Una volta tanto siamo d’accordo, almeno in parte, con Berlusconi quando dice “con la sinistra morte e miseria”. Quello che il presidente del consiglio usa come attacco contro i suoi nemici politici del centro-sinistra è, contrariamente a tutte le risentite e sdegnate risposte del campo avversario, una verità sacrosanta. La cosa che fa però di questa accusa una nefandezza è che Berlusconi la riserva alla sola sinistra e non completa la frase dicendo che, qualunque sia il sistema di potere, in questo o quel paese, quello che ci aspetta è comunque e sempre più “morte e miseria”. Il perché di questa affermazione - che può sembrare, sulle prime, alquanto forte - è che la società in cui viviamo ci mostra, ormai da tempo, che viviamo sempre più con la mancanza assoluta di prospettive, di vie di uscita da una situazione buia dal punto di vista economico e sociale. Le vecchie generazioni hanno conosciuto fasi di crescita e fasi di crisi economica, ma quelle più giovani conoscono solo disoccupazione, precarietà e miseria. Questa deriva della società verso uno stato di impoverimento e di precarizzazione crescenti non sono la responsabilità della destra avida e rapace – come vorrebbe farci intendere la sinistra attualmente all’opposizione in Italia e quindi più al riparo da critiche aperte – ma della crisi economica sempre più profonda del sistema capitalista e dell’impossibilità di porvi rimedio in quanto sistema ormai storicamente superato1. E’ di fronte a questa crisi storica che le “soluzioni”, di destra o di sinistra, sono non solo dei semplici palliativi per la crisi del sistema ma anche scudisciate sempre più profonde inferte nella carne dei lavoratori. Così, alle buffonate di Berlusconi sulla riduzione delle tasse, che sono fumo per i più e vantaggi consistenti solo per alcuni pochi ricchi, corrispondono le finanziarie di lacrime e sangue prodotte dai vari governi di sinistra in Italia (e nel mondo) nell’illusione di uscire da un tunnel che non finisce mai.
D’altra parte ci sono degli episodi che fanno riflettere sulla precarietà crescente della nostra società, come ad esempio lo tsumani che si è abbattuto sul sud-est asiatico a Natale e che ha prodotto la scomparsa di una popolazione estesa quanto quella di una grande città. Se il disastro è stato così immane non è per colpa delle forze oscure della natura ma, come spieghiamo nell’articolo pubblicato in questo stesso giornale, per colpa del cinismo e dell’incapacità della borghesia. Oggi che ti sbattono in faccia telefonini di tutti i tipi e in tutte le salse, dire che il disastro è avvenuto perché sul posto mancavano mezzi tecnologici adeguati per avvertire la popolazione è veramente non solo ridicolo ma del tutto irrispettoso per tutti i morti che ne hanno fatto le spese. E che dire ancora del recente incidente ferroviario avvenuto in Italia che è costato la vita a 17 persone, tra cui i 4 macchinisti, e ancora una volta non per colpa del governo Berlusconi ma per la politica dei tagli del personale e di intensificazione dei ritmi di lavoro, che è opera dei governi di destra quanto di sinistra perché entrambi sempre convinti sostenitori della necessità di risparmiare sui controlli, sulla sicurezza, pur di essere competitivi. Ma la loro competitività la pagano i lavoratori, i pendolari e la povera gente che ci rimane stecchita in questi incidenti. E ancora la Cina, la “grande promessa economica” di questo periodo, il paese in cui si è recentemente recato Ciampi accompagnato da una galassia di imprenditori e di politicastri da quattro soldi, è anche il paese in cui si producono di continuo incidenti disastrosi nelle vecchie e accidentate miniere di carbone con centinaia di morti all’anno! Anzi è proprio questo sacrificio continuo di vite umane sull’altare del dio capitale che permette al capitalismo cinese, (altro che comunismo!), di mostrare questo effimero quanto precario sviluppo dell’economia.
E questo senza parlare di tutte le guerre, passate e recenti, dimenticate o in prima pagina dei giornali, con le migliaia e migliaia di morti l’anno e le distruzioni e la disperazione che procurano. Distruzioni e disperazione che a loro volta dalla periferia del mondo stringono come un assedio sempre più stretto le metropoli del capitalismo, raggiungendole di tanto in tanto non attraverso scontri a fuoco tra opposti eserciti, ma sempre più attraverso atti di terrorismo cieco, che mirano al mucchio per fare quanti più danni è possibile, perché forte sia la ferita, forte il ricatto all’insieme della popolazione per farla schierare ora con dei lupi, ora con delle iene.
E’ questo lo scenario di fronte al quale si trova oggi sgomenta l’umanità. Ed è questo sgomento che la borghesia cerca di sfruttare per perpetuare uno stato di paralisi che, istintivamente, proviene dal vivere in questo mondo. Ma questo non è l’unico scenario possibile, questo non è l’unico mondo vivibile. L’incapacità di questa classe che domina oggi, di destra o di sinistra che sia ma unita dalla comune determinazione di mantenere alla base del suo dominio lo sfruttamento capitalista dell’uomo sull’uomo, non deve scoraggiarci a cercare delle alternative. La classe dei lavoratori ha mostrato, in altre circostanze, di sapere dare delle risposte ai quesiti che si ponevano davanti all’umanità. Ha saputo dire no alla guerra durante la stessa prima guerra mondiale provocando la rapida conclusione di quest’ultima e realizzando per la prima volta in Russia un potere sotto il controllo dei lavoratori; ha saputo reagire più recentemente contro un potere, quello stalinista della Polonia del 1980, producendo uno sciopero di massa che ha visto l’insieme dei lavoratori polacchi imporre il loro gioco ai rappresentanti del governo; ha ancora più recentemente ripreso a esprimersi, a manifestarsi attraverso episodi di lotta importanti, come quelli dello scorso anno in Germania, in Italia, in Austria, dove le lotte hanno cominciato ad esprimere, al di là delle mistificazioni sindacali, una tendenza alla ricerca della solidarietà, e dove, ancora in maniera più estesa, sorgono minoranze di lavoratori, singoli individui, espressione di una riflessione che si produce nel profondo della classe e che porta ad una voglia di battersi, di fare qualcosa, superando lo scoramento e la demoralizzazione che questa società, attraverso tutti i suoi mass-media, tende a sviluppare. E’ questa ripresa di fiducia nella classe in se stessa che conferma la possibilità, oltre che la necessità, che questo mondo abbia un futuro piuttosto che la lenta e progressiva autodistruzione in cui il capitalismo tende a spingerlo in questa fase storica.
19 gennaio 2005 Ezechiele
1. Vedi l’articolo su Il concetto marxista della decadenza del capitalismo all’interno del giornale
Il mondo continua ad affondare nel caos: la miseria si estende fino al cuore dei paesi più sviluppati, la disoccupazione massiccia e di lunga durata non risparmia più nessuno, la guerra tra Stati tocca quasi tutti i continenti. Tuttavia, di fronte a questa distruzione permanente, la borghesia non smette di parlare di benessere, di prosperità, di progresso: dov’è il progresso nella guerra che, quasi dovunque, decima le popolazioni e distrugge le città, i campi, le foreste? Dov’è il benessere quando migliaia di esseri umani muoiono tutti i giorni di fame? Dov’è la prosperità quando più nessun’operaio su questa terra può sapere quale futuro lo attende?
Di fronte a questo paradosso si è costretti a porsi delle domande: perché una società che si suppone debba progredire, portare sempre più benessere e sicurezza, riversa invece l’esatto contrario sull'umanità? Perché succede tutto questo? E' forse una fatalità? La borghesia ha delle risposte: ci assicura che si tratta della "cattiveria" umana, della mancanza di democrazia, di difficoltà economiche passeggere dovute ad una cattiva regolazione dei flussi finanziari, al rialzo del prezzo delle materie prime sui mercati, all'appetito immorale degli speculatori sugli stessi mercati, ecc.
Ma queste “spiegazioni” stonano con lo stato della situazione e nonostante che le propinino da tempo le cose non migliorano, anzi proprio il contrario. Allora, perché un tale disastro dopo tutti i progressi che ha conosciuto l'umanità? Perché tutta questa miseria quando sembrano esserci tante ricchezze da sfruttare? In effetti queste “spiegazioni” passano accanto, evidentemente volontariamente, alla sola realtà in grado di permetterci di capire. Questa realtà è quella della crisi economica mondiale. E quando noi, rivoluzionari marxisti, oggi parliamo di crisi non lo facciamo sulle stesse basi della borghesia. Parliamo di una crisi insormontabile che segna il fallimento del sistema capitalista.
Per affermare questo non ci basiamo sulla semplice osservazione "fotografica" della realtà attuale, ma su tutta l'analisi marxista dello sviluppo del capitalismo. Su questa base affermiamo che il capitalismo è entrato da circa un secolo nella sua fase di decadenza e che in questa fase, contrariamente alla fase di ascendenza, la crisi capitalista diventa un elemento insormontabile il cui sbocco può essere solamente: o la distruzione dell'umanità e di tutte le realizzazioni del suo sviluppo attraverso la storia, o il superamento delle contraddizioni mortali del capitalismo da parte della classe operaia nella sua lotta per la costruzione di una nuova società.
È in questo senso che la decadenza è per noi marxisti il quadro di analisi fondamentale della situazione e che, senza questo quadro, non solo è impossibile comprendere la realtà del mondo attuale, ma anche tracciare una prospettiva realistica. Perché ben lungi dal portarci alla demoralizzazione, al "no future", la teoria marxista della decadenza pone le basi per la prospettiva comunista, che non è uscita dalla volontà degli uomini, ma si fonda su tutta un'analisi dello sviluppo delle società umane: il materialismo storico.
Lo sviluppo delle società nella storia
La decadenza non è un'invenzione della CCI. È invece un concetto centrale dell'analisi marxista dello sviluppo delle società umane, è al centro del materialismo storico. Fin dall'inizio Marx ed Engels hanno stabilito come metodo di lavoro analizzare innanzitutto lo sviluppo sociale dell'umanità come chiave di comprensione dello sviluppo della società contemporanea. I due fondatori del marxismo, nel corso di queste ricerche, hanno scoperto che la società umana si organizzava intorno alla produzione, attività primaria e centrale dell'uomo. Era dunque nell'organizzazione dei mezzi di produzione che si delineavano i rapporti sociali.
