1.
La manifestazione nazionale a Roma contro la modifica dell’articolo 18
dello statuto dei lavoratori viene oscurata dall’agguato mortale contro
il prof. Marco Biagi, consulente del governo su questioni di diritto
del lavoro, avvenuto due giorni prima ad opera di una sedicente
organizzazione comunista combattente;
2. La manifestazione del 24 ottobre 2003 contro l’ulteriore riforma del
regime pensionistico viene anch’essa condizionata dalla notizia,
diffusa cronometricamente nella stessa mattinata, secondo cui una
retata effettuata nelle ore precedenti aveva messo al sicuro una folta
banda di brigatisti responsabili del suddetto delitto ed altro ancora.
Noi non siamo esperti criminologi e certamente tutto si può dire di noi tranne che possiamo avere delle simpatie per il terrorismo, in qualunque forma esso sia portato avanti. Certo è singolare questa coincidenza di eventi. Ma si può veramente parlare di coincidenza, quando si sa bene che queste operazioni non sono mai il frutto del caso ma l’espressione di un lungo, meticoloso e paziente lavoro di preparazione, sia da parte delle BR, per gli attentati, che da quella dello Stato, per le retate? Quello che appare invece come la più logica conclusione è che sia le BR che lo Stato usino coscientemente le manifestazioni di massa per avere un’eco al loro interno, per fare di queste degli amplificatori dei loro messaggi. Insomma sembra esserci un reciproco e parallelo gioco egemonico sulla pelle dei lavoratori attraverso la ricerca delle occasioni di maggiore mobilitazione e sensibilità per galvanizzare e orientare il movimento in un senso o in un altro. Naturalmente non bisogna neanche scartare l’ipotesi che alcuni morti di terrorismo siano stati lasciati morire dallo Stato, che su questo piano ha una lunga e consolidata esperienza (vedi caso Moro). Un morto come Biagi alla vigilia di una grande manifestazione operaia ha evidentemente un forte impatto, creando un clima di terrore che tende a raffreddare gli animi e le pretese dei manifestanti e fornendo peraltro la stura ai sindacalisti di turno per infiorettare ricchi discorsi sulla democrazia e il rispetto delle istituzioni.
Ciò detto, bisogna ancora stare attenti a non credere che, in conseguenza di quanto detto sopra, il terrorismo costituisca una politica adeguata per combattere i mali di questa società solo perché le BR professano di essere contro lo Stato. In realtà, come abbiamo più volte affermato, il terrorismo è solo la reazione impotente di strati di piccola borghesia, che evidentemente può guadagnare influenza anche nei ranghi proletari, tanto più in questa fase di decomposizione e di difficoltà nell’intravedere una chiara prospettiva per la lotta di classe e un domani migliore. Il terrorismo è intrinsecamente antioperaio nella misura in cui tende a erodere quelle che sono le principali armi del proletariato, la sua unità e la sua coscienza. Infatti la sua azione - necessariamente clandestina e segreta - richiede che una minoranza, agente per piccoli gruppi uniti solo da persone di fiducia, agisca di fatto in nome e per conto della classe operaia. Questo significa dare per scontato, a priori, che la direzione del processo di emancipazione resti in mano ad un pugno di militanti (nel caso italiano, le BR appunto) e che la classe si debba associare per “fede”. Ma la rivoluzione proletaria non è un processo che può portare avanti una classe senza convinzione, senza chiarezza di quello che fa. Questo è potuto accadere solo nelle rivoluzioni precedenti, ed in particolare nella rivoluzione francese dove la plebe, al comando di una ristretta schiera di politici borghesi, ha materialmente portato avanti il processo rivoluzionario. Ma in quel caso la plebe poteva rimanere in uno stato di semicoscienza di quello che andava a fare perché la borghesia, per conto della quale quella rivoluzione si stava compiendo, aveva già delle solide basi economiche nella società e aveva solo bisogno di suggellare questo dominio con la conquista del potere politico. Il quadro di oggi è completamente diverso: non potendo la classe operaia contare su alcun punto di forza all’interno di questa società, può fare appello solo alla sua unità e alla sua coscienza. Ed è in questo senso che le azioni del brigatismo sono in netta contraddizione con la natura rivoluzionaria della classe operaia e finiscono per disorientarla e scoraggiarla ogni volta che si manifestano.
