I recenti avvenimenti nei paesi a regime stalinista, scontri alla testa del partito e repressione in Cina, esplosioni nazionaliste e lotte operaie in URSS, costituzione in Polonia di un governo diretto da Solidarnosc, rivestono un’importanza considerevole. Essi rivelano la crisi storica, l’entrata in un periodo di convulsioni acute dello stalinismo. In questo senso, essi ci danno la responsabilità di riaffermare, precisare e attualizzare la nostra analisi sulla natura di questi regimi e le loro prospettive di evoluzione.
1) Le convulsioni che scuotono attualmente i paesi a regime stalinista non possono essere compresi al di fuori del quadro generale di analisi, valido per tutti i paesi del mondo, della decadenza del modo di produzione capitalista e dell’inesorabile aggravarsi della sua crisi. Tuttavia un’analisi seria della situazione attuale di questi paesi deve necessariamente prendere in conto le specificità dei loro regimi. Questo esame dei caratteri particolari dei paesi dell’est è stato fatto dalla CCI a più riprese, in particolare in occasione delle lotte operaie dell’estate 1980 in Polonia e della costituzione del sindacato “indipendente” Solidarnosc.
Così, nel dicembre 1980 il quadro generale di questa analisi era stato abbozzato in questi termini:
“Come per l’insieme dei paesi di questo blocco (quello dell’est) la situazione in Polonia si caratterizza per:
a) l’estrema gravità della crisi, che getta oggi milioni di. proletari in una miseria vicina alla fame;
b) la grande rigidità delle istituzioni, che non lasciano praticamente alcun posto per il possibile sorgere di forze politiche borghesi di opposizione capaci di giocare un ruolo di tampone: in Russia, come nei suoi paesi satelliti, ogni movimento di contestazione rischia di cristallizzare l’enorme malcontento che esiste nel seno di un proletariato e di una popolazione sottomessa da decenni alla più violenta delle controrivoluzioni, che è stata proporzionata al formidabile movimento di classe che ha dovuto schiacciare, la rivoluzione del 1917;
c) l’enorme importanza del terrore poliziesco come mezzo praticamente unico di mantenimento dell’ordine.” (Révue Internationale n.24, pag. 2)
Nell’ottobre del 1981, due mesi prima dell’instaurazione dello “stato d’assedio”, nel momento in cui si accentuava la campagna governativa contro Solidarnosc, tornavamo su questa questione nei seguenti termini:
“... gli scontri fra Solidarnosc e POUP non sono una semplice farsa, come non è solo farsa l’opposizione fra destra e sinistra nei paesi occidentali. Tuttavia in occidente il quadro istituzionale permette, in generale, di “gestire” queste opposizioni in maniera che esse non minaccino la stabilità del regime e che le lotte per il potere siano contenute e si risolvano nella formula più appropriata per affrontare il nemico proletario. Al contrario, se in Polonia la classe dominante è arrivata, con molta improvvisazione, ma per il momento con successo, a instaurare dei meccanismi di questo tipo, niente ci porta a dire che si tratti di una formula definitiva ed esportabile verso altri paesi ‘fratelli’. Le stesse invettive che servono a credibilizzare un partner—avversario, quando questo è indispensabile al mantenimento dell’ordine, possono accompagnare la sua eliminazione quando esso non è più utile (...). Costringendola a una divisione dei compiti alla quale la borghesia dell’est è strutturalmente refrattaria le lotte proletarie hanno creato una contraddizione vivente. E’ ancora troppo presto per prevedere come si risolverà. Di fronte a una situazione storicamente inedita..., il compito dei rivoluzionari è di mettersi con modestia all’ascolto dei fatti”. (Rèvue Internationale n. 27, pag.7)
Infine, a seguito dell’instaurazione dello stato d’assedio in Polonia e della messa fuori legge di Solidarnosc, la CCI era stata portata a sviluppare questo quadro di analisi (Rèvue Internationale n.34) a partire dal quale, con gli opportuni aggiornamenti, possiamo capire quello che succede oggi in questa parte del mondo.
2) “La caratteristica più evidente, la più generalmente conosciuta dei paesi dell’est, quella su cui d’altra parte riposa il mito della loro natura “socialista”, sta nel grado estremo di statizzazione della loro economia (...). Il capitalismo di Stato non è un fenomeno proprio solo di questi paesi. E’ un fenomeno che proviene innanzitutto dalle condizioni di sopravvivenza del modo di produzione capitalista nel periodo di decadenza: di fronte alle minacce di disintegrazione di un’economia e di un corpo sociale sottomessi a delle contraddizioni crescenti, di fronte all’inasprirsi delle rivalità commerciali e imperialiste che la saturazione generale dei mercati provoca, solo un rafforzamento permanente del posto dello Stato nella società permette di mantenere un minimo di coesione in questa e di assicurare la sua militarizzazione crescente. Se la tendenza al capitalismo di Stato è dunque un dato storico universale essa non tocca tuttavia in maniera identica ogni paese”. (Rèvue Internationale n.34, pagg. 4 e 5)
3) Nei paesi avanzati, dove esiste una vecchia borghesia industriale e finanziaria, questa tendenza si manifesta in generale attraverso un’intersecazione dei settori “privati” e dei settori statali. In questo tipo di sistema la borghesia “classica” non è privata del suo capitale e conserva l’essenziale dei suoi privilegi. D’altra parte il ruolo dello Stato non si manifesta tanto attraverso la nazionalizzazione dei mezzi di produzione quanto attraverso l’azione di un insieme di strumenti di bilancio, finanziari, monetari e legislativi che gli permettono in ogni. momento di orientare le grandi scelte economiche, senza per questo rimettere in causa i meccanismi del mercato.
Questa tendenza al capitalismo di Stato “prende le sue forme più estreme dove il capitalismo conosce le contraddizioni più brutali, dove la borghesia classica è più debole. In questo senso, la presa in carico diretta da parte dello Stato dell’essenziale dei mezzi di produzione che caratterizza il blocco dell’Est (e in larga misura del “terzo mondo”) è in primo luogo una manifestazione dell’arretratezza e della fragilità della sua economia.” (ibidem, pag.5)
4) “Esiste un legame stretto fra le forme di dominazione economica della borghesia e le forme della sua dominazione politica” (ibidem):
— un capitale nazionale sviluppato, detenuto in maniera “privata” dai differenti settori della borghesia, trova nella “democrazia” parlamentare il suo apparato politico più appropriato;
— “alla statalizzazione quasi completa dei mezzi di produzione corrisponde il potere totalitario di un partito unico” (1).
Tuttavia, “il regime di partito unico non è una caratteristica propria dei paesi dell’est o di quelli del ‘terzo mondo’. Esso è esistito per decenni in paesi dell’Europa occidentale come l’Italia, la Spagna, il Portogallo. L’esempio più notevole è evidentemente quello del regime nazista che dirige tra il 1933 e il 1945 il paese più sviluppato e potente d’Europa. Nei fatti la tendenza storica verso il capitalismo di Stato non implica solo un aspetto economico. Essa si manifesta anche attraverso una crescente concentrazione del potere politico nelle mani dell’esecutivo a detrimento delle forme classiche della democrazia borghese, il parlamento e il gioco partitico. Mentre i partiti politici, nei paesi sviluppati del 19° secolo, erano i rappresentanti della società civile nel o presso lo Stato, con la decadenza del capitalismo essi si trasformano in rappresentanti dello Stato nella società civile” (il caso più evidente è quello degli antichi partiti operai incaricati oggi di inquadrare la classe operaia dietro lo Stato). “Le tendenze totalitarie dello Stato si esprimono, compreso nei paesi in cui sussistono gli ingranaggi formali della democrazia, attraverso una tendenza al partito unico che trova le sue concretizzazioni più nette nei momenti di convulsioni acute della società borghese: ‘Unione nazionale’ durante le guerre imperialiste, convergenza di tutte le forze borghesi dietro i partiti di sinistra nei periodi rivoluzionari, (...)“.
5) “La tendenza al partito unico trova raramente la sua piena realizzazione nei paesi più sviluppati. Gli USA, la Gran Bretagna, i Paesi Bassi, la Scandinavia non hanno mai conosciuto un tale tipo di regime. Quando questo avvenne in Francia, sotto il regime di Vichy, fu essenzialmente legato all’occupazione del paese da parte dell’esercito tedesco. Il solo esempio storico di un paese pienamente sviluppato in cui questa tendenza sia giunta fino in fondo è quello della Germania” (per delle ragioni che la Sinistra Comunista ha analizzato da lungo tempo).
“(...) Se negli altri paesi avanzati le strutture politiche e i partiti tradizionali si sono mantenuti è perché essi si sono rivelati sufficientemente solidi, per la loro vecchia influenza, per la loro esperienza, per i loro legami con il potere economico, per la forza delle mistificazioni di cui erano portatori, per assicurare la stabilità e la coesione del capitale nazionale di fronte alle difficoltà affrontate da essi (crisi, guerra, lotte sociali).” (ibidem).
In particolare, lo stato dell’economia di questi paesi, la potenza conservata dalla borghesia classica non necessitavano né permettevano l’adozione di misure “radicali” di statalizzazione del capitale che solo le strutture e i partiti “totalitari” sono in grado di mettere in opera.
6) “Ma quello che nei paesi più sviluppati non esiste che come eccezione, nei paesi arretrati è la regola nella misura in cui non esiste alcuna delle condizioni che abbiamo enumerato e in cui questi paesi sono quelli che subiscono più violentemente le convulsioni della decadenza capitalista”. (ibidem)
Così, nelle antiche colonie arrivate alla “indipendenza” nel corso del 20° secolo (in particolare dopo la II guerra mondiale) la costituzione di un capitale nazionale è stato per lo più realizzata attraverso e intorno allo Stato, in generale sotto la guida, in assenza di una borghesia autoctona, di intellettuali formati nelle università europee. In certe circostanze si è potuto vedere anche la giustapposizione e la cooperazione di questa nuova borghesia di Stato con i resti di vecchie classi sfruttatrici precapitaliste.
“Tra i paesi arretrati quelli dell’est occupano un posto particolare. Ai fattori direttamente economici che spiegano il peso che vi occupa il capitalismo di Stato si sovrappongono fattori storici e geopolitici: le circostanze della costituzione dell’URSS e del suo impero.” (ibidem)
7) Lo Stato capitalista in URSS si ricostituisce sulle rovine della rivoluzione proletaria. La debole borghesia dell’epoca zarista era stata completamente eliminata dalla rivoluzione del 1917 (...) e dalla sconfitta delle armate Bianche. Perciò non è né essa né i partiti tradizionali che prendono in carica in Russia l’inevitabile controrivoluzione derivante dalla sconfitta della rivoluzione mondiale. Questo compito è affidato allo Stato che è sorto dopo la rivoluzione e che ha rapidamente assorbito il partito bolscevico (...). Così la classe borghese si ricostituisce non a partire dalla vecchia borghesia (se non in maniera eccezionale e individuale) né a partire da una proprietà individuale dei mezzi di produzione, ma a partire dalla burocrazia del Partito-Stato e dalla proprietà statale dei mezzi di produzione. In Russia la somma dei fattori, arretratezza del paese, distruzione della borghesia classica, schiacciamento fisico della classe operaia, hanno quindi portato la tendenza universale al capitalismo di Stato alle sue forme più estreme: statalizzazione quasi completa dell’economia, dittatura totalitaria del partito unico. Non dovendo più disciplinare i diversi settori della classe dominante o conciliare eventualmente con gli interessi economici di questa, perché ha completamente assorbito la classe dominante identificandosi con essa, lo Stato ha potuto quindi fare a meno delle forme politiche classiche della società borghese (democrazia e pluralismo), anche come finzione. (ibidem, pag. 5 e 6)
8) La stessa brutalità, la centralizzazione estrema con cui il regime dell’URSS esercita il suo potere sulla società si ritrovano nella maniera in cui questa potenza stabilisce e conserva la sua dominazione sull’insieme dei paesi del suo blocco. E’ unicamente basandosi sulla forza delle armi che la Russia si è costituita un impero, sia nel corso stesso della seconda guerra mondiale (sottomissione dei paesi baltici e dell’Europa centrale), sia grazie alle differenti guerre di “indipendenza nazionale” che fanno seguito a questa (come fu per la Cina o il Nord Vietnam per esempio), o ancora in occasione di colpi di stato militari (Egitto 1952, Etiopia 1974, Afghanistan 1978, per esempio). Alla stessa maniera l’utilizzazione della forza delle armi (Ungheria 1956, Cecoslovacchia 1968, Afghanistan 1979, per esempio), o la minaccia di questa utilizzazione, costituisce la forma praticamente esclusiva del mantenimento della coesione del suo blocco.
9) Allo stesso titolo della forma del suo capitale nazionale e del suo regime politico, questo modo di dominazione imperialista risulta fondamentalmente dalla debolezza economica dell’URSS (la cui economia è più arretrata della maggior parte dei suoi vassalli).
“Paese di gran lunga il più sviluppato del suo blocco, prima potenza economica e finanziaria del mondo, gli USA si assicurano il loro dominio sui principali paesi del loro impero, che sono anch’essi dei paesi pienamente sviluppati, senza fare appello necessariamente alla forza militare, così come questi paesi non hanno bisogno della repressione permanente per assicurare la loro stabilità. (...) E’ in maniera ‘volontaria’ che i settori dominanti delle principali borghesie occidentali aderiscono all’alleanza americana: essi vi trovano vantaggi economici, finanziari, politici e militari (l’ombrello americano di fronte all’imperialismo russo).” (ibidem, pag.7)
Al contrario, l’appartenenza di un capitale nazionale al blocco dell’est ai traduce in generale per la sua economia in un handicap catastrofico (principalmente per il saccheggio diretto di questa economia esercitato dall’URSS).
“In questo senso tra i principali paesi del blocco americano non esiste nessuna ‘spontanea propensione’ a passare nell’altro blocco come è invece successo nell’altro senso (cambiamento di campo della Yugoslavia nel 1948, della Cina alla fine degli anni ‘60, tentativi dell’Ungheria nel 1956, della Cecoslovacchia nel 1968)”. (ibidem). La permanenza di forze centrifughe in seno al blocco russo spiega dunque la brutalità della dominazione imperialista che vi viene esercitata. Essa spiega ugualmente la forma dei regimi politici che dirigono questi paesi.
10) “La forza e la stabilità degli USA permettono loro di accettare l’esistenza di qualsiasi tipo di regime all’interno del loro blocco: dal regime ‘comunista’ cinese a quello ‘anticomunista’ di Pinochet, dalla ‘democratica’ Inghilterra, dalla bicentenaria repubblica francese alla monarchia feudale saudita, dalla Spagna franchista alla Spagna social-democratica.” (ibidem).
Al contrario, “il fatto che l’URSS (...) non possa mantenere il controllo del suo blocco che attraverso la forza delle armi determina il fatto che i suoi satelliti siano dotati di regimi che, come il suo, non possono mantenere il loro controllo sulla società che attraverso la stessa forza delle armi (polizia e istituzione militare)” (ibidem).
Inoltre è unicamente dai partiti stalinisti che la Russia può attendersi un minimo (e nemmeno è sicuro!) di fedeltà dal momento che l’accesso e il mantenimento al potere di questi partiti è essenzialmente dipendente dal sostegno diretto dell’Armata Rossa. “Per questo fatto, (...) se il blocco americano può perfettamente ‘gestire’ la ‘democratizzazione’ di un regime fascista o militare quando questo diventa utile (Giappone, Germania, Italia l’indomani della guerra, Portogallo, Grecia, Spagna negli anni ‘70), l’URSS non può accettare alcuna ‘democratizzazione’ in seno al suo blocco.” (ibid.) Un cambiamento di regime politico in un paese “satellite” porta con sé la minaccia diretta del passaggio di questo paese nel blocco avversario.
11) Il rafforzamento del capitalismo di Stato è un dato permanente e universale della decadenza del capitalismo. Tuttavia, come si è visto, questa tendenza non si esprime necessariamente sotto la forma della statalizzazione completa dell’economia, l’appropriazione diretta da parte dello Stato dell’apparato produttivo. In certe circostanze storiche quest’ultima costituisce l’unica via possibile per il capitale nazionale, oppure la formula più adatta alla sua difesa e al suo sviluppo. Ciò è valido principalmente per le economie arretrate, ma in certe condizioni (i periodi di ricostruzione per esempio) è valido anche per delle economie sviluppate, come quelle della Gran Bretagna e della Francia dopo la seconda guerra mondiale. Tuttavia questa forma particolare di capitalismo di Stato comporta gravi inconvenienti per l’economia nazionale.
Nei paesi più arretrati la confusione tra l’apparato politico e quello economico permette e genera lo sviluppo di una burocrazia completamente parassitaria, la cui sola preoccupazione è di riempirsi le tasche, di saccheggiare in maniera sistematica l’economia nazionale per costituirsi delle fortune colossali: i casi di Batista, Marcos, Duvalier, Mobutu sono molto conosciuti, ma sono lungi dall’essere i soli. Il furto, la corruzione e il racket sono dei fenomeni generalizzati nei paesi sottosviluppati e infettano tutti i livelli dello Stato e dell’economia. Questa situazione costituisce evidentemente un handicap supplementare per queste economie, che contribuisce a gettarle sempre più nel baratro.
Nei paesi avanzati la presenza di un forte settore statale tende ugualmente a convertirsi in handicap per l’economia nazionale man mano che la crisi mondiale si aggrava. In effetti in questo settore il modo di gestire le imprese, la loro struttura di organizzazione del lavoro e della mano d’opera, limitano molto spesso il loro adattamento al necessario aumento della competitività. “Servitori dello Stato”, vestali del “servizio pubblico”, che godono per lo più della garanzia dell’impiego con il vantaggio che la loro impresa (lo Stato stesso) non può fallire e chiudere i battenti, la strato dei funzionari anche quando non pratica la corruzione non è necessariamente il più capace di adattarsi alle leggi impietose del mercato. Nella grande ondata di “privatizzazioni” che tocca attualmente la maggior parte dei paesi occidentali avanzati bisogna vedere, di conseguenza, non solo una maniera di limitare l’estendersi dei conflitti di classe sostituendo il padrone unico, lo Stato, con una moltitudine di padroni, ma anche un mezzo per rinforzare la competitività dell’apparato produttivo.
12) Nei paesi a regime stalinista, il sistema della “Nomenclatura”, dove le responsabilità economiche, nella quasi totalità dei casi, sono legate essenzialmente al posto occupato nell’apparato del partito, sviluppa su scala ancora più vasta gli ostacoli a un miglioramento dell’apparato produttivo. Mentre l’economia “mista” esistente nei paesi sviluppati d’occidente costringe un poco le imprese pubbliche e anche le amministrazioni a una minima preoccupazione per la produttività e la redditività, la forma di capitalismo di stato prevalente nei paesi a regime stalinista ha per caratteristica di deresponsabilizzare completamente la classe dominante. Di fronte a una cattiva gestione la sanzione del mercato non esiste più e le sanzioni amministrative non sono usuali perché è tutto l’apparato, dall’alto in basso, che manifesta una tale irresponsabilità.
Fondamentalmente la condizione per il mantenimento dei privilegi è la servilità rispetto alla gerarchia di questo apparato o di fronte a questa o quella delle sue cricche. La prima preoccupazione della maggior parte dei “responsabili”, sia economici che politici (e in generale si tratta delle stesse persone), non è quella di far fruttificare il capitale, ma di utilizzare il loro posto per riempire le loro tasche e quelle della loro famiglia e dei loro fedeli, senza la minima preoccupazione per il buon andamento delle imprese o dell’economia nazionale. Un tale modo di “gestione” non esclude, evidentemente, uno sfruttamento feroce della forza lavoro. Ma questa ferocia non riguardano in generale l’imposizione di norme di lavoro che permettano di aumentare la produttività. Essa si manifesta essenzialmente nel livello di vita miserabile degli operai e la brutalità con cui viene risposto alle loro rivendicazioni.
In sintesi questo tipo di regime si può caratterizzare come il regno dei corrotti, dei piccoli capi incompetenti e ringhiosi, dei prevaricatori cinici, dei faccendieri senza scrupoli e dei poliziotti. Queste caratteristiche appartengono a tutta la società capitalista e non fanno che rafforzarsi con la sua decomposizione, ma quando esse si sostituiscono completamente alla competenza tecnica, allo sfruttamento razionale della forza lavoro e alla ricerca della competitività sul mercato, esse compromettono in maniera radicale lo stato dell’economia nazionale. In queste condizioni, le economie per lo più già considerevolmente arretrate di questi paesi sono particolarmente mal armate per affrontare la crisi capitalista e l’inasprirsi della concorrenza che essa provoca sul mercato mondiale.
13) Di fronte al fallimento totale dell’economia di questi paesi la sola soluzione che possa permettere se non di arrivare a una vera competitività ma almeno di conservare la testa fuori dall’acqua consiste nell’ introduzione di meccanismi che consentano una vera responsabilizzazione dei suoi dirigenti. Questi meccanismi presuppongono una “liberalizzazione” dell’economia, la creazione di un mercato interno che sia tale, una più grande “autonomia” delle imprese e lo sviluppo di un forte settore “privato”. E’ questo d’altra parte il programma della “perestroika”, come del governo Mazowiecki in Polonia e di Deng Xiaoping in Cina. Tuttavia anche se un tale programma diventa sempre più indispensabile, la sua messa in atto comporta degli ostacoli praticamente insormontabili.
In primo luogo un tale programma implica l’instaurazione della “verità dei prezzi” sul mercato; questo vuol dire che i prodotti di corrente consumo, e anche di prima necessità, che oggi sono sovvenzionati dallo Stato, saranno destinati ad aumentare in maniera vertiginosa: gli aumenti del 500% che si sono visti in Polonia nell’agosto 1989 danno un’idea di quello che attende la popolazione, e in particolare la classe operaia. L’esperienza passata (e anche presente) della stessa Polonia dimostrano che una tale politica può provocare delle violente esplosioni sociali che ne compromettono la applicazione.
In secondo luogo questo programma prevede la chiusura delle fabbriche non “redditizie” (che sono tantissime) o riduzioni sensibili dei loro occupati. La disoccupazione (che attualmente si presenta in maniera marginale) si svilupperà in maniera massiccia, costituendo una ulteriore minaccia per la stabilità sociale visto che il pieno impiego era una delle rare garanzie di cui disponevano ancora gli operai e costituiva uno dei mezzi di controllo di una classe operaia esasperata per le sue condizioni di esistenza. Ancora più che nei paesi occidentali, nei paesi dell’est la disoccupazione di massa rischia di trasformarsi in una vera bomba sociale.
In terzo luogo, la “autonomia” delle imprese si scontra con la accanita resistenza di tutta la burocrazia economica la cui ragion d’essere ufficiale è quella di pianificare, organizzare e controllare l’attività dell’apparato produttivo. La notevole inefficienza di cui essa ha finora dato prova in questo compito la spinge al sabotaggio delle “riforme”.
14) Infine, l’apparizione, accanto alla borghesia di Stato, di uno strato di “manager” alla occidentale costituisce per la prima (che è integrata nell’apparato di potere politico) una concorrenza inaccettabile. Il carattere essenzialmente parassitario della sua esistenza sarà messo a nudo in maniera impietosa, il che minaccerà, in breve tempo, non solo il suo potere ma anche l’insieme dei suoi privilegi economici. Per il partito nel suo insieme, la cui ragion d’essere risiede nella messa in applicazione e nella direzione del “socialismo reale”, è tutto il suo programma, la sua identità stessa che sono rimessi in causa.
L’evidente scacco della “perestrojka” di Gorbaciov, come d’altra parte di tutte le precedenti riforme dello stesso tipo, rende conto in maniera chiara di queste difficoltà. Nei fatti, la messa in atto effettiva di tali “riforme” non può condurre che a un conflitto aperto tra i due settori della borghesia, quella di Stato e la borghesia “liberale” (anche se quest’ultima si ritrova anch’essa in una parte dell’apparato di Stato). La conclusione brutale di questo conflitto, quale si è visto recentemente in Cina, dà un’immagine delle forme che esso può rivestire negli altri paesi a regime stalinista.
15) Come esiste un legame stretto fra la forma dell’apparato economico e la struttura dell’apparato politico, così la riforma dell’una si ripercuote necessariamente sull’altro. La necessità di una “liberalizzazione” dell’economia trova la sua espressione nel sorgere, in seno al partito o al di fuori di esso, di forze politiche che si fanno portatrici di questa necessità. Questo fenomeno genera delle forti tendenze alla scissione in seno al partito, come la creazione di formazioni “indipendenti” che si richiamano in maniera più o meno esplicita al ristabilimento delle forme classiche del capitalismo, come è il caso di Solidarnosc. (2)
Una tale tendenza all’apparizione di parecchie formazioni politiche, con programmi economici differenti, porta con sé la pressione in favore del riconoscimento legale del “multipartitismo” e del “diritto di associazione”, di elezioni “libere”, di “libertà di stampa”, in breve degli attributi classici della democrazia borghese. In più, una certa libertà di critica, “l’appello all’opinione pubblica”, possono essere delle leve per scalzare i burocrati “conservatori” che si impuntano. E’ perciò che i “riformatori” sul piano economico lo sono anche sul piano politico. E’ per questa ragione che la “perestrojka” è accompagnata dalla “glasnost”. Inoltre la “democratizzazione”, compresa l’apparizione di forze politiche di “opposizione”, può, in certe circostanze, come in Polonia nel 1980 e nel 1988 e in Russia oggi, costituire una diversione e un mezzo di inquadramento di fronte all’esplosione del malcontento della popolazione, in particolare della classe operaia. Quest’ultimo elemento costituisce, evidentemente, un fattore supplementare di pressione in favore delle “riforme politiche”.
