Anche se meno pubblicizzati, nello stesso periodo ci sono stati altri due “forum europei”: uno di deputati, l’altro per i sindacalisti europei. E come se non bastasse, gli anarchici hanno organizzato un “forum sociale libertario”nella periferia parigina, in simultanea con l’FSE e “in alternativa” a questo.
“Un altro mondo è possibile”, questo uno degli slogan del FSE. E’ indubbio che per un gran numero dei manifestanti del 15 novembre, e in particolare per i giovani che cominciano a politicizzarsi, esiste un reale e pressante bisogno di lottare contro il capitalismo e per un mondo diverso da quello in cui viviamo, con la sua miseria senza fine e le sue guerre tanto orribili quanto interminabili. Il problema è sapere non solo che “un altro mondo è possibile” – e necessario – ma anche e soprattutto di quale mondo si tratta, e di come lo si può costruire.
E’ difficile pensare come poteva essere l’FSE a dare una risposta a questa domanda. Visto il numero e la varietà delle organizzazioni partecipanti (i sindacati dei quadri e dei “giovani dirigenti”, le organizzazioni cristiane, i trotskysti di Lutte Ouvrière e del Socialist Workers Party, gli stalinisti del PCF, fino agli anarchici di Alternativa libertaria), si immagina a fatica come poteva venirne fuori una risposta coerente, o semplicemente una qualche risposta. Tutti avevano qualcosa da dire, per cui c’era una massa di volantini, dibattiti, slogan. Ma quando si guarda più da vicino le idee uscite dal FSE, si constata che queste non hanno niente di nuovo, e soprattutto esse non hanno niente di “anticapitalista”.
La forte mobilitazione intorno a questa manifestazione ha spinto la CCI a fare un intervento al FSE commisurato alle sue forze, ma determinato. Sapendo che i presunti “dibattiti” del FSE erano chiaramente preclusi in partenza (cosa che ci è stata confermata da molti partecipanti), i nostri militanti venuti da diversi paesi d’Europa hanno privilegiato la vendita della stampa (nella maggior parte delle lingue europee), la partecipazione a discussioni informali tenutesi durante il FSE, e alla manifestazione finale. L’obiettivo di questa nostra partecipazione è stato quella di mettere avanti, nelle discussioni, la prospettiva comunista contro quella dell’anarchismo.
Un mondo liberato dai traffici e dal commercio?
“Il mondo non è in vendita”, questo è uno slogan di moda, recitato in diverse versioni, quando si vuole concretizzare: “la cultura non è in vendita”, per gli artisti e i precari dello spettacolo, “la salute non è in vendita” nel caso degli infermieri e dei lavoratori della Sanità pubblica, o anche “la scuola non è in vendita”, quando si tratta degli insegnanti.
Chi non si sentirebbe coinvolto in simili parole d’ordine? Chi sarebbe disponibile a vendere la sua salute, o l’educazione dei propri figli?
Tuttavia, quando si cerca di osservare cosa si trova dietro questi slogan, si comincia a sentire puzza di bruciato. Per esempio, la proposta non è di mettere fine alla vendita del mondo, ma solamente di “limitarla”: “sottrarre i servizi sociali alla logica del mercato”, che significa? Tutti sappiamo che finchè esisterà il capitalismo, tutto deve essere pagato, anche i servizi come la sanità e la scuola. Questi aspetti della vita sociale che gli altermondialisti vorrebbero “sottrarre alla logica del mercato” sono nei fatti una parte del salario globale dei lavoratori, gestita in generale dallo Stato. Lungi dall’essere “sottratto alla logica del mercato”, il livello del salario operaio, la proporzione della produzione che viene restituita al lavoratore, è al centro stesso del problema del mercato e dello sfruttamento capitalista. Il capitale paga sempre la sua mano d’opera il meno possibile: cioè paga quello che è necessario per la riproduzione della forza lavoro e della prossima generazione di operai. Oggi, mentre il mondo affonda in una crisi sempre più profonda, ogni capitale nazionale ha bisogno di sempre meno braccia, e le braccia di cui ha bisogno deve pagarle sempre meno per non farsi eliminare dai suoi concorrenti sul mercato mondiale. In questa situazione la classe operaia mondiale non può resistere, se non con la propria lotta, alle diminuzioni di salario – compreso quello “sociale” e non certo facendo appello allo Stato capitalista chiedendogli di “sottrarre” i salari alle leggi del mercato, cosa che esso non potrebbe assolutamente fare anche se ne avesse voglia.
Nella società capitalista il proletariato può, nella migliore delle ipotesi, imporre con la forza della sua lotta una ripartizione più favorevole del prodotto sociale: ridurre il plusvalore estorto dalla classe capitalista a favore del capitale variabile - il salario. Ma fare questo nel contesto attuale esige innanzitutto un livello elevato delle lotte (come si è potuto constatare con la sconfitta delle lotte di maggio 2003 in Francia con gli attacchi che piovevano sul salario sociale) e, in secondo luogo, questi guadagni non potrebbero essere che temporanei (come si è visto dopo il movimento del 1968 in Francia).
No, questa idea che “il mondo” non sarebbe in vendita è una miserabile truffa. La caratteristica del capitale è proprio che tutto è in vendita, e questo il movimento operaio lo sa dal 1848: “(la borghesia) ha fatto della dignità personale un semplice valore di scambio; e in luogo delle numerose franchigie faticosamente acquisite e patentate, ha posto la sola libertà di commercio senza scrupoli (...) La borghesia ha spogliato della loro aureola tutte quelle attività che per l’innanzi erano considerate degne di venerazione e di rispetto. Ha trasformato il medico, il giurista, il prete, il poeta, lo scienziato in suoi operai salariati.”
E’ così che Marx ed Engels si esprimevano nel Manifesto Comunista: si vede a qual punto le loro analisi di allora restano attuali ancora oggi!
Un commercio equo?
“Commercio equo, non libero mercato!”” ecco un altro grande tema del FSE, a supporto dei piccoli contadini francesi e dei loro prodotti “biologici”. E, in effetti, chi non potrebbe essere toccato da questa speranza di vedere i contadini e i piccoli artigiani del terzo Mondo vivere decentemente del frutto del loro lavoro? Chi non vorrebbe arrestare il rullo compressore delle fattorie industrializzate che caccia i contadini dalle loro terre per intasarli a milioni nelle bidonville da Città del Messico a Calcutta?
Ma anche qui, come per la questione del mercato, i buoni sentimenti sono una cattiva guida.
Innanzitutto il movimento per un “commercio equo” non è nuovo. Le imprese delle opere cosiddette caritatevoli (come l’inglese Oxfam, ovviamente anch’essa presente al FSE) praticano il “commercio equo”dell’artigianato venduto nei loro magazzini di beneficenza da più di quaranta anni, il che non ha per niente impedito a milioni e milioni di esseri umani di sprofondare nella miseria in Africa, Asia, America Latina...
In più questa parola d’ordine sulla bocca degli altermondialisti costituisce una doppia ipocrisia. Così José Bové, presidente della Confederazione Contadina francese, ha voglia di pestare contro il business agricolo e il cattivo McDonald’s: questo non impedisce ai militanti della Confederazione Agricola di manifestare per chiedere il mantenimento delle sovvenzioni della PAC europea (1). Quest’ultima, abbassando artificialmente i prezzi dei prodotti francesi provoca proprio il mantenimento della iniquità del commercio a favore degli uni e detrimento degli altri. Analogamente, per i sindacalisti della siderurgia americana che nel 1998 manifestarono a Seattle durante il vertice dell’Organizzazione Mondiale per il Commercio (OMC) con grande clamore, il “commercio equo” significa imporre tariffe sull’’acciaio “straniero” prodotto a prezzi più bassi da operai di altri paesi. Alla fine dei conti quando si comincia a fare del commercio equo, si finisce sempre nella guerra commerciale.
Nel capitalismo la nozione di “equità” è, comunque, una bestemmia. Come diceva già Engels nel 1881 (2), in un articolo in cui criticava la nozione di “salario equo”: “l’equità dell’economia politica, del fatto che è l’economia politica che detta le leggi che reggono l’attuale società, questa equità si trova sempre dallo stesso lato: quello del capitale”.
Il colmo della soperchieria in questa storia del “commercio equo” è l’idea che la presenza dei manifestanti “altermondialisti” a Seattle o a Cancun al momento del vertice dell’OMC avrebbe dato coraggio ai negoziatori dei paesi del Terzo Mondo per farli resistere alle esigenze del “paesi ricchi”. Non possiamo dilungarci qui sul fatto che il vertice di Cancun si è concluso con un bruciante scacco per i paesi deboli, dal momento che i paesi europei non smantelleranno il loro PAC, e gli americani continueranno a sovvenzionare la loro agricoltura contro la penetrazione nei loro mercati dei prodotti meno cari dei paesi poveri. No, quello che è veramente incredibile è far credere che i dirigenti e i burocrati senza vergogna dei paesi del Terzo Mondo sarebbero presenti in questi negoziati per difendere i contadini e i poveri. Per non fare che un solo esempio, quando un Lula brasiliano denuncia le tariffe imposte dagli Stati Uniti per proteggere l’industria americana del succo d’arancia, non è ai contadini poveri che pensa, ma alle enormi piantagioni di aranci del Brasile, dove ci sono operai che soffrono esattamente come in Florida.
No al sostegno allo Stato borghese!Il filo comune che unisce tutte queste teorie è questo: contro i “neo-liberisiti” delle grandi imprese “transnazionali” (le cattive “multinazionali” che venivano denunciate negli anni ‘70), ci viene proposto di affidarsi allo Stato, meglio ancora di rafforzare lo Stato.
Se le imprese hanno “confiscato”il potere di uno Stato “democratico” al fine di imporre la loro legge di mercato al mondo intero, il fine della resistenza dei “cittadini” deve essere quello di recuperare il potere dello Stato e dei “servizi pubblici”.
Che sequenza di mistificazioni! Lo Stato non è mai stato così presente come oggi nell’economia, perfino negli USA. E’ lui che regolamenta gli scambi mondiali fissando i tassi di interesse, le barriere doganali e via di seguito. Ed è anche l’attore principale nella economia nazionale, con una spesa pubblica che oscilla tra il 30 e il 50% a seconda dei paesi, e con i suoi deficit di bilancio sempre più importanti. Ed ancora, quando gli operai si mettono in testa di difendere le loro condizioni di vita contro gli attacchi capitalisti, chi trovano in prima fila sulla loro strada, se non le forze di repressione dello Stato? Chiedere, come fanno gli altermondialisti il rafforzamento dello Stato per proteggerci dai capitalisti è veramente una mistificazione colossale: lo Stato borghese esiste per difendere la borghesia contro gli operai e non l’inverso (3).
Non è un caso che dal FSE venga questo appello allo Stato, e in particolare alle sue frazioni di sinistra, presentate come i migliori difensori della “società civile”, contro il “neoliberismo”. Come dice una espressione inglese. “he who pays the piper calls the tune” (chi paga il musicista decide la musica). In effetti è molto istruttivo andare a vedere chi ha finanziato il FSE con ben 3,7 milioni di euro:
- innanzitutto, i Consigli generali del Dipartimento de Seine-Saint Denis, della Val de Marne e dell’Essonne hanno contribuito per più di 600.000 euro, mentre il comune di Saint Denis da solo ha versato 570.000 euro (4). E’ il Partito “Comunista” Francese, questo ammasso di vecchi arnesi stalinisti, che tenta di rifarsi una verginità politica dopo essere stato complice dei peggiori crimini commessi dallo Stato stalinista in Russia, nonché il sabotatore delle lotte operaie per decenni.
- E il partito socialista francese, che si è largamente discreditato con i suoi attacchi antioperai al momento del suo ultimo passaggio al governo, avrebbe dovuto essere visto di cattivo occhio al FSE- Per niente! Il comune di Parigi, controllato dal PS, ha contribuito con 1 milione di euro alle spese del FSE!
- E il governo ? Un governo di destra, neo liberale, denunciato con abbondanza di manifesti e articoli da tutte le sinistre unite, dagli anarchici agli stalinisti, si è forse turbato nel vedere che questo Forum attirava tanta gente? Al contrario: è su ordine personale del presidente, Jaques Chirac, che il Ministero degli esteri ha sborsato 500.000 euro per finanziare il Forum.
