Duecento morti e più di 1500 feriti, quattro treni distrutti, corpi umani così terribilmente straziati che possono essere riconosciuti solo con l’analisi del DNA- questo è il bilancio terribile dell’attacco terroristico del cosiddetto “Treno della morte” che violentemente ha scosso il mattino dell’11 marzo a Madrid.
Come gli attacchi alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001, questo è un atto di guerra. E ancora una volta le vittime sono essenzialmente tra la popolazione civile indifesa, specialmente lavoratori: quelli che, ogni giorno, dappertutto, affollano i treni della periferia per recarsi al lavoro; figli di lavoratori che, ogni giorno, dappertutto, prendono lo stesso treno per andare a scuola o all’università. Il semplice fatto che tu viva in un quartiere dormitorio nella periferia cittadina e ti tocca prendere i mezzi pubblici per andare al lavoro fa di te una facile vittima del terrore, e rende possibile che questo terrore arrivi a tali proporzioni enormi e macabre.
Come l’11 settembre, l’11 marzo è una data importante nella storia dei massacri terroristi. Non solo è il più grande massacro inflitto alla popolazione spagnola fin dalla guerra civile del 1936-39, è anche il più grande attacco terroristico in Europa fin dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.
La borghesia di diverse nazioni sta versando torrenti di lacrime di coccodrillo sulle vittime. Ha proclamato in Spagna tre giorni di lutto nazionale; ha inondato i media con speciali notiziari, ha dichiarato minuti di silenzio, ha indetto dimostrazioni contro il terrorismo. Da parte nostra, come dicemmo dopo l’11 settembre, neghiamo alla borghesia ipocrita e ai suoi compiacenti media ogni diritto di piangere sui lavoratori massacrati, perché “la classe dominante capitalista si è resa già responsabile di troppi massacri ed eccidi: la tremenda carneficina della Prima Guerra Mondiale, quella ancora più abominevole della Seconda, dove per la prima volta le popolazioni civili furono gli obiettivi principali. Ricordiamoci di cosa è stata capace la borghesia: i bombardamenti di Londra, di Dresda e di Amburgo, d’Hiroshima e Nagasaki, milioni di morti nei campi di concentramento nazisti e nei gulag… Ricordiamoci l’inferno dei bombardamenti sulle popolazioni civili e sull’esercito iracheno in fuga durante la Guerra del Golfo del 1991, e delle centinaia di migliaia di morti… Ricordiamoci le stragi quotidiane in Cecenia, che continuano ancora, perpetuate con la piena complicità degli Stati democratici d’Occidente… Ricordiamoci la complicità degli Stati belga, francese, e americano nella guerra civile in Algeria, i terribili pogrom in Ruanda… E ricordiamoci infine che la popolazione afgana, oggi terrorizzata dalla minaccia dei bombardamenti americani, ha sofferto venti anni di guerra interrotta.(…) Questi sono solo alcuni esempi tra tanti dello sporco lavoro del capitalismo, nel pieno di una crisi economica senza fine e nella sua irrimediabile decadenza. Un capitalismo senza via di scampo.” (a New York e in tutto il mondo, il capitalismo semina morte’, Revue Internationale 107, ottobre 2001).
E da allora la barbarie è peggiorata. Questa terribile lista si è accresciuta con la seconda guerra del Golfo, le uccisioni interminabili nel Medio Oriente, le recenti stragi ad Haiti, gli attentati terroristici a Bali, Casablanca e Mosca. E adesso dobbiamo aggiungere alla lista l’attacco alla stazione di Atocha a Madrid.
Gli attacchi dell’11 marzo non sono un attacco contro la “civiltà”, ma l’espressione della reale natura di questa “civiltà” della borghesia: un sistema di sfruttamento che trasuda da tutti i suoi pori povertà, guerre e distruzione. Un sistema che non ha altra prospettiva da offrire all’umanità che barbarie e distruzione. Il terrorismo non è un sotto prodotto del capitalismo, un figlio bastardo che questo vorrebbe ignorare, ma è un suo prodotto organico, il suo figlio legittimo, come lo è la guerra imperialista; e più il capitalismo affonda nella sua fase finale del suo declino, la fase della decomposizione, e più il terrorismo è destinato a diventare più selvaggio e irrazionale.
Una delle caratteristiche della decadenza del capitalismo è che la guerra imperialista è divenuta il modo di vita permanente del sistema con la conseguenza che “queste classi piccole borghesi hanno perso completamente la loro indipendenza e funzionano solo come una massa di manovra e di sostegno negli scontri tra le diverse fazioni delle classi dominanti, dentro e fuori le frontiere nazionali“ (“Terrore, terrorismo e violenza di classe”, nostro opuscolo, 1978). Dagli anni ’60 fino ad oggi, l’evoluzione del terrorismo conferma completamente questa caratteristica di strumento utilizzato dalle varie fazioni della borghesia nazionale o da ogni imperialismo nella loro lotta contro i rivali sul piano interno e nell’arena imperialista. Il terrorismo diviene un figlio caro al capitalismo, sapientemente nutrito con il sangue degli uni o degli altri. Terrorismo e conflitti imperialisti sono ormai sinonimi. Durante gli anni ’60 e ’70 la borghesia non esitava un solo istante ad utilizzare l’assassinio “selettivo” dei capi politici per regolare i suoi affari interni. Ricordiamo la bomba che ha buttato in aria Carrero Blanco (primo ministro sotto il regime di Franco). Questa azione -il punto più alto del terrorismo dell’ETA- è stata utilizzata dalla borghesia per accelerare il cambiamento del regime in Spagna. La borghesia non si è neanche tirata indietro nell’uso del terrorismo per destabilizzare il Medio Oriente come nel caso dell’assassinio del presidente egiziano Anwar Sadat nel 1981 o di quello israeliano Yitzhak Rabin nel 1995. Quando si tratta di difendere i suoi interessi contro fazioni nazionali rivali o dell’imperialismo concorrente la borghesia non ha scrupoli sul provocare cieche stragi tra la popolazione civile. Giusto per fare un esempio possiamo ricordare l’attentato del 12 dicembre 1969 alla Banca dell’Agricoltura a Milano. Allora la borghesia tentò immediatamente di accusare dell’attentato gli anarchici, in particolare Pietro Valpreda. E per dare credibilità a questa teoria arrivò perfino a “suicidare” un altro anarchico, Pino Pinelli, arrestato giusto prima l’attentato e morto facendo un volo dalla finestra della Questura di Milano. In realtà, anche se non c’è alcuna versione ufficiale, l’attentato fu realizzato dai fascisti legati ai servizi segreti italiani ed americani. Durante tutto questo periodo il terrorismo è stato sempre più al servizio dei conflitti imperialisti nel quadro dello scontro tra le due superpotenze.