Affrontando la questione immediatamente sul piano storico, sono arrivati ad analizzare come l'evoluzione dei mezzi di produzione e della loro organizzazione influiva sull'organizzazione sociale. E, per riassumere al massimo, si è visto che lo sviluppo dei mezzi di produzione, necessario di fronte alla quantità dei bisogni da soddisfare, raggiungeva ad un certo stadio un livello tale che l'organizzazione di questi mezzi di produzione diventava inadeguata ed in fine un ostacolo ad un ulteriore sviluppo. Bisognava quindi che fosse modificata radicalmente l'organizzazione della produzione perché quei mezzi di produzione potessero essere utilizzati al massimo e continuare il loro sviluppo. (1)
Questo cambiamento non si è prodotto dolcemente: come abbiamo detto, intorno alla produzione si delinea l'organizzazione sociale, e fino ad oggi l'umanità ha dovuto gestire la penuria. Da lì è nato necessariamente il possesso, la proprietà, lo sfruttamento... Interessi e poteri si sono cristallizzati dunque intorno alla produzione. La rimessa causa dell'organizzazione della produzione comportava mettere in discussione le posizioni economiche, politiche e sociali delle classi dominanti. E quindi solamente attraverso una rottura più o meno violenta questo cambiamento poteva avere luogo.
Ecco perché l'evoluzione dei mezzi di produzione non è avvenuta in modo lineare e senza rottura, in un processo di ascesa continua. Ecco perché ogni sistema di produzione è passato attraverso una fase di decadenza durante la quale l'evoluzione dei mezzi di produzione si è scontrata senza soluzione contro la loro organizzazione, mentre si sono liberate nella società delle forze rivoluzionarie di fronte alle forze reazionarie attaccate ai loro privilegi.
Nella società romana la produzione è organizzata in schiavi che lavorano, e padroni che li fanno lavorare. Questo modo di produzione ha permesso lo sviluppo della produzione fino a che questa non ha raggiunto un livello che ha posto un problema: per continuare a produrre occorrevano più schiavi i quali in effetti erano i prigionieri fatti durante le guerre, ed i limiti geografici della guerra, coi mezzi dell'epoca, cominciavano ad essere raggiunti. Inoltre, lo sviluppo delle tecniche di produzione richiedeva una mano d'opera più specializzata, che la schiavitù non poteva fornire... Si vede in quest’esempio che il modo in cui la produzione era organizzata diventava sempre meno adattato alla produzione, e che per continuare a sviluppare questa, l’organizzazione, che ne aveva permesso fino ad allora lo sviluppo, andava oramai cambiata perché era diventata un ostacolo.
È per ciò che gli schiavi sono stati emancipati e sono diventati dei servi della gleba. A sua volta il sistema feudale ha permesso lo sviluppo della produzione finché questa non si è trovata di nuovo di fronte ad un ostacolo. Sono i rapporti capitalisti che trasformano il produttore del Medioevo in uomo libero che vende la sua forza lavoro al capitalista. Di nuovo, la produzione trova un'organizzazione capace di permettere il suo sviluppo. Uno sviluppo molto veloce, mai visto prima, e che ha permesso per la prima volta all'umanità di uscire dalla penuria.
Se il passaggio da un modo di produzione all'altro non è stato lineare e senza scossoni (per così dire, da una fase ascendente all’altra), è perché questo modo di produzione si traduce in dei rapporti sociali ed in un'organizzazione sociale particolare in seno alla quale la classe dominante difende con le unghie e con i denti i propri interessi contro la prospettiva di un capovolgimento dell'ordine stabilito. Durante questo periodo, l'incompatibilità crescente tra il livello raggiunto dalla produzione ed il modo con cui è organizzata si traduce in convulsioni sempre più forti. La decadenza comincia dunque quando i rapporti di produzione diventano un ostacolo per lo sviluppo della produzione. Essa continua finché nuovi rapporti di produzione non possono essere stabiliti. La decadenza è il periodo del fallimento della vecchia società finché non viene fondata la nuova.
Il capitalismo, si è visto, certamente non fa eccezione alla regola. Ma la decadenza del capitalismo si differenzia dalle fasi di decadenza del passato perché nelle società del passato i germi della nuova società esistevano già e si sviluppavano nel seno stesso della vecchia società. In seno alla società feudale, la borghesia ha conquistato poco a poco il potere economico ed al tempo stesso ha trasformato buona parte della produzione prima di giungere essa stessa al potere politico. Nel capitalismo tutto ciò non è possibile. La classe rivoluzionaria, il proletariato, non può instaurare dei nuovi rapporti di produzione senza distruggere quelli che esistono attualmente. Qui risiede tutta la gravità della decadenza capitalista.
Vediamo, dunque, che per i marxisti la decadenza non è un concetto morale. I marxisti sviluppano il concetto di decadenza come un concetto scientifico, materialista, cioè fondato sullo sviluppo materiale delle società umane. Non neghiamo che questi periodi si siano manifestati attraverso la cupidigia ed i costumi dissoluti delle classi dominanti: sappiamo per certo che il blocco storico dello sviluppo delle forze produttive trova il suo riflesso nella società umana a tutti i livelli. La decadenza non è una teoria economica, del resto Marx non ha fatto che la critica dell'economia. Ciò non toglie che la spiegazione si pone chiaramente sul terreno materialista.
Le specificità della decadenza del capitalismo
Quando l'Internazionale Comunista (IC) parlava de “l’era delle guerre e delle rivoluzioni”, non poteva riassumere meglio ciò che il capitalismo decadente andava ad offrire all'umanità. Infatti, il capitalismo ha creato durante la sua ascesa il quadro ideale del proprio sviluppo, quello della nazione. E' intorno a queste nazioni che il capitalismo ha assicurato il suo sviluppo, è a partire da questo quadro che è partito all'assalto delle colonie, ed è a partire da là che, oggi, stabilisce i suoi rapporti di concorrenza inasprita dalla crisi. La sola soluzione per la borghesia alla crisi di sovrapproduzione diventa la guerra. Questa implica un periodo di ricostruzione che termina in una nuova crisi di sovrapproduzione.
Possiamo situare l'entrata del capitalismo nel suo periodo di decadenza all'inizio del ventesimo secolo: la Prima Guerra mondiale, prima di tutta la storia dell'umanità, manifesta chiaramente il nuovo corso. La ricostruzione che l'ha seguita terminò velocemente con una crisi senza precedenti negli anni ‘30, e quindi con una seconda guerra mondiale. Vediamo delinearsi il ciclo "crisi-guerra-ricostruzione-nuova crisi", ma questo non è un ciclo che può ripetersi all’infinito. Al contrario, è una spirale infernale che trascina tutto al suo passaggio. Perché se il capitalismo era capace di superare le crisi di sovrapproduzione nella sua fase di ascesa, attraverso la sua espansione e la proletarizzazione crescente della popolazione, oggi, sono stati raggiungi i limiti e la crisi è permanente. La sola "via d’uscita" è la guerra.
Si tratta dunque di un'era di guerre. Ma come l'ha annunciato l'IC alla sua fondazione nel 1919, si tratta anche di un'era di rivoluzione. Infatti, il capitalismo sviluppandosi ha fatto nascere il suo becchino: il proletariato, unica forza sociale capace di rovesciare il capitalismo e di costruire una società futura. Raggiungendo i suoi limiti, il capitalismo apre la porta al suo superamento. Per il proletariato è all’ordine del giorno il compito immenso di fondare, sulle rovine del capitalismo distrutto dalla sua lotta, una nuova società capace di gestire l'abbondanza e di offrire alle forze produttive un quadro adattato al loro sviluppo.
La prospettiva comunista non è nuova. L'idea di costruire una società libera dall'oppressione e dall'ingiustizia si ritrova nell'antichità e nel Medioevo. Ma non basta volere una società migliore per poterla instaurare. Occorre che le condizioni materiali lo permettano. Anche la rivolta degli oppressi non è nuova: gli schiavi hanno scritto grandi pagine della storia umana con il rifiuto della loro condizione. Tuttavia, queste rivolte erano destinate all'insuccesso perché la situazione materiale, il livello di produzione, non permetteva all'umanità di uscire da uno schema di società di classi e di sfruttamento: fino a che l'umanità avrebbe dovuto gestire la penuria, non avrebbe mai potuto costruire una società giusta. È il capitalismo che permette all'umanità di intravedere questa prospettiva. Oramai, la produzione ha raggiunto un livello che permette di superare la penuria: la preistoria può concludersi. La prospettiva comunista non è più un ideale o un'utopia, è una possibilità materiale ed anche di più: è una necessità per la sopravvivenza della specie umana. È una necessità per fermare il capitalismo nella sua spirale distruttrice che minaccia di riportare l'umanità all'età della pietra.
Ecco cosa fa della decadenza capitalista una decadenza particolare: essa segna la fine della preistoria, la fine della lunga marcia dell'umanità dalla penuria verso l'abbondanza. Ma questa fine non è già scritta nel “destino del mondo”: la fine della preistoria potrebbe essere semplicemente la fine della storia se niente verrà a fermare la barbarie che arroventa il pianeta. Il comunismo non è una certezza: è attraverso una dura lotta che la classe operaia potrà instaurarlo, e l'esito di questa lotta è ignoto. E' per questo che i rivoluzionari devono armarsi il più possibile per poter armare la classe operaia nella sua lotta contro la borghesia e per la costruzione di una nuova società.
La comprensione dell'analisi della decadenza fa parte di questo armamento politico. E' un quadro fondamentale sviluppato dal marxismo fin dalla sua origine. Si parla di decadenza ne "L'ideologia tedesca" di Marx ed Engels scritta ancor prima de "il Manifesto". La decadenza impregna tutta l'analisi marxista dell'evoluzione delle società umane. Mettendo in luce la successione di periodi di ascendenza e di decadenza nella storia, il marxismo permette di comprendere come l'umanità si è potuta organizzare e progredire. Il marxismo permette di comprendere come e perché il mondo è così oggi, ed infine, il marxismo permette di comprendere che è possibile superare questa situazione e costruire un altro mondo.
17 dicembre 2004 G.
1. E' questo che Marx ed Engels, parlando del capitalismo, riassumono nei Principi di una critica dell'economia politica attraverso questa frase: “Al di là di un certo punto, lo sviluppo delle forze produttive diventa una barriera per il capitale; in altri termini, il sistema capitalista diventa un ostacolo per l'espansione delle forze produttive del lavoro. Arrivato a questo punto il capitale, o più esattamente il lavoro salariato, entra nello stesso rapporto con lo sviluppo della ricchezza sociale e delle forze produttive che il sistema delle corporazioni, la servaggio, lo schiavismo, ed esso è necessariamente rigettato come un ostacolo. L'ultima forma dello schiavismo che prende l'attività umana - lavoro salariato da un lato e capitale dell'altro - è allora messa a nudo, e questa messa a nudo stessa è il risultato del modo di produzione che corrisponde al capitale. Essi stessi negazione delle forme anteriori della produzione sociale asservita, il lavoro salariato ed il capitale sono a loro volta negati dalle condizioni materiali e spirituali uscite dal loro processo di produzione. E' attraverso conflitti acuti, crisi, convulsioni che si traduce l'incompatibilità crescente tra lo sviluppo creatore della società ed i rapporti di produzione stabiliti”.