E’ chi paga che ne trae profitto! E’ tutta la borghesia francese, di destra come di sinistra, che ha finanziato liberalmente il FSE e che ha fornito i locali. Ed è tutta la borghesia che vuole tirare vantaggi dal successo del FSE, in particolare su due piani:
- in primo luogo il FSE serve alla sinistra dell’apparato politico per rifarsi la faccia (dopo essere stata discreditata dagli anni passati al governo a portare attacchi alle condizioni di vita della classe operaia e ad assumersi la responsabilità della politica imperialista del capitalismo francese). Dal momento che i partiti politici non sono più di moda, vista la grande diffidenza che provocano, essi s truccano da “associazioni”, per darsi un’aria più “vicina” ai cittadini, più “democratica”, più “aperta”. E bisogna dire che non è solo la sinistra che ha interesse a far dimenticare i suoi misfatti di ieri, ma è tutta la borghesia che ha interesse a che il fronte sociale non sia sguarnito, a che le lotte operaie, o anche più in generale il disgusto e i dubbi ispirati dalla società capitalista, siano deviate verso le vecchie ricette riformiste, sbarrando loro il cammino verso la presa di coscienza della necessità di rovesciare l’ordine capitalista e mettere fine ai suoi disastri.
- In secondo luogo, la borghesia francese nel suo insieme ha interesse all’espandersi e al rafforzamento dell’atmosfera nettamente antiamericana del FSE. Le enormi distruzioni delle due guerre mondiali, le terribili perdite di vite umane e poi , soprattutto, la ripresa delle lotte operai alla fine del periodo di controrivoluzione dopo il 1968, hanno contribuito a discreditare il nazionalismo che la borghesia ha utilizzato per lanciare le popolazioni nelle due carneficine mondiali. Per cui, anche se non esiste un “blocco europeo” e ancor meno una “nazione europea”, a cui legare un patriottismo “europeo” guerriero, le borghesie dei differenti paesi europei e in particolare le borghesie francese e tedesca hanno tutto l’interesse a incoraggiare la crescita di un sentimento antiamericano e più vagamente “filoeuropeo”, allo scopo di presentare la difesa dei loro propri interessi imperialisti contro l’imperialismo americano come la difesa di una visione del mondo “diversa”, “altermondialista”.
Analogamente, il sostegno altermondialista al divieto di importazione degli OGM americani, presentato come misura “ecologica” e di “difesa della salute pubblica”, non è nei fatti che un episodio della guerra economica, destinata a lasciare il tempo alla ricerca francese di recuperare il ritardo rispetto agli Stati Uniti in questo campo (5).
Gli esperti del marketing moderno non cercano più di venderci direttamente i prodotti, essi utilizzano un metodo più sottile e più efficace: vendono una “visone” del mondo a cui accostano i prodotti che si presume la incarnino. Gli organizzatori del FSE procedono alla stessa maniera: ci propongono una “visione del mondo” irreale, dove il capitalismo non è più capitalista,, dove le nazioni non sono più imperialiste e dove si può fare un “altro mondo” senza fare una rivoluzione internazionale comunista. E in nome di questa ”visione” propongono di affidarci alla zuppa decotta dei partiti di sinistra, sedicenti “socialisti” e “comunisti”, mascherati per l’occasione in “associazioni di cittadini”.
Dal momento che in questa occasione è stata la borghesia francese che si è data da fare, è normale che siano i suoi partiti politici che profittino in prima istanza del FSE. Non bisogna tuttavia credere che l’operazione sia frutto della sola borghesia francese. Nei fatti questo sforzo di ricredibilizzazione della sua ala sinistra, portato avanti nei “forum sociali” mondiali ed europei, torna utile per tutta la classe borghese mondiale.
Un altro mondo libertario?In contemporanea al più ufficiale Forum Sociale Europeo si è tenuto sempre a Parigi un “Forum Sociale Libertario”, come alternativo al primo appoggiato dai grandi partiti borghesi. Ci si chiede giustamente fino a che punto l’opposizione tra i due fosse reale: almeno uno dei gruppi organizzatori del FSL ha preso parte attiva anche nel FSE, e la manifestazione organizzata dal FSL ha raggiunto, dopo un piccolo percorso “indipendente”, quella del FSE.
Non è obiettivo di questo articolo occuparsi estesamente di quello che si è detto nel FSE. Vogliamo soffermarci solo su alcuni dei suoi temi principali.
Prendiamo innanzitutto il “dibattito” sugli spazi “autogestiti” (occupanti di case, comuni, reti di scambio di servizi, caffè”alternativi”, ecc.). Se usiamo “dibattito” tra virgolette è perché gli animatori hanno fatto di tutto per limitarlo a dei resoconti descrittivi dei loro “spazi”, evitando ogni valutazione critica anche dall’interno dello stesso campo anarchico. Ci si è presto resi conto che la “autogestione” è molto relativa: un intervento, relativo ad una esperienza inglese, spiegava che essi avevano dovuto acquistare il loro spazio da autogestire per la “misera” somma di 350.000 sterline (circa 500.000 euro); un altro raccontava della creazione di uno “spazio” su internet, creato, come si sa, dal DARPA americano (6).
Ma più rivelatore ancora è il programma di azione dei diversi “spazi” descritti: farmacia gratuita ed “alternativa” (erboristeria), servizi di consulenza giuridica, caffè, scambi di servizi. In altri termini, il piccolo commercio associato ai servizi sociali lasciati andare da uno Stato che taglia le spese. Insomma il massimo della radicalità anarchica consiste nel supplire lo Stato, facendo il suo lavoro gratis.
Un altro dibattito sulla gratuità dei servizi pubblici mostra la vuotezza dell’anarchismo ufficiale. La pretesa è che i servizi pubblici possano essere una opposizione alla società mercantile in quanto rispondono gratuitamente ai bisogni della popolazione (in maniera “autogestita”, ovviamente, con tanto di comitati di consumatori, di collettività locali e di collettività di produttori). Qualcosa di estremamente simile ai comitati di quartiere creati di recente dallo Stato francese per gli abitanti della periferia parigina. In pratica si avanza l’idea che si possa introdurre una opposizione istituzionale alla società capitalista, all’interno della società capitalista stessa.
Un’altra caratteristica dell’anarchismo apparsa fortemente in tutti i dibattiti del FSL è la sua visione profondamente elitaria e educazionista. L’anarchismo non pensa affatto ad un “altro mondo” che potrebbe sorgere dal cuore stesso delle contraddizioni del mondo attuale. Il passaggio dal mondo attuale al mondo futuro e “diverso” non potrebbe farsi quindi che sulla base dell’”esempio” dato dagli spazi “autogestiti”, attraverso una azione educatrice sui misfatti del “produttivismo” moderno. Ma, come diceva già Marx un secolo e mezzo fa, se una nuova società deve apparire grazie all’educazione del popolo, chi educherà gli educatori? Perché quegli stessi che vogliono educare sono a loro volta formati dalla società in cui viviamo, e le loro idee di un “altro mondo” restano in realtà solidamente legate al mondo attuale.
In effetti i due forum “sociali” non ci hanno proposto, sotto forma di idee nuove e rivoluzionarie, niente altro che vecchie idee che hanno rivelato già da lungo tempo la loro inadeguatezza, se non la loro natura controrivoluzionaria.
Per esempio gli spazi “autogestiti” ricordano le imprese cooperative del 19° secolo, o anche le cosiddette “collettività operaie” più recenti, tipo la LIP in Francia o la Triumph in Gran Bretagna, che o sono fallite, o sono restate delle semplici imprese capitaliste, non foss’altro perchè esse dovevano produrre e vendere all’interno dell’economia mercantile capitalista. O anche tutte le imprese comunitarie degli anni ’70 (squatters, comitati di quartieri, scuole “libere”), che si sono perfettamente integrate nello Stato borghese come servizi sociali o educativi.
Tutte le idee di una trasformazione radicale introdotta attraverso una “gratuità” dei servizi pubblici ricordano il riformismo gradualista che era già una mistificazione nel movimento operaio del 1900 e che ha fatto definitivamente bancarotta al momento della carneficina del 1914 piazzandosi al fianco del proprio Stato per difendere le loro “conquiste” contro l’imperialismo “invasore”. Queste idee ricordano lo Stato “Provvidenza”, messo in piedi dalla borghesia dopo la seconda guerra mondiale al fine di razionalizzare la gestione della forza lavoro e per mistificare questa stessa forza lavoro (in particolare volendo intendere che i milioni di morti della guerra erano serviti a qualche cosa).
La nostra risposta: un mondo nuovo dalle fondamentaE’ assolutamente inevitabile che in una società divisa in classe le idee dominanti siano quelle della classe dominante. Se nonostante questo è possibile comprendere la necessità, e la possibilità materiale, di una rivoluzione comunista, è solo perché esiste nella società capitalista una classe sociale che incarna questo divenire rivoluzionario, la classe operaia. Viceversa, se noi cerchiamo semplicemente di “immaginare” quale potrebbe essere una società “migliore”, basandoci sui nostri desideri e sulla nostra immaginazione, che sono influenzati dalla società capitalista, noi non possiamo che cercare di “reinventare” il mondo capitalista attuale, cadendo o nel sogno reazionario del piccolo produttore che non vede più lontano del suo piccolo spazio “autogestito”, o nel delirio mostruoso di uno Stato mondiale e benefattore espresso da un altro guru dell’altermondialismo, George Monbiot. (7)
Per il marxismo, invece, si tratta di scoprire in seno stesso al mondo capitalista di oggi le premesse di un mondo nuovo che la rivoluzione comunista deve far sorgere, se non vogliamo che l’umanità vada alla rovina. Come Marx diceva nel Manifesto del 1848: “le idee dei comunisti non poggiano per niente su delle idee, su dei principi inventati o scoperti da questo o quel riformatore del mondo. Esse non sono altro che l’espressione generale di una lotta di classe esistente, di un movimento storico che si opera sotto i nostri occhi.” (8)
Si possono distinguere tre elementi maggiori, strettamente legati, di “questo movimento storico che si opera sotto i nostri occhi”.
Il primo è la trasformazione già operata dal capitalismo del processo produttivo di tutta la specie umana. Il più piccolo oggetto di uso quotidiano è l’opera non più di un piccolo artigiano autosufficiente, o di una piccola produzione locale, ma del lavoro comune di migliaia, se non di decine di migliaia di uomini e donne che fanno parte di una rete che ricopre l’insieme del pianeta. Liberata dagli intralci che le sono imposti dai rapporti mercantili di produzione e dall’appropriazione privata dei suoi frutti, questa distruzione di ogni particolarismo locale, regionale o nazionale sarà la base per la costituzione di una sola comunità umana su scala planetaria. Man mano che la trasformazione sociale e l’affermazione di tutti gli aspetti della vita sociale di questa comunità umana avanzeranno, scompariranno anche le distinzioni oggi sapientemente mantenute dalla borghesia come mezzo di divisione della classe operaia, come tra etnie, popoli, nazioni. Si può immaginare che le popolazioni e le lingue saranno mescolati fino a che non esisteranno più europei, africani, asiatici (e ancor meno bretoni, baschi o…padani), ma una sola specie umana la cui produzione intellettuale ed artistica si esprimerà in una sola lingua comprensibile da tutti e infinitamente più ricca, più precisa e più armoniosa di tutte le lingue nelle quali si esprime la cultura limitata e sempre più decadente di oggi (9).
Il secondo elemento fondamentale, indissociabile dal primo, è l’esistenza, all’interno stesso della società capitalista, di una classe che incarna e che esprime al suo punto più alto questa realtà del processo produttivo unificato e internazionale, il proletariato internazionale. Che l’operaio sia un siderurgico americano, un disoccupato inglese, un bancario francese, un meccanico tedesco, un programmatore indiano, o un metalmeccanico italiano, tutti questi hanno in comune il fatto di essere sfruttati sempre più duramente dalla classe capitalista mondiale, e di non potersi liberare di questo sfruttamento se non rovesciando l’ordine capitalista stesso.
Due aspetti della natura stessa della classe operaia meritano di essere sottolineati:
- innanzitutto, contrariamente ai contadini e ai piccoli artigiani, il proletariato è creato dal capitalismo che non può disfarsi di lui. Il capitalismo distrugge il contadino e l’artigiano, riducendoli a lavoratori salariati, se non a disoccupati. Ma il capitalismo non può esistere senza proletariato. Finchè esiste il capitalismo esisterà il proletariato. E finchè il proletariato esisterà porterà in sé il progetto rivoluzionario comunista del rovesciamento dell’ordine capitalista e della costruzione di un altro mondo.