La tendenza verso il caos generalizzato ha determinato i conflitti imperialisti dopo la fine degli anni ’80, periodo in cui il capitalismo è entrato nella sua fase di decomposizione (1). Il quadro costituito dal confronto tra i due blocchi imperialisti stabilito alla fine della Seconda Guerra Mondiale cede al regno dell’ognuno per sé (2). In questo contesto il terrorismo è divenuto un’arma delle potenze concorrenti. Da una parte, la loro macchina ufficiale di guerra ha utilizzato sempre di più metodi terroristici colpendo sempre di meno i bersagli militari e sempre di più la popolazione civile come nelle guerre del Golfo. Nello stesso tempo, la catena terribile di attacchi dei gruppi terroristici “non ufficiali” contro una popolazione indifesa inaugurata dalle bombe a Parigi nel settembre 1987 è arrivata al parossismo con i due aerei pieni di civili scagliati contro le Torri Gemelle lasciando quasi 3000 morti, ma è continuata con le bombe a Bali, Casablanca, Mosca e adesso Madrid. Sarebbe completamente illusorio pensare che questa barbarie si fermerà. Finché la classe operaia, unica forza sociale che può offrire una prospettiva alternativa alla barbarie capitalista, non metterà fine per sempre a questo inumano sistema di sfruttamento, l’umanità continuerà a vivere sotto la minaccia permanente di nuove e sempre più violente stragi, nuove e sempre più distruttive guerre.
Man mano che la decomposizione di questo sistema andrà avanti, si produrranno sempre più fazioni irrazionali e irresponsabili che nutriranno i gruppi terroristi, i signori della guerra e i mafiosi locali, che possono acquisire armi sempre più distruttive ed un numero maggiore di sostenitori che approfittano del loro crimine. Dopo la caduta delle due torri abbiamo scritto “è impossibile dire con certezza oggi se Osama Bin Laden è realmente responsabile per l’attacco alle Torri Gemelle come lo accusa lo Stato americano. Ma se la teoria Bin Laden risultasse vera questo sarebbe in realtà il caso di un piccolo signore della guerra che scappa al controllo dei suoi ex capi” (Revue Internationale 107). In effetti questa è una caratteristica cruciale della generalizzazione della barbarie: indipendentemente dal sapere quale potenza imperialista o fazione della borghesia trae profitto dalle azioni terroristiche, queste tendono sempre di più a sfuggire ai piani progettati da chi le ha concepite.
Come per l’apprendista stregone, la “creatura” tende a divenire incontrollabile. Al momento in cui scriviamo questo articolo, manchiamo di elementi concreti, e dato che non è possibile avere alcuna fiducia nei media borghesi, proponiamo di applicare il nostro quadro di analisi e la nostra esperienza storica e porre la questione così: chi trae profitto da questo crimine?
Come abbiamo visto prima, il terrorismo e i conflitti imperialisti sono oggi fratelli di sangue. L’attacco alle Torri Gemelle è stato utile all’imperialismo Usa che è stato capace di obbligare i suoi ex alleati, adesso i suoi principali rivali (come la Francia e la Germania), a dare un completo sostegno alle sue campagne militari indirizzate all’occupazione dell’Afghanistan.
Il sentimento provocato dall’11 settembre ha permesso all’amministrazione Bush di far accettare alla maggioranza della popolazione americana la seconda guerra del Golfo del 2003. Per questo è stato pienamente legittimo chiedersi se l’incredibile “mancanza di previsione” dei servizi segreti americani prima dell’11 settembre sia stata il risultato dell’intenzione di “lasciar fare” Al Qaida (3). E’ chiaro che l’11 marzo non porta profitto agli Usa, anzi. Aznar era un pieno sostenitore della politica Usa (faceva parte del “trio delle Azzorre” –Spagna, GB, Usa- i membri del consiglio di sicurezza dell’ONU che si sono incontrati per fare un appello per la seconda guerra del Golfo). Ma Zapatero, suo successore dopo la vittoria del PSOE alle elezioni del 14 marzo, che è stato aiutato molto dalla bomba di Atocha, ha già annunciato che ritirerà le truppe spagnole dall’Iraq. Questo è uno schiaffo all’amministrazione americana e decisamente una vittoria per il tandem franco-tedesco che adesso conduce l’opposizione alla diplomazia americana.
Ciò detto, questo fallimento della politica america non rappresenta in qualsiasi modo una vittoria della classe operaia come alcuni vorrebbero farci credere. Tra il 1982 e il 1996, quando era al governo, il PSOE è stato uno zelante difensore del capitalismo. Il suo ritorno non metterà fine agli attacchi della borghesia al proletariato così come il successo diplomatico di Chirac e Schroeder è un successo per altri due leali difensori del capitalismo, che non porterà assolutamente nulla alla classe lavoratrice.
Ma peggio ancora, gli avvenimenti che abbiamo appena visto hanno reso possibile ottenere per la borghesia intera una vittoria ideologica ben più grande, perché hanno rafforzato la menzogna secondo cui l’antidoto al terrorismo è la “democrazia”, che le elezioni sono un modo effettivo di mettere fine alla politica borghese antioperaia e guerrafondaia, che le manifestazioni pacifiste sono un reale ostacolo all’azione militare. Allora, i lavoratori non solo hanno sofferto un attacco fisico con tutti i morti e feriti dell’11 di marzo, ma hanno anche subito un attacco politico in grande stile. Ancora una volta, il crimine ha portato profitto alla borghesia.