16) Tuttavia, come la “riforma economica” si è data dei compiti praticamente irrealizzabili, così la “riforma politica” ha ben poche possibilità di successo. L’introduzione effettiva del “pluripartitismo” e di elezioni “libere”, che è la conseguenza logica di un processo di “democratizzazione”, costituisce una vera minaccia per il partito al potere. Come si è recentemente visto in Polonia e in una certa misura anche in Russia l’anno scorso, tali elezioni non possono condurre che alla messa in evidenza del completo discredito, del vero odio verso il Partito in seno alla popolazione. Nella logica di tali elezioni la sola cosa che il Partito possa attendersi è quindi la perdita del suo potere. Ciò è qualcosa che il Partito, a differenza dei partiti “democratici” di occidente, non può tollerare dato che:
- se esso perdesse il potere tramite le elezioni non potrebbe mai riconquistarlo con lo stesso mezzo;
- la perdita del suo potere politico significherebbe concretamente l’espropriazione della classe dominante poiché il suo apparato é appunto la classe dominante.
Mentre nei paesi ad economia “liberale” o “mista”, in cui si mantiene una classe borghese classica, direttamente proprietaria dei mezzi di produzione, il cambiamento del partito al potere (a meno che non si tratti appunto di un partito stalinista) non ha che un debole impatto sui suoi privilegi e sul suo posto nella società, un evento simile in un paese dell’est significa, per la grande maggioranza dei burocrati piccoli e grandi, la perdita dei loro privilegi, la disoccupazione, e anche persecuzioni da parte dei loro vincitori. La borghesia tedesca ha potuto adattarsi al “kaiser”, alla repubblica socialdemocratica, al totalitarismo nazista, alla repubblica “democratica”, senza che fosse messo in causa l’essenziale dei suoi privilegi. Un cambiamento di regime in URSS, invece, significherebbe in questo paese la sparizione della borghesia nella sua forma attuale come del partito. E se un partito politico può suicidarsi, pronunciare la sua autodissoluzione, una classe dominante e privilegiata non si suicida.
17) E’ perciò che le resistenze che si manifestano, all’interno dell’apparato dei partiti stalinisti dei paesi dell’est contro le riforme politiche, non possono essere ridotte al timore dei burocrati più incompetenti di perdere il loro posto e i loro privilegi. E’ il partito come corpo, come entità sociale e come classe dominante che si esprime attraverso queste resistenze.
D’altra parte, quello che scrivevamo nove anni fa: “ogni movimento di contestazione rischia di cristallizzare l’enorme malcontento che esiste in seno a un proletariato e una popolazione sottomessi da decenni alla più violenta delle repressioni”, resta valido ancora oggi. In effetti, anche se le “riforme democratiche” hanno come uno dei loro obiettivi di costituire una valvola di sfogo dell’enorme rabbia che esiste nella popolazione, esse comportano anche il rischio di permettere l’emergere di questa rabbia sotto forma di esplosioni incontrollabili. Quando le manifestazioni di malcontento non sono più passibili di essere schiacciate con il sangue e con gli arresti in massa, esse rischiano di esprimersi apertamente e violentemente. Quando la pressione nella pentola diventa troppo forte, il vapore che si vuole far uscire dalla valvola rischia di far saltare il coperchio.
In una certa misura gli scioperi dell’estate scorsa in Russia sono un’illustrazione di questo fenomeno. In un contesto diverso da quello della perestrojka l’esplosione della combattività operaia non avrebbe potuto estendersi in questa maniera o con una tale durata. Lo stesso si può dire per quello che riguarda l’attuale esplosione dei movimenti nazionalisti in questo paese che mette in evidenza il pericolo che la politica di “democratizzazione” rischia di far correre all’integrità territoriale della seconda potenza mondiale.
18) In effetti, dato che praticamente il solo fattore di coesione del blocco russo è la forza armata, ogni politica che tende a far passare in secondo piano questo fattore porta con sé l’esplosione del blocco. Fin da ora il blocco dell’est ci presenta il quadro di una disgregazione crescente. Per esempio, le invettive tra la Germania Est e l’Ungheria, tra i governi “riformatori” e quelli “conservatori”, non sono per niente una farsa. Esse rendono conto dei contrasti che stanno per istaurarsi tra le diverse borghesie nazionali. In questa zona le forze centrifughe sono talmente forti da scatenarsi alla prima occasione. E oggi questa occasione si alimenta dei timori, suscitati in seno ai partiti diretti dai “conservatori”, che il movimento partito dall’URSS, e che si è amplificato in Polonia e Ungheria, non arrivi, per contagio, a destabilizzarli.
Un fenomeno simile si ritrova nelle Repubbliche periferiche dell’URSS. Queste regioni sono per certi versi delle colonie della Russia zarista o anche della Russia stalinista (per esempio i paesi baltici annessi in seguito al patto tedesco-sovietico del 1939). Ma contrariamente alle altre grandi potenze la Russia non ha mai potuto procedere a una decolonizzazione perché questo avrebbe significato per lei la perdita definitiva di qualsiasi controllo su queste regioni, di cui alcune sono molto importanti dal punto di vista economico. I movimenti nazionalisti che oggi, grazie al rilassamento del controllo centrale del partito russo, si sviluppano con quasi un mezzo secolo di ritardo rispetto a quelli che avevano toccato gli imperi francesi o inglese, portano con sé una dinamica di separazione dalla Russia.
In fin dei conti, se il potere centrale di Mosca non reagisse, assisteremmo a un fenomeno di esplosione, non solo del blocco russo, ma anche della sua potenza dominante. In una tale ipotesi la borghesia russa, che oggi è la seconda potenza mondiale, non sarebbe che alla testa di una potenza di secondo piano, più debole della Germania, per esempio.
19) Così, la “perestrojka” ha aperto un vero vaso di Pandora creando situazioni sempre più incontrollabili, come quella, per esempio, che si è venuta a creare in Polonia, con la costituzione di un governo diretto da Solidarnosc. La politica “centrista” (come la definisce Eltsin) di Gorbaciov è in realtà un esercizio di equilibrismo instabile tra due tendenze il cui scontro è inevitabile: quella che vuole andare fino in fondo nel movimento di “liberalizzazione” perché le mezze misure non possono risolvere niente, né sul piano economico, né su quello politico, e quella che si oppone a questo movimento nel timore che esso provochi la caduta della forma attuale della borghesia e anche la perdita della potenza imperialista della Russia.
Dal momento che, attualmente, la borghesia regnante dispone ancora del controllo della forza militare (compreso evidentemente in Polonia), questo scontro non può condurre che a delle lotte violente, ed anche a dei bagni di sangue, come quello che si è avuto in Cina questa estate. E tali lotte saranno rese più brutali per il fatto che dopo più di mezzo secolo per l’URSS, e di quaranta anni per i suoi satelliti, si sono accumulate quantità di odio incredibili da parte delle popolazioni verso le cricche staliniste sinonimo di terrore, massacri, torture, miseria e di un’arroganza cinica fenomenale. Se la burocrazia stalinista perdesse il potere nei paesi che essa controlla, sarebbe vittima di veri e propri pogrom.
20) Ma quale che sia l’evoluzione futura della situazione nei paesi dell’est, gli avvenimenti che li agitano attualmente segnano la crisi storica, il crollo definitivo dello stalinismo, questa mostruosità simbolo della più terribile controrivoluzione subita dal proletariato.
In questi paesi si è aperto un periodo di instabilità, di scosse, di convulsioni, di caos senza precedenti, le cui conseguenze supereranno largamente le loro frontiere. In particolare, il crollo del blocco russo apre le porte a una destabilizzazione del sistema di relazioni internazionali, delle costellazioni imperialiste che erano uscite dalla seconda guerra mondiale con gli accordi di Yalta. Ciò non vuol dire tuttavia che sia in una qualsiasi maniera rimesso in causa il corso storico verso degli scontri decisivi fra le classi. In realtà, il crollo attuale del blocco dell’est costituisce una delle manifestazioni della decomposizione generale della società capitalista la cui origine si trova proprio nell’incapacità della borghesia di dare liberamente la propria risposta, la guerra generalizzata, alla crisi aperta dell’economia mondiale. In questo senso, oggi più che mai, la chiave della prospettiva storica è nelle mani del proletariato.
21) Gli avvenimenti attuali nel blocco dell’est confermano che questa responsabilità del proletariato mondiale ricade principalmente sui suoi battaglioni dei paesi centrali, particolarmente quelli dell’Europa occidentale. In effetti, nella prospettiva delle convulsioni economiche e politiche, degli scontri tra settori della borghesia che attendono i regimi stalinisti, esiste il pericolo che gli operai di questi paesi si lascino irreggimentare e anche massacrare dietro una delle forze capitaliste in campo (come fu il caso nella Spagna ‘36), o anche che le lotte sociali siano deviate su un tale terreno. Le lotte operaie dell’estate 1989 in URSS, malgrado il loro carattere di massa e la combattività che esse rivelano, non hanno abolito l’enorme ritardo politico che pesa sul proletariato di questo paese e del blocco che esso domina. In questa parte del mondo, a causa della stessa arretratezza economica del capitale, ma soprattutto per la profondità e la brutalità con cui si è manifestata la controrivoluzione, gli operai sono ancora particolarmente vulnerabili di fronte alle mistificazioni e alle trappole democratiche, sindacaliste e nazionaliste. Per esempio, le esplosioni nazionaliste di questi ultimi mesi in Russia, ma anche le illusioni che le recenti lotte in questo paese hanno rivelato, come il debole livello attuale della coscienza politica degli operai in Polonia malgrado l’importanza delle lotte che essi hanno condotto da due decenni, costituiscono una nuova illustrazione dell’analisi della CCI su questa questione (rigetto della “teoria dell’anello debole”, vedi Rivista Internazionale n°7). In questo senso, la denuncia nella lotta dell’insieme delle mistificazioni democratiche e sindacaliste da parte degli operai dei paesi centrali costituirà, soprattutto vista l’importanza delle illusioni che gli operai dell’est si fanno sull’Occidente, un elemento fondamentale della capacità di questi ultimi di sventare le trappole che la borghesia non mancherà di tendere loro, di non lasciarsi distogliere dal proprio terreno di classe.
22) Gli avvenimenti che attualmente agitano i cosiddetti paesi “socialisti”, la sparizione di fatto del blocco russo, il fallimento patente e definitivo dello stalinismo sul piano economico, politico e ideologico, costituiscono il fatto storico più importante dalla seconda guerra mondiale insieme con il risorgere internazionale del proletariato alla fine degli anni ‘60. Un avvenimento di tale portata si ripercuoterà, e già ha iniziato a farlo, sulla coscienza della classe operaia, e ciò tanto più che esso riguarda un’ideologia e un sistema politico presentati per più di un mezzo secolo come “socialisti” e “operai”. Con lo stalinismo è il simbolo e la punta di lancia della più terribile controrivoluzione della storia che spariscono. Ma ciò non significa che lo sviluppo della coscienza del proletariato mondiale ne risulti facilitato, al contrario. Anche nella sua fine lo stalinismo rende un ultimo servizio alla dominazione capitalista: decomponendosi il suo cadavere continua ad appestare l’atmosfera che il proletariato respira. Per i settori dominanti della borghesia il definitivo crollo dell’ideologia stalinista, i movimenti “democratici”, “liberali” e nazionalisti che sconvolgono i paesi dell’est costituiscono un’occasione per scatenare e intensificare le loro campagne di mistificazione. L’identificazione sistematica tra comunismo e stalinismo, la menzogna mille volte ripetuta e martellata oggi ancora più di prima per cui la rivoluzione proletaria non potrebbe condurre che al fallimento, vanno a trovare con il crollo dello stalinismo, e per tutto un periodo di tempo, un impatto accresciuto nei ranghi della classe operaia. E’ dunque un riflusso momentaneo della coscienza del proletariato, di cui già ora si possono notare le manifestazioni - in particolare con il ritorno in forze del sindacato - che bisogna attendersi.
Se gli attacchi incessanti e sempre più brutali che il capitalismo non mancherà di sferrare contro gli operai costringeranno questi a scendere in lotta, in un primo tempo non ne risulterà una maggiore capacità della classe di avanzare nella sua presa di coscienza. In particolare, l’ideologia riformista peserà molto fortemente sulle lotte del prossimo periodo, favorendo grandemente l’azione dei sindacati.
Tenuto conto dell’importanza storica dei fatti che lo determinano, l’attuale riflusso del proletariato, benché non rimetta in causa il corso storico, la prospettiva generale agli scontri fra le classi, si presenta come ben più profondo di quello che aveva accompagnato la sconfitta del 1981 in Polonia. Ciò detto, noi non ne possiamo prevedere né l’ampiezza reale, né la durata. In particolare, il ritmo di sprofondamento del capitalismo occidentale - di cui si può percepire attualmente un’accelerazione con la prospettiva di una nuova recessione aperta - va a costituire un fattore determinante del momento in cui il proletariato potrà riprendere la sua marcia verso la coscienza rivoluzionaria. Rovesciando le illusioni sul “raddrizzamento” dell’economia mondiale, mettendo a nudo la menzogna che presenta il capitalismo “liberale” come una soluzione al fallimento del preteso “socialismo”, svelando il fallimento storico dell’insieme del modo di produzione capitalista, e non solamente delle sue incarnazioni staliniste, l’intensificazione della crisi capitalista spingerà il proletariato a volgersi di nuovo verso la prospettiva di un’altra società, a iscrivere in maniera crescente le sue lotte in questa prospettiva.
Come la CCI scriveva già dopo la sconfitta del 1981 in Polonia, la crisi capitalista resta il migliore alleato del proletariato.
C.C.I. 5/10/1989
1. Il fatto che in un certo numero di paesi dell’est esistano parecchi partiti non cambia evidentemente niente alla realtà che è il partito stalinista a detenere la totalità del potere, essendo gli altri partiti solo delle appendici.
2. Così, in seno alla direzione del partito in Polonia alcuni si richiamano alla “Socialdemocrazia”, nell’ufficio politico del partito ungherese si trova un certo Imre Poszgay, candidato designato all’elezione presidenziale prevista nel 1990, che dichiara che “è impossibile riformare la pratica comunista esistente attualmente in Unione Sovietica e nell’Europa dell’est... Questo sistema deve essere liquidato”. Allo stesso modo, il membro dell’apparato di partito Eltsin, vecchio capo del PC di Mosca, dichiara agli Americani che l’URSS deve imparare dagli Stati Uniti, e Mazowiecki, nel suo discorso di investitura, non parla una sola volta di “socialismo”.
Lo stalinismo ha costituito la punta di lancia della più terribile controrivoluzione subita dal proletariato nel corso della sua storia. Una controrivoluzione che ha permesso la più grande carneficina di tutti i tempi, la seconda guerra mondiale, e l’affossamento di tutta la società in una barbarie senza precedenti. Oggi, col crollo economico e politico dei cosiddetti paesi socialisti, con la scomparsa di fatto del blocco imperialista dominato dall’URSS, lo stalinismo, come forma di organizzazione politico-economica del capitale e come ideologia, è in agonia. Va a scomparire quindi uno dei peggiori nemici della classe operaia. Ma la sua scomparsa non facilita certo il compito alla classe. Anzi, come vedremo in questo articolo, anche mentre sta morendo, lo stalinismo rende un ultimo servizio al capitalismo.
In tutta la storia umana lo stalinismo costituisce il fenomeno certamente più tragico e odioso che sia mai esistito. E non solo perché è responsabile del massacro di dozzine di milioni di esseri umani o perché ha instaurato per decenni un terrore implacabile su circa un terzo dell’umanità, ma soprattutto perché ha dimostrato di essere il peggior nemico della rivoluzione comunista, cioè dell’unica condizione per l’emancipazione della specie umana dalle catene dello sfruttamento e dell’oppressione, e proprio in nome di questa stessa rivoluzione comunista.
IL RUOLO DELLO STALINISMO NELLA CONTRORIVOLUZIONE
Da quando ha stabilito il proprio dominio politico sulla società, la borghesia ha sempre visto nel proletariato il suo peggior nemico. Per esempio, nel corso stesso della rivoluzione borghese della fine del 18° secolo la borghesia ha subito capito il carattere sovversivo delle idee di un Babeuf. E per questo lo ha spedito sul patibolo anche se all’epoca il suo movimento non poteva costituire una reale minaccia per lo stato capitalista (1). Tutta la storia della dominazione borghese è marcata dai massacri di operai perpetrati allo scopo di difendere questa dominazione: massacro dei canuti di Lione nel 1831, dei tessitori della Slesia nel 1844, degli operai parigini nel giugno 1848, dei comunardi nel 1871, degli insorti del 1905 in tutto l’impero russo. Per questo tipo di necessità la borghesia ha sempre potuto trovare nelle sue formazioni politiche classiche gli uomini di polso di cui aveva bisogno. Ma quando la rivoluzione proletaria si è posta all’ordine del giorno della storia, la borghesia non si è più contentata di fare appello a queste sole formazioni per preservare il suo potere. La responsabilità di spalleggiare i partiti borghesi tradizionali o anche di prendere la testa dell’offensiva antiproletaria, passa a quei partiti traditori che erano stati in passato organizzazioni proletarie. Il ruolo preciso di queste nuove reclute della borghesia, la funzione per la quale erano indispensabili ed insostituibili, consisteva nella loro capacità, derivante proprio dalla loro origine e dal loro nome, di esercitare un controllo ideologico sul proletariato per distruggerne la presa di coscienza ed imbrigliarlo sul terreno della classe nemica. La maggiore gloria, infatti, della Socialdemocrazia in quanto partito borghese, non sta tanto nei massacri perpetrati in prima persona a partire dal gennaio del 1919 a Berlino (dove, come ministro delle forze armate, il socialdemocratico Noske ha assunto appieno la sua responsabilità di “cane sanguinario”, come lui stesso si definiva), ma piuttosto come sergente-reclutatore per la prima guerra mondiale e, in seguito, come agente di mistificazione della classe operaia, di divisione e di dispersione delle sue forze, di fronte all’ondata rivoluzionaria che ha messo fine all’olocausto imperialista. In effetti solo il tradimento dell’ala opportunista che dominava la maggior parte dei partiti della II Internazionale, solo il suo passaggio armi e bagagli nel campo della borghesia ha reso possibile, in nome della “difesa della civilizzazione”, l’‘imbrigliamento del proletariato europeo dietro la “difesa nazionale” e lo scatenamento di questa carneficina. Inoltre, la politica di questi partiti, che pretendevano di essere ancora socialisti e per questo continuavano ad avere una notevole influenza sul proletariato, ha giocato un ruolo importante nel mantenimento delle illusioni riformiste e democratiche nel proletariato che lo hanno disarmato impedendogli di seguire l’esempio dato dagli operai russi nel 1917.
In questo periodo, gli elementi e le frazioni che si erano contrapposte a questo tradimento, che avevano mantenuta alta la bandiera dell’internazionalismo e della rivoluzione proletaria, si erano raggruppati nei partiti comunisti, sezioni della III Internazionale. Ma questi stessi partiti, in seguito, giocheranno un ruolo analogo a quello dei partiti socialisti. Logorati dall’opportunismo che si era rafforzato in conseguenza del mancato sviluppo della rivoluzione mondiale, fedeli esecutori della direzione di una “Internazionale” che si trasformava sempre più in un semplice strumento della diplomazia dello stato russo alla ricerca della sua integrazione nel mondo borghese, i partiti comunisti hanno seguito lo stesso cammino dei loro predecessori. Come questi, hanno finito per integrarsi completamente nell’apparato politico del capitale nazionale dei rispettivi paesi. Ma, di passaggio, hanno anche partecipato alla sconfitta degli ultimi soprassalti dell’ondata rivoluzionaria del dopoguerra, come in Cina nel 1927-28, e soprattutto hanno contribuito in maniera decisiva alla trasformazione della sconfitta della rivoluzione mondiale in una terribile controrivoluzione.
In effetti, dopo una tale sconfitta, la demoralizzazione e lo scombussolamento del proletariato erano inevitabili. Tuttavia, la f orna che ha preso la controrivoluzione nella stessa URSS - non il rovesciamento del potere uscito dalla rivoluzione d’ottobre 1917, ma la degenerazione di questo potere e del partito che lo deteneva - le ha dato una estensione ed una profondità enormemente più grande che se la rivoluzione fosse morta sotto i colpi delle armi bianche. Il partito comunista dell’unione sovietica (PCUS), che aveva costituito l’avanguardia incontestabile del proletariato mondiale sia nella rivoluzione del ‘17 che nella fondazione dell’Internazionale comunista nel ‘19, diventa, in seguito alla sua immedesimazione con lo stato post-rivoluzionario, il principale agente della controrivoluzione in URSS, il vero carnefice della classe operaia (2). E sfruttando il suo glorioso passato ha continuato a mietere illusioni nella maggioranza degli altri partiti comunisti e dei loro militanti, come nelle grandi masse del proletariato mondiale. E’ grazie a tale prestigio che questi militanti e queste masse potranno tollerare tutti i tradimenti fatti dallo stalinismo in questo periodo. In particolare l’abbandono dell’internazionalismo proletario sotto la copertura della “costruzione del socialismo in un solo paese”, l’identificazione al “socialismo” del capitalismo che si è ricostituito in Russia nelle forme più barbare, la sottomissione delle lotte del proletariato mondiale agli imperativi della difesa della “patria socialista” e infine la difesa della democrazia contro il fascismo. Tutte queste menzogne e mistificazioni hanno potuto, in gran parte, avere una presa sulle masse operaie proprio perché venivano veicolate da partiti che continuavano a presentarsi come gli eredi “legittimi” della rivoluzione d’Ottobre. E’ proprio questa falsa identificazione tra stalinismo e comunismo, utilizzata da tutti i settori della borghesia mondiale (3), che ha permesso alla controrivoluzione di paralizzare più generazioni operaie consegnandole mani e piedi legati alla seconda carneficina imperialista, di averla vinta sulle frazioni comuniste che avevano lottato contro la degenerazione dell’Internazionale comunista e dei suoi partiti o comunque di ridurle a livello di piccoli nuclei completamente isolati.
Sono stati in particolare i partiti stalinisti, negli anni ‘30, a deviare su di un terreno borghese la collera e la combattività degli operai colpiti brutalmente dalla crisi economica mondiale. Questa crisi, per la sua ampiezza e profondità, era il segno indiscutibile del fallimento storico del modo di produzione capitalistico e avrebbe potuto, a questo titolo ed in altre circostanze, costituire la leva per una nuova ondata rivoluzionaria. Ma la maggioranza degli operai che si orientavano verso questa prospettiva sono rimasti prigionieri nelle maglie dello stalinismo che pretendeva di rappresentare la tradizione della rivoluzione mondiale. In nome della difesa della “patria socialista” ed in nome dell’antifascismo, i partiti stalinisti hanno sistematicamente svuotato di ogni contenuto di classe le lotte proletarie di questo periodo e le hanno trasformate in forze di appoggio della democrazia borghese, quando non in preparativi della guerra imperialista. Questo fu il caso, in particolare, dei “fronti popolari” in Francia e in Spagna, dove un’enorme combattività operaia fu deviata ed annientata attraverso l’antifascismo, portato avanti principalmente dagli stalinisti, e fatto passare come una pratica proletaria. In quest’ultimo caso i partiti stalinisti hanno dimostrato che, anche al di fuori dell’URSS dove già da molti anni giocavano il ruolo di carnefici, erano ben più capaci dei loro maestri socialdemocratici nel compito di massacratori del proletariato (vedi in particolare il loro ruolo nella repressione del sollevamento proletario a Barcellona nel maggio 1937 descritto nell’articolo di “Bilan” “Piombo, mitraglia, prigioni …“ nella Rivista Internazionale n. 1, novembre ‘76). Come numero di vittime di cui porta la diretta responsabilità a livello mondiale, lo stalinismo non ha nulla da invidiare al fascismo, altra manifestazione della controrivoluzione. Ma il suo ruolo antioperaio sarà molto più importante perché lo assicurerà in nome della rivoluzione comunista e del proletariato, provocando in quest’ultimo un riflusso della sua coscienza di classe senza uguali nella storia.
Infatti, mentre alla fine e dopo la prima guerra imperialista, nel momento in cui si sviluppava l’ondata rivoluzionaria mondiale, l’impatto dei partiti comunisti era direttamente in rapporto con la combattività e soprattutto la coscienza nell’insieme del proletariato, l’evoluzione della loro influenza, a partire dagli anni 30, è in proporzione inversa alla coscienza nella classe. Alla loro fondazione, la forza dei partiti comunisti costituiva, in qualche modo, un termometro della potenza della rivoluzione; dopo esser passati alla borghesia, la loro forza diventa una misura della profondità della controrivoluzione.
E’ per questo che lo stalinismo non è mai stato così potente come dopo la seconda guerra mondiale. Questo periodo, infatti, costituisce il punto culminante della controrivoluzione. Grazie ai partiti stalinisti, per mezzo dei quali la borghesia ha potuto scatenare un’altra carneficina imperialista, e che sono stati tra i migliori sergenti-reclutatori del proletariato nei movimenti di “resistenza”, questa carneficina, contrariamente alla prima, non ha portato ad un sollevamento rivoluzionario del proletariato. L’occupazione di una buona parte dell’Europa da parte dell’“Armata rossa” (4) da una parte, la partecipazione dei partiti stalinisti ai governi della “Liberazione” dall’altra, hanno messo a tacere ogni velleità di lotta del proletariato sul proprio terreno di classe, attraverso il terrore o la mistificazione, ciò che lo ha spinto in un disorientamento ancora più profondo di quello che esisteva alla vigilia della guerra. Nella guerra, la vittoria degli alleati, alla quale lo stalinismo ha dato tutto il suo contributo, lungi dallo sgombrare il terreno per la classe operaia (come pretendevano i trotzkisti per giustificare la loro partecipazione alla “Resistenza”), non ha fatto altro che rafforzarne la sottomissione all’ideologia borghese. Questa vittoria, presentata come quella della “Democrazia” e della “Civilizzazione” sulla barbarie fascista, ha permesso alla borghesia di ridare splendore al blasone delle illusioni democratiche e della visione di un capitalismo “umano” e “civilizzato”, prolungando così di vari decenni la notte della controrivoluzione.
