben differente da quello del 68 e la situazione della gioventù studentesca attuale ha poco a che vedere con quella degli anni “sessanta”:
- Non è semplicemente l’inquietudine verso un deterioramento del loro futuro stato che assilla la maggior parte degli studenti di oggi. Proletari essi lo sono già per una buona metà che è costretta a lavorare per potersi pagare degli studi e non si fanno troppe illusioni su stupefacenti condizioni sociali che li aspetterebbero alla fine di questi. Soprattutto sanno che alla fine il diploma gli darà il “diritto” di raggiungere la condizione proletaria sotto una delle forme più drammatiche, la disoccupazione e la precarietà, l’invio di centinaia di CV senza risposta e le file di attesa alle agenzie di lavoro, e che il loro accesso ad un impiego un poco più stabile, dopo tutto un periodo di “galera” intervallato da stage non pagati e da contratti a durata determinata, si effettuerà in molti casi con posti che hanno poco a che vedere con la loro formazione e le loro aspirazioni.
- In questo senso la solidarietà che provano attualmente gli studenti verso i lavoratori rivela innanzitutto che la maggior parte di essi è cosciente di appartenere allo stesso mondo, quello degli sfruttati, in lotta contro uno stesso nemico, gli sfruttatori. Questo è molto lontano dall’atteggiamento di natura piccolo-borghese degli studenti del 68 verso la classe operaia. Atteggiamento che manifestava una certa condiscendenza nei riguardi di quest’ultima mescolata ad un fascino verso questo essere mitico, l’operaio in tuta blu, eroe delle letture male assimilate dei classici marxisti, quando non erano di autori che hanno poco a che vedere col marxismo, stalinisti o cripto-stalinisti. La moda fiorita dopo il 68 secondo tra quegli intellettuali che scelsero di andare a lavorare in fabbrica per “toccare con mano la classe operaia”, è lontana da noi.
- È anche per questo che temi come la “società dei consumi”, anche se vengono ancora agitati da qualche nostalgico anarchicheggiante, non hanno nessuna eco nella lotta degli studenti. Quanto alla formula del rifiuto del lavoro” del “non lavorare mai”, questa non è più un progetto “radicale” ma una terribile ed angosciosa minaccia.
12) Paradossalmente, è sempre per questi motivi che i temi “radicali” o “rivoluzionari” sono molto poco presenti nelle discussioni e nelle preoccupazioni degli studenti di oggi. Mentre quelli del 68 trasformarono molte facoltà in fori permanenti di dibattito sulla questione della rivoluzione, dei consigli operai, ecc., la maggioranza delle discussioni che si tengono oggi nelle università vertono intorno a questioni più “terra-terra”, come il CPE e le sue implicazioni, la precarietà, le modalità di lotta (blocchi, assemblee generali, coordinamenti, manifestazioni, ecc.). Tuttavia, la polarizzazione intorno al ritiro del CPE che manifesta apparentemente un’ambizione meno “radicale” di quella degli studenti del 68, non significa affatto una minore profondità del movimento attuale rispetto a quello di 38 anni fa. Proprio il contrario. Le preoccupazioni “rivoluzionarie” degli studenti del 68 (in realtà della minoranza che costituiva “l’avanguardia del movimento”) erano indiscutibilmente sincere ma molto segnate dal terzo-mondismo, dal guevarismo, dal maoismo, se non dall’anti-fascismo. Nella migliore delle ipotesi, se così si può dire, erano di natura anarchicheggiante (sulla scia di Cohn-Bendit) o situazioniste. Quando non si trattava di semplici appendici “radicali” dello stalinismo, quello che predominava era una visione romantica piccolo-borghese della rivoluzione. Ma qualunque fossero state le correnti che ostentavano idee “rivoluzionarie”, di natura borghese o piccola-borghese, nessuno di esse aveva la minima idea del processo reale di sviluppo del movimento della classe operaia verso la rivoluzione, ed ancor meno del significato degli scioperi operai di massa come prima manifestazione dell’uscita dal periodo di contro-rivoluzione8. Oggi, le preoccupazioni “rivoluzionarie” non sono ancora presenti in modo significativo nel movimento ma la sua natura di classe incontestabile ed il terreno su cui si fa la mobilitazione (il rifiuto di un futuro di sottomissione alle esigenze ed alle condizioni dello sfruttamento