Per questo di fronte alla barbarie terrorista, espressione della guerra imperialista e dello sfruttamento capitalista, c’è solo una risposta…
Con dozzine di corpi ancora non identificati, con dozzine di famiglie di immigrati (29 morti e 200 feriti sono immigrati) che non si fidano di cercare i loro parenti negli ospedali o negli obitori per paura di essere deportati, la borghesia sta creando enormi ostacoli alla classe lavoratrice che cerca di riflette sulle cause e conseguenze di questo attacco. Dai primi momenti dopo le esplosioni, anche prima dell’arrivo sulla scena dei servizi d'emergenza dello Stato, sono state le stesse vittime, i lavoratori e i loro figli che viaggiavano nei “treni della morte”, o quelli che aspettavano nella stazione o che vivevano nelle vicinanze di Santa Eugenia o El Pozo, a mettersi ad aiutare i feriti o a trovare sudari per i morti. Loro erano pienamente animati da un sentimento di solidarietà. Questo sentimento di solidarietà è stato espresso anche da quelle migliaia di persone che hanno dato il loro sangue e che si sono offerti di aiutare negli ospedali, ma anche dai pompieri, gli assistenti sociali e gli ospedalieri che hanno lavorato volontariamente e con lavoro straordinario nonostante la drammatica mancanza di risorse risultata dei tagli imposti dallo Stato alla protezione civile, alla sanità ed alla sicurezza. I rivoluzionari, ed il proletariato del mondo intero, devono proclamare chiaro e tondo la loro solidarietà con le vittime. Solamente lo sviluppo della solidarietà implicita nella lotta dei lavoratori può creare le basi per una società nella quale possono essere aboliti una volta e per sempre crimini così abominevoli. L'indignazione dei lavoratori verso questa atrocità, la sua naturale solidarietà verso le vittime, è stata manipolata dal capitale per difendere i suoi interessi. In risposta alla strage la borghesia ha chiamato i lavoratori della Spagna a dimostrare "contro il terrorismo e per la Costituzione"; ha chiamato i cittadini spagnoli a serrare i ranghi e gridare "la Spagna unita non sarà mai sconfitta”; ha fatto appello ad un voto massiccio per la domenica del 14 affinché "tali atti selvaggi non si ripetano mai più".
Le dosi di patriottismo iniettate sia dalla destra (Aznar ha dichiarato: "loro sono morti perché erano spagnoli") che dalla sinistra ("se la Spagna non avesse preso parte alla guerra nel Golfo, questi attacchi non ci sarebbero stati") puntavano solamente a convincere i lavoratori che gli interessi della nazione sono i loro interessi. Questa è una menzogna, una menzogna vergognosa e cinica! Una menzogna che punta anche a gonfiare le file del pacifismo che, come abbiamo sempre mostrato nella nostra stampa, non ha mai fermato le guerre ma serve a deragliare la lotta contro la vera causa della guerra - il capitalismo.
Il capitalismo non ha nessun futuro da offrire all’umanità eccetto la sua distruzione attraverso guerre sempre più criminali, attacchi terroristici sempre più barbari, povertà crescente e carestia. La parola d’ordine della Internazionale Comunista all'inizio del 20° secolo riassumeva perfettamente la prospettiva che si poneva alla società con l’entrata del sistema capitalista nella fase di decadenza e rimane valida ed attuale come mai: "l'epoca di guerre e rivoluzioni" la cui unica uscita non può essere che "socialismo o barbarie".
Se l’umanità vuole vivere il capitalismo deve morire, e solo una classe sociale può essere il suo affossatore: il proletariato. Se la classe operaia mondiale non riesce ad affermare la sua indipendenza di classe, se non lotta per la difesa dei suoi interessi specifici, e poi per la distruzione di questa società decadente, l’umanità sarà sommersa dalla proliferazione di conflitti tra stati borghesi e bande che non esiteranno ad usare tutti i più indicibili mezzi a loro disposizione.
CCI, 19 marzo ‘04
Note:
Vedi le “Tesi sulla decomposizione”, Rivista Internazionale n° 14
Vedi la “Risoluzione del 15° congresso della CCI sulla Situazione Internazionale”, Rivista Internazionale 113 (inglese, francese, spagnolo)
Vedi il nostro articolo ‘Pearl Harbour 1941, Torri Gemelle, il machiavellismo della borghesia’, Rivista Internazionale 108 (idem)
In questi ultimi mesi, la nostra organizzazione ha ricevuto tutta una serie di lettere di lettori che ponevano la domanda “come si fa ad aderire alla CCI?”
Questa volontà di impegno militante da parte di elementi alla ricerca
di una prospettiva di classe si è espressa in parecchi paesi, ed in
particolare in paesi molto differenti come la Francia e gli Stati
Uniti, la Gran Bretagna o il Bangladesh. A ciascuno di questi lettori,
abbiamo inviato una risposta personale proponendo loro di intavolare
una discussione con la nostra organizzazione per chiarire le nostre
concezioni. Tuttavia, nella misura in cui questa problematica riguarda
altri compagni oltre a quelli che ci hanno direttamente interrogato e
poiché la domanda d’adesione ad un’organizzazione rivoluzionaria è a
pieno titolo una questione politica, ci proponiamo in questo articolo
di dare una risposta globale a tutti quelli che si chiedono in cosa
consista la militanza all’interno di un’organizzazione rivoluzionaria
come la CCI.
In primo luogo teniamo a
salutare l'atteggiamento di questi lettori che oggi manifestano una
volontà di impegno militante. Questa dinamica molto positiva degli
elementi alla ricerca di una prospettiva e di un’attività
rivoluzionaria è l’espressione di una riflessione che si accentua in
profondità in seno alla classe operaia. Malgrado le campagne della
borghesia, malgrado i suoi attacchi contro la corrente della Sinistra
comunista, malgrado le calunnie rovesciate sull'autentica idea di
comunismo (1), questi lettori non si sono lasciati impressionare e
hanno saputo riconoscere la serietà della nostra organizzazione.