In Iraq si succedono attentati dopo attentati. La morte falcia le vittime a dozzine. L’esercito americano conta fino ad oggi 1276 morti (dei quali più di 100 nell’ultimo mese) e 9765 feriti. L’assalto su Falluja ha fatto almeno 2000 vittime tra i ribelli. Nessun bilancio è stato reso noto circa le dozzine di migliaia di abitanti intrappolati negli scontri che non erano potuti scappare. Il bilancio della guerra è di minimo 15.000 vittime. Una rivista medica inglese avanza un bilancio realistico di almeno 100.000 morti!
Attentato dopo attentato, i media ci snocciolano il conteggio delle vittime, sinistro elenco quotidiano della barbarie tra le tante rubriche dei fatti e delle questioni della società, alla stessa stregua di qualsiasi cronaca d’attualità. Questa banalizzazione dell’orrore, presentato come una fatalità, un fenomeno “naturale” ed infarcita di menzogne e campagne ideologiche sulle sue cause, mira a far accettare al proletariato la barbarie generata dal capitalismo in decomposizione ed a sterilizzare l’indignazione che questa suscita. Questa assuefazione alla barbarie, che grava in continuo sulla coscienza del proletariato, deve essere combattuta in quanto strumento della borghesia per mantenere la passività della classe operaia ed assicurare così il suo dominio di classe sulla società.
L’estensione della barbarie costituisce una delle manifestazioni più mostruose del fallimento del sistema capitalista in putrefazione. Il capitalismo, che sottomette parti sempre più importanti del pianeta al flagello della guerra, rappresenta una minaccia per la civiltà e la sopravvivenza stessa dell’umanità.
Un nuovo balzo nel caos
La più grande operazione delle truppe americane dopo la caduta di Saddam Hussein contro la città di Falluja, così come il proseguimento delle offensive militari “nelle settimane e nei mesi a venire” (come quella del novembre scorso portata avanti da 5000 soldati nel “triangolo della morte” della provincia di Babilonia) non ha portato a nessuna stabilizzazione. Al contrario, la reazione degli Stati Uniti alla perdita di controllo sul paese ormai in piena anarchia ed il forcing che avrebbe dovuto creare le condizioni per la tenuta di elezioni generali destinate a dare credibilità alla loro presenza in Iraq, non fanno che favorire l’implosione dello Stato iracheno nella guerra civile generalizzata e le convulsioni tra le varie cricche presenti sul posto. Gli attentati e gli scontri cruenti si moltiplicano non risparmiando nessuna parte del territorio.
Nella stessa Bagdad gli attacchi avvengono ormai direttamente contro la “zona verde”, il settore ultra protetto del centro. La strada dell’aeroporto, chiusa dopo il lancio di missili contro aerei americani, è ormai fuori dal controllo americano. Scontri in pieno giorno nella città hanno reso necessario l’impiego dei blindati ed la chiusura di interi quartieri. Ramadi è passata sotto il controllo della guerriglia. Scontri hanno avuto luogo, al Nord, a Balad, Baji e Baaquba. Mossul, la capitale curda è stata presa e mantenuta per tre giorni dagli insorti rifugiati di Falluja I peshmerga curdi, che formano il grosso della guardia nazionale irachena impegnata a Falluja e nella ripresa di Mossul, sono sempre più implicati negli scontri.
La presa di Falluja (città che “ha fornito un buon numero degli ufficiali dell’esercito e dei servizi di sicurezza di S. Hussein, che hanno partecipato alla repressione degli Sciiti” (1) e rifugio di questi quadri dell’antico regime dopo la prima battaglia di Falluja), fatta con la tacita approvazione delle autorità sciite, acuisce le tensioni tra Sciiti e Sunniti: “Hilla, città sciita, e Latifiya, città sunnita, si sono date ad una guerra larvata a colpi di assassini, di imboscate e di rapimenti” (2). E’ stata già creata una milizia sciita antisunnita. In più la divisione degli uni e degli altri di fronte agli scrutini prospetta cruenti regolamenti di conti tra frazioni rivali. Rappresentando il 60% della popolazione in Iraq, e da tempo estromessi dal potere sotto S. Hussein, gli Sciiti condotti dall’ayatollah Al-Sistani sono i più calorosi partigiani della tenuta delle elezioni da cui sperano di trarre profitto. Mentre la frazione sciita di Moktada Al-Sadr, che quest’anno ha condotto due insurrezioni anti-americane, rifiuta di parteciparvi a causa delle persecuzioni contro i suoi partigiani.
Nemici da sempre, le principali organizzazioni curde dell’UPK e dell’UDK, per l’occasione si uniscono. Tra i Sunniti, il fronte del rifiuto degli scrutini si è lesionato: se la principale organizzazione, il Comitato degli Ulema, mantiene la parola d’ordine del boicottaggio, varie organizzazioni sunnite hanno deciso di giocare la loro carta, in particolare il Partito Islamico, uscito da Fratelli mussulmani. Assassini politici e omicidi di personalità già si moltiplicano all’interno di questa tana di lupi.
L’aumento degli attentati terroristici all’avvicinarsi delle elezioni non si alimenta solo di per sè stesso: questa è l’arma di guerra che utilizzano sottobanco gli imperialismo rivali agli Stati Uniti al fine di indebolire la posizione americana.
Le rivalità imperialiste alimentano la barbarie
A dispetto del loro indebolimento a livello mondiale ed in Iraq dove sono previsti nuovi ritiri di truppe (da parte dell’Ungheria a fine dicembre, dai Paesi Bassi in marzo), gli Stati Uniti rispondono colpo su colpo, come lo dimostra la tenuta della conferenza sull’Iraq di Sharm-el-Sheihk del 25 novembre. Innanzitutto questa consacra il ritorno degli Stati Uniti nell’ONU, il che gli permette di conferire alle proprie imposizioni imperialiste la legittimità del “diritto internazionale”, accordato dalla risoluzione 1546 che serve da base alla risoluzione adottata, e di imporsi momentaneamente rispetto ai rivali, in particolare alla Francia. Gli Stati Uniti sono riusciti a dare un colpo all’imperialismo francese facendo passare i suoi tentativi di aumentare la propria influenza in Iraq per vane gesticolazioni: la Francia, “che era stata la prima, insieme alla Russia, a reclamare la tenuta di una conferenza internazionale sull’Iraq, ha dovuto rivedere al ribasso le sue ambizioni. Mentre reclamava un calendario per il ritiro delle truppe della coalizione, dovrà accontentarsi di un vago ricordo del carattere temporaneo della loro presenza in Iraq” (3). Inoltre è stata rigettata la sua proposta di aprire la conferenza non ai soli protetti degli americani al potere a Bagdad, ma a tutte le forze politiche irachene, “compreso un certo numero di gruppi o persone che attualmente hanno scelto la via della resistenza con le armi” (4), provando a tutti quelli che speravano nel sostegno della Francia che essa non dispone dei mezzi per mettere in opera le sue pretese.
Infine, facendo piegare la Francia, che con il sostegno di Mosca e di Berlino rifiutava uno sgravio superiore al 50% a beneficio di una cricca sotto tutela americana, l’accordo sulla riduzione dell’80% del debito iracheno, è un ulteriore successo americano.
L’Iraq costituisce il punto nevralgico degli scontri tra potenze in competizione per la difesa del proprio posto imperialista nel mondo. La fuga in avanti nel ricorso alla forza militare da parte degli Stati Uniti (che porteranno il loro dispositivo militare da 142.000 a 150.000 uomini alla fine di gennaio), così come la maggiore virulenza nella risposta che questa determina, non solo accelerano la disintegrazione dell’Iraq, ma estendono l’onda di choc su tutti i paesi vicini rafforzandovi le tendenze centrifughe. Dalla Palestina al Pakistan, dall’Arabia al Caucaso, la destabilizzazione della zona strategica più importante del mondo capitalista ha e avrà delle conseguenze importanti su tutta la situazione mondiale. La caduta nel caos di tutta la regione illustra drammaticamente che nella fase di decomposizione del capitalismo, le rivalità imperialiste e l’uso ripetuto della forza militare (che estende il conflitto e lo rende meno controllabile), costituiscono il fattore essenziale dello sviluppo senza precedenti della barbarie.
Scott 15 dicembre
1. Libération del 16 novembre 2004
2. idem
3. Libération del 22 novembre 2004
4. M. Barnier, idem
Nonostante l'abbassamento del dollaro e il rialzo del petrolio, gli specialisti delle previsioni economiche vogliono essere rassicuranti visto che i tassi di crescita per il 2004 sono positivi: il 4,7% per gli USA, il 3% per il Giappone, l’1,6% per la zona euro, il 9,1% per la Cina nei primi tre trimestri del 2004. Come interpretare questi risultati? L'economia mondiale andrebbe meglio? Gli Stati Uniti e soprattutto la Cina, che la borghesia presenta come un nuovo Eldorado, possono essere le locomotive del mondo per il rilancio dell’economia, compresa quella europea?
Per rispondere a queste domande è necessario innanzitutto analizzare la situazione della prima potenza mondiale, per rendersi conto di come la borghesia cerca di nascondere al proletariato il fallimento crescente del suo sistema.