- Un’altra caratteristica fondamentale della classe operaia risiede nel mescolamento e nel movimento delle popolazioni per rispondere ai bisogni della produzione capitalista. “Gli operai non hanno patria”, come diceva il Manifesto, non solo perché essi non possiedono la proprietà, ma perché essi sono sempre alla mercè del capitale e della sua necessità di mano d’opera. La classe operaia è per sua natura una classe di immigrati. Per convincersene basta guardare la popolazione di una qualunque metropoli dei paesi industrializzati, si vedranno uomini e donne provenienti dal mondo intero. Ma è così anche nei paesi sottosviluppati: in Costa d’Avorio molti operai agricoli sono del Burkina Faso; nell’Africa del Sud i minatori vengono dallo Zimbabwe o dal Botswana; nel Golfo Persico gli operai sono palestinesi,, indiani, pakistani, filippini; in Indonesia ci sono milioni di operai stranieri nelle fabbriche. Questa esistenza reale della classe operaia, che prefigura l’unificazione della popolazione planetaria che abbiamo evocato prima, mostra anche tutta la vuotezza dell’ideale caro agli anarchici e ai democratici della difesa di una “comunità” locale o regionale. Per fare un esempio: il nazionalismo scozzese può offrire una prospettive alla classe operaia di Scozia, fatta in buona parte di immigrati asiatici? E’ evidente che no. La sola comunità reale che possono sperare di trovare gli operai che sono stati o saranno strappati dalle loro radici, è quella planetaria che essi potranno costruire dopo la rivoluzione.
Il terzo elemento fondamentale che vogliamo sollevare viene da una statistica: in tutte le società di classe che hanno preceduto il capitalismo il 95% della popolazione (grosso modo) lavorava la terra, e il surplus che essa produceva serviva a far vivere il restante 5 % (signori e religiosi, ma anche artigiani, mercanti, ecc.) Oggi questa proporzione è rovesciata, e nei paesi più sviluppati è una parte sempre più piccola della popolazione che è direttamente implicata nella produzione di beni materiali. Il che vuol dire che potenzialmente, a livello della capacità fisica del processo produttivo, l’umanità è arrivata a uno stato di abbondanza quasi senza limiti.
Già nel capitalismo, le capacità produttive della specie umana hanno creato una situazione qualitativamente nuova rispetto a tutta la storia precedente: mentre prima la penuria assediava la maggior parte della popolazione, e gli stessi periodi di carestia erano il frutto dei limiti naturali della produzione (basso livello di produttività dei suoli, cattivi raccolti, e così via), sotto il capitalismo il solo ed unico motivo della penuria sono i rapporti di produzione capitalisti stessi. La crisi che butta gli operai in mezzo a una strada non ha per causa una insufficienza della produzione, ma al contrario essa è il risultato diretto del fatto che questa produzione non può essere venduta (10). E, più ancora, nei paesi cosiddetti avanzati una parte sempre più grande della attività economica non ha in senso stretto alcuna utilità al di fuori del sistema capitalista stesso: la speculazione finanziaria e borsistica, le astronomiche spese militari, gli oggetti di moda, i prodotti ad “obsolescenza incorporata” al semplice scopo di obbligare il loro riacquisto, la pubblicità, ecc. Se si guarda ancora più lontano è evidente che l’utilizzazione delle risorse della terra è sempre più dominato da un funzionamento irrazionale – salvo che per la redditività capitalista - dell’economia: viaggi di ore per milioni di esseri umani per andare al lavoro, trasporti privilegiati per terra invece che per strade ferrate, collettivi e più veloci. Insomma si ha un rovesciamento totale del rapporto tra la quantità di tempo occorrente a produrre lo stretto necessario (per mangiare, per vestirsi, per alloggiare) e il tempo passato al “di là del necessario”, per così dire (11).
Nascita di una comunità planetariaNel nostro intervento, alle manifestazioni, sui luoghi di lavoro, siamo spesso confrontati alla questione “allora, voi dite che il comunismo non è ancora esistito?” Al che, per cercare di dare una definizione al tempo stesso complessiva e rapida, noi rispondiamo “il comunismo è un mondo senza classi, senza nazione e senza denaro”. Anche se molto sommaria (non foss’altro che per l’uso del negativo, “senza”), questa definizione ingloba le caratteristiche fondamentali della società comunista:
- essa sarà senza classi, perché il proletariato non potrà liberarsi diventando a sua volta una classe sfruttatrice; la riapparizione di una classe sfruttatrice dopo la rivoluzione significherebbe in realtà la sconfitta della rivoluzione e il mantenimento dello sfruttamento (12). La sparizione delle classi deriva naturalmente dall’interesse della classe operaia vittoriosa ad emancipare se stessa. Uno dei suoi primi obiettivi sarà quello di ridurre il tempo di lavoro, integrando nel processo produttivo i disoccupati, le masse senza lavoro del Terzo Mondo, ma anche la piccola borghesia e i contadini, oltre che i membri della borghesia sconfitta.
- Essa sarà senza nazioni, perché il processo produttivo ha già largamente superato il quadro nazionale, e dunque ha reso obsoleta la nazione come quadro organizzativo della società umana. Il capitalismo, creando la prima società umana su scala planetaria, ha già superato il quadro nazionale in cui esso stesso è nato. Come la rivoluzione borghese ha distrutto tutti i particolarismi e frontiere feudali, così la rivoluzione proletaria metterà fine all’ultima divisione della società umana in nazioni
- Essa sarà senza denaro, perché il concetto di scambio (e quindi di un equivalente universale per facilitare questo scambio) non ha più senso nel comunismo in quanto l’abbondanza permette che i bisogni di tutti i membri della società siano soddisfatti. Se il capitalismo ha creato la prima società umana in cui lo scambio di merci è diventato del tutto generalizzato ad ogni produzione (contrariamente alle società precedenti, in cui lo scambio era limitato ad alcuni prodotti di lusso, o a quegli articoli che non potevano essere prodotti sul posto, come il sale, per esempio), esso è oggi strangolato dal fatto che è impossibile vendere sul mercato tutto quello che esso è capace di produrre. Il fatto stesso di dover acquistare e vendere è diventato un ostacolo alla produzione. Lo scambio dunque sparirà, e con lui scomparirà il concetto stesso di merce, ivi compresa la prima merce fra tutte: la forza lavoro salariata.
Questi tre principi si scontrano direttamente con tutti i luoghi comuni sparsi dall’ideologia borghese, secondo cui ci sarebbe una “natura umana” avida e violenta che determinerebbe per sempre la divisione tra sfruttatori e sfruttati, o tra nazioni. Una tale idea di “natura umana” conviene alla perfezione alla classe dominante, perché essa dà una giustificazione al suo dominio di classe ed impedisce alla classe operaia di identificare con chiarezza il vero responsabile della miseria e dei massacri che affliggono oggi l’umanità. Essa non ha però niente a che vedere con la realtà: contrariamente alle altre specie animali, la cui “natura” (cioè il comportamento) è determinato dal loro ambiente naturale (e quindi dai suoi limiti), la “natura umana” è sempre più determinata, man mano che avanza il suo dominio sulla natura, non dal suo ambiente naturale ma dal sua ambiente sociale.
I rapporti trasformati tra l’uomo e la naturaI tre punti menzionati prima, non costituiscono che uno schizzo sommario. Ciononostante essi hanno profonde implicazioni riguardo ciò che sarà la società comunista del futuro.
I marxisti hanno sempre resistito alla tentazione di elaborare delle “ricette per il futuro”, in primo luogo perché sarà l’azione delle grandi masse che determinerà il futuro, in secondo luogo perché noi non possiamo immaginare quello che sarà una società comunista, esattamente come un contadino dell’11° secolo non avrebbe potuto immaginare il mondo capitalista. Ciò non ci impedisce tuttavia di tracciare qualche linea di quanto deriva da quello che abbiamo appena detto.
Il cambiamento più radicale verrà probabilmente dalla scomparsa della contraddizione tra l’essere umano e il lavoro. La società capitalista ha elevato al più alto grado la contraddizione – sempre esistita nelle società divise in classi – tra il lavoro, cioè l’attività che si intraprende solo se si è costretti e forzati, e il tempo libero, cioè quello in cui si è liberi di scegliere il tipo di attività da svolgere. La costrizione viene da una parte dalla penuria imposta dai limiti della produttività del lavoro e, d’altra parte, dal fatto che una parte del frutto del proprio lavoro è arraffata dalla classe sfruttatrice. Nel comunismo, queste costrizioni non esisteranno più: per la prima volta nella storia l’essere umano potrà produrre in tutta libertà, e la produzione sarà tutta finalizzata al soddisfacimento dei bisogni umani. Si può anche immaginare che i termini “lavoro” e “tempo libero” spariranno del tutto dal linguaggio, perché nessuna attività sarà svolta per costrizione. La decisione di produrre o di non produrre dipenderà non solamente dall’utilità della cosa in se stessa, ma anche dal grado di piacere o di interesse che la sua produzione porta in sé.
L’idea stessa di “soddisfazione dei bisogni” cambierà di natura. I bisogni di base (nutrirsi, vestirsi, avere un tetto) occuperanno una parte progressivamente meno importante, mentre si affermeranno sempre più i bisogni determinati dall’evoluzione sociale della specie. Così si metterà fine alla distinzione tra lavoro artistico e quello che non lo è, che il capitalismo ha esacerbato al massimo. L’immensa maggioranza degli artisti della storia è rimasta anonima, e non è che con l’avvento del capitalismo che l’artista comincia a firmare il suo lavoro, che l’arte comincia ad essere una attività specifica separata dalla produzione quotidiana. Oggi questa tendenza è al parossismo, con una separazione quasi totale tra le “belle arti” da un lato (incomprensibile per la grande maggioranza della popolazione e riservata a una piccola minoranza di intellettuali) e la produzione artistica industrializzata nella pubblicità e nella “cultura pop”. Tutto ciò non è che il risultato della contraddizione nel capitalismo tra l’essere umano e il suo lavoro. Con la sparizione di questa contraddizione sparirà anche la contrapposizione tra produzione “utile” e produzione “artistica”. La bellezza, la soddisfazione dei sensi e dello spirito, saranno dei bisogni altrettanto fondamentali per l’essere umano che il processo produttivo dovrà soddisfare (13).
Anche l’educazione cambierà completamente la sua natura. In ogni società il fine dell’educazione dei giovani è quello di permettere loro di prendere il loro posto nella società adulta. Nel capitalismo “prendere il proprio posto nella società adulta” vuol dire prendere posto in un sistema di sfruttamento brutale, dove quello che non rende non ha, giustamente, alcun posto. Il fine dell’educazione è dunque soprattutto quello di fornire alle nuove generazioni delle capacità che possono essere vendute sul mercato, e più in generale, in questa epoca di capitalismo di Stato, di fare in modo che la nuova generazione sia capace di rafforzare il capitale nazionale di fronte ai suoi concorrenti sul mercato mondiale. E’ quindi evidente che il capitale non ha alcun interesse a promuovere uno spirito critico verso la sua organizzazione sociale. L’educazione insomma, non ha altro fine che di uccidere i giovani spiriti e di buttarli nel brodo della società capitalista e dei suoi bisogni produttivi; nessuna meraviglia dunque se le scuole somigliano sempre più a delle fabbriche e i professori a degli operai alla catena di montaggio.
Nel comunismo, al contrario, integrare un giovane nel mondo adulto non potrà farsi senza un risveglio ampio di tutti i sensi, fisici e intellettuali. In un sistema sociale completamente liberato dalle esigenze della redditività il mondo adulto si aprirà al fanciullo man mano che egli svilupperà le sue capacità, e il giovane adulto non sarà più esposto all’angoscia dell’abbando-no della scuola e l’immersione nella concorrenza sfrenata del mercato del lavoro. Come non ci sarà più contraddizione tra “lavoro” e “tempo libero”, tra “produzione” ed “arte”, così non ci sarà più contrapposizione tra scuola e “mondo del lavoro”. Le parole scuola, fabbrica, ufficio, galleria d’arte, museo (14), spariranno o cambieranno completamente di senso, perché tutta l’attività umana si fonderà in uno sforzo armonioso di soddisfazione e di sviluppo dei bisogni e delle capacità fisiche, intellettuali e sensoriali della specie.