D’altra parte a livello di posizioni politiche, cosa suggeriscono i terroristi di oggi? A sentire le dichiarazioni della militante brigatista Lioce, i proletari dovrebbero stare a osannare i vari Saddam Hussein, gli Osama Bin Laden, per il fatto che stanno riuscendo a mettere a dura prova l’imperialismo americano. E sia pure. Ma esiste un solo imperialismo nel mondo? E forse che abbattutone uno, tutti gli altri se ne cadono da soli? Oppure, come è molto più ragionevole che sia, tutti gli altri profittano della situazione per rafforzarsi? Allora questi brigatisti per chi fanno il tifo, per qualche imperialismo minore con cui la classe operaia si dovrebbe alleare? E per fare questo il proletariato occidentale dovrebbe chiudere gli occhi su tutte le migliaia di proletari che sono vittime inconsapevoli della maggior parte di questi attentati internazionali? La conclusione evidente è che, al di là della buona volontà di chicchessia, lo Stato da una parte e le organizzazioni terroriste dall’altra, partecipano ad una stessa operazione di controllo e di mistificazione della classe operaia. I terroristi cercando di spingere gli elementi più determinati in dei vicoli ciechi e disperati; lo Stato cercando di additare il pericolo terrorista come la naturale estensione di una lotta radicale operaia e additando la democrazia e la moderazione come l’ambito naturale all’interno del quale trattare tutte le questioni. La sottolineatura, fatta a più riprese dalle forze di polizia e governative dell’appartenenza ad un sindacato dei (presunti) terroristi arrestati, ha dunque tutto il sapore di una messa in guardia contro i lavoratori: ogni lotta sarà tollerata purché completamente interna alle compatibilità e ai canoni borghesi. Qualunque deragliamento sarà considerato assimilabile ad un atto di terrorismo! In conclusione, da qualunque punto di vista si voglia guardare la situazione, il terrorismo è sempre più un’arma del terrore statale contro i lavoratori.
Ezechiele
23 novembre 2003
Ci volevano 19 morti italiani per fare finalmente uscire fuori che l’Italia è in guerra. E non ci sta da adesso, dopo l’attentato, ma fin da quando la missione è stata decisa, perchè in Iraq non c’è nessun governo locale che ha chiesto l’aiuto di un esercito straniero per difendersi da un nemico interno od esterno (1), ma degli eserciti di occupazione che si sono imposti grazie ad una guerra di aggressione. E poco importa che il contingente italiano non abbia partecipato all’invasione, ma si sia aggiunto dopo. La guerra in Iraq non è mai finita e gli avvenimenti di questi giorni non fanno che confermarlo. E se c’è una guerra, tra chi è se non tra forze irakene (poco importa se minoritarie o no) e gli eserciti di occupazione, ivi comprese le truppe italiane?
Si è così drammaticamente svelata la grossa menzogna sulla missione di “pace” del contingente italiano in Irak. I soldati italiani stanno laggiù per difendere gli interessi imperialisti del capitale italiano. Cioè ci sono per gli stessi motivi dei soldati americani, inglesi, spagnoli,ecc. Non è un caso che in occasione dell’attentato ci sia stata la santa alleanza della maggioranza delle forze politiche, unite nel difendere la menzogna della missione di pace, ed unite nel sostenere che in Iraq bisogna rimanere. Il massimo di distinguo con la maggioranza governativa che ha voluto l’intervento è stata (vedi dichiarazione di D’Alema) la richiesta di una accelerazione del passaggio di consegne del potere a forze irakene, il che è la stessa cosa che sta dicendo in queste settimane l’amministrazione Bush! E quelli che si spingono a chiedere il ritiro delle truppe italiane dall’Iraq lo fanno non perchè denunciano il carattere imperialista dell’intervento, ma per chiedere che sia l’ONU a occuparsi dell’Iraq. Come se l’ONU fosse un organismo al disopra delle parti e non il covo dei briganti imperialisti, come diceva Lenin della precedente Società delle Nazioni, dove prevalgono sempre gli interessi delle nazioni più forti o, se queste sono divise, come è successo proprio nel caso dell’Iraq, l’ONU finisce con l’essere puramente e semplicemente ignorata.
Ma l’aspetto più repellente di questa situazione è l’uso cinico che la borghesia italiana sta facendo dei 19 morti in Iraq. Sfruttando l’emotività legata al numero di morti e alla maniera in cui sono morti, la borghesia cerca di giustificare così a posteriori il proprio intervento, per cui afferma di non volere lasciare l’Iraq perchè questo offenderebbe la memoria dei morti (meglio quindi rischiare di farne altri italiani o irakeni!). E ancora, si è orchestrata tutta una campagna mediatica per cercare di rafforzare il nazionalismo nella popolazione (l’orgoglio per i martiri, gli eroi, e così via). E questo è un obiettivo importante non solo per difendere la presenza in Iraq: in realtà la borghesia italiana sa bene che i sentimenti spontanei della popolazione sono di avversione alla guerra, ad ogni guerra. E l’attentato di Nassirya, poiché svela la situazione di guerra che c’è laggiù, rischia di rafforzare ancora di più questo sentimento, con la conseguenza che l’opposizione popolare agli interventi italiani nel mondo potrebbe crescere, il che metterebbe a rischio non solo la missione in Iraq, ma anche quella in Afghanistan e nelle decine di paesi in cui c’è una presenza militare italiana per affermare gli interessi imperialisti del capitale nazionale (2).