L'indebitamento colossale dell'economia americana non è più possibile
Se c'è una cosa sulla quale l'insieme degli specialisti dell'economia mondiale non si sbaglia, è sulla gravità dell'indebitamento della prima potenza mondiale. Per rilanciare la macchina economica, l'amministrazione americana ha lasciato correre i deficit pubblici e commerciali. Ha finanziato in modo artificiale il consumo famigliare (questo consumo rappresenta più dei due terzi del PIL americano e ha un'influenza determinante sull'attività economica) attraverso l'abbassamento massiccio delle tasse a favore delle famiglie deciso dopo la recessione del 2001 (in effetti, ci sono stati abbassamenti ripetuti nel 2001, 2002, 2003, e 2004, per un totale di 1900 miliardi di dollari su 10 anni) ed ha portato i tassi di interesse dei prestiti bancari ai più bassi livelli dal 1945 ad oggi (la FED ha abbassato il tasso di prestito al 1%). Nonostante queste misure la crescita economica è ricaduta al 3,5% contro il 5% di qualche mese fa. La fiducia dei consumatori è ulteriormente scesa nell'ottobre 2004 al suo livello più basso livello negli ultimi 7 mesi, ed i deficit non cessano di approfondirsi. L'amministrazione americana parla anche di "doppi deficit" per qualificare la loro gravità. Il deficit di bilancio si è alzato a 413 miliardi di dollari, dopo i 377 miliardi di dollari del 2003. Gli esperti si aspettano un accumulo di 3000 miliardi di dollari di debiti supplementari da qui al 2011. "Il governo deve prendere in prestito oggi 1,1 miliardi di dollari al giorno e spende di più per assicurare il servizio degli interessi del debito (159 miliardi), ciò che corrisponde alla somma dei budget dell'educazione, della sicurezza interna, della giustizia, della polizia, dei vecchi combattenti, dell'esplorazione spaziale e dell'aiuto internazionale" (Le Monde del 4 novembre). In quanto al deficit commerciale, esso supera i 650 miliardi di dollari, il 5,7% del PIL. La situazione non è migliore per gli altri Stati capitalisti. L'impennata del petrolio e la volata dell'euro dovrebbero riportare i tassi di crescita in Europa al massimo al 2%, in un contesto dove i debiti pubblici non smettono di crescere e dove nessuno Stato europeo è in grado di rispettare il 3% del deficit, fissato dal trattato di Maastricht. Più del 4,1% di deficit per la Francia, 3,9 per la Germania, 3,2 per l'Inghilterra, il doppio dell'anno precedente, più del 4% per l'Italia.
L'abbassamento del dollaro: una manifestazione dell'acuirsi della guerra commerciale
I vertici del G7 si susseguono e si somigliano tra loro per il fatto che dietro i discorsi unitari e volontaristici per avere delle politiche comuni, nella realtà poi succede tutto il contrario. L'aggravamento della crisi e particolarmente dell'indebitamento americano, con i rischi inflazionistici che comporta, tende ad accrescere l'aspetto concorrenziale che è alla base stessa del sistema capitalista. Con l'abbassamento dei tassi di interesse l'amministrazione americana ha sviluppato una politica di abbassamento del dollaro nei confronti dell'euro, la principale moneta concorrente, per potere guadagnare parti di mercato nell'esportazione e fare abbassare il livello del suo debito finanziario. Questa politica di "svalutazione competitiva" è stata già utilizzata dagli Stati Uniti negli anni 1980 e nel 1995. Ciò che differisce oggi è il contesto in cui il governo americano utilizza questo abbassamento del dollaro; e cioè l'accumulo senza precedenti dell'indebitamento della sua economia. Nonostante la pressione sulle potenze economiche rivali permesse dall'abbassamento del dollaro, le esportazioni americane rappresentano sempre il 75% delle importazioni, rendendo ancora più temibile l'insolvenza del debito americano. In questa guerra economica che imperversa, mentre il dollaro ha perso il 25% del suo valore, il deficit estero si appresta a superare il 5,5% del PIL americano. "Riportarlo sotto al 3,5% del PIL, ciò che sembra l'obiettivo, necessita senza dubbio un deprezzamento supplementare del dollaro del 35% contro ogni moneta. L'abbassamento del biglietto verde è il tentativo per cercare di condurre l'economia americana verso migliori equilibri. L'euro dovrebbe salire a 1,70 per 1 dollaro, penalizzando molto le esportazioni europee" (Les Echos del 6 novembre). Di fronte a questa prospettiva di un abbassamento senza precedenti del dollaro, i principali paesi europei ed il Giappone (la cui piccola ripresa economica è basata sul rilancio delle esportazioni) minacciano apertamente gli Stati Uniti di un intervento sui mercati finanziari attraverso le loro banche centrali per fare risalire la moneta americana. La gravità della situazione attuale non risiede tanto nella concorrenza tra i paesi industrializzati, che è del resto l'essenza stessa del capitalismo, quanto nella tendenza di questa, nel cuore stesso del capitalismo (Stati Uniti, Canada, Europa, Giappone), a rimettere in causa quel minimo di intesa che è esistita fino ad ora tra le grandi potenze per respingere gli effetti della crisi sul resto del mondo.
Il rialzo del prezzo del petrolio, un fattore aggravante della crisi
In questo contesto di indebitamento mostruoso dei principali paesi e di abbassamento del dollaro, la volata del prezzo delle materie prime, e particolarmente del petrolio, è venuta a rievocare lo spettro dell'inflazione che ha devastato l'economia mondiale durante gli anni 1970. Da qui la messa in guardia del FMI: "Aspettare troppo a lungo prima di reagire ai primi segni dell'inflazione, potrebbe risultare oneroso da riparare, e costerebbe alle banche centrali una parte della credibilità che hanno impiegato tanto tempo a costruire negli anni 1980 e 1990" (Le Monde, 1 ottobre). Nonostante questa messa in guardia, gli esperti borghesi focalizzano l'attenzione sulle cause di questo rialzo che sarebbe dovuto ad una forte domanda di petrolio a livello mondiale, particolarmente da parte della Cina e degli Stati Uniti ed ad una certa instabilità a livello di approvvigionamenti che, sempre secondo gli esperti, sarebbe solamente provvisoria se certi paesi produttori potessero aumentare la loro quota di produzione. Al contrario, l'analisi marxista pone questo fenomeno in una cornice di analisi più globale. Contrariamente ai rialzi precedenti del ‘73, ‘79 o del ‘97 e 2000, utilizzati dagli Stati Uniti nella guerra commerciale contro gli altri, in particolare l'Europa ed il Giappone (vedi "Il rialzo del prezzo del petrolio: una conseguenza e non la causa della crisi" nella Revue Internationale n°19), questo rialzo ha fortemente penalizzato l'economia in generale e particolarmente il consumo delle famiglie americane, in un contesto dove gli Stati Uniti sono obbligati ad importare molto più petrolio che in passato. Il prezzo elevato del petrolio si ripercuote immediatamente in un aggravamento del deficit del budget americano, tanto più che il petrolio è pagato in dollari e dunque, tendo conto del cambio, costa più caro agli americani che alle economie europee (che pagano il barile con una moneta, il dollaro, meno cara della loro propria moneta, l'euro). L’aumento del prezzo del petrolio mostra, quindi, la gravità della crisi economica ed allo stesso tempo il legame che c’è con le guerre attuali. Malgrado la dimensione speculativa che riguarda unna parte di questo rialzo del petrolio (stimata dagli esperti tra i 4 e gli 8 dollari) questo è anche l'espressione del peso crescente del caos e della barbarie a scala mondiale. I primi fattori ne sono l'incapacità degli Stati Uniti a far ripartire la produzione irachena a causa del pantano militare in cui stanno affondando, le minacce di attentati contro le installazioni del primo produttore mondiale di petrolio, che è l'Arabia Saudita, le agitazioni sociali nel Venezuela ed in Nigeria. Questo insieme di avvenimenti dimostra che non c'è da un lato l'aspetto economico e dell'altro l'aspetto militare o imperialistico, ma al contrario un'interpenetrazione sempre più forte dell'insieme di questi fattori che si alimentano a vicenda portando ad una situazione sempre più caotica e sempre meno controllabile dalla borghesia. L'instabilità ed il disordine crescente del mondo capitalista alimentano l'instabilità economica che di conseguenza può solo produrre maggiore instabilità militare.
L'aumento dei budget militari
In questo contesto di indebitamento astronomico dell'economia mondiale e particolarmente della prima potenza, è necessario denunciare l'aumento delle spese militari che costituisce un fattore supplementare dell'aggravamento dei deficit di bilancio e ciò a scapito dei budget civili che si riducono all’osso per finanziare l'indicibile barbarie che si estende.
Dallo scoppio della guerra in Iraq fino all'occupazione attuale del paese, gli Stati Uniti hanno speso 140 miliardi di dollari. Questo sforzo non è sufficiente poiché "il Pentagono ha appena richiesto, all'inizio di novembre, un supplemento di 70 miliardi di dollari per finanziare le operazioni militari nel 2005" (Le Monde, 9 novembre). Il budget del Pentagono dovrebbe superare nel 2005 i 400 miliardi di dollari, escluso il costo delle guerre in Iraq ed in Afghanistan, il che rappresenta quasi la metà delle spese militari mondiali (esattamente il 45%).
Se si fa il paragone con le guerre precedenti, ci si rende conto del costo esorbitante delle spese attuali: la Prima Guerra mondiale è costata 190,6 miliardi di dollari all'economia americana, la Seconda 2.896,3 miliardi di dollari, la prima guerra del Golfo nel 1991 ha assorbito 76,1 miliardi di dollari in soli alcuni mesi (da "Problemi economici" del 1 settembre 2004").
Ma gli altri Stati non sono da meno. Dalla fine degli anni ‘90 l'insieme dei budget militari è in rialzo a scala mondiale. Si può citare a titolo indicativo il caso della Francia dove nonostante il budget dell'esercito francese sia aumentato in modo significativo in questi anni, il governo ha deciso la concessione di "550 milioni di euro supplementari per finanziare l'impegno militare in corso in Costa d'Avorio e 100 milioni in più per altre operazioni esterne. Queste spese saranno fatte sulle spalle dei ministeri civili" (Les Echos, 10 novembre).
Contrariamente a ciò che racconta la borghesia, quello che viene speso nella sfera militare non è destinato alla riproduzione di capitale produttivo ma corrisponde alla distruzione pura e semplice di capitale investito. Questo significa che lo sviluppo del militarismo e l'aumento delle spese che ne consegue è un peso supplementare che accentua il marasma economico.
Dietro le cifre della sedicente crescita capitalista per il 2004, si nasconde in realtà una nuova drammatica tappa dell'aggravamento della crisi che mostra il fallimento del modo di produzione capitalista.