La responsabilità del proletariatoI comunisti non sono degli utopisti. Noi abbiamo cercato di fare uno schizzo molto breve e necessariamente limitato di quello che dovrà essere la nuova società umana che nascerà dalla società capitalista attuale; in questo senso lo slogan dei no-global “un altro mondo è possibile” (ovvero “altri mondi sono possibili”) non è che un mistificazione.. Non c’è che un solo altro mondo possibile: il comunismo.
Ma la nascita di un nuovo mondo non ha niente di inevitabile, In questo il capitalismo non è diverso dalle società che lo hanno preceduto, in cui “uomo libero e schiavo, patrizio e plebeo, barone e servo, in una parola, oppressori ed oppressi, in opposizione costante, hanno condotto una guerra ininterrotta, a volte aperta, altre nascosta, una guerra che finiva sempre o con una trasformazione rivoluzionaria dell’intera società, o con la distruzione delle due classi in lotta” (Manifesto)
Questo vuol dire che la rivoluzione comunista, per quanto sia necessaria, non ha niente di inevitabile. Il passaggio dal capitalismo al mondo nuovo non potrà risparmiarsi la violenza della rivoluzione proletaria per potersi realizzare (15). Ma l’alternativa, nella situazione attuale di decomposizione del capitalismo in cui viviamo non è più distruzione delle due classi in lotta, ma dell’intera umanità. Da qui deriva l’immensa responsabilità che pesa sulle spalle della classe rivoluzionaria mondiale.
Vista oggi, la capacità rivoluzionaria del proletariato può sembrare un sogno talmente lontano che grande è la tentazione di fare qualcosa ora, anche a costo di trovarsi a fianco dei vecchi politicanti socialisti e stalinisti, cioè dell’ala sinistra dell’apparato statale della borghesia. Ma per le minoranze rivoluzionarie il riformismo non è il male minore, è il compromesso mortale con il nemico di classe. Il cammino verso la rivoluzione che potrà creare un “altro mondo” sarà lungo e difficile, ma è il solo cammino che esiste.
Jens
1. Politica Agricola Comune (PAC) un enorme e costoso sistema per il mantenimento dei prezzi pagati ai produttori agricoli europei, a danno dei loro concorrenti negli altri paesi esportatori.
2. Vedere il sito:
https://www.marxists.org/archive/marx/works/1881/05/07.htm [1], articolo scritto nel Labour Standard
3. E’ particolarmente interessante leggere nelle pagine di Alternative Libertaire, un gruppo anarchico francese, “che noi vogliamo la manifestazione più importante possibile per far capire loro ancora una volta che noi non vogliamo una Europa capitalista e poliziesca” (Alternative Libertaire n. 123, novembre 2003), mentre tutto il FSE è finanziato dallo Stato e gira intorno alla mistificazione del rafforzamento degli Stati europei per la presunta difesa dei “cittadini” contro la grande industria. Insomma, non c’è nessuna incompatibilità nei fatti tra l’anarchismo e la difesa dello Stato!
4. Molte tra le città coinvolte sono governate dal Partito Comunista Francese.
5. Come diceva Bismark : “Io ho sempre incontrato la parola Europa nella bocca di quei politici che esigevano qualcosa dalle altre potenze senza osare chiederle apertamente”
6. Defence Advanced Research Projects Agency
7. Grande esponente del movimento altermondialista, autore di un Manifeste for a new world.
8. Non si riuscirà mai a sottolineare abbastanza la straordinaria forza e capacità di previsione del Manifesto Comunista che ha gettato le fondamenta per la comprensione scientifica del movimento verso il comunismo. Il Manifesto stesso fa parte dello sforzo del movimento operaio fin dai suoi inizi, continuato dopo il Manifesto, per percepire in maniera più profonda la natura della rivoluzione verso cui esso tendeva con tutte le sue forze. La cronaca di questo sforzo è stata fatta da noi nella serie di articoli “Il comunismo non è un bel ideale, ma una necessità materiale”, pubblicata nella Révue Internationale.
9. “In luogo dell’antico isolamento locale e nazionale, per cui ogni paese bastava a se stesso, subentra un traffico universale, una universale dipendenza delle nazioni l’una dall’altra. E come nella produzione materiale, così in quella spirituale. I prodotti spirituali delle singole nazioni diventano patrimonio comune. L’unilateralità e la ristrettezza nazionale diventano sempre più impossibili, e dalle molte letterature nazionali e locali esce una letteratura mondiale.” (Manifesto)
10. Nella crisi scoppia una epidemia sociale che in ogni altra epoca sarebbe apparsa un controsenso: l’epidemia della sovrappodruzione. La società si trova improvvisamente ricacciata in uno stato di momentanea barbarie; una carestia, una guerra generale di sterminio sembrano averle tolto tutti i mezzi di sussistenza; l’industria, il commercio sembrano annientati, e perché? Perché la società possiede troppa civiltà, troppi mezzi di sussistenza, troppa industria, troppo commercio. Le forze produttive di cui essa dispone non giovano più a favorire lo sviluppo della civiltà borghese e dei rapporti della proprietà borghese, al contrario, esse sono diventate troppo potenti per tali rapporti, sicchè ne vengono inceppate.” (idem)
11. Non possiamo entrare nei dettagli qui, ma segnaliamo solo che questa è una nozione da utilizzare con precauzione, perché anche i bisogni di base sono determinati “socialmente”: i bisogni di alloggiamento o di nutrimento non sono gli stessi per l’uomo del Cro Magnon e l’uomo moderno, per esempio, e nemmeno vengono soddisfatti alla stessa maniera o con gli stessi strumenti.
12. E’ quello che è successo con la sconfitta della rivoluzione russa dell’Ottobre 1917: il fatto che molti dirigenti dell’URSS (Breznev, per esempio) fossero stato operai o figli di operai ha potuto accreditare l’idea che una rivoluzione comunista che portasse la classe operaia al potere non farebbe che creare una nuova classe dirigente, “proletaria”. Questa è una idea trattenuta ad arte da tutte le frazioni della borghesia, di destra come di sinistra, far credere che l’URSS fosse comunista e che i suoi capi non fossero altro che l’espressione di questa nuova classe dirigente. Ma la realtà è che la controrivoluzione staliniana ha messo di nuovo al potere una classe borghese; il fatto che una buona parte dei membri di questa classe provenisse dal proletariato o dal contadiname, non cambia assolutamente la loro natura, esattamente come accade quando un figlio di operaio diventa proprietario di una fabbrica.
13. Al FSL un anarchico ha voluto, in maniera dotta, farci una lezione sulla differenza tra i marxisti che privilegerebbero l’ homo “faber” (l’uomo che fabbrica) e gli anarchici che privilegerebbero l’homo “ludens” (l’uomo che gioca). Ma non è perché viene espressa in latino che una asineria si trasforma in qualcosa di meno.
14. E, necessariamente, “prigione”, “galera”, “bagno penale” o “campo di concentramento”
15. Per una visione molto più sviluppata, vedi la nostra serie sul comunismo citata prima, e in particolare la parte pubblicata sulla Révue Internazionale n. 70
Pubblichiamo una lettera ricevuta dal gruppo russo UCI (Unione Comunista Internazionalista) (1). Questa lettera è essa stessa una risposta ad una lettera che avevamo mandato precedentemente a questo gruppo; essa contiene infatti numerose citazioni della nostra lettera che appaiono in corsivo.
Cari compagni,
ci scusiamo di non avere potuto rispondere prima. Siamo un piccolo gruppo ed abbiamo moltissimo lavoro, in particolare molta corrispondenza, ed inoltre gli stranieri non ci scrivono in russo.
“Riguardo alla piattaforma, sembra che vi siano molti punti di accordo su delle posizioni chiavi: la prospettiva socialismo o barbarie, la natura capitalista dei regimi stalinisti, il riconoscimento del carattere proletario della Rivoluzione russa del 1917”.
Non è tutto così semplice. In Russia, nel 1917, erano in atto due crisi intrecciate tra di loro: una crisi interna, che poteva condurre ad una rivoluzione democratico-borghese, ed una crisi a livello internazionale che aveva messo all’ordine del giorno un tentativo di rivoluzione socialista mondiale. Secondo Lenin, il compito del proletariato russo era di prendere l’iniziativa in queste due rivoluzioni: prendere la testa della rivoluzione borghese in Russia e, simultaneamente, appoggiandosi su questa rivoluzione, estendere la rivoluzione socialista all’Europa e agli altri paesi. E’ per tale motivo che consideriamo non corretto porre la questione della natura della rivoluzione russa senza specificare di quale delle due si parla: se di quella interna o di quella internazionale. Ma è certo che in Russia, il proletariato era alla testa di entrambe.
“Ciò di cui siamo meno sicuri è se siete d’accordo con la CCI sul quadro storico che dà sostanza e coerenza a molte di queste posizioni: il concetto di decadenza e di declino del capitalismo come sistema sociale dal 1914”.
E’ certo che su questo punto non siamo d’accordo. La transizione di un sistema economico verso un altro di più alto livello è il risultato di uno sviluppo del primo e non della sua distruzione. Se il vecchio sistema ha esaurito le sue risorse, si trascina in una crisi costante dovuta alle forze sociali che aspirano ad un nuovo sistema. E non è stato così. Inoltre, da decenni, il capitalismo è in una situazione relativamente stabile, di sviluppo, cosa che non ha determinato lo sviluppo di forze rivoluzionarie, ma al contrario il loro collasso. Il capitalismo si sviluppa ad un punto tale che non si contenta più di creare qualitativamente nuove forze produttive, ma anche nuove forme di capitalismo. Lo studio di questo sviluppo e di queste nuove forme permette di determinare quando sopraggiungerà una nuova crisi, come quella del 1914-1945, e sotto quale forma si effettuerà la transizione verso il socialismo. La teoria della decadenza nega lo sviluppo del capitalismo e rende dunque impossibile il suo studio, lasciandoci come dei sognatori obnubilati dall’avvenire radioso dell’umanità.
Quanto alle distruzioni, alla guerra e alla violenza, queste non sono solo parti integranti del capitalismo, ma una necessità della sua esistenza, sia all’epoca di Marx che nel ventesimo secolo.
“Per dare un’illustrazione precisa del problema che vogliamo porre: nella vostra dichiarazione, prendete posizione contro i “fronti comuni” con la borghesia, sulla base del fatto che tutte le frazioni della borghesia sono reazionarie. Cosa su cui siamo d'accordo. Ma questa posizione non è stata sempre valida per i marxisti. Se oggi il capitalismo è un sistema decadente, vale a dire che i rapporti sociali sono diventati un ostacolo allo sviluppo delle forze produttive e dunque al progresso dell’umanità, esso ha conosciuto, come gli altri sistemi di sfruttamento di classi, una fase ascendente, in cui rappresentava un progresso rispetto al modo di produzione precedente. E’ per questo che Marx sosteneva certe frazioni della borghesia, come i capitalisti del Nord contro gli schiavisti del Sud durante la Guerra di Secessione o il movimento del Risorgimento in Italia, per l’unità nazionale contro le vecchie classi feudali, ecc. Questo sostegno era basato sulla comprensione che il capitalismo non aveva compiuto ancora la sua missione storica e che le condizioni per la rivoluzione comunista mondiale non erano ancora sufficientemente mature”.
Storicamente parlando, rispetto alla lotta tra proletariato e borghesia, il partito proletario ha considerato tutte le frazioni della borghesia come reazionarie. Ma non è solo quando il capitalismo aveva ancora possibilità di sviluppo che era possibile parlare del carattere progressivo di questa o quella frazione della borghesia. Occorreva ancora che essa fosse capace di compiere il suo compito storico. E’ per tale motivo, per esempio, che la borghesia russa, incapace di condurre la rivoluzione borghese, può essere considerata come reazionaria nel 1917, sebbene le trasformazioni democratico-borghesi della rivoluzione russa fossero senz’altro progressiste. Oggi confermiamo che nessuna frazione della borghesia è capace di effettuare la necessaria modernizzazione borghese senza una guerra mondiale che coinvolgerebbe l’umanità intera. Per questa ragione, sostenere una tale frazione non ha nessuno senso. Ma ciò non significa che la borghesia non ha più nessun compito da compiere. La soppressione delle frontiere e la creazione di un mercato mondiale sono dei compiti borghesi, ma non possiamo fare affidamento sulla borghesia perché li realizzi. Toccherà al proletariato realizzarli, utilizzando la crisi futura e servendosene per costruire il socialismo. Per essere chiari, una questione è sapere se il capitalismo può ancora compiere dei compiti storici e un’altra è capire se le frazioni della borghesia sono reazionarie. E’ per questo che il proletariato dovrebbe sempre prendere l’iniziativa rivoluzionaria. E se si tratta di compiti borghesi, esso può, attraverso un’estensione del movimento (rivoluzionario), trasformarli in compiti socialisti. Noi consideriamo questo un approccio marxista.