Non è affatto un caso se la fine della controrivoluzione, la ripresa storica delle lotte di classe a partire da 1968, coincide con un indebolimento importante, nell’insieme del proletariato mondiale, della presa dello stalinismo, del peso delle illusioni sulla natura dell’URSS e delle mistificazioni antifasciste. Ciò è particolarmente evidente nei due paesi occidentali dove esistevano i partiti “comunisti” più forti e dove si sono avute le lotte più significative di questa ripresa: la Francia nel 1968 e l’Italia nel 1969.
COME LA BORGHESIA UTILIZZA IL CROLLO DELLO STALINISMO
Questo indebolimento della presa ideologica dello stalinismo sulla classe operaia risulta in buona parte dalla scoperta da parte degli operai della vera natura dei regimi cosiddetti socialisti. Nei paesi dominati da questi regimi è evidente che gli operai hanno potuto constatare subito che lo stalinismo era uno dei loro peggiori nemici. Già dal 1953 in Germania orientale, e dal 1956 in Polonia ed Ungheria, le rivolte operaie e la loro repressioni nel sangue hanno dimostrato che, in questi paesi, gli operai non si facevano illusioni sullo stalinismo. Questi avvenimenti (così come l’intervento armato del patto di Varsavia in Cecoslovacchia nel 1968) hanno inoltre contributo ad aprire gli occhi ad un certo numero di operai in Occidente (5), anche se molto di più sono servite a tal scopo le lotte del 1970, 76 e 80 in Polonia che, proprio perché si situavano molto più direttamente su di un terreno di classe ed in un momento di ripresa mondiale delle lotte operaie, hanno potuto dimostrare in maniera molto più chiara al proletariato dei paesi occidentali la natura antioperaia dei regimi stalinisti. E’ per questo infatti che i partiti stalinisti occidentali hanno preso le distanze dalla repressione scatenata dagli stati “socialisti”.
Un altro elemento che ha favorito l’usura delle mistificazioni staliniste è stato la messa in evidenza, da parte di queste lotte, del fallimento dell’economia “socialista”. Tuttavia, man mano che si confermava questo fallimento e che di conseguenza si indebolivano le mistificazioni staliniste, la borghesia occidentale ne approfittava per sviluppare le sue campagne sulla “superiorità del capitalismo rispetto al socialismo”. Così le illusioni democratiche e sindacaliste che gli operai polacchi subivano sono state sfruttate, in particolare a partire dall’80, con la formazione del sindacato “Solidarnosc”, per essere ripresentate riverniciate a nuovo agli operai in Occidente. E’ infatti il rafforzamento di queste illusioni, accentuato dalla repressione del dicembre ‘81 e la messa fuori legge di “Solidarnosc”, che permette di comprendere il disorientamento ed il riflusso della classe operaia agli inizi degli anni ‘80.
L’emergere, a partire dall’autunno 1983, di una nuova ondata di ampie lotte nella maggior parte dei paesi sviluppati occidentali, ed in particolare in Europa occidentale, la simultaneità stessa di queste lotte a livello internazionale, dimostravano che la classe operaia stava liberandosi dalla presa delle illusioni e delle mistificazioni che l’avevano paralizzata nel periodo precedente. In particolare lo scavalcamento dei sindacati ed il loro rigetto, manifestatisi soprattutto nello sciopero dei ferrovieri in Francia alla fine dell’86 o nel movimento della scuola in Italia nell’87, la costituzione da parte dei gruppi di estrema “sinistra”, in questi ed in altri paesi, di “coordinamenti” che presentandosi come strutture “non sindacali” servivano nei fatti all’inquadramento dei lavoratori, sono tutte manifestazioni dell’indebolimento delle mistificazioni sindacaliste. Nello stesso periodo si indebolivano anche le mistificazioni elettorali con una crescita delle astensioni, in particolare nelle circoscrizioni operaie. Ma oggi, grazie al crollo dei regimi stalinisti e a tutte le campagne che ne derivano, la borghesia è riuscita a rovesciare la tendenza che si era manifestata in questi anni 80.
In effetti, se le trappole sindacaliste e democratiche che la borghesia era riuscita a tendere a ridosso delle lotte operaie dell’agosto ‘80 in Polonia, e grazie alle quali aveva potuto scatenare la repressione del dicembre 81, avevano permesso di provocare un sensibile disorientamento nel proletariato dei paesi più avanzati, il crollo generale e storico dello stalinismo di oggi non può che portare ad un disorientamento ancora maggiore.
Ciò perché gli avvenimenti attuali si situano ad un livello ben diverso da quello della Polonia 80. Innanzitutto non vi è implicata un’unica nazione ma tutte quelle del blocco, a cominciare dal capofila, l’URSS. La propaganda stalinista poteva presentare le difficoltà del regime polacco come il risultato degli “errori” di Gierek. Ha oggi nessuno, neanche i nuovi dirigenti di questi paesi, si sognano di accollare ai loro predecessori la responsabilità totale delle difficoltà dei loro regimi. A detta di molti di questi dirigenti, soprattutto quelli ungheresi, è in discussione l’insieme della struttura dell’economia e delle pratiche politiche aberranti che hanno marcato i regimi stalinisti fin dalla loro origine. Un tale riconoscimento del fallimento di questi regimi da parte di chi ne è alla testa chiaramente è pane per i denti della borghesia occidentale.
La seconda ragione per la quale la borghesia riesce ad utilizzare appieno ed efficacemente il crollo dello stalinismo e del blocco che dominava, sta nel fatto che questo crollo non deriva dall’azione della lotta di classe ma da un fallimento completo dell’economia di questi paesi. Negli attuali avvenimenti dei paesi dell’Est, il proletariato, in quanto classe, in quanto portatore di una politica antagonista al capitalismo, è purtroppo assente. In particolare, gli scioperi operai dell’estate scorsa nelle miniere dell’URSS sono piuttosto un’eccezione e denotano, per il peso delle mistificazioni che hanno gravato su di loro, la debolezza politica del proletariato di questi paesi. Questi scioperi erano essenzialmente una conseguenza dello sfacelo dello stalinismo e non un fattore attivo in questo sfacelo. D’altra parte, la maggior parte degli scioperi che si sono avuti in questi ultimi tempi in questo paese, contrariamente a quello dei minatori, non avevano come scopo la difesa degli interessi operai ma si situavano su di un terreno nazionalista (paesi baltici, Armenia, Azerbaijan, ecc.), e dunque completamente borghese. Nelle numerose manifestazioni di massa che scuotono attualmente i paesi dell’Europa dell’est, in particolare la Repubblica Democratica Tedesca, la Cecoslovacchia e la Bulgaria, non si vede neanche l’ombra di una sola rivendicazione operaia. Queste manifestazioni sono completamente dominate da rivendicazioni tipicamente ed esclusivamente democratico-borghesi: “elezioni libere”, “libertà”, “dimissioni dei PC al potere”, ecc. In questo senso, se l’impatto delle campagne democratiche sviluppatesi in seguito agli avvenimenti della Polonia 80-81 erano state limitate dal fatto che scaturivano da una situazione di lotta, l’assenza di una lotta di classe significativa nei paesi dell’est, oggi, non può che rafforzare gli effetti devastanti delle attuali campagne della borghesia.
Ad un livello più generale, il crollo di un intero blocco imperialista, le cui conseguenze saranno enormi, il fatto che questo avvenimento storico sia avvenuto indipendentemente dalla presenza del proletariato, non può che generare in quest’ultimo un sentimento di impotenza, anche se tutto questo è potuto avvenire, come dimostrano le tesi pubblicate in questo numero, solo a causa dell’incapacità della borghesia di imbrigliare a livello mondiale, fino ad oggi, la classe operaia in un terzo olocausto imperialista. E’ stata la lotta di classe, dopo aver rovesciato lo zarismo e poi la borghesia, in Russia, a porre fine alla prima guerra mondiale, provocando il crollo della Germania imperiale. E’ in gran parte per questa ragione che ha potuto svilupparsi a livello mondiale la prima ondata rivoluzionaria. Al contrario, il fatto che la lotta di classe non era stato che un fattore secondario nel crollo dei paesi dell’“Asse” e nella fine della seconda guerra mondiale, ha giocato un ruolo importante nella paralisi ed il disorientamento del proletariato all’indomani di questa. Oggi, non è indifferente che il blocco dell’est sia crollato sotto i colpi della crisi economica piuttosto che sotto i colpi della lotta di classe. Se fosse prevalsa questa seconda alternativa, piuttosto che indebolirsi come sta avvenendo oggi, la fiducia del proletariato nelle proprie capacità si sarebbe potuta rafforzare. Inoltre, nella misura in cui il crollo del blocco dell’est fa seguito ad un periodo di “guerra fredda” con il blocco occidentale, in cui quest’ultimo appare come il “vincitore” senza colpo ferire, si genera nelle popolazioni occidentali, e anche tra i proletari, un sentimento di euforia e di fiducia verso i propri governi, simile (facendo le debite proporzioni) a quello che pesò sui proletari dei paesi “vincitori” nelle due guerre mondiali e che fu una delle cause della sconfitta dell’ondata rivoluzionaria seguita alla prima guerra.
Una tale euforia, catastrofica per la coscienza del proletariato, sarà evidentemente molto più limitata dato che oggi non stiamo uscendo da una carneficina imperialista. Tuttavia quella che oggi si manifesta in alcuni paesi dell’est ha certamente un impatto in occidente e non potrà che accentuare gli effetti nefasti della situazione attuale. Infatti quando è caduto il muro di Berlino, simbolo del terrore imposto dallo stalinismo, la stampa ed alcuni esponenti borghesi hanno paragonato l’atmosfera che regnava in questa città a quella della “Liberazione”. Non è un caso: i sentimenti provati dalla popolazione della Germania dell’est nel momento in cui si abbatteva questo simbolo erano paragonabili a quelli delle popolazioni che avevano subito per anni l’occupazione ed in terrore della Germania nazista. Ma, come ci ha dimostrato la storia, questo tipo di sentimenti sono tra i peggiori ostacoli per la presa di coscienza del proletariato. La soddisfazione provata dagli abitanti dei paesi dell’est davanti al crollo dello stalinismo e soprattutto il rafforzamento delle illusioni democratiche che questo comporta, si ripercuoteranno fortemente, e si ripercuotono già sul proletariato dei paesi occidentali e particolarmente su quello tedesco che riveste una particolare importanza all’interno del proletariato mondiale nella prospettiva della rivoluzione proletaria. Inoltre il proletariato di questo paese dovrà affrontare, nel prossimo periodo, il peso delle mistificazioni nazionaliste che saranno rafforzate dalla prospettiva di una riunificazione della Germania, anche se questa non è ancora all’ordine del giorno.
Queste mistificazioni sono già oggi particolarmente forti tra gli operai della maggior parte dei paesi dell’est. Non solo nelle differenti repubbliche che costituiscono l’URSS, ma anche nelle “democrazie popolari” per il modo particolarmente brutale in cui il “Grande Fratello” ha esercitato la sua dominazione imperialista. Gli interventi sanguinosi dei carri armati russi nella RDT nel 1953, in Ungheria nel 1956, in Cecoslovacchia nel 1968, cosi come la costante rapina subita dall’economia dei paesi “satelliti” per dei decenni, hanno potuto solo alimentare tali mistificazioni. A fianco alle illusioni democratiche e sindacali, esse hanno contribuito non poco, nel 1980-81, allo scombussolamento degli operai polacchi che ha poi aperto la porta alla repressione del dicembre 1981. Con lo sfaldamento del blocco dell’est al quale assistiamo oggi queste mistificazioni acquisteranno nuovo vigore rendendo ancora più difficile la presa di coscienza degli operai di questi paesi. Queste mistificazioni nazionaliste peseranno anche sugli operai dell’occidente non necessariamente (tranne il caso della Germania) con un rafforzamento diretto del nazionalismo, ma attraverso il discredito e l’alterazione che subirà nella loro coscienza l’idea stessa di internazionalismo proletario. In effetti, questa idea è stata completamente snaturata dallo stalinismo e, sulle sue orme, dall’insieme delle forze borghesi che l’hanno identificato con la dominazione imperialista dell’URSS sul suo blocco. Per questo l’intervento dei carri armati del Patto di Varsavia in Cecoslovacchia, nel ‘68, è stato fatto in nome dell’“internazionalismo proletario”. La caduta ed il rigetto dell’internazionalismo di stile stalinista da parte delle popolazioni dei paesi dell’est non potrà che pesare negativamente sulla coscienza degli operai d’occidente e ciò tanto più in quanto la borghesia occidentale non perderà occasione per opporre al vero internazionalismo proletario la propria “solidarietà internazionale”, intesa come sostegno alle economie dell’est in rovina (quando non si giungerà a veri appelli alla carità) o alle “rivendicazioni democratiche” delle loro popolazioni quando queste si scontreranno con la repressione statale (ricordiamoci delle campagne a proposito della Polonia nell’81, o recentemente della Cina).
Nei fatti, ed è questo il perno delle campagne scatenate attualmente dalla borghesia, il crollo dello stalinismo investe la prospettiva stessa della rivoluzione comunista mondiale. L’internazionalismo non è che un elemento di questa prospettiva. La tiritera che i mass media ci ripetono fino alla nausea: “il comunismo è morto, è fallito”, riassume molto bene il messaggio fondamentale che le borghesie di tutti i paesi vogliono ficcare nelle teste degli operai che sfruttano. E la menzogna sulla quale si erano unite tutte le forze borghesi in passato, nei momenti più bui della controrivoluzione, cioè l’identificazione tra il comunismo e lo stalinismo, raccoglie oggi la stessa unanimità. Questa identificazione aveva permesso alla borghesia negli anni 30 di imbrigliare la classe operaia dietro di sé al fine di completarne la sconfitta. Oggi, quando lo stalinismo è completamente screditato agli occhi di tutti gli operai, questa menzogna serve a distoglierlo dalla prospettiva del comunismo.
Il proletariato dei paesi dell’est subisce già da parecchio tempo questo disorientamento: quando “dittatura del proletariato” è sinonimo di terrore poliziesco, “potere della classe operaia” significa potere cinico dei burocrati, “socialismo” denota sfruttamento brutale, miseria, penuria e malgoverno, quando a scuola bisogna imparare a memoria delle citazioni di Marx o di Lenin, ci si può solo allontanare da tutto ciò, cioè rigettare ciò che costituisce il fondamento stesso della prospettiva storica del proletariato, rifiutarsi categoricamente di studiare i testi di base del movimento operaio, rigettare gli stessi termini di “movimento operaio” e di “classe operaia” che sono considerati delle oscenità. In un tale contesto, l’idea stessa di una rivoluzione del proletariato è completamente screditata. “A che servirebbe un nuovo Ottobre ‘17 se, alla fin dei conti, il risultato ultimo è la barbarie stalinista?” Questo pensano oggi praticamente tutti gli operai dei paesi dell’est e la borghesia occidentale, aiutata dall’evidente e spettacolare fallimento di questo sistema, cerca oggi di disseminare lo stesso scombussolamento tra gli operai d’occidente.
Pertanto, l’insieme degli avvenimenti che scuotono i paesi dell’est e che si ripercuotono sul mondo intero, peseranno negativamente per tutto un periodo sulla presa di coscienza della classe operaia. In un primo tempo, l’apertura della “cortina di ferro” che separa in due il proletariato mondiale non permetterà agli operai dell’occidente di mettere a disposizione dei loro fratelli di classe dei paesi dell’est l’esperienza acquisita nelle lotte di fronte alle trappole ed alle mistificazioni sviluppate dalla borghesia più forte del mondo. Al contrario, sono le illusioni democratiche particolarmente forti tra gli operai dell’est, la loro convinzione sulla “superiorità del capitalismo sui socialismo”, che si rovesceranno sull’occidente indebolendo nell’immediato le acquisizioni delle esperienze del proletariato di questa parte del mondo. E’ per questo che l’agonia di questo strumento della controrivoluzione, lo stalinismo, viene oggi rivoltata contro la classe operaia.
LE PROSPETTIVE PER LA LOTTA DI CLASSE
Il crollo dei regimi stalinisti, derivante essenzialmente dal fallimento totale dell’economia, non potrà, in un contesto mondiale di approfondimento della crisi capitalista, che aggravare questo fallimento. Per la classe operaia di questi paesi significa attacchi alle sue condizioni di vita, miseria e fame senza precedenti. Una tale situazione provocherà necessariamente delle esplosioni di collera. Ma il contesto politico ed ideologico nei paesi dell’est è tale che la combattività operaia non potrà, per tutto un periodo, sfociare in un reale sviluppo della coscienza (vedi la presentazione delle tesi). Il caos e le convulsioni che si sviluppano sul piano economico e politico, la barbarie e l’imputridimento dell’insieme della società capitalista che essi esprimono in modo concentrato e caricaturale non potranno sfociare nella comprensione della necessità di rovesciare questo sistema finché una tale comprensione non si sarà sviluppata nei battaglioni decisivi del proletariato delle grandi concentrazioni operaie dell’occidente e particolarmente nell’Europa (6).
Attualmente, come abbiamo visto, questi settori subiscono essi stessi lo scatenamento delle campagne borghesi e sono colpiti da un riflusso della loro coscienza. Questo non vuoi dire che non saranno capaci di lottare contro gli attacchi economici del capitalismo la cui crisi è irreversibile. Significa soprattutto che, per un certo tempo, queste lotte saranno, molto più che negli scorsi anni, prigioniere degli organi di inquadramento della classe operaia e in primo luogo dei sindacati, come si può già constatarlo nelle lotte più recenti. In particolare i sindacati beneficeranno del rafforzamento generale delle illusioni democratiche e troveranno un terreno più propizio alle loro manovre con lo sviluppo dell’ideologia riformista che deriva dalle illusioni sulla “superiorità del capitalismo” rispetto ad ogni altra forma di società.
Tuttavia, il proletariato oggi non è quello degli anni ‘30. Non sta uscendo da una sconfitta come quella subita dopo l’ondata rivoluzionaria del primo dopoguerra. La crisi mondiale del capitalismo è insanabile. Essa potrà solo aggravarsi (vedi rapporto sulla situazione internazionale, in questo numero): dopo il crollo del “Terzo mondo” alla fine degli anni 70, dopo l’attuale implosione delle economie dette “socialiste”, il prossimo settore del capitale mondiale della lista è quello dei paesi più sviluppati che avevano potuto, in parte, scamparla fino ad oggi scaricando la maggior parte delle convulsioni del sistema verso la periferia. La messa in evidenza inevitabile del fallimento completo, non di un settore particolare del capitalismo, ma dell’insieme di questo modo di produzione, non potrà che minare le basi stesse delle campagne della borghesia occidentale sulla “superiorità del capitalismo”.
Alla fine, lo sviluppo della sua combattività dovrà sfociare in un nuovo sviluppo della coscienza, sviluppo interrotto ed ostacolato oggi dalla caduta dello stalinismo. Spetta alle organizzazioni rivoluzionarie contribuire in maniera decisa a questo sviluppo, non cercando di consolare oggi gli operai, ma mettendo chiaramente in evidenza che, malgrado la difficoltà del cammino, non esiste altra via per il proletariato se non quella che porta alla rivoluzione comunista.
25/11/89 F. M.
1) E’ significativo che la “rivoluzionaria” e “democratica” borghesia francese non ha esitato a schernire la “Dichiarazione dei diritti dell’Uomo” che aveva appena adottato (e alla quale si fa molto riferimento oggi) vietando ogni associazione operaia (legge Chapelier del 14 giugno 1791). Questo divieto sarà abrogato solo un secolo più tardi, nel 1884.
2) La degenerazione ed il tradimento di questo ha incontrato una forte resistenza. In particolare, una gran parte dei militanti e la quasi totalità dei dirigenti del partito dell’Ottobre 1917 sono stati sterminati dallo stalinismo. Su questa questione vedi in particolare “La degenerazione della rivoluzione russa” e “La sinistra comunista in Russia” sulla Rivista Internazionale n°2, novembre 1977.
3) Nella seconda metà degli anni 20 e per tutti gli anni 30, la “democratica” borghesia occidentale si è ben guardata dal manifestare, di fronte allo stalinismo “barbaro” e “totalitario”, quella ripugnanza che invece comincia a sbandierare a partire dalla “guerra fredda”, e ripresa oggi nelle varie campagne. Essa ha invece sostenuto pienamente Stalin nella persecuzione da questo scatenata contro l’“Opposizione di sinistra” e il suo principale dirigente, Trotskij. Per quest’ultimo, dopo la sua espulsione dalla Russia nel ‘28, il mondo è diventato un “pianeta senza lasciapassare”. Nei suoi confronti tutti i “democratici” del mondo, e in prima linea i socialdemocratici, che erano al governo in Germania, Gran Bretagna, Norvegia, Svezia, Belgio o Francia, hanno nuovamente dato prova della loro ripugnante ipocrisia mandando a quel paese i “virtuosi principi” quali il “diritto d’asilo”. Questo bel mondo non ha trovato niente da ridire quando Stalin, con i processi di Mosca, ha liquidato la vecchia guardia del partito bolscevico accusandola di “hitlero-trotzkismo”. Queste “anime candide” hanno perfino lasciato capire che “non c’è fumo senza fuoco”.
4) Un’ulteriore prova, ammesso che ce ne sia ancora bisogno, del fatto che i regimi che si formano nell’Europa dell’est dopo la seconda guerra mondiale (oltre chiaramente al regime che già esisteva in Russia) non hanno niente a che vedere col regime instauratosi in Russia nel 1917, sta nel rapporto tra le loro origini e la guerra imperialista. La natura operaia della Rivoluzione d’Ottobre è dimostrata dal fatto che questa sorge CONTRO la guerra imperialista. La natura antioperaia e capitalista delle “democrazie popolari” è contrassegnata dal fatto che esse si sono instaurate GRAZIE alla guerra imperialista.
5) Chiaramente questo non è il solo fattore che permette di spiegare l’usura dell’impatto dello stalinismo - così come dell’insieme delle mistificazioni borghesi - nella classe operaia tra la fine della guerra e la ripresa storica del proletariato alla fine degli anni 60. D’altra parte, in molti paesi (in particolare quelli dell’Europa del nord), lo stalinismo dalla seconda guerra mondiale giocava solo un ruolo molto secondario rispetto a quello della socialdemocrazia nell’inquadramento degli operai. L’indebolimento delle mistificazioni antifasciste, per l’inesistenza nella maggioranza dei paesi di uno spauracchio “fascista”, così come l’usura dell’influenza dei sindacati (siano essi stalinisti o socialdemocratici) già ampiamente utilizzati negli anni 60 per sabotare le lotte, possono anch’essi spiegare l’indebolimento dell’impatto dello stalinismo, come di quello della socialdemocrazia, sul proletariato, ciò che ha permesso a quest’ultimo di ritornare sulla scena storica fin dai primi attacchi della crisi aperta.
6) Vedi la nostra analisi su questa questione nell’articolo “Il proletariato d’Europa occidentale al centro della generalizzazione della lotta di classe” pubblicato nella Rivista Internazionale n.7.
II crollo del blocco imperialista dell’est ci ha fornito la conferma dell’entrata del capitalismo in una nuova fase del suo periodo di decadenza: quello della decomposizione generale della società. Prima ancora che si producessero gli avvenimenti dell’est, la CCI aveva già messo in evidenza questo fenomeno storico (vedi in particolare la Revue Internationale n°57). Questi avvenimenti, l’entrata del mondo in un periodo di instabilità mai visto in passato, obbligano i rivoluzionari ad analizzare con la massima attenzione questo fenomeno, le sue cause e conseguenze, a mettere in evidenza la posta in gioco di questa nuova situazione storica.
1) Tutti i modi di produzione del passato hanno conosciuto un periodo di ascendenza e un periodo di decadenza. Per il marxismo, il primo periodo corrisponde ad un pieno adeguamento dei rapporti di produzione dominanti con il livello di sviluppo delle forze produttive della società, il secondo esprime il fatto che questi rapporti di produzione sono divenuti troppo stretti per contenere questo sviluppo. Contrariamente alle aberrazioni enunciate dai bordighisti, il capitalismo non sfugge a questa legge. Dall’inizio del XX secolo, ed in particolare dopo la prima guerra mondiale, i rivoluzionari hanno messo in evidenza che questo modo di produzione era a sua volta entrato nel suo periodo di decadenza. Tuttavia, sarebbe folle contentarsi di affermare che il capitalismo non fa che seguire le tracce dei modi di produzione che 1’hanno preceduto. E’ importante sottolineare a questo proposito anche le differenze fondamentali tra la decadenza capitalista e quelle delle società del passato. In realtà, la decadenza del capitalismo, così come noi la conosciamo dall’inizio del 20° secolo, si presenta come il periodo di decadenza per eccellenza (se cosi si può dire). Rispetto alla decadenza delle società del passato (le società schiaviste e feudali), quella attuale si situa a tutt’altro livello. E questo perché:
In fin dei conti, la differenza tra l’ampiezza e la profondità della decadenza capitalista e quelle delle decadenze del passato non può essere ridotta ad una semplice questione di quantità. D’altra parte gli stessi aspetti quantitativi rendono conto di una situazione qualitativamente differente e nuova. In effetti la decadenza del capitalismo:
2) Tutte le società in decadenza comportano degli elementi di decomposizione: sfaldamento del corpo sociale, putrefazione delle sue strutture economiche, politiche ed ideologiche, ecc. La stessa cosa è accaduta per il capitalismo dall’inizio della sua fase di decadenza. Tuttavia, come è importante stabilire chiaramente la distinzione tra quest’ultima e le decadenze del passato, è ugualmente indispensabile mettere in evidenza la differenza fondamentale che esiste tra gli elementi di decomposizione che hanno intaccato il capitalismo dall’inizio del secolo e la decomposizione generalizzata nella quale sprofonda attualmente questo sistema e che non potrà che aggravarsi ulteriormente. Anche qui, al di là dell’aspetto strettamente quantitativo, il fenomeno della decomposizione sociale raggiunge oggi una tale profondità e una tale estensione da acquistare una qualità nuova e singolare manifestando l’entrata del capitalismo decadente in una fase specifica, la fase ultima della sua storia, quella in cui la decomposizione diviene un fattore, se non il fattore decisivo dell’evoluzione della società.