capitalista: la disoccupazione, la precarietà, l’arbitrarietà dei padroni, ecc.), sono portatori di una dinamica che, necessariamente, indurrà in tutta una frangia dei partecipanti alle lotte attuali una presa di coscienza della necessità del capovolgimento del capitalismo. E questa presa di coscienza non sarà basata su delle chimere come quelle che prevalsero nel 68 e che permisero un “riciclaggio” dei leader del movimento nell’apparato politico ufficiale della borghesia (i ministri Bernard Kouchner e Joshka Fischer, il senatore Henri Weber, il porta parola dei verdi al Parlamento europeo Daniele Cohn-Bendit, l’editore Serge July, ecc.) quando non portarono al tragico vicolo cieco del terrorismo (“Brigate rosse” in Italia, “Frazione armata rossa” in Germania, “Azione diretta” in Francia). Al contrario, questa presa di coscienza si svilupperà a partire dalla comprensione delle condizioni fondamentali che rendono la rivoluzione proletaria necessaria e possibile: la crisi economica insormontabile del capitalismo mondiale, il vicolo cieco storico di questo sistema, la necessità di concepire le lotte proletarie di resistenza contro gli attacchi crescenti della borghesia come altrettanti preparativi in vista del capovolgimento finale del capitalismo. Nel 1968 il rapido rifiorire delle preoccupazioni “rivoluzionarie” era in grande parte il segno della superficialità e della mancanza di consistenza teorico-politica corrispondente alla natura fondamentalmente piccolo-borghese del movimento studentesco. Il processo di radicalizzazione delle lotte della classe operaia, anche se può conoscere in certi momenti delle accelerazioni sorprendenti, è un fenomeno molto più lungo, proprio perché è incomparabilmente più profondo. Come diceva Marx, “essere radicale, significa andare alla radice delle cose”, e questo è un percorso che richiede necessariamente del tempo e si basa sulla capitalizzazione di tutta un’esperienza di lotte. La capacità di evitare la trappola della violenza cieca montante provocata dalla borghesia
13) In effetti, non è nella “radicalità” degli obiettivi, né nelle discussioni prodotte che si manifesta la profondità del movimento degli studenti. Tale profondità è data dalle questioni di fondo che la rivendicazione del ritiro del CPE pone implicitamente: l’avvenire di precarietà e di disoccupazione che il capitalismo in crisi riserva alle giovani generazioni e che segna il fallimento storico di questo sistema. Ma ancor più questa profondità si esprime attraverso i metodi e l’organizzazione della lotta di cui abbiamo parlato ai punti 2 e 3: le assemblee generali viventi, aperte, disciplinate, che manifestano una preoccupazione di riflessione e di presa in carico collettiva del movimento, la nomina di commissioni, comitati di sciopero, delegazioni responsabili di fronte alle AG, la volontà di estensione della lotta verso l’insieme dei settori della classe operaia. Ne “La guerra civile in Francia” Marx segnala che il carattere veramente proletario della Comune di Parigi non si esprime tanto attraverso le misure economiche che ha adottato (la soppressione del lavoro di notte dei bambini e la moratoria sulle pigioni) ma attraverso i mezzi ed il modo di organizzazione che essa si è data. Quest’analisi di Marx risponde per intero alla situazione attuale. L’aspetto più importante nelle lotte che pone la classe sul suo terreno non risiede tanto negli obiettivi contingenti che essa può darsi in questo o quel momento, e che saranno superati nelle tappe ulteriori del movimento, ma nella sua capacità a prendere pienamente in mano queste lotte e dunque nei metodi che essa si dà per appropriarsi di queste. Sono questi mezzi e metodi della sua lotta ad essere i migliori garanti della dinamica e della capacità della classe ad avanzare nel futuro. E’ questa una delle insistenze maggiori del libro di Rosa Luxemburg Scioperi di massa, partito e sindacati, che trae le lezioni dalla rivoluzione del 1905 in Russia. In realtà, precisando che il movimento attuale è ben al di qua di quello del 1905 dal punto di vista della sua posta in gioco politica, bisogna sottolineare che i mezzi che si è dato sono, in modo embrionale, quelli dello sciopero di massa, quale si è espresso in particolare nell’agosto 1980 in Polonia.