“Secondo voi, le lotte nazionali sono state una fonte considerevole di progresso, e la richiesta di autodeterminazione è sempre valida, almeno per gli operai dei paesi capitalisti più potenti, rispetto ai paesi oppressi dal proprio imperialismo. Sembra allora che per voi le lotte nazionali abbiano perduto il loro carattere progressista dall’avvenuta “globalizzazione”. Queste affermazioni richiedono un certo numero di commenti da parte nostra.
La nozione di decadenza, che è la nostra posizione, non è stata inventata da noi. Basata sui fondamenti del metodo materialista storico (in particolare quando Marx parla “delle epoche di rivoluzione sociale” nella sua “Prefazione alla Critica dell’economia politica”), essa si è concretizzata, per la maggioranza dei rivoluzionari marxisti, attraverso lo scoppio della I guerra mondiale che ha mostrato che il capitalismo era già “globalizzato”, al punto che non poteva più superare le sue contraddizioni interne se non con la guerra imperialista e l’auto-cannibalismo. Questa fu la posizione dell'Internazionale Comunista al suo congresso di fondazione, sebbene questa non sia stata capace di trarne tutte le conseguenze, per ciò che riguardava la questione nazionale: le tesi del secondo congresso conferivano sempre un ruolo rivoluzionario a certe borghesie di paesi sottomessi ad un regime coloniale. Ma le frazioni di sinistra dell’IC, più tardi, sono state capaci di trarre le conclusioni da questa analisi, in particolare dopo i risultati disastrosi della politica dell’IC durante l’ondata rivoluzionaria 1917-1927. Per la Sinistra Italiana negli anni ‘30, per esempio, l’esperienza della Cina del 1927 è stata decisiva. Essa ha mostrato che tutte le frazioni della borghesia, anche quando si proclamavano antimperialiste, sono state condotte a massacrare il proletariato quando questo combatteva per i suoi interessi, come all’epoca del sollevamento di Shanghai nel 1927. Per la Sinistra Italiana, questa esperienza ha provato che le tesi del secondo congresso dovevano essere rigettate. Di più, questa fu una conferma del giusto punto di vista di Rosa Luxemburg sulla questione nazionale rispetto a quello di Lenin: per la Luxemburg era diventato chiaro, durante la I guerra mondiale, che tutti gli Stati facessero ormai inevitabilmente parte del sistema imperialista mondiale”.
È tutto un insieme di questioni differenti che qui sono mescolate. Innanzitutto, la politica del Komintern di Stalin e di Bukharin durante la rivoluzione cinese del 1925-27 è completamente differente da quella di Lenin e dei Bolscevichi, che è stata determinante durante i primi anni del Kominterm. Per voi, se ci sono compiti borghesi da compiere, si è portati a sostenere questa o quella frazione. E’ così che parlavano Stalin ed i Menscevichi. Il metodo di Marx e di Lenin non consiste nel rifiutare questi compiti del momento, quando tutte le frazioni della borghesia sono reazionarie, ma di compierli per mezzo della rivoluzione proletaria, cercando di realizzare al massimo questi compiti borghesi e di continuare con i compiti socialisti.
La rivoluzione cinese ha provato che questo era l’approccio corretto, e non quello della Sinistra comunista.
La rivoluzione borghese ha trionfato in Cina, facendo innumerevoli vittime. Questa rivoluzione ha permesso di creare il proletariato più numeroso al mondo e di sviluppare velocemente delle potenti forze produttive. Questo stesso risultato è stato raggiunto dalle decine di altre rivoluzioni nei paesi d’Oriente. Non ha alcun senso negare il loro ruolo storicamente progressivo: in questo modo la nostra rivoluzione ha potuto disporre di basi solide in numerosi paesi del mondo che, nel 1914, erano ancora essenzialmente agricoli.
Che cosa é cambiato dall’epoca di questo inizio di “globalizzazione”? Le rivoluzioni nazionali non sono più all’ordine del giorno. Secondo voi, è da molto tempo che il capitalismo ha un carattere globale. Sì, possiamo dire che ha un tale carattere dalle sue origini, dall’epoca delle grandi scoperte. Ma il livello di questa “globalizzazione” era qualitativamente differente. Fino all’incirca gli anni ‘80, le rivoluzioni nazionali potevano assicurare una crescita delle forze produttive, ed è per questo che bisognava sostenerle e provare, per quanto possibile, di trasferire la loro direzione nelle mani del proletariato rivoluzionario. Ciò perché esisteva una possibilità obiettiva di sviluppo sotto l’impulso dello Stato nazionale. Adesso, questo stadio di sviluppo nazionale è superato... E questo è valido per tutti gli Stati, anche per i più avanzati. E’ per tale motivo che le riforme intraprese da Reagan o la Thatcher, che negli anni ‘50-60 avrebbero potuto condurre a terribili crisi, hanno dato, relativamente e temporaneamente, dei risultati positivi. Perché queste riforme hanno condotto l’economia del loro paese verso più di “globalizzazione” (nel senso moderno del termine).
Adesso, la lotta nazionale ha perso il suo carattere progressivo perché ha esaurito il suo compito storico: lo Stato nazionale, anche se la rivoluzione trionfa sotto la direzione del proletariato, non offre più un quadro ad uno sviluppo futuro. Ciò non significa tuttavia che sono spariti i compiti borghesi dappertutto. Vi sono ancora dei paesi con regimi feudali, vi sono ancora nazioni oppresse. Ma non è una rivoluzione nazionale che può mettervi fine. Per il proletariato dei paesi arretrati, il capitolo delle rivoluzioni nazionali è chiuso, esse non possono dare risultati se non conducono, direttamente o indirettamente, alla rivoluzione internazionale proletaria. È per questa ragione che diciamo che con l’inizio della globalizzazione, le rivoluzioni nazionali hanno perduto ogni significato progressivo.
Allo stesso modo, il sostegno ad un movimento di liberazione nazionale non ha senso, sia ieri che oggi, se non si strappa la lotta contro l’oppressione nazionale dalle mani della borghesia e trasferendola al proletariato. Vale a dire trasformando un movimento di indipendenza nazionale in un momento della rivoluzione socialista mondiale. Questo non può farsi se non si riconosce il diritto delle nazioni all’autodeterminazione, non riconoscendo dunque la necessità di condurre al loro termine i compiti storici dalla borghesia. Se no, noi lasceremo il proletariato sotto il dominio della sua borghesia nazionale.
L’approccio leninista di questo problema ha determinato un vasto interesse per il marxismo tra un gran numero di abitanti dei paesi arretrati, per il modo corretto con cui la questione nazionale è stata posta. E non è per errore dei Bolscevichi se la burocrazia stalinista si è impossessata della direzione del Komintern. Solo la rivoluzione nei paesi occidentali avrebbe potuto impedire ciò, ma essa non ha avuto luogo perché il capitalismo non aveva esaurito le sue possibilità storiche. Le due guerre mondiali gli hanno permesso di soffocare le sue contraddizioni.
Adesso che le sue contraddizioni sono cresciute, per comprendere bene come esse conducano a nuove crisi, è necessario studiare lo sviluppo del capitalismo piuttosto che contentarsi di ripetere che esso è in declino ed in decomposizione. In Russia, questa tesi scatena brutti sarcasmi, dopo decenni durante i quali la burocrazia stalinista ci ha riempito le orecchie col capitalismo “che marcisce”.
“Sostenere una nazione contro un’altra ha sempre significato sostenere un blocco imperialista contro un altro, e tutte le guerre di liberazione nazionale del XX secolo l’hanno provato. Ciò che la Sinistra italiana ha chiaramente espresso, è che questo si applicava anche alle borghesie coloniali, alle frazioni capitaliste che cercavano di creare un nuovo stato “indipendente”: queste non potevano sperare di raggiungere il loro scopo se non subordinandosi ad una delle potenze imperialiste che si erano già divise il pianeta. Come dite nella vostra piattaforma, il XX secolo è stato solamente un susseguirsi incessante di guerre imperialiste per il dominio del pianeta: per noi, ciò costituisce al tempo stesso la conferma più sicura che il capitalismo è un sistema mondiale senile e reazionario, ed anche che tutte le forme di lotte “nazionali” sono integrate interamente nel gioco imperialista globale”.
Qui ancora: l) “le guerre continue” hanno accompagnato il capitalismo in tutti gli stadi del suo sviluppo e non sono una prova del suo progresso o del suo declino; 2) la crescita delle forze produttive e del numero di proletari nei paesi del Terzo Mondo ha mostrato senza equivoci il carattere progressista delle rivoluzioni nazionali borghesi fin verso la metà degli anni ‘70; 3) lo scopo del sostegno a questi movimenti non era di “sostenere una nazione contro un’altra” ma di attirare verso il partito della rivoluzione gli operai ed in primo luogo, di favorire lo sviluppo del proletariato in questi paesi.
Rosa Luxemburg ha fatto una critica senza concessioni della parola d’ordine sull’“autodeterminazione nazionale” anche prima della I guerra mondiale, avanzando come argomento che essa era un’illusione della democrazia borghese: in ogni Stato capitalista, non è né il “popolo” che “si autodetermina”, né la “nazione”, ma solamente la classe capitalista. Per Marx ed Engels non era un segreto il fatto che, quando chiamavano all’indipendenza nazionale, era per sostenere solamente lo sviluppo del modo di produzione capitalista in un periodo in cui il capitalismo aveva ancora un ruolo progressista da giocare.
Come Marx, noi non nascondiamo il fatto che le rivoluzioni nazionali hanno un carattere progressista solo dal punto di vista dello sviluppo del capitalismo.
Congratulazioni fraterne
ICU
La nostra risposta
In una serie di articoli che abbiamo scritto alla fine degli anni ‘80 ed inizio ‘90 per difendere l’idea che il capitalismo è un sistema sociale in declino, notavamo che “più il capitalismo affonda nella decadenza, più mostra la sua decomposizione avanzata, più la borghesia ha bisogno di negare la realtà e di promettere al mondo un futuro brillante sotto il sole del capitale. E’ l’essenza delle campagne attuali in risposta al crollo ben visibile dello stalinismo: la sola speranza, il solo futuro, è il capitalismo”. (“Il dominio reale del capitale e le confusioni reali del campo politico proletario”, Rivista Internazionale - edizione in lingua inglese, francese o spagnola - n° 60, inverno 90).
Non c’é niente di sorprendente che la borghesia neghi il fallimento inevitabile del suo sistema sociale; più vicina è la sua morte, più essa si allontana evidentemente dalla verità e si ripiega su dei fantasmi. Dopo tutto, è una classe sfruttatrice e nessuna altra classe sfruttatrice nella storia è stata capace di confrontarsi con il fatto di essere tale, ancor meno quando i suoi giorni sono storicamente contati. Se qualcuno dei suoi rappresentanti finisse per ammettere la sua prossima fine, non riuscirebbe a concepire un mondo successivo al dominio del capitale senza cadere nelle visioni di un passato mitico o di un futuro messianico.
Certamente, ci si aspetta qualcosa di più da coloro che dicono di parlare in nome del proletariato sfruttato e di aspettare una rivoluzione comunista. Tuttavia, non dobbiamo mai sottovalutare il potere ideologico del sistema dominante, la sua capacità di deviare e sabotare ogni sforzo teso verso una comprensione chiara e lucida della situazione reale e delle prospettive per il sistema mondiale attuale. Ci sono veramente troppi esempi di quelli che hanno perso di vista le premesse teoriche fondamentali del movimento comunista come Marx ed Engels le hanno per la prima volte messe in un quadro in termini scientifici, di quelli che hanno perso fiducia nell’affermazione che il capitalismo, come gli altri sistemi che l’hanno preceduto, è solamente una fase transitoria nell’evoluzione storica dell’umanità, destinata a sparire a causa delle sue proprie contraddizioni intrinseche. È un fenomeno che abbiamo osservato negli anni ‘80 e - come l’abbiamo sottolineato nella prima parte di questo articolo nella Revue Internationale n° 111 - vediamo ancora più esplicitamente oggi. Più il capitalismo marcisce, più passa dal semplice declino ad una disintegrazione completa, più vediamo delle voci che, all’interno o ai margini del movimento rivoluzionario, vanno in tutti i sensi, cercando disperatamente qualche “nuova” scoperta che nasconderebbe l’orribile verità. Il capitalismo in decomposizione? No, no, si ristruttura! Il capitalismo in un vicolo cieco? Ma allora Internet, la globalizzazione, i dragoni dell’Asia...?