In questo senso è sbagliato identificare decadenza e decomposizione. Se é vero che non si può concepire l’esistenza della fase di decomposizione al di fuori del periodo di decadenza, si può perfettamente rendere conto dell’esistenza della decadenza senza che quest’ultima si manifesti attraverso una fase di decomposizione.
3) In effetti, come il capitalismo ha conosciuto diversi periodi nel suo percorso storico, nascita, ascendenza, decadenza, ognuno di questi periodi contiene a sua volta un certo numero di fasi distinte e differenti. Per esempio, il periodo di ascendenza comporta le fasi successive del libero mercato, delle società per azioni, del monopolio, del capitale finanziario, delle conquiste coloniali, della costituzione del mercato mondiale. Allo stesso modo il periodo di decadenza ha anch’esso la sua storia: imperialismo, guerre mondiali, capitalismo di Stato, crisi permanente e, oggi, decomposizione. Si tratta di manifestazioni successive della vita del capitalismo ognuna delle quali permette di caratterizzare una fase particolare di questa, anche se queste manifestazioni potevano esistere già da prima o si sono potute mantenere con l’entrata in una nuova fase. Così, ad un livello più generale, se è vero che il salariato esisteva già durante la società schiavista o feudale (cosi come lo schiavo o il servo si sono potuti mantenere anche all’interno del capitalismo), solo il capitalismo dà a questo rapporto di sfruttamento il posto dominante nella società. Allo stesso modo, se l’imperialismo è potuto esistere come fenomeno già nel periodo ascendente del capitalismo, esso acquista un posto centrale nella società, nella politica degli Stati e nei rapporti internazionali, solo con l’entrata del capitalismo nel suo periodo di decadenza al punto da imprimere il suo carattere alla prima fase di questa, cosa che ha condotto i rivoluzionari di quest’epoca a identificarla con la stessa decadenza.
Così, la fase di decomposizione della società capitalista non si presenta solo come quella che fa seguito cronologicamente alle fasi caratterizzate dal capitalismo di Stato e dalla crisi permanente. Nella misura in cui le contraddizioni e le manifestazioni della decadenza del capitalismo che, una dopo l’altra, marcano i diversi momenti di questa decadenza, non scompaiono col tempo ma si mantengono e si vanno pure ad approfondire, la fase di decomposizione appare come quella risultante dall’accumulazione di tutte queste caratteristiche di un sistema moribondo, quella che chiude degnamente tre quarti di secolo di agonia di un modo di produzione condannato dalla storia. Concretamente, non solo nella fase di decomposizione restano la natura imperialista di tutti gli Stati, la minaccia di guerra mondiale, l’assorbimento della società civile da parte del Moloch statale, la crisi permanente dell’economia capitalista, ma addirittura questa fase rappresenta la conseguenza ultima, la sintesi completa di tutti questi elementi. Essa risulta dunque:
Essa costituisce l’ultima tappa di quel ciclo infernale di crisi-guerra-ricostruzione-nuova crisi che, con convulsioni enormi, ha scosso dall’inizio del secolo la società e le sue differenti classi:
4) Questo ultimo punto costituisce l’elemento nuovo, specifico, inedito, che in ultima istanza ha determinato l’entrata del capitalismo decadente in una nuova fase della sua storia, quella della decomposizione. La crisi aperta che si sviluppa alla fine degli anni ‘60, come conseguenza dell’esaurimento degli effetti del secondo dopoguerra, apre di nuovo il cammino all’alternativa storica guerra mondiale o scontri di classe generalizzati verso la rivoluzione proletaria. Ma, contrariamente alla crisi aperta degli anni ‘30, la crisi attuale si è sviluppata in un momento in cui la classe operaia non subiva più la cappa di piombo della controrivoluzione. Per questo fatto, attraverso la sua ricomparsa storica a partire dal 1968, essa ha mostrato che la borghesia non aveva più le mani libere per scatenare una terza guerra mondiale. Allo stesso tempo, se il proletariato ha già la forza di impedire una tale conclusione, esso non ha ancora trovato quella di rovesciare il capitalismo, e questo a causa:
In una tale situazione in cui le due classi fondamentali e antagoniste della società si confrontano senza riuscire ad imporre la loro propria risposta decisiva, la storia non può attendere fermandosi. Ancor meno che per gli altri modi di produzione che lo hanno preceduto, non è possibile per il capitalismo congelare la situazione, la vita sociale. Mentre le contraddizioni del capitalismo in crisi non fanno che aggravarsi, l’incapacità della borghesia di offrire la minima prospettiva per l’insieme della società così come l’incapacità del proletariato di affermare apertamente la propria prospettiva nell’immediato non possono che sfociare in un fenomeno di decomposizione generalizzata, di incancrenimento generale della società.
5) In effetti nessun modo di produzione è capace di vivere e svilupparsi, assicurare la coesione sociale, se non è capace di presentare una prospettiva all’insieme della società da esso dominata. E ciò è particolarmente valido per il capitalismo in quanto rappresenta il modo di produzione più dinamico della storia. Quando i rapporti di produzione capitalisti costituivano il quadro appropriato allo sviluppo delle forze produttive, questa prospettiva si confondeva con il progresso storico, non soltanto della società capitalista, ma dell’intera umanità. In tali circostanze, nonostante gli antagonismi di classe o le rivalità tra settori (in particolare nazionali) della classe dominante, l’insieme della vita sociale poteva svilupparsi senza la minaccia di convulsioni particolarmente drammatiche. Quando questi rapporti di produzione, divenendo un impedimento alla crescita delle forze produttive, si sono convertiti in un ostacolo per lo sviluppo sociale, determinando l’entrata in un periodo di decadenza, allora si sono sviluppate le tremende convulsioni di questa fase che ormai angosciano l’umanità da tre quarti di secolo. In un tale quadro, il tipo di prospettiva che il capitalismo poteva offrire alla società era evidentemente inscritto nei limiti specifici permessi dalla sua decadenza:
Nessuna di queste prospettive rappresenta, evidentemente, una “soluzione” alle contraddizioni del capitalismo. Tuttavia ognuna di esse comportava un vantaggio per la borghesia, ovvero di contenere un obbiettivo “realista”: o di preservare la sopravvivenza del suo sistema contro la minaccia proveniente dal nemico di classe, il proletariato, o di organizzare la preparazione diretta e lo scatenamento della guerra mondiale, o ancora di portare avanti un rilancio dell’economia all’indomani di quest’ultima. Al contrario, in una situazione storica in cui la classe operaia non è ancora capace di ingaggiare immediatamente la lotta per la propria prospettiva, la sola che sia veramente realista, la rivoluzione comunista, e mentre la borghesia a sua volta risulta incapace di proporre una qualsivoglia prospettiva, anche a breve termine, la capacità che quest’ultima ha testimoniato in passato, nel corso stesso del periodo di decadenza, di limitare e controllare il fenomeno della decomposizione, non può che ridursi drasticamente con l’avanzare della crisi. E’ per questo che la situazione attuale di crisi aperta si presenta in termini radicalmente diversi da quelli della precedente crisi dello stesso tipo, quella degli anni ‘30. Il fatto che quest’ultima non abbia determinato un fenomeno di decomposizione non deriva solo dal fatto che è durata solo 10 anni, mentre quella attuale dura ormai da vent'anni. Che non sia comparso un fenomeno di decomposizione nel corso degli anni ‘30 risulta anzitutto dal fatto che, di fronte alla crisi, la borghesia aveva le mani libere per proporre una risposta. Certo, una risposta di una crudeltà inaudita e di natura suicida, capace di trascinare l’umanità nella più grande catastrofe della propria storia, una risposta che non era stata scelta deliberatamente poiché era stata imposta dall’aggravarsi della crisi, ma una risposta intorno alla quale, prima, durante e dopo, la borghesia ha potuto, in mancanza di una resistenza significativa del proletariato, organizzare l’apparato produttivo, politico e ideologico della società. Oggi, al contrario, il fatto che per due decenni il proletariato sia stato capace di impedire la messa in atto di una tale soluzione ha fatto sì che la borghesia non sia stata capace di organizzare alcunché per mobilitare le diverse componenti della società - ivi compresa la classe dominante - intorno ad un obiettivo comune che non sia quello di resistere, alla “giornata” e senza alcuna speranza di vie d’uscita, all’avanzata della crisi.
6) Così, anche se la fase di decomposizione si presenta come il completamento, la sintesi di tutte le contraddizioni e manifestazioni successive della decadenza del capitalismo:
Questa fase di decomposizione è determinata fondamentalmente da condizioni storiche nuove, inedite ed inattese: la situazione di “impasse” momentanea della società, di “blocco”, la reciproca “neutralizzazione” delle sue due classi fondamentali che impedisce ad ognuna di esse di apportare la sua risposta decisiva alla crisi aperta dell’economia capitalista. Le manifestazioni di questa decomposizione, le sue condizioni di evoluzione e le sue conseguenze, non possono essere esaminate che mettendo in primo piano questo fattore.
7) Se si passano in rassegna le caratteristiche essenziali della decomposizione cosi come si manifestano oggi, si può effettivamente constatare che esse hanno come denominatore comune questa assenza di prospettiva. Così:
Tutte queste calamità economiche e sociali, se sono in generale un’espressione della decadenza del capitalismo, per il grado di accumulazione e l’ampiezza raggiunti costituiscono la manifestazione dello sprofondamento in uno stallo completo di un sistema che non ha alcun avvenire da proporre alla maggior parte della popolazione mondiale se non una barbarie al di là di ogni immaginazione. Un sistema in cui le politiche economiche, le ricerche, gli investimenti, tutto è realizzato sistematicamente a discapito del futuro dell’umanità e, pertanto, a discapito del futuro del sistema stesso.
8) Ma le manifestazioni dell’assenza totale di prospettive della società attuale sono ancora più evidenti sul piano politico ed ideologico:
Tutte queste manifestazioni della putrefazione sociale che oggi, ad un livello mai visto nella storia, permea tutti i pori della società umana, esprimono una sola cosa: non solo lo sfascio della società borghese, ma soprattutto 1’annientamento di ogni principio di vita collettiva nel seno di una società ormai priva del minimo progetto, della minima prospettiva, anche se a corto termine, anche se illusoria.
9) Tra le caratteristiche principali della decomposizione della sociétà capitalista bisogna sottolineare la difficoltà crescente della borghesia a controllare l’evoluzione della situazione sul piano politico. Alla base di questo fenomeno c'è evidentemente la crescente perdita di controllo della classe dominante sul suo apparato economico, che costituisce 1’infrastruttura della società. L’“impasse” storica in cui si trova imprigionato il modo di produzione capitalista, i fallimenti successivi delle diverse politiche condotte dalla borghesia, la permanente fuga in avanti nell’indebitamento generalizzato per mezzo del quale sopravvive l’economia mondiale, tutti questi elementi non possono che ripercuotersi su un apparato politico incapace, da parte sua, di imporre alla società, ed in particolare alla classe operaia, la “disciplina” e l’adesione richieste per mobilitare tutte le forze e le energie verso la guerra mondiale, sola “risposta” storica che la borghesia possa offrire. L’assenza di una prospettiva (che non sia quella di “salvare il salvabile” procedendo alla giornata) verso la quale essa possa mobilitarsi come classe - e nella misura in cui il proletariato non costituisce ancora una minaccia per la sua sopravvivenza - determina all'interno della classe dominante, ed in particolare del suo apparato politico, una tendenza crescente all’indisciplina e al “si salvi chi può”. E’ proprio questo fenomeno che permette in particolare di spiegare il crollo dello stalinismo e dell’insieme del blocco imperialista dell’Est. Questo crollo, in effetti, è nel suo complesso una delle conseguenze della crisi mondiale del capitalismo; d’altra parte esso non può essere analizzato senza prendere in considerazione le specificità che le circostanze storiche della loro apparizione hanno conferito ai regimi stalinisti (vedi le “Tesi sulla crisi economica e politica in URSS e nei paesi dell'Est”, Rivista Internazionale n°13). Tuttavia non si può comprendere pienamente questo fatto storico tanto considerevole ed inedito, il crollo dall’interno di tutto un blocco imperialista in assenza di una rivoluzione o di una guerra mondiale, che inserendo nel quadro d’analisi questo altro elemento inedito che costituisce l’entrata della società in una fase di decomposizione. La forte centralizzazione e statalizzazione completa dell’economia, la confusione tra l’apparato economico e quello politico, la forzatura permanente e di grande entità contro la legge del valore, la mobilitazione di tutte le risorse economiche verso la sfera militare, tutte queste caratteristiche proprie dei regimi stalinisti, se erano adatti ad un contesto di guerra imperialista (questo tipo di regime ha attraversato vittoriosamente la seconda guerra mondiale e si è anche rafforzato), hanno incontrato in maniera brutale e radicale i loro limiti dal momento in cui la borghesia ha dovuto affrontare per anni l’aggravarsi della crisi economica senza poter trovare uno sfogo in questa stessa guerra imperialista. In particolare, il menefreghismo generalizzato che si è sviluppato in assenza delle sanzioni del mercato (e che giustamente il ristabilimento ufficiale del mercato si propone di eliminare) non poteva concepirsi nelle circostanze della guerra, quando la prima “motivazione” degli operai, così come dei responsabili economici, era il fucile che essi tenevano puntato alle spalle. La sbandata generale all’interno stesso dell’apparato statale, la perdita di controllo sulla sua propria strategia politica, che ci viene oggi mostrata dall’URSS e dai suoi satelliti, costituiscono in realtà la caricatura (per le specificità dei regimi stalinisti) di un fenomeno molto più generale che tocca l’insieme della borghesia mondiale, un fenomeno proprio della fase di decomposizione.
10) Questa tendenza generale della borghesia alla perdita di controllo della gestione della sua politica, se costituisce uno dei fattori di primo piano del crollo del blocco dell’est, non potrà che ritrovarsi ulteriormente accentuato da questo crollo per:
Una tale destabilizzazione politica della classe borghese, illustrata per esempio dall’inquietudine che i suoi settori più solidi nutrono a riguardo di una possibile contaminazione del caos che si sviluppa nei paesi del vecchio blocco dell’est, potrebbe anche rendere la borghesia incapace di ricostituire una nuova organizzazione del mondo in due blocchi imperialisti. L’aggravarsi della crisi economica conduce necessariamente all’acuirsi delle rivalità imperialiste tra Stati. In questo senso lo sviluppo e l’esacerbazione degli scontri militari tra questi ultimi si inscrivono nella situazione attuale. Per contro, la ricostituzione di una struttura economica, politica e militare che raggruppi questi diversi Stati suppone l’esistenza da parte loro e al loro interno di una disciplina che il fenomeno della decomposizione renderà sempre più problematica. E’ perciò che questo fenomeno, già in parte responsabile della scomparsa del sistema di blocchi ereditato dalla seconda guerra mondiale, può perfettamente, impedendo la ricostituzione di un nuovo sistema di blocchi, condurre non solo all’allontanamento (come avviene già adesso) ma anche alla scomparsa definitiva di ogni prospettiva di guerra mondiale.
11) La possibilità che la prospettiva generale del capitalismo possa cambiare in seguito ai mutamenti di estrema importanza che la decomposizione ha introdotto nella vita della società non ci deve però indurre a rimettere in discussione la conclusione ultima che questo sistema riserva all’umanità nel caso in cui il proletariato si dimostrasse incapace di rovesciarlo. In effetti, se la prospettiva storica della società è stata posta nei termini generali da Marx ed Engels sottoforma di “socialismo o barbarie”, lo sviluppo stesso della vita del capitalismo (ed in particolare della sua decadenza) ha permesso di precisare, e finanche di appesantire, questo giudizio sottoforma di:
Oggi, dopo la scomparsa del blocco dell’Est, questa prospettiva terrificante resta interamente possibile. Ma occorre precisare che una tale distruzione dell’umanità può provenire dalla guerra imperialista generalizzata così come dalla decomposizione della società.
Bisogna guardarsi da una interpretazione secondo cui la decomposizione consisterebbe in una regressione della società. Anche se la decomposizione fa risorgere alcune caratteristiche proprie del passato del capitalismo, ed in particolare del periodo ascendente di questo modo di produzione, come per esempio:
Questa decomposizione non ci riporta ad alcuna società anteriore, a nessuna fase precedente della vita del capitalismo. Si potrebbe paragonare la società capitalista ad un vecchio che, come si suol dire, “ritorna ad essere bambino”. Questo può perdere delle facoltà e delle caratteristiche acquisite con la maturità e può ritrovare dei tratti tipici dell’infanzia (fragilità, dipendenza, debolezza nel ragionamento), ma non potrà comunque ritrovare la vitalità propria di questa età. Oggi la civiltà umana sta perdendo un certo numero delle proprie acquisizioni (come per esempio il controllo della natura) ed al contempo non riesce ad avere la capacità di progredire o lo spirito di conquista che ha caratterizzato in particolar modo il capitalismo ascendente. Il corso della storia è irreversibile: la decomposizione porta, come indica il nome stesso, alla dislocazione ed alla putrefazione della società, al niente. Lasciata alla sua propria logica, alle sue ultime conseguenze, essa conduce l’umanità allo stesso risultato di una guerra mondiale. Essere annientati brutalmente da una pioggia di bombe termonucleari in una guerra generalizzata o dall’inquinamento, la radioattività delle centrali nucleari, la fame, le epidemie ed i massacri delle differenti guerre locali (dove potrebbe anche essere usata l’arma atomica), il risultato è lo stesso. La sola differenza tra queste due forme di annientamento è che la prima è più rapida mentre la seconda è più lenta e quindi molto più sofferta.
12) E’ della massima importanza che il proletariato, ed i rivoluzionari al suo interno, prendano pienamente coscienza della minaccia mortale che la decomposizione rappresenta per l’insieme della società. Nel momento in cui le illusioni pacifiste rischiano di svilupparsi dato che si è allontanata la possibilità di una guerra generalizzata, bisogna combattere con forza ogni tendenza nella classe operaia a cercare delle consolazioni, a nascondere a se stessi 1’estrema gravità della situazione mondiale. In particolare, sarebbe tanto falso quanto pericoloso considerare che essendo la decomposizione una realtà, essa sia anche una necessità, cioè un passo necessario verso la rivoluzione.
Bisogna stare attenti a non confondere necessità con realtà. Engels ha criticato severamente la formula di Hegel “tutto ciò che è razionale è reale e tutto ciò che è reale è razionale”, rigettando la seconda parte di questa formulazione e prendendo ad esempio la persistenza della monarchia in Germania che era certo reale ma niente affatto razionale (si potrebbe applicare il ragionamento di Engels alle attuali monarchie del Regno Unito, dei Paesi Bassi, del Belgio, ecc.). Il fatto che la decomposizione sia oggi una realtà non significa affatto che sia una necessità per la rivoluzione proletaria. Con un simile approccio si potrebbe rimettere in discussione la rivoluzione d’Ottobre 1917 e tutta l’ondata rivoluzionaria del primo dopo-guerra che si sono avuti senza la fase di decomposizione del capitalismo. Nei fatti, la necessità di fare una netta distinzione tra la decadenza del capitalismo e questa fase specifica, l’ultima della decadenza che è la decomposizione, trova una sua applicazione in questa questione della realtà e della necessità: la decadenza del capitalismo era necessaria perché il proletariato fosse in grado di rovesciare questo sistema; al contrario, l’apparizione del fenomeno storico della decomposizione, risultato del perpetuarsi della decadenza in assenza della rivoluzione proletaria, non costituisce affatto una tappa necessaria per il proletariato sul cammino della sua emancipazione.
Questa fase di decomposizione è paragonabile a quella della guerra imperialista. La guerra del 1914 era un fatto fondamentale di cui la classe operaia ed i rivoluzionari dovevano evidentemente (e come!) tener conto, ma ciò non implicava affatto che questa dovesse essere una condizione particolarmente favorevole al trionfo della rivoluzione internazionale, come invece affermano i bordighisti.
13) E’ particolarmente importante essere lucidi sul pericolo che rappresenta la decomposizione per la capacità del proletariato di essere all’altezza del suo compito storico. Come lo scoppio della guerra imperialista nel cuore del mondo “civilizzato” costituiva “un salasso che (rischiava) di esaurire mortalmente il movimento operaio europeo”, che “minacciava di schiacciare le prospettive del socialismo sotto le rovine ammucchiate dalla barbarie imperialista” “falciando sui campi di battaglia (...) le migliori forze (...) del socialismo internazionale, le truppe d’avanguardia dell’insieme del proletariato mondiale” (R. Luxemburg, La crisi della socialdemocrazia), così la decomposizione della società, che potrà solo aggravarsi, potrà anch'essa falciare le migliori forze del proletariato e compromettere definitivamente la prospettiva del comunismo. Tanto più che l’avvelenamento della società dovuto alla putrefazione del capitalismo non risparmia nessuna delle sue componenti, nessuna delle sue classi, neanche il proletariato. In particolare, se l’indebolimento della presa dell’ideologia borghese derivante dall’entrata del capitalismo nella sua fase di decadenza era una delle condizioni della rivoluzione, il fenomeno di decomposizione di questa stessa ideologia, così come si sviluppa oggi, si presenta essenzialmente come un ostacolo alla presa di coscienza del proletariato.
All’inizio, la decomposizione ideologica colpisce evidentemente in primo luogo la classe capitalista stessa e, per contraccolpo, gli strati piccolo-borghesi che non hanno alcuna autonomia. Si potrebbe dire che questi ultimi si identificano particolarmente bene con questa decomposizione nella misura in cui la loro situazione specifica, 1’assenza di ogni avvenire, ricalca la principale causa della decomposizione ideologica: 1’assenza di ogni prospettiva immediata per l’insieme della società. Solo il proletariato porta in sé una prospettiva per l’umanità e, in questo senso, è al suo interne che esiste la maggiore capacità a resistere a questa decomposizione. Tuttavia neanche lui viene risparmiato, in particolare perché la piccola borghesia a contatto della quale esso vive ne è il principale veicolo. I diversi elementi che costituiscono la forza del proletariato si scontrano direttamente con i diversi aspetti di questa decomposizione ideologica:
14) Uno dei fattori che aggravano questa situazione è evidentemente il fatto che una proporzione importante delle giovani generazioni operaie subisce in pieno la calamità della disoccupazione prima ancora che abbia avuto l’occasione di fare l’esperienza di una vita collettiva di classe sui luoghi di lavoro, in compagnia dei compagni di lavoro e di lotta. Di fatto la disoccupazione, che risulta direttamente dalla crisi economica, se non è in sé una manifestazione della decomposizione, finisce per comportare, in questa fase particolare della decadenza, delle conseguenze che fanno di essa un elemento singolare di questa decomposizione. Se infatti essa può contribuire in generale a smascherare l’incapacità del capitalismo ad assicurare un futuro ai proletari, essa costituisce ugualmente, oggi, un potente fattore di “lumpenizzazione” di certi settori della classe, in particolare tra i giovani operai, cosa che tende ad indebolire le capacità politiche attuali e future di questa. Questa situazione ha fatto sì che, nonostante ci sia stato un incremento considerevole della disoccupazione negli anni ‘80, siano mancati movimenti significativi o dei tentativi reali di organizzazione da parte dei proletari disoccupati. Il fatto che, in pieno periodo di controrivoluzione, durante la crisi degli anni '30, il proletariato, particolarmente negli USA, sia stato capace di dar luogo a queste forme di lotta, illustra bene, per contrasto, il peso delle difficoltà che rappresenta attualmente - in un periodo di decomposizione - la disoccupazione nella presa di coscienza del proletariato.
15) Di fatto, non è soltanto attraverso la questione della disoccupazione che si è manifestato in questi ultimi anni il peso della decomposizione come fattore delle difficoltà per la presa di coscienza del proletariato. Anche mettendo da parte il crollo del blocco dell'Est e l’agonia dello stalinismo (che sono una manifestazione della fase di decomposizione e che hanno provocato un rinculo molto marcato della coscienza nella classe -vedi gli articoli nella Rivista Internazionale n°13), bisogna ancora considerare che le difficoltà provate dalla classe operaia per porre avanti la prospettiva dell’unificazione delle proprie lotte derivano in buona parte dalla pressione esercitata dalla decomposizione. In particolare le esitazioni mostrate dal proletariato di fronte alla necessità di passare ad un livello superiore della propria lotta, se costituiscono una caratteristica generale del movimento di questa classe già analizzata da Marx ne “II 18 Brumaio”, sono state ulteriormente accentuate dalla mancanza di fiducia in sé e nell’avvenire che la decomposizione instilla all’interno della classe. Allo stesso modo, l’ideologia del “ciascuno per sé”, particolarmente marcata nel periodo attuale, non ha potuto che favorire l’azione delle trappole del corporativismo tese con successo dalla borghesia in questi ultimi anni contro le lotte operaie.