14) La profondità del movimento degli studenti si esprime anche nella sua capacità a non cadere nella trappola della violenza che la borghesia gli ha teso a più riprese utilizzando e manipolando anche i “casseurs”9: occupazione poliziesca della Sorbona, trappola alla fine della manifestazione del 16 marzo, cariche poliziesche alla fine di quella del 18 marzo, violenze dei “casseurs” contro i manifestanti del 23 marzo. Anche se una piccola minoranza di studenti, principalmente quelli influenzati da ideologie anarchicheggianti, si sono lasciati tentare a scontrarsi con le forze di polizia, la grande maggioranza di essi si è preoccupata di non lasciare frammentare e distruggere il movimento in scontri a ripetizione con le forze di repressione. In questo senso il movimento attuale degli studenti ha dato prova di una maturità ben più grande rispetto a quello del 1968. La violenza - scontri con i corpi di polizia (CRS) e barricate- aveva costituito, tra il 3 maggio ed il 10 maggio 68, una delle componenti del movimento che, in seguito alla repressione della notte tra il 10 e l’11 e alle tergiversazioni del governo, aveva aperto le porte all’immenso sciopero della classe operaia. Ciò detto, nel prosieguo del movimento, le barricate e le violenze divennero uno degli elementi che permise alle differenti forze della borghesia (governo ed sindacati) di riprendere in mano le redini della situazione, in particolare minando la grande simpatia acquisita in un primo tempo dagli studenti nell’insieme della popolazione e soprattutto nella classe operaia. Per i partiti di sinistra e per i sindacati divenne facile mettere su uno stesso piano quelli che parlavano della necessità della rivoluzione e quelli che bruciavano automobili e si scontravano continuamente con i CRS. Tanto più che spesso, in realtà, erano gli stessi. Per gli studenti, che si credevano “rivoluzionari”, il movimento del Maggio 68 era già la Rivoluzione e le barricate che si erigevano giorno dopo giorno erano presentate come le eredi di quelle del 1848 e della Comune. Oggi, anche quando ci si pone la domanda delle prospettive generali del movimento, e dunque della necessità della rivoluzione, gli studenti sono molto coscienti del fatto che non sono gli scontri con le forze di polizia che fanno la forza del movimento. In effetti, anche se è ancora molto lontano dal porsi la questione della rivoluzione e dunque dal riflettere sul problema della violenza di classe del proletariato nella sua lotta per il capovolgimento del capitalismo, il movimento è stato confrontato implicitamente a questo problema ed ha saputo dargli una risposta nel senso della lotta e della natura del proletariato. Quest’ultimo è stato confrontato fin dall’inizio con la violenza estrema della classe sfruttatrice, con la repressione quando ha provato a difendere i suoi interessi, con la guerra imperialista ed anche con la violenza quotidiana dello sfruttamento. Contrariamente alle classi sfruttatrici, la classe portatrice del comunismo non porta in sé violenza, ed anche se non può fare a meno di usarla non deve mai identificarsi con essa. In particolare, la violenza di cui dovrà dare prova per rovesciare il capitalismo e di cui dovrà servirsi con determinazione, è necessariamente una violenza cosciente ed organizzata e dunque deve essere preceduta da tutto un processo di sviluppo della sua coscienza e della sua organizzazione attraverso le differenti lotte contro lo sfruttamento. La mobilitazione attuale degli studenti, proprio per la sua capacità ad organizzarsi ed ad affrontare in modo riflessivo i problemi che le sono posti, compreso quello della violenza, è molto più vicina alla rivoluzione, al capovolgimento violento dell’ordine borghese rispetto a quello delle barricate del Maggio 1968.