Le condizioni per diventare militante della CCI
Il processo d’integrazione di nuovi
militanti in un’organizzazione politica dipende innanzitutto dalla
natura di classe di questa organizzazione. Nei partiti borghesi (per
esempio i partiti stalinisti), basta semplicemente prendere la tessera
del partito e pagare le quote per essere membro dell’organizzazione. I
militanti di questo tipo di organizzazione non hanno per vocazione di
condurre un’attività che mira a sviluppare la coscienza della classe
operaia ma al contrario ad addormentarla ed a deviarla sul campo
borghese, particolarmente quello delle elezioni e delle grandi
manifestazioni democratiche.
Per un’organizzazione rivoluzionaria,
cioè un’organizzazione che difende realmente la prospettiva del
proletariato (la distruzione del capitalismo e l’instaurazione della
società comunista mondiale), il ruolo dei militanti è radicalmente
differente. Il loro scopo non mira a fare carriera come rappresentanti
di questa o quella frazione del capitale, o ad incollare dei manifesti
per le campagne elettorali, ma a contribuire allo sviluppo della
coscienza nella classe operaia. Come l’affermavano Marx ed Engels nel
Manifesto comunista, “i comunisti hanno sul resto del proletariato
il vantaggio di comprendere chiaramente le condizioni, la marcia ed i
risultati generali del movimento proletario”. È per ciò che i militanti di un’organizzazione rivoluzionaria devono loro stessi elevare il proprio livello di coscienza.
In questo senso, la prima condizione per
aderire alla CCI, è che i compagni che pongono la loro candidatura per
diventare militanti della nostra organizzazione manifestino la loro
comprensione ed il loro pieno accordo coi nostri principi programmatici.
Tuttavia, il loro livello di accordo e di
convinzione sulle nostre posizioni politiche non è una condizione
sufficiente per essere militante della CCI. I candidati devono
egualmente manifestare la loro volontà di difendere le posizioni
dell’organizzazione, ciascuno in funzione delle proprie capacità
personali. Non esigiamo dai nostri militanti che siano tutti dei buoni
oratori o che sappiano redigere un volantino o degli articoli per la
stampa. Ciò che importa, è che la CCI come un tutto possa assumere le
sue responsabilità e che ogni militante sia pronto a dare il meglio di
ciò che può dare per permettere all’organizzazione di assumere la
funzione per la quale la classe operaia le ha dato vita.
I militanti della CCI non sono degli
spettatori passivi, né delle pecore che belano dietro una “burocrazia
di capi”, come pretendono i nostri calunniatori. Hanno dei doveri verso
l’organizzazione che è loro compito fare vivere. Innanzitutto pagando
le loro quote (perché senza denaro, l’organizzazione non potrebbe
pagare le spese della stampa, la locazione delle sale, i viaggi, ecc.).
Hanno il dovere di partecipare alle riunioni, agli interventi, alle
diffusioni della stampa, alla vita ed ai dibattiti interni difendendo i
loro disaccordi nel rispetto delle regole di funzionamento stabilite
dai nostri statuti.
Queste esigenze non sono nuove. Già nel
1903, nel dibattito sul primo paragrafo degli Statuti del Partito
Operaio Socialdemocratico Russo (POSDR), questa questione di “chi è
membro del partito?” aveva opposto i bolscevichi ai menscevichi (2).
Per i bolscevichi, solo coloro che sono parte pregnante dell’insieme
della vita dell’organizzazione potevano essere considerati membri del
partito, mentre i menscevichi ritenevano che bastasse essere d’accordo
con le posizioni dell’organizzazione e portarle il proprio sostegno per
essere considerati militanti. La posizione dei menscevichi è stata
combattuta fermamente da Lenin nel suo libro Un passo avanti, due passi indietro
come visione puramente opportunista, contrassegnata da concezioni
piccolo-borghesi. I detrattori di Lenin lo hanno spesso accusato di
avere una posizione “autoritaria” e di fare la bella parte al “potere
di una piccola minoranza”. È vero proprio il contrario: è la visione
opportunista difesa dai menscevichi che contiene in sé un pericolo.
Difatti, militanti “di base” poco convinti e poco formati saranno più
inclini a lasciare i “leader” pensare e decidere al loro posto rispetto
a militanti che hanno acquisito una comprensione profonda delle
posizioni dell’organizzazione e che si impegnano attivamente nella
difesa di quest’ultima. È la concezione dei menscevichi che permette
meglio che una piccola minoranza possa condurre la propria politica
personale, avventuriera, alle spalle e contro l’organizzazione.
Su questa questione “chi è membro del partito?”,
la CCI si richiama alla concezione dei bolscevichi. È la ragione per
cui facciamo una distinzione molto chiara tra i militanti ed i
simpatizzanti che condividono le nostre posizioni e ci danno il loro
sostegno.
Un buon numero di compagni che
partecipano al nostro fianco agli interventi pubblici, alla diffusione
della stampa e che ci danno un sostegno finanziario non sono pronti,
nonostante tutto, ad impegnarsi pienamente in un’attività militante che
necessita molta energia e perseveranza in un lavoro regolare che si
basa sul lungo periodo. Impegnarsi nella CCI come militanti significa
essere capaci di mettere questa attività al centro della propria vita.
L’impegno in un’organizzazione rivoluzionaria non può essere
considerato come un hobby. Esige da parte di ogni militante una
tenacia, una capacità a mantenere la rotta contro venti e maree, a non
lasciarsi demoralizzare dalle incertezze della lotta di classe, e cioè
una profonda fiducia nelle potenzialità e nella prospettiva storica del
proletariato. La militanza rivoluzionaria esige anche una devozione
leale e disinteressata alla causa del proletariato, una volontà di
difendere quel bene prezioso che è l’organizzazione ogni volta che
questa sia attaccata, denigrata, calunniata dalle forze della borghesia
e dai suoi complici del campo parassitario.
Per diventare militanti della CCI occorre
inoltre integrarsi in un quadro collettivo, fare vivere la solidarietà
tra compagni bandendo l’individualismo piccolo-borghese che trova la
sua espressione particolarmente nello spirito di concorrenza, di
gelosia o di rivalità coi suoi compagni di lotta e che non sono
nient’altro che le stimmate dell’ideologia della classe borghese.