Così, lungo tutti gli anni ‘80, la decomposizione della società capitalista ha giocato un ruolo di freno nel processo di presa di coscienza della classe operaia, andandosi a sommare agli altri elementi già identificati in passato quali:
Tuttavia questi vari elementi non agiscono tutti allo stesso modo. Mentre il tempo è un fattore che contribuisce a ridurre il peso degli ultimi due, al tempo stesso non fa che accrescere quello del primo. E’ dunque fondamentale comprendere che quanto più il proletariato tarderà a rovesciare il capitalismo, tanto più importanti saranno i pericoli e gli effetti nocivi della decomposizione.
16) Contrariamente alla situazione esistente negli anni ‘70, occorre mettere in evidenza che oggi il tempo non gioca più a favore della classe operaia. Finché la minaccia di distruzione della società era rappresentata unicamente dalla guerra imperialista, il semplice fatto che le lotte del proletariato fossero capaci di mantenersi come ostacolo decisivo di un tale evento era sufficiente a sbarrare la strada a questa distruzione. Invece, contrariamente alla guerra imperialista che per potersi realizzare richiede l’adesione del proletariato alle idee della borghesia, la decomposizione non ha nessun bisogno di imbrigliare la classe operaia per distruggere l’umanità. In effetti, le lotte operaie sono incapaci di costituire un freno alla decomposizione così come non riescono in nessun modo ad opporsi al crollo dell’economia borghese. In queste condizioni, anche se la decomposizione sembra essere per la vita della società un pericolo più lontano rispetto a quello di una guerra mondiale, essa è tuttavia ben più insidiosa. Per mettere fine alla minaccia costituita dalla decomposizione, le lotte operaie di resistenza agli effetti della crisi non sono più sufficienti: solo la rivoluzione comunista può bloccare una tale minaccia. Allo stesso modo, in tutto il periodo futuro, il proletariato non può sperare di utilizzare a proprio beneficio l’indebolimento che la decomposizione provoca all’interno della borghesia. In questo periodo il suo obbiettivo sarà quello di resistere agli effetti nocivi della decomposizione al suo interno contando solo sulle proprie forze, sulla propria capacità di battersi in maniera collettiva e solidale in difesa dei propri interessi in quanto classe sfruttata (anche se la propaganda dei rivoluzionari deve sottolineare in permanenza i pericoli della decomposizione). Solo nel periodo prerivoluzionario, quando il proletariato sarà all’offensiva, quando ingaggerà direttamente e apertamente la lotta per la sua prospettiva storica, esso potrà utilizzare alcuni effetti della decomposizione, in particolare la decomposizione dell’ideologia borghese e quella delle forze del potere capitalista, come punti su cui far leva e da ritorcere contro lo stesso capitale.
17) La messa in evidenza dei pericoli considerevoli che il fenomeno storico della decomposizione fa correre alla classe operaia e all’insieme dell’umanità non deve indurre il proletariato, ed in particolare le sue minoranze rivoluzionarie, ad adottare nei suoi confronti un atteggiamento fatalista. Oggi, la prospettiva storica resta completamente aperta. Nonostante il colpo che il crollo del blocco dell’est ha inferto alla presa di coscienza del proletariato, questo non ha subito nessuna sconfitta importante sul terreno della sua lotta. In questo senso, la sua combattività resta praticamente intatta. Ma in più, ed é questo l’elemento che determina in ultima istanza l’evoluzione della situazione mondiale, lo stesso fattore che si trova all’origine dello sviluppo della decomposizione, cioè l’aggravarsi inesorabile della crisi del capitalismo, costituisce lo stimolo essenziale della lotta e della maturazione della coscienza di classe, la condizione stessa della sua capacità di resistere al veleno ideologico dell’imputridimento della società. In effetti, mentre il proletariato non può trovare un terreno unificante di classe nelle lotte parziali contro gli effetti della decomposizione, la sua lotta contro gli effetti diretti della crisi costituisce la base dello sviluppo della sua forza e della sua unità. E ciò in particolare perché:
Tuttavia la crisi economica, da sola, non può risolvere i problemi e le difficoltà che affronta e dovrà affrontare il proletariato. Solo:
permetteranno alla classe operaia di rispondere colpo su colpo a tutti gli attacchi sferrati dal capitalismo, per passare finalmente all’offensiva ed abbattere questo barbare sistema.
La responsabilità dei rivoluzionari è partecipare attivamente allo sviluppo di questa lotta del proletariato.
maggio 1990
Da lungo tempo, e contro ogni visione propria all'individualismo borghese, il marxismo ha mostrato che non sono gli individui che fanno la storia ma che, a partire dall'apparizione delle classi sociali: “La storia di tutte le società, fino ad oggi, è storia di lotta tra le classi”. Ciò vale, ed in modo particolare, anche per la storia del movimento operaio il cui principale protagonista è giustamente la classe che, più di tutte le altre, lavora in modo associato e lotta in modo collettivo. All'interno del proletariato, le minoranze comuniste da questo prodotte come manifestazione del suo divenire rivoluzionario lavorano anch'esse, conseguentemente, in maniera collettiva. In questo senso l’azione delle sue minoranze riveste un carattere soprattutto anonimo e non ha niente da sacrificare al culto delle personalità. I loro membri, in tanto che militanti rivoluzionari, non hanno ragione di esistere che come parte di un tutto, l’organizzazione comunista. Tuttavia, se l’organizzazione deve poter contare su tutti i suoi militanti, è chiaro che non tutti vi apportano lo stesso contributo. La storia individuale, l’esperienza, la personalità di certi militanti nonché le circostanze storiche li conducono a giocare nelle organizzazioni in cui militano un ruolo particolare, divenendo elemento di stimolo delle attività di queste organizzazioni ed in particolare dell’attività che si trova alla base del loro stesso motivo di esistenza: l’elaborazione e l’approfondimento delle posizioni politiche rivoluzionarie.
Marc era appunto uno di questi. Apparteneva a quella piccola minoranza di militanti comunisti, tra cui Anton Pannekoek, Henk Canne-Meijer, Amadeo Bordiga, Onorato Damen, Paul Mattick, Jan Appel o Munis, per citarne solo alcuni tra i più noti[1], che è sopravvissuta alla terribile controrivoluzione che si è abbattuta sulla classe operaia tra gli anni ‘20 e gli anni ‘60. In più, oltre alla sua fedeltà assoluta alla causa del comunismo, egli ha saputo conservare la sua piena fiducia nelle capacità rivoluzionarie del proletariato, trasmettendo alle nuove generazioni di militanti tutta la sua esperienza passata, senza per questo restare fermo ad analisi e posizioni di cui il corso della storia esigevano il superamento. In questo senso tutta la sua attività di militante costituisce un esempio concreto di ciò che vuol dire il marxismo: il pensiero vivente ed in continua elaborazione della classe rivoluzionaria, portatrice dell’avvenire dell'umanità.
Naturalmente questo ruolo d’impulso del pensiero e dell’azione dell’organizzazione politica Marc l’ha giocato in maniera particolare nella CCI. E questo fino alle ultime ore della sua vita. Tutta la sua vita militante è animata dallo stesso spirito, dalla stessa volontà di difendere con le unghie e con i denti i principi comunisti, pur conservando in permanenza uno spirito critico ben desto per essere capace, ogni qual volta fosse necessario, di rimettere in discussione ciò che a molti sembravano dei dogmi intoccabili ed “invarianti”. Una vita militante di più di settant’anni che ha trovato la sua fonte di energia nel calore della rivoluzione.
L’impegno nella lotta rivoluzionaria
Marc è nato il 13 maggio 1907 a Kichinev, capitale della Bessarabia (Moldavia), in un’epoca in cui questa regione faceva parte dell’antico regno zarista. Quando scoppia la rivoluzione del 1917 egli non ha ancora dieci anni. Ecco come lui stesso, in occasione del suo ottantesimo compleanno, descrive questa formidabile esperienza che ha marcato tutta la sua vita:
“Ho avuto la fortuna di vivere e di conoscere, anche se da ragazzo, la rivoluzione russa del 1917, sia del febbraio che di ottobre. L’ho vissuta intensamente. Bisogna sapere e capire cosa è un Gavroche, cosa è un bambino in un periodo rivoluzionario, quando si passano le giornate nelle manifestazioni, dall’una all’altra, da una riunione all’altra; quando si passano le nottate nei circoli dove stanno i soldati, gli operai, dove qua si parla, là si discute e là ancora ci si scontra; quando in ogni angolo della strada, improvvisamente, bruscamente, un uomo si mette sul davanzale di una finestra e incomincia a parlare: immediatamente si avvicinano 1000 persone e si incomincia a discutere. È qualche cosa di indimenticabile, un ricordo che ha marcato tutta la mia vita, evidentemente. Ho avuto la fortuna di avere il fratello maggiore che faceva il soldato e che era bolscevico, segretario del partito nella città, e con il quale io potevo correre, mano nella mano, da una riunione all'altra dove lui difendeva le posizioni dei bolscevichi.
Ho avuto la fortuna di essere l'ultimo figlio -il quinto- di una famiglia dove tutti furono, uno dopo l’altro, militanti del Partito, fino ad essere uccisi o espulsi. Tutto questo mi ha permesso di vivere in una casa che era sempre piena di gente, di giovani, dove c’erano sempre delle discussioni dato che, all’inizio, uno solo dei fratelli era bolscevico mentre gli altri erano più o meno socialisti. Era un dibattito continuo con tutti i loro compagni, con tutti i loro colleghi. Ed era una fortuna enorme per la formazione di un bambino.”
Nel 1919, durante la guerra civile, quando la Moldavia viene occupata dalle truppe bianche rumene, tutta la famiglia di Marc, minacciata dai pogrom (il padre era rabbino), emigra in Palestina. Sono i fratelli e le sorelle maggiori di Marc all’origine della fondazione del partito comunista di questo paese. Ed è allora, all’inizio del 1921, che Marc (che non aveva ancora 13 anni) diventa militante entrando nella gioventù comunista (nei fatti ne è uno dei fondatori) e nel partito. Molto presto si scontra con la posizione dell’Internazionale Comunista sulla questione nazionale che, usando le sue parole, “era difficile da inghiottire”. Questo disaccordo gli vale la prima espulsione dal partito comunista nel 1923. Da questo momento, anche se ancora adolescente, Marc esprime già quella che sarà una delle sue maggiori qualità per tutta la sua lunga vita di militante: una intransigenza indefettibile nella difesa dei principi rivoluzionari, anche se questa difesa doveva portarlo ad opporsi alle “autorità” più prestigiose del movimento operaio, come lo erano a quell’epoca i dirigenti dell’Internazionale Comunista, in particolare Lenin e Trotsky[2]. La sua adesione totale alla causa del proletariato, la sua implicazione militante nell'organizzazione comunista e la stima profonda che aveva per i grandi nomi del movimento operaio non gli hanno mai fatto rinunciare alla lotta per le proprie posizioni quando pensava che quelle dell’organizzazione si scostavano dai principi del marxismo o erano superate dalle nuove circostanze storiche. Per lui, come per tutti i grandi rivoluzionari come Lenin o Rosa Luxemburg, l’adesione al marxismo, teoria rivoluzionaria del proletariato, non era un’adesione alla lettera di questa teoria ma al suo spirito ed al suo metodo. Nei fatti, l’audacia di cui ha sempre dato prova il nostro militante, all’immagine degli altri grandi rivoluzionari, era il rovescio, l’altra faccia della sua adesione totale e tenace alla causa ed al programma del proletariato. Proprio perché era profondamente attaccato al marxismo non ha mai avuto paura di allontanarsene quando criticava, sulla base dello stesso marxismo, ciò che era diventato caduco nelle posizioni delle organizzazioni operaie. La questione del sostegno delle lotte di liberazione nazionale, che nella seconda e nella terza internazionale era diventata una specie di dogma, fu dunque il primo terreno sul quale ebbe modo di sperimentare questo modo di procedere[3].
La lotta contro la degenerazione dell’Internazionale
Nel 1924 Marc, insieme ad uno dei suoi fratelli, si trasferisce in Francia. Entra a far parte della sezione ebrea del Partito Comunista, ritornando così ad essere membro di quella stessa Internazionale dalla quale era stato espulso poco prima. Immediatamente fa parte dell’opposizione che combatte il processo di degenerazione dell’IC e dei partiti comunisti. È così che, insieme ad Albert Treint (segretario generale del PCF dal 1923 al 1926) e Suzanne Girault (anziana tesoriera del Partito), partecipa alla fondazione dell’Unità leninista nel 1927. Quando arriva in Francia la piattaforma dell’Opposizione russa redatta da Trotsky, egli si dichiara in accordo con questa. Al tempo stesso, e contrariamente a Treint, rigetta la dichiarazione di Trotsky secondo cui, su tutte le questioni su cui c’erano stati dei disaccordi tra lui e Lenin prima del 1917, avrebbe avuto ragione Lenin. Marc pensava che un tale atteggiamento non era affatto corretto, innanzitutto perché Trotsky non era veramente convinto di quello che diceva, e poi perché una tale dichiarazione non poteva che bloccare Trotsky in alcune delle posizioni sbagliate difese da Lenin in passato (in particolare al momento della rivoluzione del 1905 sulla questione della “dittatura democratica del proletariato e dei contadini”). Di nuovo si manifesta questa capacità del nostro compagno di conservare un atteggiamento critico e lucido di fronte alle grandi “autorità” del movimento operaio. L’appartenenza all’Opposizione di sinistra internazionale, dopo la sua esclusione dal PCF nel febbraio 1928, non significava un’adesione a tutte le posizioni del suo principale dirigente, nonostante tutta l’ammirazione che comunque aveva per lui. È in particolare grazie a questo spirito che riesce in seguito a non lasciarsi trascinare nella deriva opportunista del movimento trotskista contro il quale inizia la lotta agli inizi degli anni ‘30. In effetti, dopo la sua partecipazione, con Treint, alla formazione del “Redressement communiste” (Raddrizzamento comunista), aderisce nel 1930 alla “Ligue communiste” (l’organizzazione che rappresenta l’opposizione in Francia) della quale diviene, insieme a Treint, membro della commissione esecutiva nell’ottobre 1931. Ma tutti e due, dopo avervi difeso una posizione minoritaria di fronte all’avanzata dell’opportunismo, lasciano questa formazione nel maggio 1932 prima di partecipare alla costituzione della “Fraction communiste de gauche” (Frazione comunista di sinistra), detta Gruppo di Bagnolet. Nel 1933 questa organizzazione si scinde e Marc rompe con Treint che inizia a difendere un’analisi dell’URSS simile a quella sviluppata più tardi da Burnham e Chaulieu (“Socialisme bureaucratique”). Partecipa allora, nel novembre 1933, alla fondazione dell’Union communiste assieme a Chazè (Gaston Davoust, morto nel 1984), con il quale aveva conservato uno stretto contatto fin dall’inizio degli anni ‘30 quando quest’ultimo era ancora membro del PCF (fu espulso nell’agosto 1932) e animava il “15° Rayon” (periferia occidentale di Parigi) che difendeva delle posizioni di opposizione.
Le grandi lotte degli anni ‘30
Marc è rimasto membro dell’Union Communiste fino al momento della guerra di Spagna. Viviamo uno dei periodi più tragici del movimento operaio: secondo i termini usati da Victor Serge, “è la mezzanotte del secolo”. Come Marc stesso dice: “Passare questi anni di isolamento terribile, vedere il proletariato francese inalberare la bandiera tricolore, la bandiera di Versailles e cantare "la Marsigliese", e tutto ciò in nome del comunismo, era, per tutte le generazioni che erano rimaste rivoluzionarie, fonte di orribile tristezza”. Ed è giustamente al momento della guerra di Spagna che questo sentimento di isolamento raggiunge il massimo quando parecchie organizzazioni che erano riuscite a mantenere delle posizioni di classe vengono trascinate dall’ondata “antifascista”. È in particolare il caso dell’Union Communiste che vede, negli avvenimenti di Spagna, una rivoluzione proletaria dove la classe operaia aveva l’iniziativa della lotta. Questa organizzazione non arriva certo a sostenere il governo del “Fronte popolare”. Ma caldeggia comunque l’arruolamento nelle milizie antifasciste e allaccia relazioni politiche con l’ala sinistra del POUM, una organizzazione antifascista che partecipa al governo della “Generalidad” della Catalogna.
Difensore intransigente dei principi di classe, Marc non può evidentemente accettare una tale capitolazione davanti all’ideologia antifascista, anche se questa si ammanta di giustificazioni tipo la “solidarietà con il proletariato di Spagna”. Dopo aver condotto una lotta di minoranza contro una tale deriva, lascia l’Union Communiste e raggiunge individualmente, all’inizio del 1938, la Frazione di sinistra italiana con la quale era rimasto in contatto. Questa a sua volta aveva dovuto fare i conti con una minoranza favorevole all’arruolamento nelle milizie antifasciste. Nella tormenta della guerra di Spagna, con tutti i tradimenti che questa provoca, la Frazione italiana, fondata a Pantin nella periferia parigina nel maggio 1928, è una delle rare organizzazioni capaci di resistere su dei principi di classe. Essa basa le sue posizioni di rigetto intransigente di tutte le sirene antifasciste sulla comprensione del corso storico dominato dalla controrivoluzione. In un tale momento di profondo arretramento del proletariato mondiale, di vittoria della reazione, gli avvenimenti di Spagna non potevano essere interpretati come l’inizio di una nuova ondata rivoluzionaria, ma come una nuova tappa della controrivoluzione. Come conclusione della guerra civile, che oppone non la classe operaia alla borghesia ma la Repubblica borghese (alleata al campo imperialista “democratico”) contro un altro governo borghese (alleato al campo imperialista “fascista”), non può esserci la rivoluzione, ma la guerra mondiale. Il fatto che gli operai di Spagna abbiano preso spontaneamente le armi di fronte al putsch di Franco nel luglio 1936 (il che è naturalmente salutato dalla Frazione) non apre alcuna prospettiva rivoluzionaria nella misura in cui questi, imbrigliati dalle organizzazioni antifascista come il PS, il PC e la CNT anarco-sindacalista, rinunciano alla lotta sul proprio terreno di classe per trasformarsi in soldati della Repubblica borghese diretta dal “fronte popolare”. E una delle migliori prove dello stallo tragico in cui si trova il proletariato in Spagna è dato, per la Frazione, dal fatto che in questo paese non c’è nessun partito rivoluzionario[4].
Marc continua dunque la sua lotta rivoluzionaria come militante della Frazione italiana (esiliata in Francia ed in Belgio)[5]. In particolare si lega molto a Vercesi (Ottorino Perrone) che ne è il principale animatore. Molti anni dopo Marc ha spesso spiegato ai giovani militanti della CCI quanto avesse imparato a fianco di Vercesi, per il quale aveva grande stima e ammirazione. “È da lui che ho capito veramente cosa era un militante”, ha detto spesso. In effetti, la grande fermezza dimostrata dalla Frazione era in gran parte dovuta a Vercesi che, militante sin dalla fine della prima guerra mondiale nel PSI e poi nel PCI, ha combattuto sempre per la difesa dei principi rivoluzionari contro l’opportunismo e la degenerazione di queste organizzazioni. Diversamente da Bordiga, principale dirigente del PCd’I in occasione della sua fondazione nel 1921 e animatore della sinistra di questo partito successivamente, ma che si era ritirato dalla vita militante dopo la sua esclusione dal partito nel 1930, egli ha messo la sua esperienza al servizio del proseguimento della lotta di fronte alla controrivoluzione. In particolare, egli ha dato un contributo decisivo all’elaborazione della posizione relativa al ruolo delle frazioni nella vita delle organizzazioni proletarie, particolarmente nei periodi di degenerazione del Partito[6]. Ma il suo contributo è ancora più grande. Sulla base della comprensione dei compiti che gravano sui rivoluzionari dopo il fallimento della rivoluzione e la vittoria della controrivoluzione, fare un bilancio (da cui il nome della pubblicazione della Frazione in lingua francese, Bilan) dell’esperienza passata al fine di preparare “i quadri per i nuovi partiti del proletariato” e ciò senza “alcuna censura o ostracismo” (Bilan, n.1), egli dà impulso nella Frazione a tutto un lavoro di riflessione e di elaborazione teorica che ne fa una delle organizzazioni più feconde della storia del movimento operaio. In particolare, benché di formazione “leninista”, egli non ha paura di rifarsi alle posizioni di Rosa Luxemburg rigettando il sostegno alle lotte di liberazione nazionale e sull’analisi delle cause economiche dell’imperialismo. Su quest’ultimo punto egli trae vantaggio dai dibattiti con la Ligue des Communistes Internationalistes (LCI) del Belgio (una formazione uscita dal trotskismo ma che se ne era poi allontanata) la cui minoranza assume le posizioni della Frazione quando scoppia la guerra di Spagna per costituire insieme a questa, alla fine del 1937, la Gauche communiste internationale. Inoltre Vercesi (insieme a Mitchell, membro della LCI), basandosi sugli insegnamenti tratti dal processo di degenerazione della Rivoluzione in Russia e dal ruolo dello stato sovietico nella controrivoluzione, elabora la posizione secondo la quale non può esserci identificazione tra la dittatura del proletariato e lo stato che sorge dopo la rivoluzione. Infine, riguardo all’organizzazione, egli è di esempio, all’interno della Commissione Esecutiva della Frazione, rispetto al modo di condurre un dibattito quando sorgono delle divergenze gravi. Infatti, di fronte alla minoranza che rompe ogni disciplina organizzativa andando ad arruolarsi nelle milizie antifasciste e che rifiuta di pagare le quote all’organizzazione, egli combatte l’idea di una scissione organizzativa affrettata (mentre conformemente alle regole organizzative della Frazione, i membri della minoranza potevano perfettamente essere espulsi) al fine di favorire al massimo lo sviluppo della maggiore chiarezza possibile nel dibattito. Per Vercesi, come per la maggioranza della Frazione, la chiarezza politica è una priorità essenziale nel ruolo e l’attività delle organizzazioni rivoluzionarie.
Tutti questi insegnamenti, che in larga parte corrispondevano già alla sua pratica politica precedente, sono stati pienamente assimilati da Marc negli anni di militanza a fianco di Vercesi. Ed è proprio su questi insegnamenti che Marc si baserà quando Vercesi, a sua volta, comincerà a dimenticarli e ad allontanarsi dalle posizioni marxiste. Infatti quest’ultimo, quando si costituisce la GCI, in cui “Bilan” viene sostituito da “Octobre”, inizia a sviluppare una teoria dell’economia di guerra come antidoto definitivo alla crisi del capitalismo. Disorientato dal successo momentaneo delle politiche economiche del New Deal e del nazismo, conclude che la produzione di armi, che non ricade su di un mercato capitalista soprasaturo, permette al capitalismo di superare le sue contraddizioni economiche. Secondo lui, la formidabile produzione di armamenti realizzata da tutti i paesi alla fine degli anni ‘30 non corrisponde dunque ai preparativi della futura guerra mondiale ma costituisce al contrario un mezzo per evitarla eliminando la sua causa di fondo: lo stallo economico del capitalismo. In questo contesto le diverse guerre locali che si sono sviluppate, in particolare la guerra di Spagna, non devono essere considerate come le premesse di un conflitto generalizzato, ma come un mezzo per la borghesia di schiacciare la classe operaia di fronte all’avanzata di lotte rivoluzionarie. È per questo che la pubblicazione del Bureau International (Ufficio Internazionale) della GCI si chiama “Octobre”, proprio perché si sarebbe entrati in nuovo periodo rivoluzionario. Tali posizioni costituiscono una specie di vittoria postuma per la vecchia minoranza della Frazione.
Di fronte ad un tale sbandamento, che rimette in causa l’essenziale dell’insegnamento di “Bilan”, Marc si impegna nella lotta per la difesa delle posizioni classiche della Frazione e del marxismo. Per lui è una prova molto difficile dato che deve combattere gli errori di un militante di cui ha una grande stima. In questa lotta egli è in minoranza in quanto la maggioranza dei membri della Frazione, acceca-ti dall’ammirazione per Vercesi, lo seguono in questo vicolo cieco. In fin dei conti questa concezione conduce la Frazione italiana, e la Frazione belga, ad una totale paralisi nel momento in cui scoppia la guerra mondiale, rispetto alla quale Vercesi valuta che non è più il caso di intervenire dato che il proletariato è “scomparso socialmente”. In questo momento Marc, reclutato dall’esercito francese (benché apolide), non può reagire immediatamente[7]. Solo nell’agosto del 1940 a Marsiglia, nel sud della Francia, egli può ritornare all’attività politica per raggruppare gli elementi della Frazione italiana che si erano ritrovati in questa città.
Di fronte alla guerra imperialista
Questi militanti, in larga parte, rifiutano lo scioglimento delle frazioni annunciata, sotto l’influenza di Vercesi, dal Bureau International di queste. Essi indicono nel 1941 una conferenza della ricostituita Frazione che si basa sul rigetto della deriva introdotta a partire dal 1937: teoria dell’economia di guerra come superamento della crisi, guerre “localizzate” contro la classe operaia, “scomparsa sociale del proletariato”, etc. Inoltre, la Frazione abbandona la sua vecchia posizione sull’URSS come “Stato operaio degenerato”[8] e ne riconosce la natura capitalista. Durante tutta la guerra, nelle peggiori condizioni di clandestinità, la Frazione tiene delle conferenze annuali raggruppando i militanti di Marsiglia, Tolosa, Lione e Parigi mentre, nonostante l’occupazione tedesca, stabilisce dei legami con gli elementi del Belgio. Pubblica un Bollettino interno di discussione dove si affrontano tutte le questioni che hanno portato al fallimento del 1939. Leggendo i differenti numeri di questo bollettino, si può constatare che la maggior parte dei testi di fondo di critica alle posizioni di Vercesi o di elaborazione di nuove posizioni richieste dall’evoluzione della situazione storica sono firmati Marco. Il nostro compagno, che aveva raggiunto la Frazione italiana solo nel 1938 e che era il solo membro “straniero”, ne è il principale animatore durante tutta la guerra.