15) E’ proprio la questione della violenza che costituisce uno degli elementi essenziali che permette di sottolineare la differenza fondamentale tra le sommosse delle periferie dell’autunno 2005 ed il movimento degli studenti della primavera 2006. All’origine dei due movimenti c’è evidentemente un causa comune: la crisi insormontabile del modo di produzione capitalista, l’avvenire di disoccupazione e di precarietà che questa riserva ai figli della classe operaia. Tuttavia, le sommosse delle periferie, che hanno espresso fondamentalmente una disperazione completa di fronte a questa situazione, non possono in nessuno modo essere considerate come una forma, anche approssimativa, di lotta di classe. In particolare, le componenti essenziali dei movimenti del proletariato, la solidarietà, l’organizzazione, la presa in mano collettiva e cosciente della lotta, sono state totalmente assenti in queste sommosse. Nessuna solidarietà dei giovani esasperati verso i proprietari delle automobili che bruciavano e che erano quelle dei loro vicini, loro stessi proletari, vittime della disoccupazione e della precarietà. Ben poca coscienza da parte di questi ribelli, spesso molto giovani, la cui violenza e le cui distruzioni si esercitavano in modo cieco, e spesso sotto forma di gioco. In quanto all’organizzazione ed all’azione collettiva, queste prendevano la forma di bande di quartiere dirette da un piccolo “capobanda” (che spesso traeva la sua autorità dal fatto di essere il più violento della banda) che facevano a gara a chi bruciava più automobili. In realtà, l’approccio dei giovani insorti nell’ottobre-novembre 2005 non solo si presta ad essere facile preda per ogni tipo di manipolazione poliziesca, ma ci da una prova di come gli effetti della decomposizione della società capitalista possono costituire un ostacolo allo sviluppo della lotta e della coscienza del proletariato.
La persuasione di fronte ai giovani delle periferie
16) Nel corso del movimento attuale le bande dei “duri” hanno ripetutamente approfittato delle manifestazioni per recarsi al centro dalle città dedicandosi al loro sport favorito: “dagli addosso agli sbirri” e “rompere le vetrine”, e ciò con grande soddisfazione dei media stranieri che si erano già distinti alla fine 2005 per le loro immagini shock in prima pagina dei giornali ed in televisione. È chiaro che le immagini delle violenze che, durante tutto un periodo, sono state le uniche presentate ai proletari al di fuori della Francia, hanno costituito un eccellente mezzo per rafforzare il blackout su ciò che accadeva realmente in questo paese, privando la classe operaia mondiale di elementi che potevano contribuire alla sua presa di coscienza. Ma non è solamente nei confronti del proletariato degli altri paesi che sono state sfruttate le violenze delle bande dei “duri”. Nella stessa Francia, in un primo tempo, sono state utilizzate per tentare di presentare la lotta degli studenti come una specie di “prosieguo” delle violenze dell’autunno scorso. Fatica sprecata: nessuno ha creduto ad una tale favola ed è per questo motivo che il Ministro degli Interni, Sarkozy, ha cambiato velocemente atteggiamento dichiarando di essere consapevole della chiara differenza tra gli studenti ed i “teppisti”. Le violenze sono state allora esaltate per tentare di dissuadere la maggior parete dei lavoratori, e naturalmente studenti universitari e liceali, a partecipare alle manifestazioni, specialmente a quella del 18 marzo. La partecipazione eccezionale a questa manifestazione ha dimostrato che queste manovre non funzionavano. Alla fine, il 23 marzo, è con la benedizione delle forze di polizia che i “casseur” hanno aggredito i manifestanti per rapinarli, o semplicemente per pestarli senza ragione. Molti studenti sono stati demoralizzati da questi violenze: “Quando sono i CRS che ci manganellano, ciò ci dà la grinta, ma quando sono i ragazzi delle periferie per i quali anche ci si batte, ciò costituisce un colpo al morale”. Tuttavia, anche su questo gli studenti hanno dimostrato la loro maturità e la loro coscienza. Piuttosto che provare ad organizzare delle azioni violente contro i giovani “casseurs”, come è stato fatto dai servizi d’ordine sindacale che durante la manifestazione del 28 marzo li hanno spinti verso le forze di polizia a forza di manganello, hanno deciso in parecchi luoghi di eleggere delle delegazioni con il mandato di andare a discutere con i giovani dei quartieri periferici, in particolare per spiegare loro che la lotta degli studenti era anche a favore di questi giovani immersi nella disperazione della disoccupazione di massa e dell’esclusione. È in modo intuitivo, senza conoscenza delle esperienze della storia del movimento operaio, che la maggioranza degli studenti ha messo in pratica uno degli insegnamenti essenziali che emerge da queste esperienze: nessuna violenza all’interno della classe operaia. Di fronte ai settori del proletariato che possono lasciarsi trascinare in azioni contrarie ai suoi interessi generali, la persuasione e l’appello alla coscienza costituisce il mezzo essenziale d’azione nei loro confronti, dal momento che questi settori non sono appendici dello Stato borghese (come i commando che vanno a sabotare gli scioperi).