Per diventare militanti di
un’organizzazione rivoluzionaria occorre, come diceva Bordiga, avere
una forza di convinzione ed una volontà d’azione, ivi compresa nella
lotta permanente contro il peso dell’ideologia capitalista nei ranghi
dell’organizzazione.Concretamente, i compagni che vogliono aderire alla CCI devono assumersi delle responsabilità, consistenti nel:
- rendersi disponibili per affrontare
delle discussioni sulla piattaforma del CCI con le delegazioni
incaricate dall’organizzazione. Questo processo di discussione mira ad
approfondire il loro accordo con la nostra piattaforma, che non deve
essere superficiale o approssimativo, ciò che implica che i candidati
non devono esitare ad esprimere i loro disaccordi, le loro divergenze o
incomprensioni affinché queste discussioni possano portare ad un reale
chiarimento;
- cominciare a dare un sostegno materiale
regolare all’organizzazione attraverso una sottoscrizione finanziaria e
partecipando alla diffusione della stampa.
Al termine di questo processo di
discussione sulle nostre posizioni programmatiche, i compagni che
vogliono aderire alla CCI devono anche manifestare il loro accordo con
la concezione della CCI sulla questione del funzionamento
dell’organizzazione e sui suoi Statuti il cui spirito è contenuto
nell’articolo “Struttura e funzionamento dell’organizzazione dei
rivoluzionari”, pubblicato in italiano nella Rivista Internazionale
n°3, settembre 1978.
La politica della CCI verso i candidati
La CCI ha sempre accolto con entusiasmo i
nuovi elementi che vogliono integrarsi nei suoi ranghi. Per questo essa
investe molto tempo ed energia nei processi di integrazione dei
candidati per permettere a questi futuri militanti di essere armati il
meglio possibile nel loro lavoro futuro e per dare loro la possibilità
di prendere parte immediatamente all’insieme delle attività
dell’organizzazione. Tuttavia, questo entusiasmo non significa che
facciamo una politica di reclutamento per il reclutamento, come le
organizzazioni trotzkiste.
La nostra politica non è neanche quella
delle integrazioni premature su delle basi opportuniste, senza
chiarezza preliminare. Noi non siamo interessati al fatto che dei
compagni raggiungano la CCI per poi lasciarci qualche mese o qualche
anno più tardi perché si sono resi conto che l’attività militante è
troppo costrittiva, esige troppi “sacrifici” o ancora perché si sono
accorti a posteriori che non avevano realmente assimilato i principi
relativi alla organizzazione della CCI (in generale, questi compagni
hanno molte difficoltà a riconoscerle e preferiscono abbandonare la
lotta con delle recriminazioni contro la CCI che possono condurli a
giustificare la loro diserzione attraverso un’attività parassitaria).
La concezione dei bolscevichi sulle
questioni di organizzazione ha mostrato tutta la validità di questo
approccio. La CCI non è una locanda dove si entra e si esce né è
interessata ad andare a caccia di militanti.
Non siamo neanche dei mercanti di illusioni. È perciò che i nostri lettori che si pongono la domanda “come si fa ad aderire alla CCI?”
devono comprendere che l’adesione alla CCI richiede del tempo. Ogni
compagno che pone la sua candidatura deve dunque armarsi di pazienza
per impegnarsi in un processo di integrazione nella nostra
organizzazione. Questo processo è innanzitutto una maniera per il
candidato di verificare da sé la profondità della propria convinzione,
in modo che la sua decisione di diventare militante non sia presa alla
leggera o attraverso un “colpo di testa”. Ciò è anche e soprattutto la
migliore garanzia che possiamo offrirgli perché la sua volontà di
impegno militante non si concluda con un insuccesso ed una
demoralizzazione.
Perché l’attività dei rivoluzionari si
inscriva in una prospettiva storica, i militanti devono reggere sul
lungo periodo senza demoralizzarsi. È per ciò che i compagni che
vogliono aderire alla CCI devono guardarsi da ogni immediatismo, da
ogni impazienza nel loro processo di integrazione nella nostra
organizzazione. L’immediatismo è proprio la base di reclutamento dei
gruppi di estrema sinistra della borghesia, che rimproverano
continuamente alla CCI: “Che fate voi ‘praticamente’? Quali sono i risultati immediati che voi ottenete?”
Mai come ora la classe operaia ha bisogno
di nuove forze rivoluzionarie. Ma l’accrescimento numerico delle
organizzazioni della Sinistra comunista non potrà costituire un reale
rafforzamento a meno che non arrivi alla conclusione di tutto un
processo di chiarimento che miri a formare dei nuovi militanti, a dare
loro delle solide basi con cui poter assumere le loro responsabilità
all’interno dell’organizzazione.
1.
Per ricordare, possiamo citare come esempio delle campagne borghesi
contro la prospettiva rivoluzionaria quelle sul tema della “morte del
comunismo” dopo il crollo del blocco dell’Est e dei regimi stalinisti
nel 1989. Abbiamo anche messo in evidenza nella nostra stampa come le
campagne contro il "negazionismo" miravano principalmente a screditare
la Sinistra comunista.
2. Vedi l'articolo "1903-04 e la nascita del Bolscevismo" nella
Rivista Internazionale n° 116 (consultabile sul nostro sito web in
inglese, francese e spagnolo)
Come siamo arrivati a tanto?