Donald (12 dicembre)
Sempre più spesso capita di sentire militanti o simpatizzanti del centrosinistra esprimere meraviglia e sconcerto per le continue polemiche che dividono i vari esponenti dei partiti dell'opposizione di centrosinistra; e non tanto le due ali estreme della coalizione, come Bertinotti e Di Pietro, che anzi in linea di massima si ignorano, quanto i due partiti principali della coalizione, DS e Margherita, o addirittura - il che é ancora più incomprensibile - all'interno della stessa Margherita, in cui non passa giorno senza che Rutelli tiri qualche frecciata a Prodi o che gli crei problemi con qualche dichiarazione che provoca reazioni negli alleati, (come la recente uscita sulla necessità di superare la socialdemocrazia). Ed effettivamente la maggior parte di queste polemiche sono incomprensibili, perché non sono legate a grandi questioni di principio o a scelte concrete, ma sembrano solo azioni masochistiche o che esprimono ambizioni personali (e tali sono sicuramente quelle di Rutelli, che non nasconde la voglia di contendere il posto a Prodi e che per questo ci tiene a comparire tutti i giorni sui giornali con le sue dichiarazioni). Ma anche cosi' restano incomprensibili, perché dovrebbe essere chiaro anche a Rutelli che solo Prodi, oltre a rappresentare un buon punto di equilibrio all'interno della coalizione, ha il carisma e l'esperienza per poter battere Berlusconi, per cui indebolire Prodi significa solo rischiare di perdere le prossime elezioni. Percio' il popolo della sinistra si dice: ma come, il governo Berlusconi é cosi' debole che basterebbe un soffio per buttarlo giù, e questi si mettono a litigare con il risultato che Berlusconi resta li' nonostante tutto? Ed effettivamente il governo Berlusconi non sembra godere di grande solidità, viste le insoddisfazioni di tanta parte degli altri poteri economici e statali (Presidente della Repubblica, magistratura, Confindustria), e le divisioni interne alla coalizione che, pure qui, portano a continui e clamorosi litigi sui più diversi argomenti. Anzi, nel caso della coalizione di centrodestra le divisioni sono ancora più marcate: basti pensare alla innaturale coabitazione tra una forza federalista, e tendenzialmente secessionista, come le Lega e una ultranazionalista e centralista come Alleanza Nazionale. Ed infatti le divisioni vengono superate solo grazie all'abilità di Berlusconi che riesce a trovare dei contentini per ognuna delle forze della coalizione.
Queste divisioni dunque sono un fatto non limitato al centrosinistra e caratterizzano, da un po' di tempo a questa parte, la vita della borghesia italiana nel suo insieme. Non stiamo parlando, insomma, della classica divisione tra due schieramenti opposti portatori di diverse concezioni della gestione della cosa pubblica, con ipotesi di scelte economiche o ancora di schieramento imperialista diversi, ma di divisioni interni alle stesse coalizioni le cui motivazioni sono spesso di piccoli interessi di bottega, di mera visibilità di questo o quel leader, ecc. Certamente non c'é nessun confronto-scontro fra due grandi progetti di gestione e crescita della società. E' quanto lamentano i vari girotondini tra le fila dei simpatizzanti di centrosinistra, ma anche i seguaci più appassionati del centrodestra, quelli a cui non basta la soddisfazione della gestione del potere (vedi ad esempio i simpatizzanti della cosiddetta destra sociale).
Ma se nessuna frazione della borghesia ha un progetto da proporre alla società perché é il sistema che esse rappresentano e difendono che non ha più niente da offrire alle popolazioni, e non solo in Italia, ma nel mondo intero. Alle scorse elezioni politiche Berlusconi ha provato a far credere di avere un progetto (e su questa base é riuscito a vincere le elezioni), ma dopo tre anni si é visto quanto erano promesse senza fondamento, in particolare oggi con il trucco della riduzione delle tasse, che in realtà riguarda pochi cittadini ed é ampiamente riassorbito da tutti gli aumenti o riduzioni di prestazioni con cui questa riduzione delle tasse é stata finanziata.
Oggi é proprio l'incapacità del capitalismo, nella sua fase di decadenza (1), a fare funzionare la sua economia, a soddisfare anche i minimi bisogni immediati dell'umanità, che gli impedisce di presentare una qualche prospettiva, una speranza ed un programma per il futuro. La crisi storica del capitalismo porta invece a due sole possibilità: o la guerra imperialista generalizzata per una nuova divisione del mondo fra le potenze imperialiste, o la rivoluzione proletaria per porre fine alle miserie e alle sofferenze imposte dal capitalismo decadente. Ma quello che si é sviluppato da almeno tre decenni a questa parte é che nessuna delle due principali classi della società riesce ad imporre la sua soluzione ai problemi posti dalla situazione storica, per cui si é verificata una situazione di stallo storico che comporta una decomposizione della società (2). Questa situazione di stallo infatti non significa che la società puo' andare avanti sempre alla stessa maniera, come se niente fosse. Invece l'impossibilità di dare una risposta ai problemi materiali della società comporta un degrado della situazione complessiva, economica e sociale, che fa degenerare ogni aspetto della vita sociale, non più cementata dall'esistenza di una prospettiva credibile e visibile. Questo processo di decomposizione, di sfaldamento investe, a vari livelli, anche la classe dominante facendo prevalere al suo interno gli interessi particolari, di frazione, delle varie componenti politiche anche a scapito, in una certa misura, degli interessi più generali dell'economia nazionale.
Sarebbe pero' un errore pensare che queste divisioni interborghesi rendano più facile al proletariato intraprendere la strada della sua lotta. Se c'é qualcosa di fronte alla quale la borghesia non perde mai la sua unità di intenti é il pericolo proletario, e non é una caso se anche in Italia la borghesia, nonostante tutte le sue divisioni interne, riesce ad esprimere un governo che dura tutta la legislatura. I proletari non possono farsi alcuna illusione: i vari Berlusconi, Bossi, Rutelli, Prodi e lo stesso Bertinotti (nonostante la sua veste 'comunista') possono litigare tra loro quanto vogliono, ma di fronte alla necessità di mantenere l'economia nazionale a galla e continuare ad avere un posto tra gli altri Stati imperialisti, sono tutti pronti a colpire ancora di più i lavoratori. Lo hanno dimostrato più volte e non mancheranno di farlo ancora. I proletari possono contare solo sulla propria unità perdendo ogni illusione che una di queste frazioni della borghesia sia meno peggio dell'altra, di destra o di sinistra che sia.
Helios
1. vedi in questo stesso numero l'articolo "Il concetto marxista di decadenza del capitalismo"
2. Per una descrizione più completa del fenomeno della decomposizione, vedere l'articolo sulla Rivista Internazionale n. 14
L'anno 2004 si è concluso con un'immensa tragedia umana in Asia del sud. Un sisma di una violenza eccezionale ha provocato un maremoto nell'oceano indiano che ha devastato non meno di dodici paesi rivieraschi. In alcune ore, alcuni tsunami hanno provocato più di 160.000 morti, decine di migliaia di dispersi, centinaia di migliaia di feriti, cinque milioni di sfollati. Questo spaventoso bilancio è purtroppo provvisorio perché numerose zone, in particolare dell'Indonesia, della Tailandia o dello Sri Lanka, non sono accessibili poiché l'insieme della rete stradale è stato distrutto.
In queste regioni costiere, villaggi interi sono stati spazzati via, centinaia di pescherecci fracassati ed acque salmastre hanno devastato le culture, lasciando più di cinque milioni di persone senza riparo, senza cibo né acqua potabile, e ciò non può che provocare nuove vittime. Le organizzazioni umanitarie temono ondate di epidemie mortali con decine di migliaia di morti. Ancora una volta, sono gli strati più poveri della popolazione, ed in particolare i proletari che lavorano nell'industria del turismo, ad essere le principali vittime di questa tragedia.
Il solo responsabile della catastrofe umana è il capitalismo
Come di fronte ad ogni catastrofe di questo genere, si invoca l'impotenza degli uomini di fronte a "madre natura", la sfortuna, la fatalità, o ancora la povertà dei paesi sinistrati che non possono acquistare la tecnologia per essere avvertiti su tali cataclismi. Fesserie e menzogne!
Come e perché un fenomeno naturale e molto conosciuto come lo tsunami ha potuto in alcune ore trasformarsi in una catastrofe sociale di una tale ampiezza?
Evidentemente non si può accusare il capitalismo di essere all'origine del sisma che ha provocato questo gigantesco maremoto. Tuttavia possiamo mettere al suo attivo la totale incuria e l'irresponsabilità dei governi di questa regione del mondo e dei loro omologhi occidentali, che hanno condotto a questa immensa catastrofe umana.
Tutti sapevano, infatti, che questa regione del globo è particolarmente esposta alle scosse sismiche.
"Pertanto, gli esperti locali sapevano che un dramma si preparava. A dicembre, in margine di una riunione di fisici a Giacarta, dei sismologhi indonesiani avevano evocato l'argomento con un esperto francese. Essi erano perfettamente coscienti del pericolo di tsunami perché ci sono continuamente dei sismi nella regione" (Libération, 31/12/04).
Non solo gli esperti sono informati, ma in più l'ex-direttore del Centro internazionale di informazione sugli tsunami a Hawaii, George Pararas-Carayannis, indica che un sisma maggiore si è prodotto anche 2 giorni prima della catastrofe del 26 dicembre. "L'oceano indiano dispone di infrastrutture di base per le misure sismiche e le comunicazioni. E nessuno avrebbe dovuto sorprendersi, poiché un sisma di magnitudine 8,1 si era prodotto il 24 dicembre. Questo avrebbe dovuto mettere in allerta le autorità. Ma manca innanzitutto la volontà politica dei paesi coinvolti, ed un coordinamento internazionale a livello di quello che si è costruito nel Pacifico" (Libération, 28/12/04).
Nessuno avrebbe dovuto sorprendersi e tuttavia il peggio è arrivato. Ma l'incuria delle classi dirigenti non si ferma qui!
Quando il centro meteorologico americano delle Hawaii ha annunciato prontamente a 26 paesi, quindici minuti dopo il sisma, la possibilità di tsunami vicino all'epicentro, l'agenzia meteorologica del Giappone non ha passato l’informazione ai suoi vicini, poiché il bollettino meteorologico era rassicurante per il Giappone.
In India, il Q.G. dell'aeronautica militare ha ricevuto la notizia, ma questa deve seguire un percorso molto gerarchico e burocratico. Il fax di allerta si è perso per strada perché il dipartimento meteorologico non aveva il nuovo numero di fax del ministero della ricerca: questo era stato cambiato col nuovo governo dal mese di maggio 2004! "Stesso scenario in Tailandia dove il dipartimento di meteorologia non ha osato lanciare l’allerta nazionale per timore di provocare un inutile panico generale. Sapeva tuttavia che un terremoto di grande ampiezza si era prodotto fin dalle ore 8,10 e cioè molto prima che lo tsunami colpisse le rive di Phuket" (Libération, 31/12).
La semplice prudenza (senza contare il principio di precauzione), esigeva la messa in allerta delle popolazioni. Anche senza i mezzi tecnici di cui sono dotati gli Stati Uniti ed il Giappone, c'erano sufficienti informazioni disponibili sulla catastrofe in preparazione, per agire ed evitare questa carneficina.
Questa non è negligenza, è una politica criminale che rivela il profondo disprezzo della classe dominante per le popolazioni ed il proletariato che sono le principali vittime della politica borghese dei governi locali!