Un’esperienza insostituibile per la politicizzazione delle giovani generazioni
17) Une delle ragioni della grande maturità del movimento attuale, particolarmente nei confronti della questione della violenza, sta nella forte partecipazione delle studentesse universitarie e delle liceali in questo movimento. È noto che a quest’età le ragazze hanno generalmente una maggiore maturità rispetto ai loro compagni di sesso maschile. Inoltre, per quanto riguarda la questione della violenza, le donne si lasciano in genere meno facilmente trascinare su questo terreno rispetto agli uomini. Anche nel 1968 le studentesse hanno partecipato al movimento, ma quando la barricata è diventata il simbolo di questo, il ruolo che è stato loro affidato è stato spesso quello di sostegno agli “eroi” che stavano sulle barricate, di infermiere per quelli che erano feriti e di portatrici di panini per farli ristorare tra uno scontro con i CRS e l’altro. Niente di tutto questo nel movimento di oggi. Nei “blocchi” alle porte delle università, le studentesse sono numerose ed il loro atteggiamento è significativo del senso che il movimento ha dato finora a questi picchetti: non il “bastone” nei confronti di coloro che vogliono seguire i corsi, ma la spiegazione, l’argomentazione e la persuasione. Nelle assemblee generali e nelle differenti commissioni, anche se spesso non sono “grandi oratrici” e sono meno impegnate nelle organizzazioni politiche rispetto ai ragazzi, le studentesse costituiscono un elemento di prim’ordine nell’organizzazione, la disciplina e l’efficacia di queste così come nella capacità di riflessione collettiva. La storia delle lotte del proletariato ha messo in evidenza che la profondità di un movimento poteva essere valutata in parte dalla proporzione delle operaie che vi venivano coinvolte. In “tempi normali” le donne proletarie, poiché subiscono un’oppressione ancora più soffocante dei proletari maschi, sono in linea di massima meno coinvolte rispetto a quest’ultimi nei conflitti sociali. È solamente al momento in cui questi conflitti raggiungono una grande profondità, che gli strati più oppressi del proletariato, particolarmente le operaie, si lanciano nella lotta e la riflessione di classe. La grande partecipazione delle studentesse universitarie e liceali nel movimento attuale, il ruolo di primo piano che giocano, costituiscono non solo un indizio supplementare della sua natura autenticamente proletaria, ma anche della sua profondità.
18) Come abbiamo visto, il movimento attuale degli studenti in Francia costituisce un’espressione di primo piano della nuova vitalità del proletariato mondiale da tre anni a questa parte, una nuova vitalità ed una maggiore capacità di presa di coscienza. La borghesia farà evidentemente tutto il possibile per limitare al massimo l’impatto di questo movimento per l’avvenire. Se ne ha i mezzi, cercherà di non cedere sulle sue rivendicazioni principali per mantenere nella classe operaia in Francia il sentimento di impotenza che è riuscita ad imporle nel 2003. Ad ogni modo, si adopererà affinché la classe operaia non tragga le ricche lezioni da questo movimento, in particolare provocando un deterioramento del lotta (che è un fattore di demoralizzazione) o un recupero attraverso i sindacati ed i partiti di sinistra. Tuttavia, qualunque siano le manovre della borghesia, questa classe non potrà sopprimere tutta l’esperienza accumulata durante le settimane dalle decine di migliaia dei futuri lavoratori, il loro risveglio alla politica e la loro presa di coscienza. È questo il vero tesoro per le lotte future del proletariato, un elemento di primo piano della loro capacità a proseguire il cammino verso la rivoluzione comunista. E’ compito dei rivoluzionari partecipare pienamente, tanto nel far fruttare l’esperienza presente che al suo utilizzo nelle lotte future.
CCI (3 aprile 2004)
1. Al fine di permettere alla lotta di avere il maggiore potere ed unità possibili, gli studenti hanno avuto la necessità di costituire un “coordinamento nazionale” di delegati delle differenti assemblee. In sé il fatto è assolutamente corretto. Tuttavia, nella misura in cui una buona parte dei delegati è costituita da elementi di organizzazioni politiche borghesi (come la “Lega comunista rivoluzionaria”, trotskista) che sono presenti nel mondo studentesco, le riunioni settimanali del coordinamento sono state spesso il teatro di manovre politiche di queste organizzazioni che hanno tentato in particolare, finora senza successo, di costituire un “Bureau del Coordinamento” che sarebbe diventato uno strumento della loro politica. Come spesso abbiamo riportato negli articoli della nostra stampa (in particolare durante gli scioperi in Italia del 1987 e durante lo sciopero degli ospedalieri in Francia del 1988) la centralizzazione, che è una necessità in una lotta di grande ampiezza, non può contribuire realmente allo sviluppo del movimento se non si basa su un alto grado di gestione di quest’ultimo e di vigilanza alla base, nelle assemblee generali. Bisogna anche notare che un’organizzazione come la LCR ha tentato di dare al movimento degli studenti dei “porta voce” presso i media. Il fatto che non sia apparso alcuno “leader” mediatico del movimento non è un segno di debolezza ma al contrario della sua grande profondità.