Con il crollo dell’ex Unione Sovietica, gli USA, rimanendo l’unica superpotenza del mondo, hanno di fatto prodotto una situazione insolita e anomala. Se è vero infatti che gli USA non hanno in questo momento possibili rivali sul piano militare, è anche vero che questo ruolo di superpotenza lo devono continuamente esercitare per evitare che, in mancanza di una disciplina da blocco imperialista ormai non più esistente, ogni singolo paese possa fare di testa propria ed anche per prevenire possibili processi di aggregazioni imperialiste contro sé stessi. Tutta la politica pacifista condotta nell’ultimo periodo dalle forze di sinistra e da paesi come Francia e Germania, non è altro che una maniera per mettere in difficoltà la politica americana. Le sinistre non sono mai state pacifiste: negli Usa è il governo democratico di J. F. Kennedy che comincia e porta avanti la guerra del Vietnam. In Italia è il governo di sinistra di D’Alema che prende parte piena alla coalizione che si batte contro la Serbia di Milosevic. E che dire del pacifismo di un paese come la Francia che mentre protesta veementemente contro gli USA, facendo sventolare mega-striscioni contro la guerra dai palazzi municipali di Francia, fa i suoi sporchi giochi di guerra in Costa d’Avorio? Gli interventi sempre più puntuali e invasivi degli USA, a partire dalla prima guerra del Golfo ad oggi, esprimono perciò l’esigenza di essere sempre più presenti nelle zone strategicamente nevralgiche del mondo per difendere i propri interessi e, al tempo stesso, per sparigliare le carte degli avversari. E’ così che si spiega la febbre crescente degli USA di intervenire dappertutto nel mondo, anche a costo di farsi saltare le torri gemelle se questo può essere un alibi sufficiente per passare all’offensiva senza discussioni. E’ stato così anche per la seconda guerra contro l’Iraq per scatenare la quale è stato invocato il pericolo dell’uso di micidiali mezzi di distruzione di massa che sarebbero stati nelle mani di Saddam Hussein. Questo alibi è valso a far la guerra e ad occupare un paese senza alcun mandato, senza alcuna giustificazione, con il solo lasciapassare della tracotanza del più forte. Oggi è ormai certo che le armi di distruzione di massa non ci sono. O per lo meno non ci sono più: l’esercito iracheno le ha già utilizzate prima contro l’esercito iraniano per ordine e su forniture degli stessi americani nella guerra Iran-Iraq, poi contro le popolazioni sciite alla fine della prima guerra del golfo, dopo che gli americani avevano istigato queste ultime all’insurrezione contro Saddam per poi abbandonarle alla vendetta del capo sunnita. Oggi come ieri, le grandi potenze imperialiste si fanno la guerra per interposta persona, attribuendo la colpa sempre alla cattiveria o all’avidità di questo o quel governante e sempre nascondendo la vera causa di tutti i conflitti:
“Non occorrevano quattro mesi, alla critica marxista, per ricondurre la guerra in Corea alle sue proporzioni reali, a fissarla nella sua cornice storica. Non era un episodio contingente o locale, un caso, un deprecabile incidente: era una fra le tante, e certo tra le più virulente manifestazioni di un conflitto imperialistico che non ha paralleli né meridiani, ma si svolge sul teatro di tutto il mondo, nei limiti di tempo internazionali dell'imperialismo. I suoi protagonisti non erano né i coreani del Nord rivendicatori di un'unità nazionale spezzata, né i coreani del Sud araldi di un diritto e di una giustizia violati; ma le milizie inconsce e l'ufficialità prezzolata dei due grandi centri mondiali del capitalismo, entrambi protesi per un'ineluttabile spinta interna verso il precipizio della guerra. Non in palio erano la libertà, il socialismo, il progresso, e le mille ideologie in lettera maiuscola di cui é cosparso come di tante croci il cammino della società borghese, ma i rapporti di forza e le condizioni di sopravvivenza dei due massimi sistemi economici e politici del capitalismo, America e Russia”. Amadeo Bordiga, Corea è il mondo, Prometeo n. 1, 1950.
Parafrasando il titolo dell’articolo di Bordiga scritto oltre mezzo secolo fa, possiamo oggi dire Iraq è il mondo. In Iraq si incrociano infatti gli interessi delle principali potenze imperialiste del mondo e l’Iraq ancora mostra la reale prospettiva che si apre all’umanità se l’imbarbarimento di questa società non verrà fermato.
E dove andremo a finire?
La situazione che si vive oggi nel mondo è che, paradossalmente, quanto più gli USA cercano di intervenire per imporre il loro controllo sul mondo, tanto più questo controllo viene messo in discussione. La guerra contro Saddam e la successiva occupazione dell’Iraq, con cui sembrava che gli Usa dovessero divenire padroni della situazione, si sono trasformati in una trappola infernale. La situazione attuale è infatti del tutto incontrollabile con attentati e guerriglia dappertutto. La guerriglia non viene più neanche solo dal temibile triangolo sunnita fedele a Saddam, ma dagli stessi Sciiti delusi dalla politica americana. Peraltro la guerra combattuta dalle tribù irakene segue sempre più la tattica della guerriglia, con agguati, attentati e, più recentemente, rapimenti di militari e soprattutto di civili, allo scopo di scoraggiare quanti sono presenti sul posto anche solo per svolgere un lavoro, diciamo così, non militare. Proprio per l’aggravarsi della situazione Bush ha colto l’occasione per creare un nuovo capro espiatorio, Al Sadr, imam sciita di grande autorevolezza in questo momento che si è dichiarato per il ritiro degli americani dal suolo iracheno e contro la partecipazione ad un governo in queste condizioni. Ma per quanti sforzi facciano gli USA, l’Iraq mostra che non basta sconfiggere il nemico, e non basta neanche più occuparne il territorio, perché in un contesto internazionale in cui ognuno gioca contro tutti gli altri le armi circolano in giro come acqua che scorre e anche un paese allo sbando come l’Iraq finisce per dare dei problemi alla superpotenza americana. E questa constatazione invece di spingere a riconsiderare l’atteggiamento guerriero, come sarebbe più razionale, visto che non dà risultati, porta gli USA ad essere ancora più aggressivi, a dimostrazione che in questo mondo capitalista non c’è ormai più nulla di razionale. E’ di questi stessi giorni l’appoggio di Bush al piano di annessione di parte della striscia di Gaza da parte del governo israeliano di Sharon, piano che non solo butta all’aria tutti i piani di pace preparati finora, anche sotto la spinta degli USA, ma sancisce l’impossibilità di una pace in un Medio oriente che è da sempre uno dei maggiori focolai di tensioni guerriere.
E come si mette per l’Italia?