Questa è l’atmosfera generale di confusione nella quale nascono le nuove correnti proletarie in Russia e nell’ex-URSS. Come abbiamo sottolineato nell’articolo precedente, malgrado le loro differenze, tutte queste correnti sembrano avere una difficoltà ad accettare la conclusione sulla quale era stata fondata l’Internazionale Comunista e che costituiva il solco di lavoro della sinistra comunista, la conclusione secondo la quale il capitalismo mondiale è entrato in declino storico o in decadenza dalla prima guerra mondiale.
Come abbiamo detto nell’ultimo articolo, in questa discussione andiamo a considerare gli argomenti dei compagni dell’Unione Comunista Internazionale. Ecco come essi presentano i loro argomenti contro la nozione di decadenza:
“La transizione verso una forma economica superiore è il risultato dello sviluppo della forma anteriore, non della sua distruzione. Se la vecchia formazione fosse esaurita, verrebbero fuori costantemente crisi sociali e forze sociali che aspirerebbero a mettere in atto la nuova forma. Ciò non si verifica. Inoltre, per parecchi decenni, il capitalismo ha conosciuto una stabilità relativa del suo sviluppo durante la quale le forze rivoluzionarie non solo non sono cresciute, ma al contrario, si sono sbriciolate. (...) E (il capitalismo) si sviluppa realmente, non solo creando qualitativamente delle nuove forze produttrici, ma anche delle nuove forme di capitalismo. Lo studio di questo sviluppo può dare la risposta su quando verrà una nuova crisi, come la crisi di 1914-45, e attraverso di essa, quale potrebbero essere le forme di transizione al socialismo. La teoria della decadenza nega lo sviluppo del capitalismo e rende impossibile il suo studio, lasciandoci come semplici sognatori con una fede nel brillante futuro dell’umanità” (Lettera alla CCI, 20/2/02).
I compagni sicuramente si rifanno agli argomenti di Marx nella sua famosa Prefazione alla critica dell’economia politica nella quale tratta delle condizioni materiali della transizione di un modo di produzione ad un altro, dicendo che “una formazione sociale non scompare mai finché non si siano sviluppate tutte le forze produttive che essa è capace di creare, così come non si arriva mai a nuovi e più evoluti rapporti di produzione prima che le loro condizioni materiali di esistenza si siano schiuse nel grembo stesso della vecchia società”.
Naturalmente siamo qui d’accordo con gli argomenti di Marx, ma non pensiamo che egli volesse dire che una nuova società non potesse sorgere dalla vecchia finché le ultime innovazioni tecniche o economiche non sarebbero state sviluppate. Una tale visione potrebbe sembrare compatibile con i modi di produzione precedenti in cui le scoperte tecniche avvenivano con un ritmo molto lento; ciò sarebbe difficilmente possibile nel capitalismo che non può vivere senza sviluppare costantemente, se non quotidianamente, la sua infrastruttura tecnologica. Il problema che qui si pone è che l'UCI sembra riferirsi a questo passaggio senza avere assimilato la parte precedente del testo nella quale Marx sottolinea le pre-condizioni dell’apertura di un periodo di rivoluzione sociale, che è la chiave della nostra comprensione della decadenza del capitalismo, della sua epoca di guerra e di rivoluzione, come è stato formulato dall’I.C. Ci riferiamo al passaggio in cui Marx dice che “ad un certo grado del loro sviluppo le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti o, per usare un termine giuridico, con i rapporti di proprietà nel cui ambito si erano mosse fino a quel momento. Da che erano forme di sviluppo delle forze produttive questi rapporti si tramutano in vincoli che frenano tali forze. Si arriva quindi ad un’epoca di rivoluzione sociale”.
Le forme di sviluppo diventano degli ostacoli; nella visione dinamica che è propria del marxismo, ciò non significa che la società arriva ad un arresto completo ma che il proseguimento del suo sviluppo diventa sempre più irrazionale e catastrofico per l’umanità. Abbiamo del resto rigettato in numerose occasioni la visione secondo cui la decadenza rappresenterebbe un arresto totale dello sviluppo delle forze produttive. La prima volta è stata nel nostro opuscolo La decadenza del capitalismo, scritto all’inizio degli anni ’70, di cui un intero capitolo è dedicato precisamente a questa questione. Confutando l’affermazione di Trotski degli anni ‘30 secondo la quale “le forze produttive avevano smesso di crescere”, affermavamo che: “Nella visione marxiana il periodo di decadenza di una società non può essere dunque caratterizzato dall’arresto totale e permanente della crescita delle forze produttive, ma dal RALLENTAMENTO DEFINITIVO DI QUESTA CRESCITA.
Gli arresti assoluti della crescita delle forze produttive appaiono nel corso delle fasi di decadenza. Ma, - nel sistema capitalista, la vita economica non può esistere senza accumulazione crescente e permanente del capitale – essi non sorgono che momentaneamente. Essi sono le convulsioni violente che regolarmente segnano lo svolgersi della decadenza. ...
... Ciò che caratterizza la decadenza di una forma sociale data dal punto di vista economico è dunque:
Ø Un rallentamento effettivo della crescita delle forze produttive tenuto conto del ritmo che sarebbe stato tecnicamente ed oggettivamente possibile nell’assenza del freno esercitato dalla permanenza degli antichi rapporti di produzione. Questo freno deve avere un carattere inevitabile, irreversibile. Deve essere provocato specificamente dal perpetuarsi dei rapporti di produzione che sostengono la società. Lo scarto di velocità che ne consegue al livello dello sviluppo delle forze produttive può solo aumentare e dunque manifestarsi sempre più alle classi sociali.
Ø L'apparizione di crisi sempre più importanti per profondità ed estensione. Queste crisi, questi blocchi momentanei forniscono d’altronde le condizioni soggettive necessarie al compiersi di un tentativo di rivolgimento sociale. E’ nel corso di queste crisi, che il potere della classe dominante subisce i più profondi indebolimenti e che, attraverso l’intensificazione oggettiva della necessità del proprio intervento, la classe rivoluzionaria trova i primi fondamenti della sua unità e della sua forza”.
Altrove, (“Lo studio del capitale e dei fondamenti del comunismo”, Revue Internationale n°75) abbiamo sottolineato che la nostra concezione non era differente da quella di Marx nei Grundrisse, quando scrive: “Da un punto di vista ideale, la dissoluzione di una forma di coscienza data basterebbe ad uccidere un’epoca intera. Da un punto di vista reale, questo limite della coscienza corrisponde ad un grado determinato di sviluppo delle forze produttive materiali e dunque della ricchezza. A dire il vero, lo sviluppo non si è prodotto sulla vecchia base ma è questa base stessa che si è sviluppata. Lo sviluppo di questa stessa base (la fioritura in cui essa si trasforma; ma è sempre questa base, questa stessa pianta in quanto fiorisce; è per questo che appassisce dopo la fioritura ed in seguito alla fioritura) è il punto in cui essa stessa è stata elaborata fino a prendere la forma nella quale è compatibile con lo sviluppo massimo delle forze produttive e dunque anche con lo sviluppo più ricco degli individui. Appena questo punto è raggiunto, il seguito dello sviluppo appare come un declino ed il nuovo sviluppo comincia su una nuova base”.
Più di qualunque altro sistema sociale precedente, il capitalismo è sinonimo di “crescita economica”, ma contrariamente a ciò che raccontano i ciarlatani della borghesia, crescita e progresso non sono la stessa cosa: la crescita del capitalismo nel suo periodo di decadenza è più simile a quella di un tumore maligno che a quella di un corpo sano che passa progressivamente dall’infanzia all'età adulta.
Le condizioni materiali di uno sviluppo “sano” del capitalismo sono sparite all’inizio del ventesimo secolo quando il capitalismo ha effettivamente stabilito un’economia mondiale e posto così le fondamenta della transizione al comunismo. Ciò non significa che il capitalismo si sia sbarazzato di tutti i resti dei modi di produzione e delle classi precapitaliste e che abbia esaurito l’ultimo mercato precapitalista, né che abbia effettuato la transizione finale dal dominio formale al dominio reale della forza lavoro in ogni angolo del pianeta. Il vero significato di ciò è che, a partire da questo momento, il capitalismo globale poteva invadere sempre meno ciò che Marx chiamava “i domini periferici” di espansione, ed era obbligato a crescere mediante un auto-cannibalismo crescente e barando con le sue proprie leggi. Abbiamo già dedicato uno spazio considerevole a queste forme di “sviluppo in fase di decadenza” e le riassumeremo semplicemente qui di seguito:
Ø L’organizzazione di “trust capitalisti di Stato” giganteschi a livello nazionale, ed anche a livello internazionale attraverso la formazione di blocchi imperialistici, aventi per funzione quella di regolare e di controllare il mercato, e dunque di impedire che le operazioni “normali” della concorrenza capitalista non raggiungano il loro livello reale e non esplodano nelle gigantesche crisi aperte di sovrapproduzione come quella del ‘29;
Ø Il ricorso (in grande parte attraverso l’intervento dei grandi capitalismi di Stato) al credito ed alle spese deficitarie, che non agiscono più come uno stimolo per lo sviluppo dei nuovi mercati ma sempre più come una sostituzione del mercato reale; di qui, una crescita economica su una base sempre più speculativa ed artificiale che apre la via a degli “adeguamenti” devastanti come il crollo delle tigri e dei dragoni asiatici, o d’altra parte ciò che accade ora negli USA dopo la crescita “delirante” ma drogata degli anni ‘90;
Ø Il militarismo e la guerra come stile di vita per il sistema - non solamente come nuovo mercato artificiale che diventa un fardello opprimente per l'economia mondiale - ma come solo mezzo per gli Stati di difendere la loro economia nazionale a spese dei loro rivali. I compagni dell’UCI potranno rispondere che il capitalismo è sempre stato un sistema guerriero, ma come abbiamo spiegato anche in un articolo della nostra serie “comprendere la decadenza del capitalismo” (vedere in particolare la parte V nella Revue Internationale n°54), c’è una differenza qualitativa tra le guerre dell’ascendenza del capitalismo - che erano generalmente di corta durata, a scala locale, che coinvolgevano soprattutto degli eserciti di professionisti aprendo naturalmente delle nuove possibilità d’espansione - e le guerre del suo declino, che hanno assunto un carattere quasi permanente, si sono orientate in modo crescente verso il massacro senza discriminazione di milioni di richiamati e di civili, e che hanno gettato la ricchezza prodotta da secoli di lavoro in un abisso senza fondo. Le guerre del capitalismo hanno un tempo fornito la base per stabilire un’economia mondiale e dunque per la transizione al comunismo; ma a partire da là, lungi dal porre le basi del progresso sociale futuro, hanno minacciato sempre di più la stessa sopravvivenza dell’umanità;
Ø Lo spreco gigantesco di forza lavoro umana rappresentato dalla guerra e dalla produzione di guerra illustra anche un altro aspetto del capitalismo nella sua fase di senilità: il peso enorme delle spese e delle attività non produttive, non solamente nella sfera militare, ma anche per la necessità di mantenere in piedi i grande apparati della burocrazia, del marketing ed altro ancora. Nel libro ufficiale dei record del capitalismo, tutte le sfere sono definite come espressioni di “crescita”, ma in realtà, esse manifestano a che livello è giunto il capitalismo in quanto ostacolo allo sviluppo qualitativo delle forze di produzione umana, sviluppo che diventa al tempo stesso necessario e possibile in questa epoca;
Ø Un’altra dimensione di “sviluppo nel senso di un declino” che non poteva essere intravista ai tempi di Marx, è costituita dalla minaccia ecologica che la corsa cieca all’accumulazione fa pesare sul sistema, minando la base stessa della vita del pianeta. Sebbene questo problema sia diventato sempre più evidente in questi ultimi dieci anni, esso resta legato intimamente al problema della decadenza. È il restringimento storico del mercato mondiale che ha sempre più costretto ogni Stato a saccheggiare o ad ipotecare le sue risorse naturali; questo processo si è svolto per tutto il XX secolo, anche se solo oggi raggiunge il suo culmine; all’epoca, una rivoluzione proletaria trionfante nel 1917-23 non avrebbe dovuto fare fronte ad un problema tanto immenso come quello posto oggi dai danni all’ambiente naturale provocati dalla crescita malsana del capitalismo. A questo livello, è immediatamente evidente che è il capitalismo il cancro del pianeta.