In effetti, oggi è riconosciuto chiaramente, in modo ufficiale, che l'allerta non è stata lanciata per timore di … danneggiare il settore turistico! In altre parole, è per difendere dei sordidi interessi economici e finanziari che decine di migliaia di esseri umani sono stati sacrificati.
Questa irresponsabilità dei governi è una nuova dimostrazione dello stile di vita di questa classe di squali che gestisce la vita e l'attività produttiva della società. Gli Stati borghesi sono pronti a sacrificare altrettante vite umane, se ciò è necessario, per preservare lo sfruttamento ed i profitti capitalisti.
Sono sempre gli interessi capitalisti che dettano la politica della classe dominante, e nel capitalismo la prevenzione non è un'attività redditizia, come lo riconoscono oggi tutti i media: "Dei paesi della regione avrebbero fino a quel momento fatto orecchio da mercante rispetto al mettere in piedi un sistema di allerta a causa degli enormi costi finanziari. Secondo gli esperti, un dispositivo di allerta costerebbe decine di milioni di dollari, ma permetterebbe di salvare decine di migliaia di vite umane" (Les Échos, 30/12).
Quando si vedono, attraverso interminabili reportage televisivi, queste decine di migliaia di morti, di famiglie decimate, di bambini orfani, non possiamo che provare un profondo disgusto nel sentire i responsabili di questi massacri annunciare, con un cinismo abietto, che adesso faranno di tutto per dotare il continente asiatico di un sistema di localizzazione di sismi e di tsunami, come negli Stati Uniti ed in Giappone.
Il dramma umano che si è appena svolto in Asia del sud è una nuova manifestazione della barbarie spaventosa di un sistema che conduce l'umanità alla sua scomparsa. Perché il vero responsabile delle catastrofi a ripetizione è proprio questo sistema decadente. L'anno scorso è stato un terremoto in Iran a fare decine di migliaia di morti, e giusto prima di questo in Turchia, in Armenia, ecc. Si ammassano popolazioni su zone sismiche, in costruzioni precarie, mentre esiste la tecnologia per evitare che i fenomeni naturali possano provocare tali catastrofi sociali.
Se lo tsunami nell'oceano indiano ha fatto anche altrettante vittime tra i vacanzieri, è perché il capitalismo ha sviluppato dei complessi turistici in modo totalmente anarchici distruggendo in particolare le mangrovie che servono da protezione naturale perchè capaci di attenuare la forza delle onde ed i proiettili trasportati dal maremoto.
È la stessa realtà aberrante che si ritrova nei paesi industrializzati, dove si costruiscono abitazioni in zone potenzialmente inondabili e pericolose per la vita della popolazione.
Più che mai il capitalismo, che si basa sulla ricerca sfrenata del profitto e della redditività e non sulla soddisfazione dei bisogni umani, può generare solamente delle nuove catastrofi. Mentre il fiorire del capitalismo aveva permesso lo viluppo di un formidabile potenziale tecnologico ed industriale e la tendenza ad una certa padronanza sulla natura, questo sistema, nella sua fase decadente, non è più capace di far avanzare l'umanità, di farla progredire. È al contrario la natura che sembra "riprendersi i suoi diritti", nello stesso momento in cui lo sviluppo della tecnologia potrebbe permettere all'umanità di vivere in armonia con essa.
Il capitalismo è oggi un sistema sociale in decomposizione. È diventato un ostacolo ed una minaccia per la sopravvivenza della specie umana. Alle spiegazioni parziali ma soprattutto immonde e ciniche della classe dominante, i rivoluzionari devono opporre l'analisi del marxismo.
"A mano a mano che il capitalismo si sviluppa per poi marcire, prostituisce sempre più questa tecnica, che potrebbe essere liberatrice, ai suoi bisogni di sfruttamento, di dominio, e di saccheggio imperialista, al punto di arrivare a trasmetterle la sua propria putrefazione ed a ritorcerla contro la specie (…) E’ in tutti i campi della vita quotidiana delle fasi 'pacifiche', che vuole consentirci, tra massacri imperialistici o operazioni di repressione, che il capitale, sottoposto incessantemente alla ricerca di un migliore tasso di profitto, ammucchia, avvelena, asfissia, mutila, massacra gli individui umani tramite la tecnica prostituita (...) Il capitalismo non è più innocente delle catastrofi dette 'naturali'. Senza ignorare l'esistenza di forze della natura che sfuggono all'azione umana, il marxismo mostra che proprio delle catastrofi sono state provocate indirettamente o aggravate dalle cause sociali (...) La civiltà borghese non solo può provocare direttamente queste catastrofi per la sua sete di profitto e per l'influenza predominante della macchina amministrativa sull'affarismo (...), ma essa si rivela anche incapace di organizzare una protezione efficace nella misura in cui la prevenzione non è un'attività redditizia". (A. Bordiga, "Specie umana e crosta terrestre")
L'ipocrisia ed il cinismo della borghesia mondiale
Di fronte alla gravità della catastrofe ci sono voluti parecchi giorni alla borghesia internazionale per mobilitarsi e mandare dei soccorsi nei paesi colpiti dalla catastrofe. E questi devono ancora essere messi nelle condizioni di operare sul campo: ad esempio, un ospedale mobile inviato dalla Francia in Indonesia aspetta da più di due settimane l'arrivo degli elicotteri per trasportarvi il materiale e le squadre mediche.
Quando si tratta di difendere i loro interessi imperialisti, nelle pretese guerre "umanitarie", questi Stati hanno sempre dato prova di un'estrema rapidità nel mandare truppe, materiale e congegni tra i più sofisticati per bombardare le popolazioni e seminare la morte ai quattro angoli del pianeta. Allo stesso modo, tutti questi gangster capitalisti non hanno mai esitato ad investire delle somme formidabili nella produzione di armamenti e per distruggere interi paesi.
In quanto all'aiuto finanziario promesso in un primo tempo dai governi di tutti i paesi, e particolarmente dai più sviluppati, questo era talmente irrisorio che il segretario aggiunto dell'ONU, Jan Egeland, ha accusato di taccagneria la "comunità internazionale".
Di fronte all'ampiezza del disastro, i differenti Stati capitalisti si sono inoltre comportati da veri avvoltoi, ognuno di loro ha fatto lievitare le offerte solo per apparire come il più "generoso" di fronte ai rivali.
Gli Stati Uniti hanno proposto 350 milioni di dollari al posto dei 35 annunciati inizialmente (mentre spendono 1 miliardo di dollari a settimana per la guerra in Iraq e 1 miliardo al mese per quella in Afghanistan!), il Giappone 500 milioni, l'Unione Europea 436 milioni. La Francia ha anche creduto per un momento, con i suoi 50 milioni, di porsi alla testa dei paesi donatori (mentre i suoi interventi militari le costano un miliardo di euro all’anno); poi è stata la volta dell'Australia, dell'Inghilterra, della Germania, e così via.
Ogni volta, come in una vendite all’asta, questo o quello Stato ha proposto un'offerta di denaro superiore a quella del vicino.
Questo rilancio verbale è tanto più nauseante in quanto è nei fatti una pura mascherata, le promesse di donazioni sono spesso poco seguite dai fatti. Possiamo ricordare che questa "comunità internazionale" di briganti capitalisti aveva promesso 115 milioni di dollari in seguito al sisma che aveva scosso l'Iran nel dicembre 2003 e Tehran non ha ricevuto fino ad oggi che 17 milioni di dollari. Lo stesso è avvenuto con la Liberia: 1 miliardo di dollari promesso e 70 milioni raccolti.
Gli esempi non mancano, senza contare tutti quei conflitti che cadono nell'oblio e l'orrore e per i quali non c'è nemmeno stata una promessa, come il Darfour o il Congo, con drammi umani dell'ampiezza dello tsunami asiatico.
In quanto alla proposta di moratoria di rimborso dei debiti dei paesi toccati dalla catastrofe, questa è una bolla d’aria che si sgonfierà velocemente, perché si tratta semplicemente di un rinvio delle scadenze degli interessi del debito e non di una loro cancellazione. Del resto, i cinque paesi più indebitati tra quelli che sono stati colpiti dal maremoto dovranno rimborsare 32 miliardi di dollari l'anno prossimo, dieci volte più di ciò che si suppone ricevere a titolo di "aiuto umanitario" (che è probabilmente gonfiato rispetto a ciò che riceveranno realmente). Evidentemente questi paesi non hanno il privilegio di essere occupati dall'esercito americano come l'Iraq: avrebbero potuto allora beneficiare di un annullamento puro e semplice del loro debito.
La borghesia non solo ci racconta delle sfacciate fesserie a proposito della sua sedicente "generosità", ma in più, ci nasconde i veri obiettivi di questo slancio "umanitario."
L'aiuto "umanitario" dei governi non è in realtà nient’altro che un pretesto per mascherare i propri appetiti imperialisti
Dietro la cortina di fumo ideologica della propaganda umanitaria, è sorprendente vedere la sollecitudine di ogni Stato nel mandare i suoi rappresentanti sui luoghi della catastrofe prima degli altri, in modo concorrenziale, mentre un tale disastro avrebbe necessitato di un coordinamento internazionale dei soccorsi. In effetti, ogni borghesia nazionale difende i propri interessi di potenza capitalista ed imperialista in una regione che rappresenta un posto strategico e militare.
Le profonde divergenze di interessi tra i differenti Stati imperialisti che si erano manifestate a proposito dell'Afghanistan o dell'Iraq, le vediamo riapparire qui. La Francia manda il suo ministro degli Affari esteri con un aereo pieno di medicinali e Chirac, col sostegno della Germania, propone di creare una forza umanitaria di reazione veloce, forza che sarebbe sotto il controllo degli Stati europei, ma al servizio dell'ONU.
La replica americana non si è fatta aspettare: gli Stati Uniti non solo mandano navi, aerei e truppe militari nell'oceano indiano, ma annunciano anche la creazione di una coalizione internazionale umanitaria, con l'Australia, il Giappone e l'India, per "coordinare i soccorsi".
Come per la guerra in Iraq, la politica americana mira a mostrare alle altre potenze che gli Stati Uniti sono i padroni e che, in queste circostanze, intendono ancora di più difendere la loro leadership. Il segretario di Stato, Colin Powell, ed il fratello del presidente Bush vengono inviati sul posto per esaltare "i valori americani in azione". Colin Powell, che è stato comandante in capo degli eserciti americani all'epoca della prima guerra del Golfo e che in particolare ha ordinato di seppellire, ancora vivi, i soldati delle prime linee irachene, ha avuto anche la sfrontatezza di versare lacrime di coccodrillo durante un sorvolo in elicottero della regione di Banda Aceh, dichiarando: "Sono stato in guerra, ho visto uragani e tornado ed altre operazioni di soccorso. Ma non ho mai visto niente di simile" (Libération, 6/01/04).