All’interno di questa situazione l’imperialismo italiano, con alla testa il filoamericano Berlusconi, ha inviato delle truppe in Iraq che giustamente sono state definite dalla sinistra truppe di occupazione. L’intento di Berlusconi and company era infatti di profittare della situazione per avere un minimo di presenza sul posto e se possibile trarre qualche briciola dalle commesse di guerre. A questo ruolo da piccoli sparvieri, hanno risposto le sinistre contestando la legittimità dell’intervento, ma come è noto facendone solo una questione formale perché non ufficialmente autorizzata dall’ONU. Oggi che questa presenza italiana in Iraq si fa sempre più delicata e tragica, con l’episodio di Nassirya prima e il rapimento e l’uccisione degli ostaggi poi, le forze politiche italiane stanno di nuovo dando fondo a tutta la loro fantasia propagandistica per dimostrare che sono meglio gli uni, no anzi gli altri. Tanto più che le elezioni europee si avvicinano. Ma nessuno, di fronte ai morti “italiani”, dice che sono migliaia e migliaia gli iracheni senza identità, senza storia, senza futuro, che giorno dopo giorno vengono ammazzati in una guerra assurda e crudele. Destra e sinistra piangono vittime che sono andate in Iraq al soldo degli americani, per guadagnare da 6000 a 30.000 dollari al mese, per difendere chi con la prepotenza delle armi ha imposto la propria legge su un paese inerme, addirittura si fa circolare l’ultima frase di un povero condannato a morte che dice “adesso vi faccio vedere come muore un italiano...” per trasformare una tragedia umana in una ulteriore propaganda patriottica ad uso di destra e sinistra. Ma per quanto forte possa essere la propaganda dei mass-media al soldo dei vari partiti della borghesia, c’è una dinamica tra i lavoratori che li spinge a chiedersi sempre più prepotentemente il perché delle cose. E’ proprio contro questo pericolo che la borghesia si inventa di continuo i migliori alibi per andare in guerra. Ma è al tempo stesso il dispiegarsi della verità contro le menzogne di tutti i governi e di tutti i partiti borghesi a costituire oggi un potente elemento di presa di coscienza per la classe operaia che per difendersi dagli attacchi sempre più forti e generalizzati alla sua esistenza potrà fare il legame tra la vera natura di queste guerre e la precarietà della propria esistenza e arrivare alla conclusione che effettivamente non c’è altra alternativa: o si distrugge questo sistema o si soccombe completamente alla barbarie.
Ezechiele, 16 aprile 2004
Abbiamo incontrato alcuni elementi di Pagine Marxiste ad una nostra Riunione Pubblica a Milano. La discussione che abbiamo avuto con loro ci ha bene impressionati perché abbiamo avuto la netta sensazione di discutere con elementi interessati a difendere le posizioni di classe e desiderosi di collocarsi su un autentico terreno proletario. Dopo questo incontro abbiamo riletto con maggiore attenzione il primo numero della loro rivista Pagine Marxiste n. 1, ed in particolare l’articolo Le ragioni di una rottura (perché siamo usciti da Lotta Comunista), nel quale si rivendicano come ragioni della rottura:
· alcune di ordine teorico, in particolare la negazione “di fatto (de) il processo di determinazione della struttura economico-sociale sulla sovrastruttura politica” da parte di Lotta Comunista “attuale”;
·altre di ordine strategico, ovvero l’assolutizzazione, sempre da parte del gruppo di origine, de “la tendenza alla centralizzazione politica dell’imperialismo europeo, fino a sostenere che ha già assunto il tratto caratteristico dello Stato…”;
· altre ancora di natura politica, come il mettere in “sordina le iniziative militari dell’imperialismo italiano: in Somalia, in Albania, in Serbia-Kosovo, in Afghanistan, in Irak. La mancata denuncia di queste azioni imperialistiche è oggettivamente una forma di opportunismo – poco ci interessano le motivazioni soggettive”;
· per finire con quelle di tipo organizzativo, affermando che “i rapporti regolari [all’interno di Lotta Comunista, ndr] tra il Centro e il quadro attivo sono stati interrotti dal 1988. (…) La fedeltà personale (non alla causa e neanche al partito) è stata assunta quale criterio principe nella responsabilizzazione dei quadri, in luogo dell’impegno militante e delle capacità teoriche e politiche. L’avanzare ipotesi scientifiche pur sulla base del metodo marxista è divenuto motivo di sospetto, isolamento e allontanamento. La tendenza a ripetere acriticamente è esaltata, la capacità di analizzare frustrata. Grandi capacità e disponibilità all’impegno sono state e vengono in questo modo respinte e bruciate. Il confronto politico è bandito”.
Per quanto ci riguarda, noi abbiamo già espresso un giudizio del tutto negativo su Lotta Comunista come gruppo politico in quanto la riteniamo una formazione falsamente internazionalista, di fatto controrivoluzionaria, dedita in gran parte a curare i propri interessi di burocrazia sindacale all’interno della CGIL (1). Gli elementi di critica di Pagine Marxiste non ci trovano dunque impreparati, ed in particolare comprendiamo la difficoltà a condurre qualunque discussione in quanto “il confronto politico è bandito”, nota caratteristica questa di qualunque gruppo sclerotizzato e di qualunque gruppo controrivoluzionario.
Vogliamo però mettere in guardia gli elementi di Pagine Marxiste dall’utilizzare Lotta Comunista e la sua tradizione di organizzazione come unico elemento di riferimento. E’ vero che la loro stessa partecipazione alla nostra riunione pubblica mostra una chiara volontà di apertura politica, ma questo può non bastare se si ha la pretesa di diventare i veri continuatori di Lotta Comunista e di ricercare la soluzione ai problemi politici in una rilettura dei testi classici della stessa Lotta Comunista che altri avrebbero tradito. Comprendiamo che questo può suonare strano, sbagliato e del tutto non ricevibile per chi ha speso anni e anni in un’organizzazione credendo di stare dalla parte giusta, dalla parte della classe operaia. Ma anche la militanza in Lotta Comunista, che immaginiamo per anni non essere stata messa in discussione, alla fine ha dovuto subire un taglio netto per incompatibilità. Per cui, se proprio si deve ricominciare da capo, tanto vale guardarsi intorno cercando di avere la visuale la più ampia possibile all’interno, evidentemente, di una visione marxista del mondo.