2. Abbiamo anche potuto ascoltare alla televisione uno “specialista” della psicologia dei politici dichiarare che questi faceva parte della categoria degli “ostinati narcisistici”.
3. Bisogna precisare che il comune in questione è Neuilly-su-Seine, il simbolo delle città a popolazione borghese. Non è certamente con i suoi elettori che Sarkozy ha imparato a “parlare al popolo”.
4. Questa era una data simbolica poiché segnava il decimo anniversario del colpo di Stato del 13 maggio 1958 che aveva visto il ritorno di De Gaulle al potere. Uno dei principali slogan della manifestazione era “Dieci anni, basta così!”
5. Così, nel gennaio 1968, la nostra pubblicazione Internacionalismo del Venezuela, la sola pubblicazione della nostra corrente esistente all’epoca, annunciava l’inizio di un nuovo periodo di scontri di classe a scala internazionale: “non siamo dei profeti, e non pretendiamo di indovinare quando ed in che modo si svolgeranno gli avvenimenti futuri. Ma quello di cui siamo effettivamente sicuri e coscienti per quanto riguarda il processo in cui è immerso il capitalismo attualmente, è che non è possibile fermarlo con le riforme, le svalutazioni, né con altri tipi di misure economiche capitaliste e che esso conduce direttamente alla crisi. E siamo anche sicuri che il processo inverso di sviluppo della combattività della classe, che attualmente viviamo in modo generale, condurrà la classe operaia ad una lotta sanguinosa e diretta per la distruzione dello Stato borghese”.
6. In quel giorno, dopo tutta una serie di mobilitazioni nelle città operaie contro i violenti attacchi economici e la repressione della giunta militare, gli operai di Cordoba riuscirono a scavalcare completamente le forze di polizia e l’esercito (pertanto equipaggiati di carri armati) e si impadronirono della città, la seconda del paese. Il governo poté “ristabilire l’ordine” solo l’indomani grazie all’invio massiccio dell’esercito.
7. Siamo ben lontano dall’atteggiamento di molti studenti del 1968 che consideravano i loro genitori come “vecchi coglioni”, mentre quest’ultimi li trattavano spesso da “piccoli coglioni”).
8. Vale la pena segnalare che questa cecità sul significato vero del Maggio 1968 non colpiva solo le correnti di estrazione stalinista o trotskista per le quali, evidentemente, non c’era stata controrivoluzione ma una progressione della “rivoluzione” con la comparsa, in seguito alla Seconda Guerra mondiale, di tutta una serie di Stati “socialisti” o “operai degenerati” e con le “lotte di liberazione nazionale” che erano iniziate nello stesso periodo e che si sono prolungate per parecchi decenni. In effetti, la maggior parte delle correnti ed elementi che si ricongiungevano alla Sinistra comunista, ed in particolare alla Sinistra italiana, non hanno compreso gran che di ciò che accadeva nel 68 poiché, ancora oggi, tanto per i bordighisti che per Battaglia comunista non siamo ancora usciti della controrivoluzione.
9. Letteralmente coloro che rompono, distruggono.Links
[1] https://it.internationalism.org/en/tag/2/32/il-fronte-unito
[2] https://it.internationalism.org/en/tag/5/104/spagna-1936
[3] https://it.internationalism.org/en/tag/4/83/medio-oriente
[4] https://it.internationalism.org/piattaforma
[5] https://it.internationalism.org/en/tag/vita-della-cci/lettere-dei-lettori
[6] https://it.internationalism.org/en/tag/3/43/comunismo
[7] https://it.internationalism.org/en/tag/4/70/francia
[8] https://it.internationalism.org/en/tag/2/29/lotta-proletaria