Nello stesso tempo Marc ha iniziato un lavoro di discussione con un circolo di giovani elementi, provenienti per la maggior parte dal trotskismo, con i quali, nel maggio 1942, fonda il Noyau français de la Gauche communiste (Nucleo francese della Sinistra comunista) sulle basi politiche dalla GCI. Questo nucleo ha come prospettiva la formazione della Frazione francese della Sinistra comunista ma, rigettando la politica delle “campagne di reclutamento” e di “formazione di nuclei” praticata dai trotskisti, si rifiuta, sotto l’influenza di Marc, di proclamare in maniera precipitosa la costituzione immediata di una tale frazione.
La Commissione Esecutiva della ricostituita Frazione italiana, di cui Marc fa parte, e il nucleo francese, sono portati a prendere posizione rispetto agli avvenimenti in Italia del 1942-1943, dove delle lotte di classe molto importanti portano al rovesciamento di Mussolini il 25 luglio 1943 e alla sua sostituzione con l’ammiraglio Badoglio, che è pro-alleati. Un testo firmato Marco per la CE afferma che: “le rivolte rivoluzionarie che arresteranno il corso della guerra imperialista creeranno in Europa una situazione caotica delle più pericolose per la borghesia” mettendo in guardia contro i tentativi del “blocco imperialista anglo-americano-russo” di liquidare queste rivolte dall’esterno e contro quelli dei partiti di sinistra di “imbavagliare la coscienza rivoluzionaria”. La conferenza della Frazione che nonostante l’opposizione di Vercesi si tiene nell’agosto del 1943, dichiara, in base all’analisi degli avvenimenti in Italia, che “la trasformazione della frazione in Partito” è all'ordine del giorno in questi paesi. Tuttavia, a causa delle difficoltà materiali e anche dell’inerzia che Vercesi oppone a tale riguardo, la Frazione non riesce a rientrare in Italia per intervenire nelle lotte che sono iniziate a svilupparsi. In particolare, essa ignora che alla fine del 1943 si è costituito nel nord Italia, sotto l’impulso di Onorato Damen e di Bruno Maffi, il Partito Comunista Internazionalista (PCInt), al quale partecipano vecchi membri della Frazione.
In questo stesso periodo, la Frazione ed il Nucleo hanno portato avanti un lavoro di contatti e di discussione con altri elementi rivoluzionari e particolarmente con dei rifugiati tedeschi e austriaci, i Revolutionäre Kommunisten Deutschlands (RKD), che si sono staccati dal trotskismo. Insieme ad essi portano avanti, soprattutto il Nucleo francese, un’azione di propaganda diretta contro la guerra imperialista indirizzata agli operai ed ai soldati di tutte le nazionalità, compresi i proletari tedeschi in uniforme. Si tratta evidentemente di un’attività estremamente pericolosa perché bisogna affrontare non salo la Gestapo ma anche la Resistenza. È infatti proprio quest’ultima a dimostrarsi più pericolosa per il nostro compagno che, fatto prigioniero insieme alla sua compagna dall’FFI (Forces Françaises de l’Intérieur) dove brulicavano gli stalinisti, scappa alla morte promessagli da questi ultimi riuscendo ad evadere all’ultimo momento. Ma la fine della guerra suona le campane a morto per la Frazione.
A Bruxelles, alla fine del 1944, dopo la “Liberazione”, Vercesi sull’onda delle sue aberranti posizioni gira le spalle ai principi che aveva difeso in passato e si mette a capo di una “Coalizione antifascista” che pubblica “L'Italia di domani”, un giornale che, con la scusa di dare un aiuto ai prigionieri ed agli emigrati italiani, si situa chiaramente a fianco dello sforzo di guerra degli alleati. Dal momento in cui verifica la realtà di questo fatto, dopo un primo momento di incredulità, la CE della Frazione, sotto la spinta di Marc, espelle Vercesi il 25 gennaio 1945. Tale decisione non scaturisce dai disaccordi sui differenti punti di analisi che esistevano tra quest’ultimo e la maggioranza della Frazione. Come con la vecchia minoranza del 1936-37, la politica della CE, e di Marc al suo interno che riprendeva il metodo di Vercesi, era quella di portare avanti il dibattito nella massima chiarezza. Ma nel 1944-45, ciò che era rimproverato a Vercesi non erano semplicemente dei disaccordi politici, ma la sua partecipazione attiva, addirittura da dirigente, ad un organismo della borghesia implicato nella guerra imperialista. Comunque quest’ultima manifestazione di intransigenza da parte della Frazione italiana non era che il canto del cigno.
Avendo scoperto l’esistenza del PCInt in Italia, la maggioranza dei suoi membri decide, alla conferenza del maggio 1945, per l’autodissoluzione della Frazione e l’integrazione individuale dei suoi militanti nel nuovo “partito”. Marc combatte con tutte le sue ultime forze ciò che considera come una completa negazione di tutta la pratica politica su cui si era fondata la Frazione. Chiede che la Frazione resti in vita fino ad una verifica delle posizioni politiche di questa nuova formazione che erano poco note. Ed il futuro darà perfettamente ragione alla sua prudenza quando si constaterà che il partito in questione, al quale si erano uniti gli elementi vicini a Bordiga del sud Italia (e tra i quali c’era chi praticava l’entrismo nel PCI), era evoluto verso posizioni completamente opportuniste fino a compromettersi con il movimento dei partigiani antifascisti (vedi The ambiguities of the Internationalist Communist Party over the ‘partisans’ in Italy in 1943 [8] in lingua inglese o Les ambiguïtés sur les «partisans» dans la constitution du parti communiste internationaliste en Italie [9] in lingua francese nella Rivista Internazionale n. 8, 4° trimestre 1976, e The origins of the ICP(Communist Programme): what it claims to be, and what it really is [10] in lingua inglese o Le parti communiste international (Programme Communiste) à ses origines, tel qu’il prétend être, tel qu’il est [11] in lingua francese nella Rivista Internazionale n. 32, l° trimestre 1983). Marc, in segno di protesta, annuncia le sue dimissioni dalla CE e lascia la conferenza, la quale si rifiuta di riconoscere la Fraction Française de la Gauche communiste (FFGC) che era stata costituita alla fine del 1944 dal Nucleo francese e che aveva fatte sue le posizioni di base della Gauche Communiste Internationale. Dal canto suo, Vercesi aderisce al nuovo “Partito” che non gli chiede alcun conto della sua partecipazione alla coalizione antifascista di Bruxelles. È la fine di tutti gli sforzi che lo stesso Vercesi aveva fatto per anni e anni per far sì che la Frazione potesse servire da “ponte” tra il vecchio partito passato al nemico e il nuovo partito che doveva costituirsi con il risorgere delle lotte di classe del proletariato. Lungi dal riprendere la lotta per queste posizioni, egli oppone al contrario una ostilità feroce, e con lui l’insieme del PCInt, alla sola formazione che sia rimasta fedele ai principi della Frazione italiana e della Sinistra Comunista Internazionale: la FFGC. Egli incoraggia d’altra parte una scissione all’interno di questa, che forma una FFGC-bis[9]. Questo gruppo pubblica un giornale che ha lo stesso nome di quello della FFGC, “L'Étincelle”, e raccoglie tra i suoi ranghi i membri dell’ex-minoranza di “Bilan”, contro i quali aveva combattuto all’epoca Vercesi, ed anche vecchi militanti dell’Union Communiste. La FFGC-bis sarà riconosciuta dal PCInt e dalla Frazione belga (ricostituitasi dopo la guerra intorno a Vercesi rimasto a Bruxelles) come “sola rappresentante della Sinistra Comunista”.
Ormai, Marc resta il solo militante della Frazione italiana a continuare la lotta e mantenere le posizioni che erano la vera forza e la chiarezza politica di questa organizzazione. È all’interno della Gauche Communiste de France, nuovo nome che si è dato la FFGC, che egli inizierà questa nuova tappa della sua vita politica.
“Internationalisme”
La Gauche Communiste de France (GCF) tiene la sua seconda conferenza nel luglio 1945, dove adotta un rapporto sulla situazione internazionale scritto da Marc (ripubblicato nella Revue Internationale, n. 59, 4° trimestre 1989 con il titolo 50 years ago: The real causes of the Second World War [12] in inglese e Il y a 50 ans : les véritables causes de la 2eme guerre mondiale [13] in lingua francese) che fa un bilancio globale degli anni della guerra. Nel richiamarsi alle posizioni classiche del marxismo sulla questione dell’imperialismo e della guerra, in particolare contro le aberrazioni sviluppate da Vercesi, questo documento costituisce un reale approfondimento nella comprensione dei principali problemi affrontati dalla classe operaia nella decadenza del capitalismo. Questo rapporto rispecchia un po’ tutto il contributo dato dalla GCF al pensiero rivoluzionario ed i cui differenti articoli pubblicati nella sua rivista teorica "Internationalisme" ce ne danno un’idea[10]. In effetti, “L'Enticelle” cessa di essere pubblicato nel 1946. E ciò corrisponde alla comprensione da parte della GCF che le sue previsioni circa un’uscita rivoluzionaria dalla guerra imperialista (come era avvenuto nella prima guerra mondiale) non si sono affatto verificate. Grazie alle lezioni tratte dal passato, la borghesia dei paesi “vincitori”, come previsto dalla Frazione nel 1943, è riuscita ad impedire una ripresa del proletariato. La “Liberazione” non è un passo avanti verso la rivoluzione ma, al contrario, il culmine della controrivoluzione. La GCF ne tira le conseguenze e valuta che la costituzione del partito non è all’ordine del giorno così come non lo è l’agitazione nella classe operaia di cui “L'Enticelle” si voleva fare strumento. Il lavoro da fare è tipo quello di “Bilan”. Pertanto la GCF consacra le sue forze ad uno sforzo di chiarificazione e di discussione teorico-politica al contrario del PCInt che, per anni, sarà pervaso da un attivismo febbrile che lo porterà alla scissione del 1952 tra la tendenza Damen, più attivista, e quella di Bordiga, con la quale stava Vercesi.
Da parte sua, la GCF conserva lo spirito di apertura che aveva caratterizzato la Sinistra italiana prima e durante la guerra. Ma, contrariamente al PCInt che si apre ai quattro venti senza stare tanto a guardare la natura di chi frequenta, i contatti stabiliti dalla GCF si basano, come quelli di “Bilan”, su dei criteri politici ben precisi che permettono di distinguersi chiaramente dalle organizzazioni non proletarie. Così, nel maggio 1947, la GCF partecipa ad una conferenza internazionale organizzata per iniziativa del Communistenbond dei Paesi Bassi (di tendenza consiliarista) in compagnia, tra gli altri, del gruppo Le Proletaire uscito dall’RKD, della Frazione belga e della Federazione autonoma di Torino che si era scissa dal PCInt per i suoi disaccordi sulla partecipazione alle elezioni. Durante i preparativi di questa conferenza, alla quale Communistenbond aveva invitato anche la Federazione anarchica, la GCF insiste sulla necessità di criteri di selezione più precisi che scartino i gruppi, come gli anarchici ufficiali, che avevano partecipato al governo della Repubblica spagnola e alla Resistenza[11].
Tuttavia, l’essenziale dell’apporto della GCF alla lotta del proletariato, in questo periodo dominato dalla controrivoluzione, si situa nel campo dell’elaborazione programmatica e teorica. Il considerevole sforzo di riflessione realizzato dalla GCF la porta a precisare la funzione del partito rivoluzionario superando le concezioni “leniniste” classiche, o a riconoscere la definitiva ed irreversibile integrazione dei sindacati e del sindacalismo nello stato capitalista. Su queste questioni, la Sinistra tedesco-olandese aveva fatto, fin dagli anni ‘20, una seria critica delle posizioni errate di Lenin e dell’Internazionale Comunista. Il confronto della Frazione italiana, prima della guerra, e della GCF, dopo, con le posizioni di questa corrente, hanno permesso alla GCF di riprenderne alcune critiche fatte all’IC, senza però cadere nelle esagerazioni di questa sulla questione del partito (al quale finisce col negare ogni funzione). La GCF si dimostra inoltre capace di andare oltre sulla questione sindacale (dato che accanto al rigetto del sindacalismo classico, la Sinistra tedesco-olandese preconizzava una forma di sindacalismo di “base”, basandosi per esempio sulle “Unions”). Sulla questione sindacale, in particolare, si manifesta tutta la differenza tra la Sinistra tedesca e la Sinistra italiana. La prima riesce a comprendere molto rapidamente, nel corso degli anni ‘20, gli assi essenziali di una questione (per esempio sulla natura capitalista dell’URSS o sulla natura dei sindacati) ma non facendo una riflessione sistematica nell’elaborazione delle nuove posizioni, finisce per rimettere in discussione alcuni dei fondamenti del marxismo o a precludersi qualsiasi approfondimento ulteriore di queste questioni. La Sinistra italiana, da parte sua, è molto più prudente. Prima delle sbandate di Vercesi a partire dal 1938, ha la continua preoccupazione di sottomettere ad una critica sistematica i passi che fa nella riflessione per verificare se questi non si discostino dal quadro del marxismo. Così facendo è stata capace di andare molto più lontano nella riflessione e di elaborare delle analisi ben più audaci, per esempio sulla fondamentale questione dello Stato. È questa dinamica, acquisita all’interno della Frazione italiana, che permette a Marc di dare impulso all’enorme lavoro di riflessione fatto dalla GCF. Un lavoro che porta questa organizzazione a continuare l’elaborazione della posizione della Frazione sulla questione dello Stato nel periodo di transizione dal capitalismo al comunismo, e a dare alla questione del capitalismo di Stato una visione più ampia che la sola analisi dell’URSS per evidenziare il carattere universale di questa manifestazione fondamentale della decadenza del modo di produzione capitalista.
Questa analisi è sviluppata, in particolare, nell'articolo “L’evoluzione del capitalismo e la nuova prospettiva” pubblicato su “Internationalisme” n.46 (e ripubblicato nella Revue Internationale, n.21). Questo testo, scritto da Marc nel maggio 1952, costituisce, in qualche modo, il testamento politico della GCF. Infatti, Marc lascia la Francia nel giugno 1952 per andare in Venezuela. Questa par-tenza corrisponde ad una decisione collettiva della GCF la quale, di fronte alla guerra di Corea, valuta che è ormai inevitabile e a breve scadenza, lo scoppio di una terza guerra mondiale tra il blocco americano e il blocco russo (come viene spiegato nel testo). Una tale guerra che avrebbe colpito principalmente l’Europa rischiava di distruggere completamente i pochi gruppi comunisti - ed in particolare la GCF - che erano sopravvissuti a quella precedente. “Mettere in salvo” al di fuori dell’Europa un certo numero di militanti non corrispondeva dunque alla preoccupazione personale di salvare la pelle (per tutta la seconda guerra mondiale Marc ed i suoi compagni hanno dato prova di essere pronti ad esporsi a rischi enormi per difendere le posizioni rivoluzionarie nelle peggiori condizioni possibili), ma allo scopo di assicurare la sopravvivenza dell’organizzazione stessa. Tuttavia, il trasferimento in un altro continente del suo militante più formato e sperimentato dà un colpo fatale alla GCF, i cui militanti rimasti in Francia, nonostante l’assidua corrispondenza con Marc, non riescono a mantenere in vita l’organizzazione nel periodo di profonda controrivoluzione. Per delle ragioni che non possiamo qui sviluppare, la terza guerra mondiale non c’è stata. È chiaro che questo errore di analisi è costato la vita alla GCF (e probabilmente, tra gli errori commessi dal nostro compagno nel corso della sua lunga militanza, questo è quello che ha avuto le conseguenze più gravi). Comunque la GCF aveva lasciato tutto un bagaglio politico e teorico sul quale si sarebbero basati i gruppi che hanno dato origine alla CCI.
La “Corrente Comunista Internazionale”
Per più di dieci anni, mentre la controrivoluzione continua a pesare sulla classe operaia, Marc conosce un isolamento particolarmente penoso. Egli segue le attività delle organizzazioni rivoluzionarie che si sono mantenute in Europa e resta in contatto con esse ed alcuni dei suoi membri. Allo stesso tempo continua una riflessione su un certo numero di questioni che la GCF non aveva potuto chiarire sufficientemente. Ma, per la prima volta nella sua vita, rimane privato di questa attività organizzata che costituisce il quadro per eccellenza di una tale riflessione. È una prova molto dolorosa, come lo esprime lui stesso:
“Il periodo di reazione del dopoguerra è stato una lunga marcia nel deserto, in particolare in seguito alla scomparsa del gruppo Internationalisme dopo 10 anni di esistenza. È stato il deserto dell’isolamento per una quindicina di anni.”
Questo isolamento durò fino al momento in cui riuscì a raccogliere intorno a sé un piccolo gruppo di liceali che costituiranno il nucleo di una nuova organizzazione:
“Ed è nel 1964 che si costituisce in Venezuela un gruppo di elementi molto giovani. E questo gruppo continua ancora oggi. Vivere quarant’anni nella controrivoluzione, nella reazione, e sentire all’improvviso la speranza, sentire di nuovo che la crisi del capitale è tornata a bussare, che i giovani sono lì e, a partire da ciò, sentire questo gruppo crescere un po’ alla volta, svilupparsi attraverso il 1968, attraverso la Francia e allargarsi poi in dieci paesi, tutto ciò è veramente una gioia per un militante. Questi anni, questi ultimi venticinque anni, sono certamente i miei anni più felici. È in questi anni che ho potuto realmente sentire la gioia di questo sviluppo e la convinzione che si ricominciava, che si era finalmente usciti dalla sconfitta e che la classe operaia andava ricostituendosi, che le forze rivoluzionarie si riprendevano. Avere la gioia di partecipare in prima persona, di dare tutto ciò che si ha, il meglio di sé stessi a questa ricostruzione, è una gioia enorme. È questa gioia io la devo alla CCI...”.
A differenza di quanto fatto per le altre organizzazioni nelle quali Marc aveva militato, non rievocheremo qui la storia della CCI su cui abbiamo fornito degli elementi in occasione del suo decimo anniversario (vedi Rivista Internazionale n.9). Ci limiteremo a segnalare alcuni fatti mettendo in rilievo l’enorme contributo del nostro compagno al processo che ha condotto alla formazione dell’organizzazione. Così, prima ancora della costituzione formale della CCI, è a lui che va attribuita essenzialmente la chiarezza politica di quel piccolo gruppo venezuelano che pubblicava Internacionalismo (lo stesso nome della rivista della GCF); in particolare sulla questione della liberazione nazionale, tema a cui risultava molto sensibile questo paese e sul quale sussistevano enormi confusioni nello stesso campo proletario. Allo stesso tempo la politica di ricerca di contatti con gli altri gruppi di questo ambiente che conduceva Internacionalismo, sul continente americano ed in Europa, era perfettamente in linea con quella della GCF e della Frazione. E ancora, nel gennaio 1968, quando non si parlava che della “prosperità” del capitalismo e della sua capacità di eliminare le crisi (finanche tra alcuni rivoluzionari), quando fiorivano le teorie di Marcuse sulla “integrazione della classe operaia”, quando i rivoluzionari che Marc aveva incontrato nel corso di un viaggio in Europa nell’estate ‘67 avevano dato prova, per la maggior parte, di un totale scetticismo sulle potenzialità della lotta del proletariato che secondo loro si trovava ancora in piena controrivoluzione, il nostro compagno non ebbe paura di scrivere, nel n.8 di Internacionalismo:
“Non siamo dei profeti e non abbiamo la pretesa di indovinare quando e in che modo si svilupperanno gli avvenimenti futuri. Ma la cosa di cui noi siamo effettivamente sicuri e coscienti è che non è possibile fermare quel processo nel quale è immerso attualmente il capitalismo (...) e che questo lo porta direttamente alla crisi. E siamo anche sicuri che il processo inverso di sviluppo della combattività della classe, che si vede ora in maniera generale, condurrà la classe operaia ad una lotta sanguinosa e diretta per la distruzione dello stato borghese.”
Una conferma eclatante di ciò si avrà alcuni mesi dopo con lo sciopero generalizzato del maggio ‘68 in Francia. Evidentemente non è ancora il momento di “una lotta diretta per la distruzione dello stato borghese”, ma è sicuramente quella di una ripresa storica del proletariato mondiale stimolata dalle prime manifestazioni della crisi aperta del capitalismo dopo la più profonda controrivoluzione della storia. Una tale previsione non è frutto di chiaroveggenza, ma più semplicemente della padronanza del marxismo del nostro compagno e della sua fiducia verso le capacità rivoluzionarie della classe, che non crolla anche nei peggiori momenti della controrivoluzione. Immediatamente Marc parte per la Francia, percorrendo l’ultima parte del suo viaggio in autostop in quanto i trasporti in questo paese erano paralizzati. Riprende contatto con i suoi vecchi compagni della GCF e entra in discussione con tutta una serie di gruppi e di elementi dell'ambiente politico[12]. Questo lavoro, assieme a quello di un giovane militante di Internacionalismo venuto in Francia fin dal 1966, sarà determinante per la formazione e lo sviluppo del gruppo Revolution Internationale, che giocherà il ruolo di polo di raggruppamento attorno a cui si formerà la CCI.
Ugualmente non potremo rendere conto di tutti gli apporti politici e teorici del nostro compagno all’interno della nostra organizzazione a partire dalla sua costituzione. Basti dire che, su tutte le questioni essenziali che si sono poste nella CCI, e dunque all’insieme della classe, su tutti i passi avanti che abbiamo realizzato, il contributo del nostro compagno è stato decisivo. In genere era Marc per primo che sollevava i punti nuovi su cui era importante soffermarsi. Questa vigilanza permanente, questa capacità di identificare rapidamente - e in profondità - le questioni nuove alle quali era necessario dare una risposta, e quelle vecchie sulle quali potevano sussistere delle confusioni all’interno dell’ambiente politico, si sono espresse attraverso i primi 64 numeri della Revue Internationale. Gli articoli pubblicati su queste questioni non erano sempre scritti direttamente da Marc perché, non avendo mai studiato e soprattutto costretto ad esprimersi in delle lingue, come il francese, che aveva imparato solo da adulto, scrivere rappresentava per lui un grande sforzo. Tuttavia è sempre stato il principale ispiratore dei testi che hanno permesso alla nostra organizzazione di far fronte alla responsabilità di attualizzazione permanente delle posizioni comuniste. Come per esempio in occasione del crollo del blocco dell’Est e dello stalinismo.
Ma il contributo di Marc alla vita della CCI non si è limitato all’elaborazione ed all’approfondimento delle posizioni politiche e delle analisi teoriche. Fino agli ultimi istanti della sua vita, pur continuando a riflettere sull’evoluzione della situazione mondiale e a trasmettere, nonostante lo sforzo enorme che ciò gli comportava, queste riflessioni ai compagni che si recavano a fargli visita in ospedale, si è preoccupato anche dei minimi dettagli della vita e del funzionamento della CCI. Per lui non sono mai esistite funzioni “subalterne” che potevano essere riservate a dei compagni meno formati teoricamente. Come si è sempre preoccupato che l’insieme dei militanti dell’organizzazione fosse capace della più grande chiarezza politica possibile, che le questioni teoriche non fossero riservate a degli “specialisti”, così non ha mai esitato a prendere parte a tutte le attività pratiche e quotidiane. Marc ha sempre dato ai giovani militanti della CCI l’esempio di un militante completo, impegnato con tutte le sue capacità nella vita di questo organo indispensabile del proletariato che è la sua organizzazione rivoluzionaria. Il nostro compagno ha saputo trasmettere alle nuove generazioni di militanti tutta l’esperienza che aveva accumulato sui vari piani nel corso di una vita militante di una lunghezza e di una intensità eccezionali. E una tale esperienza i giovani la potevano acquisire non soltanto attraverso la lettura dei suoi testi politici ma anche nella vita quotidiana dell'organizzazione e con la presenza di Marc.
Per questi motivi Marc ha occupato un posto del tutto eccezionale nella vita del proletariato. Mentre la controrivoluzione ha eliminato, o ha portato alla sclerosi, le organizzazioni politiche che la classe operaia aveva prodotto nel passato, egli ha costituito un ponte, un anello insostituibile tra le organizzazioni che avevano partecipato alla ondata rivoluzionaria del primo dopoguerra e quelle che saranno confrontate alla prossima ondata rivoluzionaria. Nella sua Storia della rivoluzione russa Trotsky viene spinto a chiedersi quale posto particolare ed eccezionale abbia ricoperto Lenin al suo interno. Pur rifacendo sue le tesi classiche del marxismo sul ruolo degli individui nella storia, Trotsky conclude che, senza Lenin che era riuscito a imprimere il raddrizzamento e l’“armamento” politico del partito bolscevico, la rivoluzione o non avrebbe potuto avere luogo o si sarebbe conclusa con un fallimento. È chiaro che, senza Marc, la CCI non esisterebbe affatto, o per lo meno non nella sua forma attuale di organizzazione più importante del campo politico rivoluzionario internazionale (senza parlare della chiarezza delle sue posizioni sulla quale, evidentemente, altri gruppi rivoluzionari possono avere un punto di vista differente dal nostro). In particolare la sua presenza e la sua attività hanno permesso che tutto l’enorme e fondamentale lavoro effettuato dalle frazioni di sinistra escluse dall’IC, ed in particolare quello della frazione italiana, non solo non sparisse, ma che al contrario fosse messo a fruttificare. In questo senso, se il nostro compagno non ha mai avuto, all’interno della classe operaia, una notorietà neanche lontanamente paragonabile a quelle di Lenin, di Rosa Luxemburg, di Trotsky o anche di Bordiga o di Pannekoek, e non poteva essere altrimenti visto che la maggior parte della sua vita militante si è svolta nel periodo della controrivoluzione, non bisogna aver timore di affermare che il suo contributo alla lotta del proletariato si situa allo stesso livello di quello di altri rivoluzionari.