Tutti questi dissensi tra le grandi potenze dove ogni Stato cerca di tirare la coperta dalla propria parte, la dicono lunga sulla preoccupazione "umanitaria" di questi avvoltoi capitalisti. Come sottolinea un responsabile americano: "è una tragedia, ma anche un'opportunità da prendere al volo. Un aiuto veloce e generoso degli Stati Uniti potrebbe aiutare a migliorare le relazioni con i paesi asiatici".
Tenuto conto dell'importanza strategica dell'Indonesia nell'oceano indiano, è evidente che gli Stati Uniti cercano di approfittare della catastrofe per potersi impiantare militarmente (cosa che i militari indonesiani rifiutarono a Washington, rimproverando la loro ingerenza negli affari indonesiani quando, nel 1999, gli Stati Uniti sospesero l’aiuto militare a Giacarta a causa dei soprusi commessi dall'esercito indonesiano nel Timor orientale). Peraltro, il loro "aiuto umanitario" allo Sri Lanka ha preso la forma di uno "sbarco" di carri anfibi evidentemente "pacifici" (e non armati a dire di un ufficiale) che hanno la missione di "non distruggere" ma "soccorrere la popolazione".
Da parte loro, gli stessi Stati europei sperano di essere diplomaticamente e militarmente presenti in questa regione. In quanto alla Cina, questa cerca di fare valere le sue ambizioni di gendarme del continente asiatico e si scontra con l'opposizione del Giappone. E se lo Stato indiano ha rifiutato ogni aiuto straniero, a costo di lasciare crepare come i topi una parte dei sinistrati, è perché vuole affermarsi come potenza regionale con cui bisognerà fare i conti.
Ecco cosa nasconde il frastuono sull'aiuto "umanitario" della borghesia mondiale: la difesa dei suoi sordidi interessi imperialisti! L'ignominia e l'ipocrisia senza limite della classe borghese che dirige il mondo fanno vomitare!
Ancora una volta, è il capitalismo che rappresenta una catastrofe per l'umanità, con la sua legge del profitto e la sua classe dominante perfettamente capace di contabilizzare i morti e al tempo stesso scatenare sempre più barbarie. Mentre lascia che onde giganti sommergano le popolazioni, inasprisce il caos in Afghanistan, moltiplica gli attentati terroristici e le rappresaglie che insanguinano l'Iraq e la Palestina, lascia che si sviluppino la carestia nel Darfour ed i massacri in Congo.
Questa spirale sanguinosa indica che il capitalismo non può offrire all'umanità che la sua distruzione attraverso catastrofi sempre più omicide, guerre sempre più barbare, la miseria, la carestia, le epidemie. È verso una distruzione del pianeta pezzo per pezzo che ci porta questo sistema che marcisce.
Quale solidarietà con le popolazioni vittime della catastrofe?
Di fronte ad una tale tragedia umana e sociale, i rivoluzionari e l'insieme del proletariato mondiale devono proclamare, con forza e determinazione, la loro solidarietà di classe verso le vittime.
Essi non possono che salutare lo slancio di solidarietà umana che si è manifestato immediatamente a livello planetario. Senza aspettare i soccorsi, i superstiti si sono aiutati reciprocamente, le popolazioni asiatiche nei confronti dei turisti, ed i turisti nei confronti delle popolazioni locali. Spontaneamente milioni di persone, ed in particolare proletari in tutti i paesi, hanno proposto di offrire cibo, vestiti, donazioni finanziarie.
Ma questa solidarietà naturale, che è alla base della stessa esistenza sociale e della preservazione della specie umana, è stata recuperata immediatamente dalla classe dominante e dalle sue ONG.
Il rullo compressore dell'informazione ossessiva e delle immagini shock ha la funzione di impedire la riflessione sulle cause di questa catastrofe sociale.
Attraverso i suoi media ed i suoi specialisti dell'aiuto umanitario la borghesia ci dice che, poiché siamo "impotenti" davanti a tali avvenimenti, la sola cosa che possiamo fare è versare delle donazioni a questa o quella ONG, e ci si assicura che questo denaro andrà proprio alle popolazioni sinistrate.
Queste organizzazioni "non governative" hanno dato prova, ancora una volta di essere al servizio dei governi. Per convincersene basta vedere la confusione sul luogo stesso del dramma: ogni televisione nazionale ha fatto la promozione di questa o quella ONG che, in funzione del suo paese di origine, è incaricata di difendere gli interessi concorrenti di questo o quel governo, a scapito e contro le altre ONG. Così, la solidarietà nella bocca della borghesia si trasforma in sciovinismo.
L'indignazione della classe operaia di fronte a questo dramma, la sua solidarietà spontanea con le vittime è stata manipolata ed è stata deviata dalla classe dominante in un'ignobile campagna di intossicazione "umanitaria". Grazie alle sue ONG, la borghesia si è impossessata di questo slancio reale di generosità per deviarlo sul ristretto terreno della carità. Attraverso le richieste di sostegno finanziario per venire in aiuto alle popolazioni sinistrate, gli Stati borghesi hanno organizzato una vera operazione di racket, distillando in seno alla popolazione mondiale, ed in particolare alla classe operaia, il sentimento di "mettersi la coscienza a posto" portando un contributo all'aiuto "umanitario" dei governi.
Questa campagna, alimentata dalle quotidiane trasmissioni televisive, è un vero martellamento ideologico che mira a confondere le coscienze, ad impedire ai proletari di riflettere sulle cause reali della catastrofe.
Impedendo ai proletari di comprendere che è il capitalismo ad essere il solo responsabile, si mira a snaturare la loro solidarietà di classe ed a deviarla in una strada senza uscita.
La solidarietà della classe operaia non può limitarsi, come vogliono fare credere la borghesia e le sue ONG, ad una semplice azione caritatevole. Perché, da una parte, le donazioni finanziarie possono essere solo una goccia d’acqua nell'oceano tenuto conto dell'ampiezza del disastro. D’altra parte, le somme raccolte non possono permettere di alleviare lo sconforto e la disperazione di tutti questi uomini, queste donne e questi bambini che hanno perso i loro parenti, i cui i corpi non saranno mai ritrovati o sono stati ammucchiati nell'emergenza nelle fosse comuni, senza sepoltura.
Il denaro non può riparare l'irreparabile: non è mai stato un rimedio alla sofferenza morale!
Infine, questi gesti di solidarietà finanziaria non possono risolvere il problema alla radice: non possono impedire la ripetizione di nuove catastrofi in altre regioni del mondo.
È per ciò che la solidarietà di classe del proletariato non può essere quella dei preti del "Soccorso Cattolico" ed altre ONG.
La solidarietà dei proletari non ha come obiettivo “mettere a posto la propria coscienza" o salvarsi l’anima cedendo al sentimento di colpevolezza che cerca di istillare la classe dominante.
Questa solidarietà può svilupparsi solo a partire dalla denuncia del solo colpevole di questo cataclisma: la classe borghese che dirige il sistema capitalista!
I proletari del mondo intero devono comprendere che, conducendo la lotta contro la borghesia, rovesciando il suo sistema omicida, sono i soli a poter rendere un reale omaggio ai morti, a tutte queste vite umane sacrificate sull'altare del capitalismo, in nome della legge del profitto e della redditività.
Devono sviluppare le loro lotte e la loro propria solidarietà di classe contro tutti gli Stati, tutti i governi che non solo li sfruttano ed attaccano le loro condizioni di vita, ma hanno anche la sfrontatezza di chieder loro di "mettere mano alla tasca" per riparare i danni provocati dal capitalismo.
È solo attraverso la lotta quotidiana contro questo sistema, fino al suo capovolgimento, che la classe operaia può manifestare la sua vera solidarietà verso i proletari e le popolazioni dei paesi devastati dallo tsunami.
Se questa solidarietà non può avere, evidentemente, degli effetti immediati, essa non è un fuoco di paglia, contrariamente a quello che ci viene raccontato dalla borghesia e dalle ONG.
Tra alcuni mesi, per la classe dominante ed le sue organizzazioni caritatevoli, questa catastrofe sarà sotterrata nel dimenticatoio della storia.
La classe operaia non può dimenticarla, come non può dimenticare i massacri della guerra del Golfo e di tutte le altre guerre e catastrofi cosiddette "naturali".
Per gli operai del mondo intero, questa tragedia non deve essere mai un "affare archiviato". Deve restare incisa nella loro memoria e servire da stimolo per rafforzare la loro determinazione a sviluppare la lotta e l’unità di classe contro la barbarie del capitalismo.
La classe operaia è la sola forza della società attuale che possa effettuare un vero dono a tutte le vittime della classe borghese, rovesciando il capitalismo e costruendo una nuova società, basata non sul profitto ma sulla soddisfazione dei bisogni umani. È l'unica classe che possa, attraverso la sua prospettiva rivoluzionaria, offrire un avvenire alla specie umana.
È per questo che la solidarietà del proletariato deve andare bene al di là della semplice solidarietà emotiva. Non deve essere fondata su dei sentimenti di impotenza o di colpevolezza ma, innanzitutto, sulla sua coscienza.
Solo lo sviluppo della sua solidarietà di classe, una solidarietà basata sulla coscienza del fallimento del capitalismo, sarà in grado di creare le basi per una società nella quale i crimini che la borghesia ci presenta come catastrofi "naturali" non potranno mai più essere commessi, dove sarà possibile superare ed abolire definitivamente questa barbarie abominevole.
"Il capitalismo agonizzante vuole abituarci all'orrore, a considerare come 'normale' la barbarie di cui è responsabile. I proletari devono reagire manifestando la loro indignazione davanti a questo cinismo e la loro solidarietà con le vittime di questi conflitti senza fine, dei massacri perpetrati da tutte le bande capitaliste (alle quali si aggiungono le vittime delle catastrofi 'naturali'). Il disgusto ed il rigetto di ciò che il capitalismo nella sua decomposizione fa vivere alla società, la solidarietà tra membri di una classe che hanno interessi comuni, sono dei fattori essenziali della presa di coscienza che un'altra prospettiva è possibile e che una classe operaia unita ha la forza di imporla". (Revue internationale n°119).
Gli operai del mondo intero non possono manifestare la loro solidarietà verso le vittime della catastrofe se non facendo vivere, attraverso le loro lotte contro lo sfruttamento, la miseria e la barbarie capitalista, queste parole d’ordine:
"Abbasso tutti i governi! Abbasso il capitalismo!"
"Proletari di tutti i paesi, unitevi!"