Quando si è conclusa l'epoca delle rivoluzioni borghesi?
In accordo con gli scritti di Marx sulla Comune di Parigi, Lenin considerava che il 1871 segnava la fine del periodo delle rivoluzioni borghesi nei principali centri del capitalismo mondiale. Datava in questa stessa epoca l’inizio della fase di espansione imperialistica a partire da questi centri.
Durante l’ultimo terzo del XIX secolo, il movimento marxista considerava che le rivoluzioni borghesi fossero ancora all’ordine del giorno nelle regioni dominate dalle potenze coloniali. Era una visione perfettamente valida all’epoca; tuttavia, alla fine del secolo, diventava sempre più chiaro che la dinamica stessa dell’espansione imperialistica, che prevedeva uno sviluppo delle colonie solo a livello di mercati passivi e di fonti di materie prime, inibiva l’apparizione di nuovi capitalismi nazionali indipendenti, e dunque di una borghesia rivoluzionaria. Questa questione era l’argomento di dibattiti particolarmente ardui in seno al movimento rivoluzionario in Russia; nei suoi scritti sulle comuni contadine russe, Marx aveva già espresso la speranza che una rivoluzione mondiale trionfante potesse risparmiare alla Russia la necessità di passare attraverso il purgatorio dello sviluppo capitalista. Più tardi, quando divenne evidente che il capitale imperialistico non era intenzionato ad abbandonare la Russia al suo proprio destino, il centro della questione si spostò sul problema delle debolezze riguardanti la nascente borghesia russa. I menscevichi, interpretando il metodo marxista in un modo molto rigido e molto meccanicistico, affermavano che il proletariato doveva prepararsi a sostenere l’inevitabile rivoluzione borghese in Russia; i bolscevichi, d’altra parte, riconoscevano che alla borghesia russa mancavano forti ali per condurre la sua rivoluzione e concludevano che questo compito doveva essere preso in carico dal proletariato e dalla classe contadina (la formula della “dittatura democratica”). Nei fatti, la posizione più legata alla realtà fu quella di Trotsky, perché essa non era posta immediatamente in termini “russi” ma in un quadro globale e storico, e perché aveva come punto di partenza il riconoscimento che il capitalismo come sistema stava entrando nell’epoca della rivoluzione socialista mondiale. La classe operaia al potere non avrebbe potuto limitarsi ai compiti borghesi della rivoluzione ma sarebbe stata obbligata a fare “la rivoluzione permanente”, estendere cioè la rivoluzione sulla scena mondiale dove non avrebbe potuto che prendere un carattere socialista.
Nelle Tesi di aprile del 1917, Lenin raggiunge effettivamente questa posizione, spazzando via le obiezioni dei bolscevichi conservatori (che in effetti avevano flirtato col menscevismo e la borghesia) secondo le quali egli abbandonava la prospettiva della “dittatura democratica”. Nel 1919, l’Internazionale Comunista si è formata sulla base del fatto che il capitalismo era proprio entrato nel suo periodo di declino, nell’epoca della rivoluzione proletaria mondiale. Tuttavia, mentre proclamava che l’emancipazione delle masse colonizzate dipendeva ora dal successo della rivoluzione mondiale, l’IC non era stata capace di spingere questa questione fino alla sua logica conclusione: cioè che l’epoca delle lotte di liberazione nazionale era finita - benché Rosa Luxemburg ed altri l’avessero già formulato. Furono soprattutto i tentativi disastrosi dei bolscevichi di stringere delle alleanze con borghesie sedicenti “antimperialiste” di regioni come la Turchia, il vecchio impero zarista, e soprattutto la Cina, che condussero la sinistra comunista, (la Frazione italiana in particolare), a rimettere in questione le tesi dell’IC sulla questione nazionale, che contenevano la possibilità di alleanze temporanee tra la classe operaia e le borghesia coloniale. Le frazioni di sinistra avevano visto bene che ciascuna di queste “alleanze” si concludeva con un massacro della classe operaia e dei comunisti perpetrata dalla borghesia coloniale che, nel farlo, non esitava a mettersi al servizio di questa o quella gang imperialista.
L’UCI, nella sua piattaforma, afferma che la sua esistenza trae origine dal lavoro delle frazioni di sinistra comunista che hanno rotto con l’IC in degenerazione (vedi World Revolution n° 254). Tuttavia, su questa questione, l’UCI mantiene la visione “ufficiale” dell’IC contro quella della sinistra: “La politica del Komintern di Stalin e di Bukharin durante la rivoluzione cinese del 1925-27 differisce completamente da quella di Lenin e dei Bolscevichi che prevaleva durante i primi anni del Komintern. Voi argomentate ancora che se esistono dei compiti borghesi, dovremmo sostenere questa o quella frazione borghese. I Menscevichi e gli stalinisti dicevano la stessa cosa. ... Il metodo di Marx e di Lenin non consiste nel rifiutare i compiti dell’ora quando tutte le frazioni della borghesia sono ugualmente reazionarie, ma nel compiere questi compiti col metodo della rivoluzione proletaria, cercando di eseguire i compiti borghesi con la maggiore profondità e di portare a termine i compiti socialisti. La rivoluzione cinese ha mostrato la correttezza di questo approccio contrariamente a quello della sinistra. In ogni modo la rivoluzione in Cina ha vinto, sebbene abbia lasciato un numero enorme di vittime. Questa rivoluzione ha reso possibile la creazione del proletariato più numeroso del mondo e potente, che ha velocemente sviluppato le forze produttive. Lo stesso risultato è stato raggiunto da decine di altre rivoluzioni nei paesi dell’Est. Non vediamo la ragione per negare il loro ruolo storicamente progressivo: grazie ad esse, la nostra rivoluzione ha una solida base di classe in molti paesi del mondo che nel 1914 erano ancora completamente agricoli”.
Siamo naturalmente d’accordo sul fatto che la posizione di Lenin, posizione che si trova nelle “Tesi sulla questione nazionale e coloniale” del II Congresso dell’IC del 1920, non era in nessuno modo la stessa di quella di Stalin nel 1927. In particolare, le Tesi del 1920 insistevano sulla necessità per il proletariato di rimanere rigorosamente indipendente anche dalle forze “nazionaliste rivoluzionarie”; Stalin invece ha chiamato gli operai insorti di Shanghai a rendere le loro armi ai macellai del Kuomintang. Ma come abbiamo mostrato nella nostra serie di articoli sulle origini del Maoismo, (Rivista Internazionale - edizione in lingua inglese, francese o spagnola - n° 81, 84, 94), questa esperienza non confermava solamente che la cricca di Stalin aveva abbandonato la rivoluzione proletaria a profitto degli interessi dello Stato nazionale russo, ma aveva anche annientato ogni speranza di trovare un settore della borghesia coloniale che non si gettasse ai piedi dell’imperialismo e che non massacrasse il proletariato alla prima opportunità. I settori “nazionalisti rivoluzionari” o “antimperialisti” della borghesia coloniale semplicemente non esistevano. Non potrebbe essere diversamente in un’epoca storica - la decadenza del mondo capitalista - nella quale non c’é più la minima coincidenza tra gli interessi delle due principali classi.
L’UCI e la “rivoluzione borghese” in Cina
La posizione dell’UCI sulla Cina ci sembra contenere una profonda ambiguità. Da un lato, l’UCI dice che in Russia nel 1917, la borghesia era già reazionaria, ciò che costituisce il motivo per cui il proletariato doveva prendere in carico i compiti della rivoluzione borghese; dall’altro lato, secondo la loro visione, in Cina e in “decine di altri” paesi dell’Est non specificati, sembra che la rivoluzione borghese si sia potuta svolgere. Ciò significa forse che la borghesia di questi paesi era ancora progressista dopo il 1917? O ciò vuole dire - nel caso della Cina in particolare - che la frazione che ha compiuto la “rivoluzione borghese” - il Maoismo - aveva qualche cosa di proletario, come dicono i Trotskisti? L’UCI ha bisogno di fare una netta chiarezza su questo punto.
In ogni caso, prendiamo in considerazione se ciò che accadde in Cina corrisponde alla comprensione marxista di una rivoluzione borghese. Dal punto di vista marxista, le rivoluzioni borghesi erano un fattore di progresso storico perché eliminavano i resti del vecchio modo di produzione feudale e gettavano le basi della futura rivoluzione del proletariato. Questo processo aveva due dimensioni fondamentali:
Ø a livello più materiale, la rivoluzione borghese ha gettato giù le barriere feudali che bloccavano lo sviluppo delle forze produttive e l’espansione del mercato mondiale. La formazione di nuovi Stati nazionali era un’espressione del progresso in questo senso: vale a dire che ha fatto esplodere i limiti del localismo feudale e ha creato le fondamenta di un’economia mondiale;
Ø lo sviluppo delle forze produttive è anche, naturalmente, lo sviluppo materiale del proletariato, ma un’altra chiave di lettura della rivoluzione borghese è che essa ha creato il quadro politico per lo sviluppo “ideologico” della classe operaia, la sua capacità di identificarsi ed organizzarsi in quanto classe distinta in seno alla società capitalista e alla fine contro di essa.
La sedicente rivoluzione cinese del 1949 non corrisponde a nessuno di questi aspetti. Per cominciare, essa non era un prodotto di un’economia mondiale in espansione ma quello di un’economia che era arrivata ad un impasse storico. Ciò si può vedere chiaramente quando si comprende che era nata non da una lotta contro il feudalismo o il dispotismo asiatico, ma da una lotta sanguinosa tra gang della borghesia, tutte legate all’una o all’altra delle grandi potenze imperialiste che dominavano il mondo. La “rivoluzione cinese” è stata il frutto di conflitti imperialisti che hanno devastato la Cina negli anni ‘30 e soprattutto del loro punto culminante - la seconda guerra imperialista mondiale. Ciò non viene messo in discussione dal fatto che, a differenti momenti, le fazioni cinesi in lotta abbiano avuto differenti sostegni imperialistici (per esempio il maoismo era sostenuto dagli USA durante la seconda guerra mondiale e poi dalla Russia all’inizio della “guerra fredda”). D’altra parte il fatto che la Cina abbia preso un orientamento imperialistico “indipendente” durante un breve periodo negli anni ‘60 non prova affatto l’esistenza di “giovani” borghesie che potrebbero sfuggire alla presa dell’imperialismo in questa epoca. È piuttosto il contrario: il fatto che anche la Cina, con i suoi immensi territori e le sue risorse, sia stata capace di fare un percorso indipendente per un periodo così breve, conferma ampiamente le argomentazioni di Rosa Luxemburg nell’Opuscolo di Junius secondo cui nell’epoca aperta dalla prima guerra mondiale, nessuna nazione “può tenersi al riparo” dall’imperialismo perché viviamo in un periodo nel quale il dominio dell’imperialismo sull’intero pianeta può essere superato solamente dalla rivoluzione comunista mondiale.
Lo sviluppo economico della Cina comprende anche tutte le caratteristiche dello “sviluppo in fase di decadenza”: non si manifesta dunque come parte di un mercato mondiale in espansione, ma come un tentativo di sviluppo autarchico in un’economia mondiale che ha già raggiunto i suoi limiti fondamentali nella sua capacità ad estendersi. Da ciò, come nella Russia stalinista, l’enorme preponderanza del settore militare, dell’industria pesante a spese della produzione di beni di consumo, di una burocrazia statale orrendamente gonfiata. Da ciò anche le convulsioni periodiche come “il grande balzo in avanti” e la “rivoluzione culturale” nelle quali la classe dominante mirava a mobilitare la popolazione dietro delle campagne per intensificare il suo sfruttamento e la sua sottomissione ideologica allo Stato. Queste campagne erano una risposta disperata alla stagnazione ed all’arretramento cronico dell’economia: ne è testimone l’esigenza dello Stato durante il “grande balzo in avanti” di installare un altoforno in ogni villaggio per utilizzare ogni pezzo di metallo fosse capitata tra le mani.