Il nostro compagno si è sempre mostrato refrattario a questo tipo di confronti. Ed è sempre con la più grande semplicità che egli ha compiuto i suoi compiti militanti, non rivendicando mai un “posto d’onore” all’interno dell’organizzazione. La sua grande fierezza lui non l’ha posta nel contributo eccezionale che ha dato quanto nel fatto che, fino alla fine, è rimasto fedele, con tutto il suo essere, alla lotta del proletariato. Ed anche questo è stato un insegnamento prezioso per le nuove generazioni di militanti che non hanno avuto l'occasione di conoscere l’enorme dedizione alla causa rivoluzionaria delle generazioni del passato. È anzitutto su questo piano che noi vogliamo essere all’altezza della lotta che, senza ormai la sua presenza vigile e lucida, calorosa e appassionata, siamo determinati a proseguire.
CCI
[1] I militanti qui menzionati sono solo i più noti tra quelli che riuscirono a superare il periodo della controrivoluzione senza abbandonare le loro convinzioni comuniste. Bisogna notare che, a differenza di Mark, la maggior parte di loro non è riuscita a fondare o mantenere in vita organizzazioni rivoluzionarie. È il caso, per esempio, di Mattick, Pannekoek e Canne-Meijer, figure di spicco del movimento “consiliarista” paralizzate dalle loro concezioni organizzative o addirittura, come nel caso di quest’ultimo (vedi nella nostra Rivista Internazionale n. 37, The bankruptcy of councilism [14] in lingua inglese o La faillite du conseillisme [15] in lingua francese) dall’idea che il capitalismo sarebbe capace di superare indefinitamente le sue crisi, escludendo ogni possibilità di socialismo. Allo stesso modo Munis, valoroso e coraggioso militante proveniente dalla sezione spagnola della corrente trotskista, non avendo mai potuto rompere completamente con le concezioni delle sue origini e rinchiuso in una visione volontarista che rigettava il ruolo della crisi economica nello sviluppo della lotta di classe, non è stato in grado di dare ai nuovi elementi che si sono uniti a lui nel Fomento Obrero Revolucionario (FOR) un quadro teorico che permettesse loro di continuare seriamente l’attività di questa organizzazione dopo la scomparsa del suo fondatore. Bordiga e Damen, da parte loro, si sono mostrati capaci di animare formazioni che sono sopravvissute alla loro morte (il Partito Comunista Internazionale e il Partito Comunista Internazionalista); tuttavia, essi hanno avuto grandi difficoltà (soprattutto Bordiga) a superare le posizioni dell’Internazionale Comunista, ormai obsolete, cosa che ha costituito un handicap per le loro organizzazioni e che ha portato ad una crisi gravissima all’inizio degli anni ‘80 (nel caso del PCInt bordighista) o a un’ambiguità permanente su questioni vitali come quelle del sindacalismo, del parlamentarismo e delle lotte nazionali (nel caso del PCInternazionalista, come si è visto in occasione delle conferenze internazionali della fine degli anni ‘70). Fu inoltre un po’ il caso di Jan Appel, uno dei grandi nomi del KAPD, che rimase segnato dalle posizioni di questa organizzazione senza riuscire realmente ad aggiornarle. Tuttavia, appena si è formata la CCI, questo compagno si è riconosciuto nell’orientamento generale della nostra organizzazione e le ha apportato tutto l’appoggio che le sue forze gli permettevano. Bisogna notare che nei riguardi di tutti questi militanti, nonostante dei disaccordi talvolta molto importanti che lo separavano da loro, Marc nutriva la più grande stima e provava per la maggior parte di loro un profondo affetto. Questa stima e questo affetto non si limitavano d’altra parte a questi soli compagni, ma si estendevano a tutti quei militanti meno noti ma che avevano, agli occhi di Marc, l’immenso merito di essere rimasti fedeli alla causa rivoluzionaria nei momenti peggiori della storia del proletariato.
[2] A Marc era caro quell’episodio della vita di Rosa Luxemburg quando, in occasione del congresso dell’Internazionale socialista, nel 1896 -lei aveva 26 anni- Rosa osa scagliarsi contro tutte le “autorità” dell’Internazionale per combattere ciò che sembrava essere divenuto un principio intangibile del movimento operaio: la rivendicazione dell’indipendenza della Polonia.
[3] Modo di procedere che è opposto a quello di Bordiga, per il quale il programma del proletariato è “invariante” dal 1848. Non ha però, naturalmente, niente a che vedere con quello dei “revisionisti” alla Bernstein o, più recentemente, alla Chaulieu, mentore del gruppo “Socialisme ou Barbarie” (1949-1965). È anche completamente diverso da quello del movimento consiliarista che, poiché la rivoluzione russa del 1917 era sfociata in una variante del capitalismo, pensa che fu una rivoluzione borghese, o che si rivendica ad un “nuovo” movimento operaio in opposizione al “vecchio” (la seconda e la terza internazionale) che avrebbe fatto fallimento.
[4] Rispetto all’atteggiamento della Frazione di fronte agli avvenimenti di Spagna, vedi in particolare la Rivista Internazionale n° 1 [16].
[5] Sulla Frazione italiana vedi il nostro libro “La Sinistra Comunista d'Italia.”
[6] Sulla questione delle relazioni partito-frazione si veda la nostra serie di articoli nella Rivista Internazionale (1989-91):
n° 59, The Italian Left, 1922-1937 [17] in lingua inglese o Polémique avec Battaglia Comunista : le rapport fraction-parti dans la tradition marxiste (1° partie) [18] in lingua francese;
n° 61, The international communist left, 1937-52 [19] in lingua inglese o Polémique avec Battaglia Comunista : le rapport fraction-parti dans la tradition marxiste (2° partie) [20];
n° 64, The Fraction-Party from Marx to Lenin, 1848-1917 [21] in lingua inglese o Polémique avec Battaglia Comunista : le rapport fraction-parti dans la tradition marxiste (3° partie - I. De Marx à la 2e Internationale) [22];
n° 65, The Bolsheviks and the Fraction [23] in lingua inglese o Polémique avec Battaglia Comunista : le rapport fraction-parti dans la tradition marxiste (3° partie - II. Lénine et les bolcheviks) [24].
[7] Per quindici anni il nostro compagno, come documento ufficiale riuscì ad ottenere solo un ordine di espulsione dal territorio francese, per cui ogni due settimane doveva chiedere alle autorità competenti di rimandare l’esecuzione di quest’ordine. Era una spada di Damocle che il democratico governo di Francia, “terra d’asilo e dei diritti dell’uomo”, aveva sospeso sulla sua testa, in quanto Marc era obbligato costantemente ad impegnarsi a non svolgere attività politica, cosa che naturalmente non osservava. Allo scoppio della guerra, questo stesso governo decide che questo “indesiderabile apolide” è comunque utile come carne da cannone per la difesa della patria. Fatto prigioniero dall’esercito tedesco, riesce a fuggire prima che le autorità di occupazione scoprano che è un ebreo. Va, insieme alla sua compagna Clara, a Marsiglia dove la polizia, riscoprendo la sua situazione di prima della guerra, rifiuta di rilasciargli qualsiasi certificazione. Paradossalmente, saranno proprio le autorità militari a obbligare le autorità civili a cambiare opinione in favore di questo “servitore della Francia”, tanto più “meritevole”, ai loro occhi, perché non era la sua patria.
[8] Bisogna notare che questa analisi, simile a quella dei trotskisti, non ha mai portato la Frazione a chiamare alla “difesa dell'URSS”. Sin dagli inizi degli anni ‘30, e gli avvenimenti di Spagna hanno perfettamente illustrato questa posizione, la Frazione considerava lo Stato “sovietico” come uno dei peggior nemici del proletariato.
[9] Va sottolineato che, nonostante i passi falsi di Vercesi, Marc lo ha sempre tenuto in grande stima personale. Questa stima si estendeva, inoltre, a tutti i membri della Fazione Italiana, di cui parlava sempre nei termini più calorosi. Bisogna averlo sentito parlare di questi militanti, quasi tutti operai, il Piccino, Tulio, Stefanini, di cui ha condiviso la lotta nelle ore più buie di questo secolo, per misurare l’attaccamento che provava per loro.
[10] Gli articoli di Internationalisme pubblicati nella Rivista Internazionale sono i seguenti:
n°21, 2° trim. 1980: Internationalisme 1952: The evolution of capitalism and the new perspective [25] in inglese e L’évolution du capitalisme et la nouvelle perspective - 1952 Internationalisme [26] in francese.
n°32, l° trim. 1983: The task of the hour: formation of the party or formation of cadres [27] in inglese e La tache de l'heure formation du parti ou formation des cadres. Internationalisme (août-1946) [28] in francese.
n°33, 2° trim. 1983: Against the concept of the "brilliant leader" [29] in inglese e Problèmes actuels du mouvement ouvrier - Extraits d'Internationalisme n°25 (août-1947) - La conception du chef génial [30] in francese
n°34, 3° trim. 1983 : Republication: Current problems of the workers' movement - Internationalisme (August 1947) [31] in inglese e Problèmes actuels du mouvement ouvrier (Internationalisme n°25 août-1947) - Contre la conception de la discipline du PCI [32] in francese.
n°36, l° trim. 1984: The Second Congress of the Internationalist Communist Party [33] in inglese e Le deuxième congres du parti communiste internationaliste (Internationalisme n°36, juillet 1948) [34] in francese.
N°59, 4° trimestre 1989 : 50 years ago: The real causes of the Second World War [12] in inglese e Il y a 50 ans : les véritables causes de la 2eme guerre mondiale [13] in lingua francese, dove è riprodotto anche il Manifesto de L’Etincelle del gennaio 1945;
n°61, 2° trim. 1990: The Russian Experience: Private Property and Collective Property [35] in inglese
n°25, 2° trim, 1981: Critique of Pannekoek’s Lenin as Philosopher by Internationalisme, 1948 (part 1) [36] in inglese e Critique de «LÉNINE PHILOSOPHE» de Pannekoek (Internationalisme, 1948) (1ère partie) [37] in francse ;
n°27, 4° trim. 1981: Critique of Pannekoek’s Lenin as Philosopher by Internationalisme, 1948 (part 2) [38] in inglese e Critique de «LÉNINE PHILOSOPHE» de Pannekoek (Internationalisme, 1948) (2ème partie) [39] in francese ;
n°28, 1° trim. 1982: Critique of Pannekoek’s Lenin as Philosopher by Internationalisme, 1948 (part 3) [40] in inglese e Critique de «LÉNINE PHILOSOPHE» de Pannekoek (Internationalisme, 1948) (3ème partie) [41] in francese ;
n°30, 3° trim. 1982: Critique of Pannekoek’s Lenin as Philosopher by Internationalisme, 1948 (part 4) [42] in inglese e Critique de «LÉNINE PHILOSOPHE» de Pannekoek (Internationalisme, 1948) (4ème partie) [43] in francese.
[11] Questa stessa preoccupazione di stabilire dei criteri precisi nella convocazione delle conferenze dei gruppi comunisti è stata manifestata dalla CCI contro la vaghezza in cui indulgeva il PCInt/Battaglia Comunista all’epoca della 1a conferenza del maggio 1977. Vedi a questo riguardo nella Rivista Internazionale i seguenti articoli:
n°10, 3° trim. 1977: International Conference called by the PCI (Battaglia Comunista) [44] in inglese e Rencontre internationale convoquée par le P.C.I. "Battaglia Comunista" mai 1977 [45] in francese;
n°13, 2° trim. 1978: Reply to the Internationalist Communist Party (Battaglia Comunista) [46] in inglese e Réponse au P.C. Internazionalista "Battagua Comunista" [47] in francese;
n°17, 2° trim. 1979: Second International Conference [48] in inglese e 2eme conférence internationale [49] in francese;
n°22, 3° trim. 1980 : Sectarianism, an inheritance from the counter-revolution that must be transcended [50] in inglese e Le sectarisme, un héritage de la contre- révolution à dépassé [51] in francese;
n°40, 1° trim. 1985: The Constitution of the IBRP: An Opportunist Bluff, Part 1 [52] in inglese e La constitution du BIPR : un bluff opportuniste – 1° partie [53] in francese;
n°41, 2° trim. 1985: The Constitution of the IBRP: An Opportunist Bluff, Part 2 [54] in inglese e La constitution du BIPR : un bluff opportuniste – 2° partie [55] in francese;
n°53, 2° trim. 1988: 20 years since May 68: Evolution of the political milieu (1st part: 1968-77) [56] in inglese e Vingt ans depuis mai1968 : évolution du milieu prolétarien (1° partie) (1968-1977) [57] in francese;
n°54, 3° trim. 1988: 20 years since 1968: The evolution of the proletarian political milieu, II [58] in inglese e L’évolution du milieu politique depuis 1968 (2eme partie) [59] in francese ;
n°55, 4° trim. 1988: Decantation of the PPM and the Oscillations of the IBRP [60] in inglese e Décantation du milieu politique prolétarien et oscillations du BIPR [61] in francese ;
n°56, 1° trim. 1989: 20 years since 1968: The evolution of the proletarian political milieu, III [62] in inglese e Vingt ans depuis 1968: l'évolution du milieu politique depuis 1968 (3ème partie) [63] in francese.
[12] Si manifesta in questa occasione uno dei tratti del suo carattere che non ha niente a che vedere con quello di un “teorico da salotto”: presente in tutti i luoghi in cui si svolgeva il movimento, nelle discussioni ma anche nelle manifestazioni, trascorse una notte intera dietro una barricata ben deciso, con un gruppo di giovani elementi, a “resistere fino al mattino” contro la polizia ... proprio come aveva fatto la capretta del signor Seguin di fronte al lupo nel racconto di Alphonse Daudet.
Con la rapida successione nel corso degli ultimi due anni di avvenimenti di considerevole importanza storica (crollo del blocco dell'est, guerra del Golfo), con la constatazione dell'entrata del capitalismo nella fase ultima della sua decadenza, la fase della decomposizione[2], è importante che i rivoluzionari facciano la maggiore chiarezza possibile sull'importanza del militarismo nelle nuove condizioni del mondo d’oggi.
1) Contrariamente alla corrente bordighista, la CCI non ha mai considerato il marxismo come una "dottrina invariante", ma come un pensiero vivo per il quale ogni avvenimento storico importante è occasione di un arricchimento. In effetti tali avvenimenti permettono o di confermare il quadro e le analisi sviluppate anteriormente, o di rimettere in discussione alcune di esse, imponendo uno sforzo di riflessione per riaggiustare degli schemi prima validi ma ormai superati, oppure, apertamente, di elaborarne di nuovi, adatti a rendere conto della nuova realtà. Le organizzazioni ed i militanti rivoluzionari hanno la responsabilità specifica e fondamentale di compiere questo lavoro di riflessione, avendo cura, come fecero i nostri predecessori, di avanzare allo stesso tempo con prudenza e audacia:
In particolare, di fronte a tali avvenimenti storici, è importante che i rivoluzionari sappiano distinguere le analisi che sono diventate superate da quelle che restano valide, per evitare un doppio pericolo: o sclerotizzarsi o “gettare il bambino con l’acqua sporca”. Più precisamente, è necessario mettere bene in evidenza ciò che in queste analisi è essenziale, fondamentale, e conserva la sua validità nelle différenti circostanze storiche, rispetto a ciò che è secondario e occasionale. In breve, bisogna saper fare la differenza tra i fatti essenziali di una realtà e le sue différenti manifestazioni particolari.
2) Da un anno la situazione mondiale ha conosciuto sconvolgimenti notevoli che hanno modificato sensibilmente la fisionomia del mondo quale era uscito dalla seconda guerra imperialista. La CCI ha seguito con attenzione questi avvenimenti per capire il loro significato storico e per esaminare in quale misura essi sconfessavano o confermavano il quadro di analisi valido prima.
Per noi questi avvenimenti storici (crollo dello stalinismo, scomparsa del blocco dell'est, smembramento del blocco dell'ovest), se non potevano essere previsti nelle loro spécificità, si integravano perfettamente nel quadro di analisi e di comprensione del periodo storico presente elaborato anteriormente dalla CCI: la fase di decomposizione.
Le stesso vale par la guerra del Golfo Persico. Ma l'importanza di questi avvenimenti dà alla nostra organizzazione la responsabilità di capire l'impatto e la ripercussioni delle caratteristiche della fase di decomposizione sulla questione del militarismo e delle guerra, di esaminare come questa questione si pone in questo nuovo périodo storico.
Il militarismo nella decadenza del capitalismo
3) II militarismo e la guerra costituiscono un dato fondamentale nella vita del capitalismo dall'entrata di questo sistema nel suo périodo di decadenza. Da quando il mercato mondiale è stato completamente costituito, all'inizio di questo secolo, da che il mondo è stato divise in riserve di caccia coloniali! e commerciali per le différenti nazioni capitaliste avanzate, l'intensificazione e lo scatenamento della concorrenza commerciale tra queste nazioni non hanno potuto trovare altro sbocco che un aumento delle tensioni militari, nella costituzione di arsenali sempre più imponenti e nella sottomissione crescente della vita economica e sociale alle nécessita della sfera militare. Nei fatti il militarismo e la guerra imperialista costituiscono la manifestazione centrale dell'entrata del capitalismo nella sua fase di decadenza (è proprio lo scoppio della prima guerra mondiale che segna l'inizio di questo periodo), a un punto tale che per i rivoluzio-nari di allora 1'imperialismo e il capitalismo decadente diventano sinonimi. Non essendo 1'imperialismo una manifestazione particolare del capitalismo ma il suo modo di vita per tutto il nuovo périodo storico, non sono questi o quegli Stati ad essere imperialisti, ma tutti gli Stati, come diceva Rosa Luxemburg. In realtà, se 1'imperialismo, il militarismo e la guerra si identificano a tal punto con il periodo di decadenza, è perché quest'ultima corrisponde proprio al fatto che i rapporti di produzione capitalisti sono diventati un freno allo sviluppo delle forze produttive: il carattere perfettamente irrazionale, sul piano economico globale, delle spese militari e della guerra non fa che tradurre l'aberrazione che costituisce il mantenere questi rapporti di produzione. In particolare, l'autodistruzione permanente e crescente che risulta da questo modo di vita costituisce un simbolo dell'agonia di questo sistema, rivela chiaramente che esso è condannato dalla storia.
Capitalismo di Stato e blocchi imperialisti
4) II capitalismo, nella sua decadenza, con-frontato ad una situazione in cui la guerra è onnipresente nella vita della società, ha sviluppato due fenomeni che costituiscono le maggiori caratteristiche di questo periodo: il capitalismo di Stato e i blocchi imperialisti. Il capitalismo di Stato, la cui prima significativa manifestazione data dalla prima guerra mondiale, risponde alla necessita per ogni paese, in vista del confronto con le altre nazioni, di ottenere il minimo di disciplina al suo interno da parte dei différenti settori della società, di ridurre al massimo gli scontri tra le classi ma anche tra frazioni rivali della classe dominante, al fine di mobilitare e controllare l'insieme del suo potenziale economico. Allo stesso modo, la costituzione dei blocchi imperialisti corrisponde al bisogno di imporre una disciplina simile tra le differenti borghesie nazionali per limitare i loro reciproci antagonismi e di riunirle per lo scontro supremo tra i due campi militari. E man mano che il capitalismo è sprofondato nella sua decadenza e crisi storica, queste due caratteristiche non hanno fatto che rin-forzarsi.
In particolare, il capitalismo di Stato esteso a tutto un blocco imperialista, quale si è sviluppato all'indomani della seconda guerra mondiale, traduceva l'aggravarsi di questi due fenomeni. Tutto questo, il capitalismo di stato e i blocchi imperialisti, e la congiunzione tra i due, non porta a nessuna "pacificazione" dei rapporti tra différenti settori dei capitale e ancor meno ad un "rafforzamento" di questo. Al contrario, essi non sono che dei mezzi che secerne la società capitalista per tentare di resistere ad una crescente tendenza al suo disfacimento[3].
L’imperialismo nella fase di decomposizione del capitalismo
5) La decomposizione générale della società costituisce la fase ultima dei periodo di decadenza del capitalismo. In questo senso, in questa fase non sono rimesse in causa le caratteristiche proprie dei periodo di decadenza: la crisi storica dell'economia capitalista, il capitalismo di Stato, il militarismo e l'imperialismo. Di più, nella misura in cui la decomposizione si presenta come il culmine delle contraddizioni nelle quali si dibatte in modo crescente il capitalismo dall'inizio della sua decadenza, le caratteristiche proprie di questo periodo si trovano, nella fase ultima, ancora più accentuate:
Lo stesso vale per il militarismo e l'imperialismo, come si è potuto già costatare negli anni '80, durante i quali il fenomeno della decomposizione è apparso e si è sviluppato. E la scomparsa della divisione del mondo tra le due costellazioni imperialiste risultante dal crollo dei blocco dell'est non può rimettere in discussione tale realtà. Infatti non è la costituzione dei blocchi imperialisti che dà origine al militarismo e all'imperialismo. E' vero il contrario: la costituzione dei blocchi non è che la conseguenza estrema (che ad un certo momento può diventare un'aggravante), una manifestazione dell'infognamento del capitalismo decadente nel militarismo e la guerra. In un certo senso la formazione dei blocchi rispetto all'imperialismo è come lo stalinismo rispetto al capitalismo di Stato. Come la fine dello stalinismo non rimette in causa la tendenza storica al capitalismo di Stato, la scomparsa attuale dei blocchi imperialisti non implica la minima rimessa in causa della presa dell'imperialismo sulla vita della società. La differenza fondamentale risiede nel fatto che se la fine dello stalinismo corrisponde all'eliminazione di una forma particolarmente aberrante del capitalismo di Stato, la fine dei blocchi non fa che aprire la porta ad una forma ancora più barbara, aberrante e caotica dell'imperialismo.
6) Questa analisi era già stata elaborata dalla CCI al momento del crollo del blocco dell'est:
"Nel. periodo di decadenza del capitalismo, TUTTI gli Stati sono imperialisti e prendono disposizioni per assumere questa realtà: economia di guerra, armamenti, ecc. E' perciò che 1'aggravamento delle convulsioni dell'economia mondiale non potrà che attizzare le lacerazioni tra i différenti Stati, anche e sempre più sul piano militare. La differenza con il periodo appena terminato è che questi scontri e antagonismi, che prima erano contenuti e utilizzati dai due grandi blocchi imperialisti, adesso passeranno in primo piano. La scomparsa del gendarme imperialista russo, e quella che sta per avvenire per il gendarme americano di fronte ai suoi partner di ieri, aprono la porta allo scatenamento di tutta una serie di rivalità locali. Queste rivalità e questi scontri non possono, all'ora attuale, degenerare in un conflitto mondiale (anche supponendo che il proletariato non sia più capace di opporsi). Per contro, a causa della scomparsa della disciplina imposta dai blocchi, questi conflitti rischiano di crescere in numero e violenza, specie nei paesi dove il proletariato è più debole" (Febbraio 1990, vedi Rivista Internazionale n.14)
"II peggioramento della crisi mondiale dell'economia capitalista va necessariamente a pro-vocare un aumento delle contraddizioni interne della classe borghese. Queste contraddizioni, come per il passato, si manifesteranno sul piano degli antagonismi guerrieri: nel capitalismo decadente la guerra commerciale non può che sfociare nella fuga in avanti della guerra armata. In questo senso, le illusioni pacifiste che potrebbero svilupparsi in seguito alle "più calde" relazioni tra l'URSS e gli Stati Uniti devono essere combattute in modo risoluto: gli scontri militari tra Stati non sono sul punto di scomparire. (...) Ciò che cambia rispetto al passato è che questi antagonismi militari non prendono più all'ora attuale la forma di un confronto tra i due blocchi imperialisti. .." (“Risoluzione sulla situazione internazionale”, giugno '90, su Revue Internationale n°63)
Questa analisi è stata ampiamente confermata dalla guerra nel Golfo persico.
La guerra del Golfo: prima manifestazione della nuova situazione mondiale
7) Questa guerra:
In questo senso, la guerra del Golfo non è, come afferma la maggior parte dei milieu politico proletario, una "guerra per il prezzo del petrolio". E non la si potrebbe ridurre neanche ad una "guerra per il controllo dei Medio Oriente", anche se questa regione è cosi importante. Inoltre, l'operazione militare nel Golfo non cerca solo di prevenire il caos che si sviluppa nel "Terzo Mondo". Naturalmente tutti questi elementi possono giocare un ruolo. E' vero, infatti, che la maggioranza dei paesi occidentali è interessata ad un petrolio a basso prezzo (contrariamente all'URSS che, tuttavia, partecipa pienamente - relativamente ai suoi ridotti mezzi - all'azione contro l’Iraq), ma non è con i mezzi che sono stati impiegati (e che hanno fatto salire il prezzo del petrolio ben al di là delle esigenze dell’Iraq) che si otterrà un tale abbassamento dei prezzi. E' vero anche che il controllo dei campi petroliferi da parte degli Stati Uniti presenta per questo paese un interesse incon-testabile e rafforza la sua posizione di fronte ai rivali commerciali (Europa dell'ovest e Giappone), ma perché questi stessi rivali li sostengono in questa impresa? Allo stesso modo è chiaro che l'URSS è interessata alla stabilizzazione di una regione vicina alle sue province dell'Asia centrale e del Caucaso già particolarmente agitate. Ma il caos che si sviluppa in URSS non interessa solo questo paese; i paesi dell'Europa centrale e dell'Europa occidentale sono particolarmente interessati a ciò che avviene nella zona dell'antico blocco dell'est. Più in generale, se i paesi avanzati si preoccupano del caos che si sviluppa in certe regioni del "Terzo Mondo" è perché essi stessi si ritrovano fragili di fronte a questo caos, a causa della nuova situazione nella quale si trova il mondo oggi.