Ma forse c’è di peggio: i servizi segreti hanno rivelato di aver riferito la forte probabilità dell’attentato, indicando anche le modalità con cui sarebbe avvenuto (camion imbottiti di esplosivo) e il periodo probabile (la prima decade di novembre). Ciononostante nessuna ulteriore protezione era stata posta davanti alla caserma dei carabinieri a Nassirya, quando bastava porre qualche barriera al passaggio veicolare e le conseguenze dell’attentato sarebbero state molto minori. C’è quindi da chiedersi: erano così ottusi i politici e i militari italiani da credere loro stessi alla favola dell’operazione di “pace” e quindi sull’inesistenza di pericoli importanti? O chi sapeva ha lasciato che le cose avvenissero lo stesso per calcolo politico? Per quanto orribilmente cinica possa sembrare questa ipotesi noi non possiamo escluderla; già nel passato la borghesia non ha esitato a lasciare avvenire dei disastri per poter giustificare le sua azioni guerriere: gli USA lo fecero lasciando che i giapponesi bombardassero Pearl Harbur anche se lo sapevano, per poter giustificare l’entrata in guerra; gli stessi USA avevano grossi indizi sulla preparazione degli attentati dell’11 settembre 2001, ma non li hanno seguiti, e così hanno potuto lanciare la crociata della guerra al terrorismo con l’invasione dell’Afghanistan prima, e dell’Iraq dopo. Per quanto riguarda la borghesia italiana, abbiamo visto come l’attentato di Nassirya ha costituito l’occasione per giustificare la missione in Iraq e permettere anche a buona parte dell’opposizione di sostenere che in Iraq bisogna restarci.
In ogni caso quello che è certo è che in Iraq i militari italiani stanno effettuando una azione di guerra per consentire all’imperialismo italiano di essere presente in un altro dei punti chiave del pianeta, e se i 19 militari sono morti per mano di terroristi irakeni, la responsabilità principale è di quelli che li hanno mandati laggiù ben sapendo che i rischi di perdite era molto elevato (e lo è diventato sempre di più da alcuni mesi a questa parte). Quello che è certo è che i proletari italiani stanno sopportando da anni il costo economico delle avventure imperialiste della borghesia italiana nel mondo, ed oggi cominciano a pagarle anche con il sangue. E’ questa la realtà che le principali forze politiche, di destra e di sinistra, cercano di nascondere. E’ questa realtà che deve spingere i proletari italiani ad opporsi con le proprie lotte non solo agli attacchi economici, ma a tutta la dinamica di barbarie che il capitalismo in decomposizione ha messo in moto, e che rischia di portare l’umanità intera alla distruzione.
1. In realtà nell’epoca dell’imperialismo, cioè della divisione del mondo in zone di influenza, anche i casi in cui è un governo locale a chiedere aiuto, questo non viene concesso che per difendere gli interessi imperialisti del paese soccorritore, e non certo per scopi umanitari. 2. L’Italia è presente con proprie truppe in: Irak, Serbia, Bosnia, Kossovo, Macedonia, Albania, Afghanistan con più di 8500 uomini, mentre alcune altre decine sono impiegati in altri paesi (Repubblica del 13/11/03).
Quanta indignazione, martedì due dicembre, per lo sciopero degli autoferrotranvieri di Milano. Da destra a sinistra, tutti i politici li hanno condannati, giudicati degli irresponsabili; i sindacati si sono dissociati; i magistrati hanno annunciato inchieste; qualche ministro ha proposto una nuova legge antisciopero.... L’avranno proprio fatta grossa questi, viene da dirsi. Poi si leggono i giornali e si vede che semplicemente gli autoferrotranvieri di Milano hanno scioperato per l’intera giornata, cioè per tre turni, invece che per l’unico turno previsto dai sindacati. Addirittura!!
Per questo sono stati chiamati sovversivi, nemici dei lavoratori che non sono potuti andare al lavoro, minacciati di licenziamenti, di denunce, ecc. Verrebbe da pensare che sono esagerazioni, che tutti questi benpensanti si sono fatti prendere dalla rabbia. No. Questi sanno bene quello che fanno e quello che dicono. Questi sanno bene che i lavoratori che lunedì si sono scocciati del solito sciopero simbolico sindacale ed hanno voluto dare un segno visibile del loro malcontento, sono lavoratori che sono stati costretti a questo dopo sette scioperi inutili, e questo per una richiesta di aumento salariale assolutamente irrisoria, 106 euro al mese, che recupera solo in parte la perdita di potere di acquisto dovuta a una inflazione reale che è ben al di sopra di quella ufficiale (su cui ancora ipocritamente i sindacati vanno a fare i calcoli per la richiesta di aumenti salariali).