Ci sono altri due elementi che noi riteniamo critici nel processo di riflessione che gli elementi di Pagine Marxiste stanno svolgendo in questa fase, il pericolo di sottovalutare il dibattito sulla storia del movimento operaio a favore di un dibattito sull’attualità e il rifiuto dell’analisi sulla crisi economica del capitalismo.
L’importanza del dibattito sulla storia del movimento operaio
Durante la citata riunione pubblica, gli elementi di Pagine Marxiste a più riprese ci hanno invitato a sviluppare il confronto con loro sulle “strategie per andare avanti piuttosto che sui dibattiti del passato…”, affermando che “le divisioni del passato erano su posizioni dell’epoca…”, e che “oggi la migliore ricetta di qualsiasi gruppo per evitare la deriva opportunista è quella di scontrarsi e portare avanti nei dibattiti le letture marxiste di oggi”. Anche se evidentemente il confronto sui problemi del momento costituisce la migliore verifica della capacità di un’organizzazione rivoluzionaria di essere all’altezza dei suoi compiti, questa capacità non la si acquisisce dal niente ma proprio dalla riflessione e dallo studio di quella che è stata l’esperienza storica del movimento operaio, in particolare attraverso la lettura critica del contributo delle sue avanguardie. E’ per questo motivo che, ad esempio, avevamo promosso la riunione pubblica di presentazione del nostro ultimo opuscolo su “La Frazione di sinistra del PCd’Italia e l’Opposizione internazionale di sinistra, 1929-1933”, da cui avevamo colto l’occasione per trarre alcune lezioni sulla lotta all’opportunismo nel processo di costruzione del partito di classe. Capire le lezioni del passato significa evitare di ripetere gli stessi errori oggi. Questo perché il marxismo non è una bibbia che basterebbe leggere e interpretare ma è un approccio (di classe!) alla comprensione della realtà, che richiede dunque uno sforzo continuo per capire come si muove questa realtà per una corretta collocazione nei suoi confronti. Da questa difficoltà a fare i conti con il passato, dall’eredità che gli elementi di Pagine Marxiste hanno ricevuto da Lotta Comunista, derivano oggi debolezze importanti a livello di analisi della realtà. In particolare, sebbene ci siano spunti ed elementi interessanti a livello di analisi della situazione internazionale, la visione di Pagine Marxiste viene fortemente compromessa dalla incomprensione del problema della crisi economica e della fase di difficoltà storica in cui si trova il capitalismo a partire dalla prima guerra mondiale.
Il nodo della crisi economica
“Io non condivido l’opinione di una crisi del capitalismo che marcia con un’accumulazione elevata: mi pare che il capitalismo stia marciando bene a livello mondiale. Mi preoccuperei del marxismo se così non fosse perché dalle crisi dovrebbero sorgere le lotte di classe” (2) .
Questa frase, pronunciata da uno degli elementi di Pagine Marxiste presenti alla nostra riunione pubblica, mostra emblematicamente il rifiuto di riconoscere una realtà che finanche gli economisti borghesi sono costretti ad ammettere. D’altra parte l’idea che la controprova dell’assenza della crisi possa essere l’assenza della lotta di classe dimostra una visione alquanto meccanicistica che, ad ogni azione (del capitale), vuole una reazione (della classe operaia). Non abbiamo qui lo spazio per sviluppare a fondo questo argomento, ma i compagni possono fare riferimento ai nostri numerosi articoli e in particolare al nostro opuscolo sulla Decadenza del capitalismo. Quello che vogliamo fare presente qui ai compagni di Pagine Marxiste e a tutti i compagni che sono influenzati dalla posizione di un’assenza di crisi nel capitalismo in questa fase storica, è che l’attuale sistema sociale capitalista che risulta incapace:
- di favorire il decollo di nuove potenze economiche sullo scacchiere mondiale (3),
- di integrare nuova forza lavoro respingendo alle frontiere dell’unione europea decine di migliaia di immigrati provenienti da paesi ormai senza più alcuna risorsa;
- di garantire una benché minima garanzia finanche ai proletari dei paesi avanzati che viceversa si vedono confrontati ad un regime di vita sempre più incerto, di sacrifici e di insicurezza;
- di garantire un minimo di controllo sull’insieme della società che vive momenti di precarietà crescenti, dove l’incolumità personale e collettiva, il rischio di attentati e di violenze, sono all’ordine del giorno, è un sistema sociale che non ha più molto da dire all’umanità e che i tempi storici di un suo superamento sono giunti da un bel pezzo.
Ma per questo, e molte altre cose, ci auguriamo che ci sia tutto il tempo per parlare direttamente con i compagni di Pagine Marxiste nel prossimo futuro.
Ezechiele,10 aprile 2004
1. Vedi l’articolo Lotta Comunista: un puntello dei sindacati in Rivoluzione Internazionale n. 29, ottobre 1982.
2. Dall’intervento di un militante di Pagine Marxiste. Naturalmente né questa né i passaggi precedenti sono letterali, ma ci auguriamo di non aver alterato in nessun modo il senso politico di quello che i compagni volevano intendere.
3. L’effimera crescita di paesi quali i dragoni e le tigri dell’est, così come quella dei paesi sudamericani quali il Messico, si sono risolti tutti con la bancarotta dell’intera economia statale.
Links
[1] https://it.internationalism.org/en/tag/4/79/spagna
[2] https://it.internationalism.org/en/tag/3/54/terrorismo
[3] https://it.internationalism.org/en/tag/sviluppo-della-coscienza-e-dell-organizzazione-proletaria/corrente-comunista-internazionale
[4] https://it.internationalism.org/en/tag/4/85/iraq
[5] https://it.internationalism.org/en/tag/3/48/guerra
[6] https://it.internationalism.org/en/tag/6/107/iraq
[7] https://it.internationalism.org/en/tag/4/75/italia
[8] https://it.internationalism.org/en/tag/correnti-politiche-e-riferimenti/influenzati-dalla-sinistra-comunista