8) In realtà è fondamentalmente il caos regnante già in una buona parte del mondo e che minaccia ora i grandi paesi sviluppati e i loro reciproci rapporti che è alla base dell'operazione "Scudo nel deserto" e dei suoi annessi. In effetti, con la scomparsa della divisione del mondo tra i due blocchi imperialisti è venuto meno uno dei fattori essenziali che manteneva una certa coesione tra questi Stati. La tendenza specifica del nuovo periodo è l'"ognuno per se" e, eventualmente, per gli Stati più potenti, a porre la loro candidatura alla "leadership" di un nuovo blocco. Ma nello stesso tempo, la borghesia di questi paesi, misurando i pericoli che comporta una tale situazione, cerca di reagire di fronte a questa tendenza. Con la nuova scalata nel caos generale che comportava l'avventura irakena (favorita di nascosto dall'atteggiamento "conciliante" manifestato dagli Stati Uniti prima del 2 agosto nei riguardi dell'Iraq con il fine di "dare l'esempio" in seguito), la "comunità internazionale", come la chiamano i mass-media e che non si limita all'antico blocco dell'ovest visto che oggi ne fa parte anche l'URSS, non aveva altre risorse che piazzarsi dietro l'autorità della prima potenza mondiale, e particolarmente della sua forza militare, la sola capace di andare a fare la polizia in qualsiasi parte del mondo. Ciò che mostra dunque la guerra del Golfo è che, di fronte alla tendenza al caos generalizzato proprio della fase di decomposizione, e alla quale il crollo del blocco dell'est ha dato un colpo di acceleratore considerevole, non c'è altra uscita per il capitalismo, nel suo tentativo di tenere assieme le differenti parti di un corpo che tende a smembrarsi, che l'imposizione del pugno di ferro che costituisce la forza delle armi[5]. In questo senso, i mezzi stessi che esso utilizza per tentare di contenere un caos sempre più mortale sono un fattore di aggravamento considerevole della barbarie guerriera nella quale è caduto il capitalismo.
La ricostruzione di nuovi blocchi non è all’ordine del giorno
9) Mentre la formazione dei blocchi si presenta storicamente come la conseguenza dello sviluppo del militarismo e dell'imperialismo, l'acuirsi di questi due ultimi nella fase attuale di vita del capitalismo costituisce, paradossalmente, un freno alla riformazione di un nuovo sistema di blocchi che prendano il posto di quelli che sono scomparsi. La storia (soprattutto quella del secondo dopoguerra) ha messo in evidenza il fatto che la scomparsa di un blocco imperialista (per esempio l'"Asse") mette all'ordine del giorno lo smembramento dell'altro (gli “alleati") ma anche la ricostituzione di una nuova coppia di blocchi antagonisti (Est ed Ovest). E' perciò che la presente situazione porta con se, sotto l'impulso della crisi e dell'acuirsi delle tensioni militari, una tendenza verso la riformazione di due nuovi blocchi imperialisti. Tuttavia, il fatto stesso che la forza delle armi sia divenuta - come lo conferma la guerra del Golfo- un fattore preponderante nel tentativo di limitare il caos mondiale da parte dei paesi avanzati costituisce un freno considerevole a questa tendenza. In effetti, questa stessa guerra ha sottolineato la superiorità soverchiante (per non dire di più) della potenza militare degli Stati Uniti nei confronti di quella degli altri paesi sviluppati: in realtà, questa potenza militare, da sola, è oggi almeno equivalente a quella di tutti gli altri paesi del globo riuniti. E un tale squilibrio non è colmabile subito, non esiste alcun paese in grado, in tempi relativamente brevi, di opporre a quello degli USA un potenziale militare che gli permetta di pretendere il posto guida di un blocco che possa rivaleggiare con quello diretto da questa potenza. E su tempi più lunghi, la lista dei candidati a un tale posto è estremamente limitata.
10) In effetti, è fuori questione, per esempio, che il capo del blocco appena affondato, l'URSS, possa un giorno riconquistare tale posto. In realtà, il fatto che questo paese abbia giocato tale ruolo nel passato costituisce in se una sorta di aberrazione, un accidente della storia. L'URSS per il suo considerevole arretramento su tutti i piani (economico, ma anche politico e culturale), non disponeva di attributi che gli permettessero di costituire "naturalmente" intorno a se un blocco imperialista[6]. Se essa ha potuto accedere a tale rango, è stato "grazie" a Hitler, che l'ha fatta entrare nella guerra nel 1941, e degli "alleati" che, a Yalta, l'hanno ricompensata per aver costituito un secondo fronte contro la Germania e l'hanno rimborsata del tributo di 20 milioni di morti pagati dalla sua popolazione sotto la forma della piena disposizione dei paesi dell'Europa centrale che le sue truppe avevano occupato durante la ritirata tedesca[7]. D'altronde è stato proprio perché non poteva tenere questo ruolo di testa che l'URSS è stata costretta, per conservare il suo impero, ad imporre al suo apparato produttivo un'economia di guerra che l'ha completamente rovinata. Il crollo spettacolare del blocco dell'Est, oltre che sanzionare il fallimento di una forma di capitalismo di Stato particolarmente aberrante (per il fatto che non proveniva da uno sviluppo "organico" del capitale, ma risultava dall'eliminazione della borghesia classica da parte della rivoluzione del 1917), non poteva che tradurre la rivincita della storia nei confronti di questa aberrazione di partenza. E' per questa ragione che mai più l'URSS potrà giocare, malgrado i suoi arsenali considerevoli, un ruolo di primo piano sulla scena internazionale. E ciò tanto più che la dinamica di smembramento del suo impero esterno non può che proseguire al suo interno, spogliandola in fin dei conti dei territori che essa aveva colonizzato nel corso dei secoli passati. Per aver tentato di giocare un ruolo di potenza mondiale che era al di sopra delle sue forze, la Russia è condannata a ritornare al posto di terzo ordine che le apparteneva prima di Pietro il Grande.
I due soli candidati potenziali al titolo di capo blocco, il Giappone e la Germania, non hanno essi stessi la capacità, in tempi prevedibili, d'assumere un tale ruolo. Da parte sua, il Giappone, malgrado la sua potenza industriale e il suo dinamismo economico, non potrà mai pretendere di raggiungere un tale rango per la sua posizione geografica decentrata rispetto alla regione che concentra la più forte densità industriale: l'Europa Occidentale. Quanto alla Germania, il solo paese che potrebbe eventualmente tener un ruolo che le è appartenuto già per il passato, la sua potenza .militare attuale (non dispone neanche dell'arma atomica, il che è tutto dire) non le permette di pensare di rivaleggiare con gli Stati Uniti su questo terreno per molto tempo. E ciò tanto più che man mano che il capitalismo s'affossa nella sua decadenza, è sempre più indispensabile per il capo del blocco disporre di una supériorità militare massiccia sui suoi vassalli per poter mantenere il suo rango.
11) All'inizio del periodo di decadenza, e fino ai primi anni della seconda guerra mondiale, poteva esistere una certa "parità" tra differenti! partner di una coalizione imperialista, benché il bisogno di un capo gruppo si sia sempre fatto sentire. Per esempio, nella prima guerra mondiale, non esisteva, in termini di potenza militare operativa, una fondamentale disparità tra i tre “vincitori”: Gran Bretagna, Francia e USA. Questa situazione era già cambiata in modo molto importante nel corso della seconda guerra, dove i "vincitori" erano posti sotto la dipendenza stretta degli Stati Uniti che manifestavano una considerevole supériorità sui loro "alleati". Essa si accentuava ulteriormente durante il periodo di "guerra fredda" (appena terminato), dove ogni capo blocco, Stati Uniti e URSS, soprattutto per il controllo degli armamenti nucleari più sofisticati, disponeva di una supériorità che soverchiava completamente quella degli altri paesi del proprio blocco. Una tale tendenza si spiega con il fatto che, con l'affossamento del capitalismo nella sua decadenza:
Questo ultimo fattore è come il capitalismo di Stato: più le différenti frazioni di una borghesia nazionale tendono ad affrontarsi tra di loro, con 1'aggravamento della crisi che accresce la loro concorrenza, e più lo Stato deve rinforzarsi per poter esercitare la sua autorità su di esse. Allo stesso modo, più la crisi storica, e la sua forma aperta, produce danni, più un capo blocco deve essere forte per contenere e controllare le tendenze al sue smembramento tra le différenti frazioni nazionali che lo compongono. Ed è chiaro che nella fase ultima della decadenza, quella della decomposizione, un tale fenomeno non può che aggravarsi ancora fino a dimensioni considèrevoli.
E' per questo insieme di ragioni, e soprattutto per l'ultima, che la ricostituzione di una nuova coppia di blocchi imperialisti non solo non è possibile prima di molti anni, ma può benissimo non aver mai più luogo, intervenendo prima la rivoluzione o la distruzione dell’umanità. Nel nuovo périodo storico in cui siamo entrati, e gli avvenimenti del Golfo lo confermano, il mondo si présenta con un carattere di instabilità, dove regna la tendenza al "ciascuno per se", dove le alleanze tra Stati non avranno più il carattere di stabilità che caratterizzava i blocchi, ma saranno dettati dalla nécessità del momento. Un mondo di disordine cruento, di caos sanguinoso nel quale il gendarme americano tenterà di far regnare un minimo di ordine con l'uso sempre più massiccio e brutale della propria potenza militare.
12) II fatto che nel prossimo periodo il mondo non sia più diviso in blocchi imperialisti, che una sola potenza - gli USA - eserciti la "leadership" mondiale, non significa per nulla che oggi sia corretta la tesi del "super-impérialismo" (o "ultraimperialismo") quale fu sviluppata da Kautsky nel corso della prima guerra mondiale. Questa tesi era stata elaborata prima della guerra dalla corrente opportunista che si sviluppava nella Socialdemocrazia. Essa trovava la sua radice nella visione gradualista e riformista secondo cui le con-traddizioni (tra classi e tra nazioni) nel seno della sociétà capitalista erano destinate ad attenuarsi sino a scomparire. La tesi di Kautsky supponeva che i différenti settori del capitale finanziario internazionale fossero capaci di unificarsi per stabilire una dominazione stabile e pacifica sull'insieme del mondo. Questa tesi, che si presentava come "marxista", fu naturalmente combattuta da tutti i rivoluzionari, ed in particolare da Lenin (vedi in particolare "L'imperialismo, fase suprema del capitalismo"), che mise in evidenza che un capitalismo senza sfruttamento e concorrenza tra capitali non è più capitalismo. E' chiaro che questa posizione rivoluzionaria resta del tutto valida oggi.
Allo stesso modo, la nostra analisi non può essere confusa con quella sviluppata da Chaulieu (Castoriadis), uno dei principali animatori del vecchio gruppo francese "Socialisme ou barbarie", che aveva almeno il vantaggio di essere esplicita nel rigetto del marxismo. Secondo questa analisi il mondo si sarebbe incamminato verso un "Terzo sistema", non nell'armonia cara ai riformisti, ma attraverso brutali convulsioni. Ogni guerra mondiale conduce all'eliminazione di una grande potenza. La terza guerra mondiale era chiamata a non lasciare in piazza che un solo blocco che avrebbe fatto regnare il suo ordine su un mondo dove le crisi economiche sarebbero scomparse e nel quale lo sfruttamento capitalista della forza lavoro sarebbe stato rimpiazzato da una sorta di schiavitù, un regno dei "dominanti" sui "dominati".
Il mondo d'oggi, dopo il crollo del blocco dell'est e quale si présenta di fronte alla decomposizione, non resta meno capitalista. Crisi economica insolubile e sempre più profonda, sfruttamento sempre più féroce della forza lavoro, dittatura della legge del valore, inasprimento della concorrenza tra capitali e degli antagonismi imperialisti tra nazioni, regno del militarismo senza freni, distruzioni massicce e massacri a catena: ecco la sola realtà che esso può offrire. E come unica prospettiva la distruzione dell'umanità.
13) Più che mai dunque la questione della guerra resta centrale nella vita del capitalismo e costituisce, di conseguenza, un elemento fondamentale per la classe operaia. L'importanza di questa questione non è evidentemente nuova. Essa era già centrale sin dalla prima guerra mondiale (come messo in evidenza dai congressi internazionali di Stoccarda nel 1907 e di Basilea nel 1912). Essa diventa ancora più decisiva, evidentemente, nel corso del primo macello imperialista, come messo in evidenza dall'azione di Lenin, di Rosa Luxemburg, di Liebcnecht, nonché dalla rivoluzione in Russia e Germania. Essa conserva tutta la sua acutezza tra le due guerre mondiali, in particolare durante la guerra di Spagna, senza parlare, evidentemente, dell'importanza che essa riveste nel corso del più grande olocausto di questo secolo, tra il 1939 e il 1945. Essa ha conservato infine tutta la sua importanza nel corso delle differenti guerre di "liberazione nazionale" dopo il 1945, momenti dello scontro tra i due blocchi imperialisti. Nei fatti, dopo l'inizio del secolo, la guerra è stata la questione più decisiva che abbia affrontato il proletariato e le sue minoranze rivoluzionarie, molto prima della questione sindacale o parlamentare, per esempio. E non poteva che essere cosi nella misura in cui la guerra costituisce la forma più concentrata della barbarie del capitalismo décadente, quella che esprime la sua agonia e la minaccia che fa pesare sulla sopravvivenza dell'umanità.
Nel periodo attuale in cui, più ancora che nei decenni passati, la barbarie guerriera sarà un dato permanente e onnipresente della situazione mondiale, implicando in modo crescente i paesi sviluppati (nei soli limiti che potrà fissarle il proletariato di questi paesi), la questione della guerra è ancora più essenziale per la classe operaia. E' noto che la CCI ha messo in evidenza da molto tempo che, contrariamente al passato, lo sviluppo di una prossima ondata rivoluzionaria non verrà fuori dalla guerra, ma dall'aggravamento della crisi economica. Questa analisi resta del tutto valida: le mobilitazioni operaie, i punti di partenza dei grandi scontri di classe, proverranno dagli attacchi economici. Nello stesso modo, sul piano della presa di coscienza, 1'aggravamento della crisi sarà un fattore fondamentale rivelando il fallimento storico del modo di produzione capitalista. Ma, proprio su questo piano della presa di coscienza, la questione della guerra è chiamata, ancora una volta, a giocare un ruolo di prim'ordine:
14) E' vero che la guerra può essere utilizzata contro la classe operaia molto più facilmente che la stessa crisi e gli attacchi economici perché:
D'altronde è ciò che è successo finora con la guerra del Golfo. Ma questo tipo di impatto non può che essere limitato nel tempo. Più a lungo termine:
la tendenza non potrà che rovesciarsi. E tocca evidentemente ai rivoluzionari essere al primo posto di questa presa di coscienza: la loro responsabilità sarà sempre più decisiva.
15) Nell'attuale situazione storica, l'intervento dei comunisti all'interno della classe è determinato, oltre che dall'aggravarsi considerevole della crisi economica e degli attacchi che ne risultano contro l'insieme del proletariato, da:
E’ importante dunque che questa questione figuri in permanenza in primo piano nella propaganda dei rivoluzionari. E nei periodi, come quelli attuali, in cui questa questione si trova nei primi piani dell'attualità internazionale, è importante che essi mettano a profitto la particolare sensibilizzazione degli operai a questo riguardo, dandovi una priorità ed una insistenza tutta particolare.
In particolare, le organizzazioni rivoluzionarie avranno il dovere di vegliare e:
CCI, 4 Ottobre 1990
[1] Vedi “Guerra, militarismo e blocchi imperialisti” nella Revue internationale n°52 e n°53.
[2] Per 1'analisi della CCI sulla questione della decomposizione, vedi Rivista Internazionale n°14.
[3] E' tuttavia importante sottolineare una differenza notevole tra capitalismo di Stato e blocchi imperialisti. Il primo non può essere rimesso in causa dai conflitti tra le diverse frazioni della classe capitalista (altrimenti è la guerra civile, che può caratterizzare certe zone arretrate del capitalismo, ma non i suoi settori più avanzati): come regola générale è lo Stato, rappresentante dell'insieme del capitale nazionale, che riesce ad imporre la sua autorità alle diverse componenti di quest'ultimo. I blocchi imperialisti, invece, non presentano lo stesso carattere di perennità. In primo luogo essi non si costituiscono che in vista della guerra mondiale: in un periodo in cui questa non è momentanéamente all'ordine del giorno (come nel corso degli anni '20), essi possono anche scomparire. In seconde luogo non esiste, per ogni Stato, alcuna "predestinazione" definitiva per questo o quel blocco: è a seconda delle circostanze che i blocchi si costituiscono, in funzione di criteri economici, geografici, militari, politici, ecc. Perciò la storia presenta numerosi esempi di Stati che hanno cambiato blocco in seguito alla modifica di uno di questi fattori. Questa differenza tra lo Stato capitalista e i blocchi non ha niente di misterioso. Essa corrisponde al fatto che il livello più alto di unità al quale la borghesia possa pervenire è quello della nazione, nella misura in cui lo Stato nazionale è per eccellenza lo strumento della difesa dei suoi interessi (mantenimento dell’”ordine”, commesse, politica monetaria, protezione doganale, ecc.). E’ perciò che un’alleanza in seno a un blocco imperialista non è altro che un conglomerato di interessi nazionali fondamentalmente antagonisti, destinato a preservare questi interessi nazionali nella giungla internazionale. Decidendo di allinearsi ad un blocco piuttosto che ad un altro, una borghesia non ha altra preoccupazione che garantire i suoi interessi nazionali. In fin dei conti anche se possiamo considerare il capitalismo come un’entità globale, bisogna sempre ricordare che esso esiste, concretamente, sotto forma di capitali concorrenti e rivali.
[4] In realtà è lo stesso modo di produzione capitalista che, nella sua decadenza e ancor più nella sua fase di decomposizione, costituisce un’aberrazione dal punto di vista degli interessi dell’umanità. Ma in questa agonia barbara del capitalismo alcune sue forme, come lo stalinismo, prendendo origine da circostanze storiche particolari, comportano delle caratteristiche che le rendono ancora più vulnerabili e le condannano a scomparire prima che sia l’insieme del sistema ad essere distrutto dalla rivoluzione proletaria o in seguito alla distruzione dell’umanità.
[5] In questo senso, il modo in cui sarà garantito l’”ordine” del mondo nel nuovo periodo tenderà sempre più a somigliare al modo in cui l’URSS manteneva l’ordine nel suo vecchio blocco: con il terrore e la forza delle armi. Nel periodo di decomposizione, e con l’aggravarsi delle convulsioni economiche del capitale in agonia, sono le forme più brutali e barbare dei rapporti tra Stati che tenderanno a diventare la regola per tutti i paesi del mondo.
[6] Nei fatti, le ragioni per cui la Russia non poteva rappresentare una locomotiva per la rivoluzione mondiale (è per questa ragione che i rivoluzionari come Lenin e Trotsky aspettavano la rivoluzione in Germania perché essa prendesse a rimorchio la rivoluzione russa), erano le stesse che ne facevano un candidato del tutto inadatto al ruolo di testa di blocco.
[7] Un’altra ragione per cui gli alleati hanno dato all’URSS una piena disponibilità dei paesi dell’Europa centrale risiede nel fatto che essi contavano su questa potenza per farne la “polizia” contro il proletariato di questa regione. La storia ha mostrato (a Varsavia, precisamente) come questa fiducia era meritata.
Links
[1] https://it.internationalism.org/en/tag/storia-del-movimento-operaio/1917-rivoluzione-russa
[2] https://it.internationalism.org/en/tag/storia-del-movimento-operaio/1980-sciopero-di-massa-polonia
[3] https://it.internationalism.org/en/tag/2/28/stalinismo-il-blocco-dellest
[4] https://it.internationalism.org/en/tag/2/36/falsi-partiti-operai
[5] https://it.internationalism.org/en/tag/2/40/coscienza-di-classe
[6] https://it.internationalism.org/en/tag/5/99/collasso-del-blocco-dellest
[7] https://it.internationalism.org/en/tag/3/46/decomposizione
[8] https://en.internationalism.org/internationalreview/197701/9333/ambiguities-internationalist-communist-party-over-partisans-italy-19
[9] https://fr.internationalism.org/rinte8/partisan.htm
[10] https://en.internationalism.org/content/3122/origins-icpcommunist-programme-what-it-claims-be-and-what-it-really
[11] https://fr.internationalism.org/rint/32_PCInt
[12] https://en.internationalism.org/content/3171/50-years-ago-real-causes-second-world-war
[13] https://fr.internationalism.org/rinte59/guerre.htm
[14] https://en.internationalism.org/content/2961/bankruptcy-councilism
[15] https://fr.internationalism.org/rinte37/conseil.htm
[16] https://it.internationalism.org/rziz/rint/1976/rint_1
[17] https://en.internationalism.org/content/3174/italian-left-1922-1937
[18] https://fr.internationalism.org/rinte59/bc.htm
[19] https://en.internationalism.org/content/3202/international-communist-left-1937-52
[20] https://fr.internationalism.org/rinte61/bctm
[21] https://en.internationalism.org/content/3335/fraction-party-marx-lenin-1848-1917
[22] https://fr.internationalism.org/rinte64/bc.htm
[23] https://en.internationalism.org/content/3345/bolsheviks-and-fraction
[24] https://fr.internationalism.org/rinte65/bc.htm
[25] https://en.internationalism.org/ir/21/internationalisme-1952
[26] https://fr.internationalism.org/rinte21/evolution.htm
[27] https://en.internationalism.org/content/3124/task-hour-formation-party-or-formation-cadres
[28] https://fr.internationalism.org/rinte32/Internationalisme_1947_parti_ou_cadres.htm
[29] https://en.internationalism.org/ir/033/concept-of-brilliant-leader
[30] https://fr.internationalism.org/rint33/Internationalisme_chef_genial.htm
[31] https://en.internationalism.org/content/2959/republication-current-problems-workers-movement-internationalisme-august-1947
[32] https://fr.internationalism.org/revue-internationale/198307/1999/probl-mes-actuels-du-mouvement-ouvrier-internationalisme-n-25-ao-t-
[33] https://en.internationalism.org/content/3136/second-congress-internationalist-communist-party
[34] https://fr.internationalism.org/rinte36/pci.htm
[35] https://en.internationalism.org/ir/062/the-russian-experience
[36] https://en.internationalism.org/content/3102/critique-pannekoeks-lenin-philosopher-internationalisme-1948-part-1
[37] https://fr.internationalism.org/rinte25/lenine.htm
[38] https://en.internationalism.org/content/3111/critique-pannekoeks-lenin-philosopher-internationalisme-1948-part-2
[39] https://fr.internationalism.org/rinte27/lenine.htm
[40] https://en.internationalism.org/content/3118/critique-pannekoeks-lenin-philosopher-internationalisme-1948-part-3
[41] https://fr.internationalism.org/rinte28/lenine.htm
[42] https://en.internationalism.org/content/2951/critique-pannekoeks-lenin-philosopher-internationalisme-1948-part-4
[43] https://fr.internationalism.org/rinte30/lenine.htm
[44] https://en.internationalism.org/ir/010_conference_01.html
[45] https://fr.internationalism.org/french/Rinte10/rencontre_inter_BC
[46] https://en.internationalism.org/content/2641/reply-internationalist-communist-party-battaglia-comunista
[47] https://fr.internationalism.org/rinte13/bc.htm
[48] https://en.internationalism.org/ir/17/second-left-communist-conference
[49] https://fr.internationalism.org/rinte17/regroup.htm
[50] https://en.internationalism.org/ir/22/sectarianism
[51] https://fr.internationalism.org/rinte22/conference.htm
[52] https://en.internationalism.org/ir/040_ibrp_bluff_01.html
[53] https://fr.internationalism.org/rinte40/regroup.htm
[54] https://en.internationalism.org/ir/041_ibrp_bluff_02.html
[55] https://fr.internationalism.org/rinte41/regroup.htm
[56] https://en.internationalism.org/internationalreview/201211/5269/20-years-may-68-evolution-political-milieu-1st-part-1968-77
[57] https://fr.internationalism.org/rinte53/mpp.htm
[58] https://en.internationalism.org/content/3024/20-years-1968-evolution-proletarian-political-milieu-ii
[59] https://fr.internationalism.org/rinte54/mpp.htm
[60] https://en.internationalism.org/internationalreview/198810/1410/decantation-ppm-and-oscillations-ibrp
[61] https://fr.internationalism.org/rint/55_BIPR
[62] https://en.internationalism.org/content/3062/20-years-1968-evolution-proletarian-political-milieu-iii
[63] https://fr.internationalism.org/rinte56/1968.htm
[64] https://it.internationalism.org/en/tag/2/25/decadenza-del-capitalismo
[65] https://it.internationalism.org/en/tag/3/48/guerra
[66] https://it.internationalism.org/en/tag/3/49/imperialismo