Sanno benissimo che questi lavoratori fanno turni massacranti, per uno stipendio che va dagli 850 euro al mese (!!!), per i neoassunti con contratto di formazione lavoro, ai 1300 di quelli che hanno un decennio di anzianità, in una città in cui gli affitti superano i 500 euro al mese, e il pane costa circa 3 euro al chilo. Pur sapendo tutto questo, fanno finta di essere indignati per un momento di lotta che è più che ampiamente giustificato, al punto che l’indignazione dovrebbe essere diretta verso tutti quelli che sono responsabili di questa situazione e verso quelli, sindacati in testa, che non fanno niente per risolvere i problemi che assillano questi lavoratori, come quelli di ogni altro settore. Ed in realtà l’apparente indignazione nasconde la paura che il caso degli autoferrotranvieri di Milano possa essere solo il primo esempio di qualcosa che sta maturando in seno all’insieme della classe operaia. ”.
E questa paura non è infondata, perchè il susseguirsi degli attacchi economici sta facendo crescere sempre di più il malcontento fra i lavoratori, che cominciano a sentire la necessità di fare qualcosa per reagire, qualcosa che vada al di là degli scioperi simbolici del sindacato, che passano sotto silenzio e servono solo a illudere i lavoratori di aver fatto qualcosa. Quello che è successo lunedì 1 dicembre a Milano è semplicemente che questo malcontento ha cominciato a trasformarsi in organizzazione, in riflessione sulla propria condizione e sulla maniera per reagire. Una riflessione nata spontaneamente fra i lavoratori, che ha portato i più giovani e peggio pagati a confrontarsi con i più vecchi che hanno potuto mostrare loro che anche i contratti a tempo indeterminato non consentono di arrivare a fine mese, se si ha una famiglia da portare avanti, cosa che li ha convinti a lottare uniti al di là delle consegne sindacali.
Ed è questa determinazione, questa unità che, ancora più dei danni provocati dallo sciopero, ha colpito e spaventato i vari servitori della borghesia: “Solo così, con la saldatura tra giovani e vecchi si spiega la straordinaria compattezza dello sciopero selvaggio di ieri mattina. Solo così si spiega che non una voce, non un sospetto, non una soffiata sia arrivata ai vertici dell’ATM nel giorni scorsi, quando il passaparola da un deposito all’altro tesseva le fila del colpo di mano. Perchè vecchi e giovani si trovano a condividere la vita quotidiana nel girone dantesco del traffico milanese, (...)” (Repubblica, 2/12/03) E questa solidarietà tra lavoratori che condividono le stesse condizioni di vita e di lavoro, è la stessa che lega tutti noi altri lavoratori agli autoferrotranvieri, come a tutti i lavoratori del mondo intero. Noi che viviamo quotidianamente i disagi legati alle insufficienze dei trasporti urbani (come tutti gli altri disagi economici e sociali che il capitalismo ci provoca) e che perciò sappiamo bene capire che il disagio di lunedì 1 dicembre è addirittura benvenuto se esso rappresenta l’inizio di una ripresa delle lotte operaie.
Una ripresa che comincia a intravedersi un po’ dappertutto nel mondo. Una ripresa che vede i proletari normalmente ancora inquadrati e ingannati dai sindacati, che sono gli agenti sabotatori della borghesia tra le fila dei lavoratori, il che non ci meraviglia e non ci deve spaventare. Più di un decennio di riflusso delle lotte operaie e di riflusso della coscienza della classe hanno consentito ai sindacati di recuperare quella credibilità che avevano perso nei decenni precedenti a causa del loro continuo sabotaggio delle lotte proletarie. La classe operaia ha oggi bisogno di scontrarsi di nuovo con il vero volto del sindacato per cominciare a contestarlo, per cominciare a ricercare una via autonoma per le proprie lotte. Gli autoferrotranvieri di Milano non hanno contestato apertamente il sindacato, lo hanno scavalcato scioperando al di là delle sue consegne, spinti dalla semplice coscienza che solo così potevano dare un po’ di efficacia alla loro lotta.
Ma è proprio questa la dinamica che fa avanzare la coscienza della classe: non una riflessione a tavolino su quello che bisognerebbe fare, ma le esigenze della lotta che indicano la strada da seguire. Non vogliamo entusiasmarci: il caso degli autoferrotranvieri di Milano è solo un episodio, ma un episodio che va nella giusta direzione e un episodio che probabilmente esprime una maturazione profonda che sta avvenendo nel cuore della classe. Ed è per questo che di fronte alla lotta degli autoferrotranvieri noi gridiamo alta e forte la nostra solidarietà, e il nostro disprezzo per quelli che hanno mostrato indignazione ed espresso minacce nei loro confronti.
7 dicembre 2003 Helios
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