DM
8 gennaio 2005
Il 5 novembre scorso grazie al sostegno dei militanti del NCI d’Argentina, la CCI ha tenuto una riunione pubblica a Florencio Valera, periferia di Buenos Aires. Il tema era sull’evoluzione della lotta di classe a livello mondiale. Come alla precedente riunione pubblica di agosto, l’introduzione è stata volutamente breve per permettere alla discussione di svilupparsi il più possibile.
L’introduzione ha innanzitutto messo in evidenza non solo gli attacchi feroci che subisce la classe operaia alle proprie condizioni di vita dappertutto nel mondo, compreso nei paesi più sviluppati, ma anche lo sviluppo della guerra e della sua barbarie. Ha difeso il fatto che questi differenti aspetti della situazione internazionale sono direttamente il prodotto del capitalismo nella sua fase di decadenza e, oggi, di decomposizione. Di fronte a questa situazione la classe operaia riprende oggi la via della lotta, anche se ancora con molte difficoltà. Essa riprende la lotta dopo un lungo periodo di riflusso apertosi con il crollo del blocco dell’Est, riflusso dovuto all’uso fatto dalla borghesia del fallimento dello stalinismo assimilandolo in maniera mistificatoria al marxismo ed al comunismo. Questa ripresa della combattività operaia è un’illustrazione del fatto che gli effetti di queste campagne stanno sfumando. La ripresa delle lotte operaie si vede concretamente attraverso le lotte della primavera 2003 in Francia ed in Austria contro la “riforma” delle pensioni, la mobilitazione degli autoferrotranvieri italiani, dei postini e dei pompieri inglesi nell’inverno 2003, poi degli operai della Fiat a Melfi nel sud Italia, le lotte in Germania degli operai della Simens, Porche, Bosch, Alcatel e anche della Merceds-Daimler-Chrysler; le lotte degli operai dei cantieri navali in Spagna (Ferrol in Galizia, Puerto Real e San Fernando vicino Cadix e Sestao presso Bilbao). Questa ripresa internazionale della combattività operaia si è manifestata ancora attraverso grandi manifestazioni come quella di 45.000 persone a Berlino il 2 ottobre e, nello stesso giorno ad Amsterdam, quella dei 200.000 manifestanti contro i progetti del governo. Il 14 ottobre scorso 9.400 operai dell’Opel a Bochum in Germania si sono messi in sciopero contro l’annuncio di un piano di licenziamenti. La presentazione ha messo in evidenza che il bisogno di solidarietà ha costituito una caratteristica molto importante di questi movimenti: abbiamo visto, in particolare nella lotta alla Daimler Benz, l’inizio di una solidarietà tra operai di due diverse fabbriche mentre la borghesia aveva tentato di mettere gli operai gli uni contro gli altri. All’interno di questo sforzo della classe operai per sviluppare le sue lotte, bisogna segnalare l’emergere di una riflessione politica sulla base di una crescente perdita di illusioni sul futuro che ci riserva il capitalismo. Questi movimenti hanno dimostrato che a poco a poco si sviluppa la coscienza che sono tutti i settori della classe operaia ad essere attaccati, in tutti i paesi, così come la ricerca, anche se ancora molto confusa, della prospettiva di un’altra società. Si sviluppa dunque di nuovo all’interno della classe operaia, la coscienza di appartenere ad una classe attaccata, e questa presa di coscienza è la base della ricerca della solidarietà indispensabile alla lotta di classe.
Solo la classe operaia può mettere in causa lo Stato capitalista
I partecipanti alla riunione, i membri del NCI ed anche altri elementi, hanno apprezzato le informazioni sulle lotte in Europa date dalla presentazione. Questa ha permesso loro di meglio comprendere che le lotte che si sviluppano anche in Argentina (è stato fatto l’esempio di una lotta in una cooperativa di carni, ma ce ne sono altre) assumono tutto il loro significato solo all’interno di questa dinamica internazionale. I compagni hanno messo in evidenza che ci sono molte lotte nel mondo ma i media non ne danno alcuna informazione. Uno dei partecipanti ha detto che dalla metà degli anni ’90 si è visto in Argentina lo sviluppo di lotte “popolari” contro attacchi molto duri e che le recenti lotte in Argentina erano arrivate a mettere in questione lo Stato. I compagni del NCI si sono detti in disaccordo con questa visione. Anche la CCI è intervenuta per sottolineare che solo la classe operaia può mettere in questione lo Stato con una lotta massiccia, unita e cosciente della posta in gioco storica nella situazione. Ha sottolineato il pericolo delle lotte inter-classiste nelle quali la classe operaia si trova diluita negli altri strati della popolazione perdendo, dunque, la sua forza in quanto classe. La sola prospettiva per sviluppare un rapporto di forza contro la borghesia ed il suo Stato, è sviluppare la lotta sul proprio terreno, una lotta autonoma ed unita della classe operaia. Nel 2001 abbiamo visto delle rivolte inter-classiste nelle quali il proletariato era annegato in altri strati sociali. Queste rivolte non hanno affatto scosso lo Stato.
Il partecipante che aveva esposto questa idea è stato molto attento alle argomentazioni date e con molta sincerità ha manifestato la volontà di comprendere come la classe operaia può sviluppare un rapporto di forza a suo favore rispetto allo Stato.
Come sviluppare l’unità della classe operaia?
Un altro aspetto importante della discussione è stato sulla questione: come lottare contro la dispersione delle lotte, come sviluppare l’unità nella classe operaia? Su questa questione tutti i partecipanti hanno espresso il loro accordo sul fatto che i principali nemici di questa unità sono i sindacati. La CCI ha portato l’esempio della Polonia del 1980 per mostrare che questa lotta aveva potuto svilupparsi a livello dell’intero paese perchè i sindacati ufficiali erano chiaramente visti, dagli operai, come i rappresentati dello Stato. E’ stato necessario che i sindacati dei paesi dell’Europa occidentale, che riescono con maggior abilità a mascherare la loro natura anti operaia, venissero in soccorso dello Stato polacco per rompere la dinamica del movimento, dandogli come prospettiva la costituzione di nuovi sindacati, “democratici”. Walesa è stato il maestro di questo sabotaggio e la borghesia gli è molto riconoscente.
La discussione ha sottolineato anche che la prospettiva è sviluppare la solidarietà di classe fino al livello internazionale perchè è a livello internazionale che bisogna distruggere il capitalismo e che la base stessa della lotta di classe è l’internazionalismo.
Un partecipante ha chiesto alla CCI di esporre come, secondo lei, gli operai devono organizzarsi nelle lotte. La CCI ha ricordato il dibattito sullo sciopero di massa all’inizio del 20°secolo, in seguito al movimento del 1905 in Russia e gli insegnamenti che ne sono stati tratti. Ha ricordato che i sindacati dell’epoca si erano opposti a questo dibattito. Una lezione centrale che le lotte di quel periodo (periodo che segnava l’entrata del capitalismo nella sua fase di decadenza) misero in evidenza, era che ormai le lotte non potevano più restare rinchiuse nella corporazione ma dovevano estendersi e che è nella e attraverso la lotta che la classe operaia fa sorgere i suoi organi di lotta: le assemblee generali che eleggono dei comitati revocabili in ogni momento. E’ questo modo di organizzarsi che permette alla classe di conservare il controllo della lotta. E’ questo che permette anche la sua reale estensione.
E’ proprio perchè la classe operaia non può più dotarsi di organizzazioni unitarie permanenti che i sindacati, perdendo la loro funzione per la classe, hanno “tradito” e sono stati assorbiti dallo Stato. Da allora sono proprio i sindacati a lottare contro l’organizzazione autonoma della classe, un’organizzazione che cessa con la lotta, quando questa finisce.
Questo stesso compagno ,alla fine del dibattito, ha posto la questione della natura del movimento dei “piqueteros”. Per lui questa è un’autentica lotta di disoccupati, dunque di una lotta operaia dato che i disoccupati fanno parte della classe operaia. La CCI ed i compagni del NCI hanno risposto che se è vero che i disoccupati fanno parte della classe operaia, e se è certo che ci sono degli operai disoccupati nel movimento dei “piqueteros”, ciò non è sufficiente per conferire a questo movimento una natura proletaria. Anche nei sindacati ci sono degli operai eppure questi non sono un’organizzazione della classe. Il movimento dei “piqueteros” divide la classe tra disoccupati ed attivi ed opera una divisione tra gli stessi disoccupati dato che ci sono varie organizzazioni di “piqueteros”. In più, gli operai presi in questi movimenti non hanno alcuna autonomia e non decidono un bel niente. Sono una semplice massa di manovra totalmente manipolata. In queste condizioni, i 150 pesos che ricevono mensilmente dallo Stato non rappresentano in realtà il frutto di un rapporto di forza che loro avrebbero imposto, come pensa il compagno, ma il prezzo per un servizio reso, anche se loro non ne sono coscienti.
Il compagno si è detto in disaccordo pur affermando che avrebbe riflettuto su questo e che è pronto a continuare il dibattito sulla questione, atteggiamento che la CCI ha salutato.
La conclusione della CCI ha pertanto potuto sottolineare i punti di accordo sull’aspetto internazionale della lotta di classe, la necessità di sviluppare le lotte, il rigetto dei sindacati, la necessità di lottare per lo sviluppo dell’unità della classe e della coscienza della posta in gioco storica. Ha anche citato il disaccordo del compagno sul movimento dei “piqueteros”, così come la sua volontà di continuare il dibattito su questa questione. Questo compagno ha apprezzato che la conclusione menzionasse i punti di accordo e di disaccordo ed ha anche chiesto se la CCI poteva procurargli i libri di Rosa Luxemburg Introduzione all’economia politica e L’accumulazione del capitale. La CCI farà del suo meglio per rispondere a questa richiesta.
Nel corso del dibattito i compagni del NCI sono intervenuti a più riprese, in particolare sul movimento dei “piqueteros”; i loro interventi sono stati in piena continuità con le loro prese di posizione precedenti (che abbiamo pubblicato nella Rivista Internazionale, in lingua francese, inglese e spagnola). I compagni hanno anche detto che apprezzavano molto il quadro storico dato dalla CCI.
Bisogna ancora notare che i partecipanti hanno contribuito al pagamento della sala.
Questa riunione è stato un vero dibattito all’interno della classe; un dibattito utile perchè ha messo a confronto le posizioni in vista della necessaria chiarificazione politica per la lotta.
11 novembre 2004 CCI
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[2] https://it.internationalism.org/en/tag/2/25/decadenza-del-capitalismo
[3] https://it.internationalism.org/en/tag/3/53/societa-precapitaliste
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