Naturalmente, la classe operaia cinese è più numerosa oggi che nel 1914. Ma per giudicare se ciò è in sé un fattore di progresso per l’umanità, dobbiamo considerare la situazione del proletariato a livello mondiale e non nazionale. Ciò che vediamo a questo livello, è che il capitalismo si è rivelato incapace di integrare la maggioranza della popolazione del mondo nella classe operaia. In percentuale della popolazione mondiale, la classe operaia resta una minoranza.
Il progresso per il proletariato cinese nel secolo passato sarebbe stato il successo della rivoluzione mondiale 1917-27, ciò che avrebbe permesso uno sviluppo equilibrato ed armonioso dell’industria e dell’agricoltura a scala mondiale, e non queste lotte frenetiche e non necessarie storicamente di ogni economia nazionale per sopravvivere in un mercato mondiale saturo. Al posto di ciò, la classe operaia cinese ha trascorso la maggior parte del secolo sotto lo stivale odioso dello stalinismo. Lungi dall’essere il prodotto di una rivoluzione borghese tardiva, lo stalinismo è l’espressione classica della controrivoluzione borghese, l’orribile rivincita del capitale dopo che il proletariato aveva provato e mancato di rovesciare il suo dominio. Il fatto che esso sia fondato su una menzogna completa - la sua pretesa di rappresentare la rivoluzione comunista - è in sé un’espressione tipica di un modo di produzione decadente: nella sua ascendenza, nella sua fase di fiducia in sé, il capitalismo non aveva alcun bisogno di vestire i panni del suo nemico mortale. Di più, questa menzogna ha avuto l’effetto più negativo sulla capacità della classe operaia - a livello mondiale ed in particolare nei paesi dominati dallo stalinismo - di comprendere la reale prospettiva comunista. Quando consideriamo il prezzo terribile di repressione e di massacro che lo stalinismo ha fatto pagare alla classe operaia - il numero di morti nelle prigioni maoiste e nei campi di concentramento è ancora sconosciuto, ma si aggira probabilmente sui milioni - diventa evidente che la sedicente “rivoluzione borghese” in Cina è fallita completamente nel compiere ciò che le autentiche rivoluzioni borghesi erano riuscite a produrre nel XVIII e nel XIX secolo: un quadro politico che permetteva al proletariato di sviluppare la fiducia in sé e la coscienza di essere una classe. Lo stalinismo è stato invece un disastro completo per il proletariato mondiale ed anche dopo la sua morte continua ad avvelenare la coscienza proletaria grazie alle campagne della borghesia che identifica il fallimento dello stalinismo con la fine del comunismo. Come tutte le sedicenti “rivoluzioni nazionali” del XX secolo, è la testimonianza del fatto che il capitalismo non pone più oramai le fondamenta per il comunismo ma le sabota sempre più.
I Comunisti e la questione nazionale: non c’è posto per l'ambiguità
Secondo l’UCI, i comunisti potevano in un certo senso sostenere le rivoluzioni nazionali fino agli anni ‘80; adesso con l'avvento della globalizzazione, non sarebbe più possibile:
“Che cosa é cambiato a partire dall’inizio della “globalizzazione?” La possibilità di avere una rivoluzione nazionale è sparita. Fino agli anni ‘80, le rivoluzioni nazionali potevano garantire ancora la crescita delle forze produttive, dovevano dunque ancora essere sostenute, tentando se possibile di trasferire la loro gestione nelle mani del proletariato rivoluzionario... Adesso, questa tappa storica per lo sviluppo nazionale è arrivata al suo termine”.
La prima questione da porre su questa posizione è che se la Sinistra comunista avesse difeso le “rivoluzioni nazionali” fino agli anni ‘80, oggi non ci sarebbe più una sinistra comunista. Fino alla morte dell’Internazionale Comunista alla fine degli anni ‘20, la Sinistra Comunista è stata la sola corrente politica che si è opposta in modo coerente alla mobilitazione del proletariato nella guerra imperialistica, soprattutto quando queste guerre erano fatte in nome di una qualsiasi rivoluzione borghese tardiva o della “lotta contro l’imperialismo”. A partire dalla Spagna e dalla Cina negli anni ‘30, passando per la seconda guerra mondiale, ed in tutti i conflitti locali che hanno caratterizzato la guerra fredda (Corea, Vietnam, Medio Oriente, ecc.), la Sinistra comunista, da sola, ha sostenuto l’internazionalismo proletario, rigettando ogni sostegno ad un qualsiasi Stato o frazione nazionale, chiamando la classe operaia a difendere i propri interessi di classe contro gli appelli a sciogliersi nei fronti guerrieri del capitale. La conseguenza terribile di scostarsi da questa via è stata illustrata in modo molto vivente dall’implosione della corrente bordighista all’inizio degli anni ‘80: le sue ambiguità sulla questione nazionale hanno aperto la porta alla penetrazione di frazioni nazionaliste che hanno cercato di trascinare la principale organizzazione bordighista verso il sostegno dell’OLP e di Stati come la Siria nella guerra in Medio Oriente. Ci sono state delle resistenze da parte di elementi proletari nell’organizzazione, ma essa ha pagato un prezzo terribile con la perdita di energie militanti e lo scoppio conseguente di tutta l’intera corrente. Se i nazionalisti fossero riusciti nell’impresa, avrebbero finito per annettere questa corrente storica della sinistra italiana all’ala sinistra del capitale a fianco dei trotskisti e degli stalinisti. Se gli antenati politici di altri gruppi come la CCI ed il BIPR avessero seguito una politica di sostegno alle sedicenti “rivoluzioni nazionali”, questi gruppi avrebbero subito una sorte analoga e non ci sarebbero più correnti della sinistra comunista con cui i nuovi gruppi che nascono in Russia possano mettersi in contatto.
In secondo luogo ci sembra che, nonostante la conclusione dell’UCI secondo cui questo sarebbe il momento per una posizione proletaria veramente indipendente sui movimenti nazionali, i compagni restino attaccati a formulazioni che, nel migliore dei casi, si possono considerare ambigue, ma che possono anche condurre ad un tradimento aperto dei principi di classe. Ad esempio, essi parlano ancora della possibilità di trasferire la lotta nazionale della borghesia al proletariato, aderiscono ancora alla parola d'ordine della “autodeterminazione nazionale”:
“in ciò che riguarda il sostegno ai movimenti di indipendenza nazionale, il solo orientamento da seguire, sia ieri che oggi, è quello di strappare la lotta all’oppressione nazionale dalle mani della borghesia e di rimetterla nelle mani del proletariato. Ciò non può essere fatto se non si riconosce il diritto delle nazioni all’autodeterminazione, e cioè se non si riconosce la necessità di condurre fino alla fine i compiti storici della borghesia. Diversamente, lasceremo il proletariato nazionale sotto la direzione della borghesia nazionale”.
Ma la classe operaia non può prendere in carico la lotta nazionale; anche per difendere i suoi interessi di classe, si trova in opposizione con la borghesia nazionale e tutte le sue ambizioni. La guerra di classe e la guerra nazionale sono opposte diametralmente tanto nella loro forma quanto nel loro contenuto. In ciò che riguarda l’autodeterminazione, gli stessi compagni riconoscono che essa è impossibile nelle condizioni attuali del capitalismo, anche se considerano ciò a partire dagli anni 80. Essi argomentano dunque in favore della parola d’ordine con termini simili a quelli di Lenin - come un mezzo di evitare di “creare degli antagonismi” o di offendere i proletari dei paesi arretrati e di sottrarli all'influenza borghese. Compagni, il comunismo non può trattenersi dall’essere offensivo rispetto ai sentimenti nazionalisti mal posti che esistono in seno alla classe operaia. A questo proposito, i comunisti dovrebbero evitare di criticare la religione perché molti operai sono influenzati dall’ideologia religiosa. Certamente, non provochiamo o non insultiamo gli operai perché hanno delle idee confuse. Ma come è detto nel Manifesto Comunista, i comunisti si rifiutano di nascondere le loro idee. Se la liberazione nazionale e l’autodeterminazione nazionale sono impossibili, allora dobbiamo dirlo nei termini più chiari possibili.
L’apparizione di gruppi come l’UCI è un apporto importante per il proletariato mondiale. Ma le sue ambiguità sulla questione nazionale sono molto gravi e mettono in discussione la sua capacità di sopravvivenza in quanto espressione del proletariato. La storia ha mostrato che, poiché si ricollegano al profondo antagonismo tra il proletariato e le guerre imperialistiche, le ambiguità sulla questione nazionale possono soprattutto portare facilmente a tradire gli interessi internazionalisti della classe operaia. Noi spingiamo dunque i compagni a riflettere in profondità su tutti i testi e tutti i contributi che la sinistra comunista ha prodotto su questa questione vitale.
CDW
1. Per la presentazione di questo gruppo, rinviamo i nostri lettori alla Rivista Internazionale (edizione in lingua inglese, francese o spagnola) n° 111, “Presentazione dell’edizione russa dell’opuscolo sulla decadenza: la decadenza, un concetto fondamentale del marxismo”.
2. I compagni di un altro gruppo russo, il Gruppo dei Collettivisti Proletari Rivoluzionari, sembrano avere la stessa posizione quando dicono che la rivoluzione comunista è diventata possibile solamente da quando il capitalismo ha sviluppato i microprocessori. Ritorneremo più tardi su questo argomento.
3. Abbiamo sviluppato questo punto dopo nella serie di articoli “Comprendere la decadenza del capitalismo”; vedere in particolare la Rivista Internazionale (edizione in lingua inglese, francese o spagnola) n° 55 e 56.
Pubblichiamo qui di seguito il rapporto sulla lotta di classe presentato e ratificato durante la riunione, nell'autunno 2003, dell'organo centrale della CCI (1). Confermando le analisi dell'organizzazione sulla persistenza del corso agli scontri di classe (aperto dalla ripresa internazionale della lotta di classe nel 1968) malgrado la gravità del riflusso subito dal proletariato a livello della sua coscienza dal crollo del blocco dell'Est, questo rapporto aveva come compito particolare di valutare l'impatto attuale ed a lungo termine dell'aggravamento della crisi economica e degli attacchi capitalisti sulla classe operaia. L’analisi è che "Le mobilitazioni a grande scala della primavera 2003 in Francia ed in Austria rappresentano una svolta nella lotta di classe dal 1989. Esse sono un primo passo significativo nel recupero della combattività operaia dopo il periodo più lungo di riflusso avuto dal 1968".
Siamo ancora lontano dal doverci confrontare ad un'ondata internazionale di lotte massicce poiché, a scala internazionale, la combattività è ancora allo stato embrionale e molto eterogenea. Tuttavia, va sottolineato che l'aggravamento considerevole della situazione insito in maniera evidente nelle prospettive di evoluzione del capitalismo, sia per quanto riguarda lo smantellamento dello Stato assistenziale sia per l'accentuazione dello sfruttamento sotto tutte le sue forme o lo sviluppo della disoccupazione, costituisce una leva certa della presa di coscienza in seno alla classe operaia. Il rapporto insiste in particolare sulla profondità ma anche la lentezza di questo processo di ripresa della lotta di classe.
L'evoluzione della situazione successiva ha confermato le caratteristiche, messe in evidenza dal rapporto, del cambiamento di dinamica intervenuto all'interno della classe operaia. Questa ha anche illustrato una tendenza, già segnalata dal rapporto, di alcune manifestazioni ancora isolate della lotta di classe ad oltrepassare il quadro fissato dai sindacati. La stampa territoriale della CCI ha reso conto di tali lotte che hanno avuto luogo alla fine dell'anno 2003, in Italia nei trasporti ed in Gran Bretagna nelle Poste, costringendo il sindacalismo di base ad entrare in azione per sabotare le mobilitazioni operaie. Allo stesso tempo, permane la tendenza, già messa in evidenza dalla CCI prima di questo rapporto, alla proliferazione di minoranze alla ricerca di coerenza rivoluzionaria.
La strada che la classe operaia dovrà percorrere è molto lunga. Tuttavia le lotte che dovrà fare saranno il crogiolo di una riflessione che, stimolata dall'aggravamento della crisi e fecondata dall'intervento dei rivoluzionari, serve a permetterle di riappropriarsi della sua identità di classe e della fiducia in sé stessa, di riallacciarsi alla sua esperienza storica e sviluppare la sua solidarietà di classe.
Il rapporto sulla lotta di classe del 15° Congresso della CCI (2) sottolineava il carattere quasi inevitabile di una risposta della classe operaia allo sviluppo qualitativo della crisi ed agli attacchi che colpiscono una nuova generazione non sconfitta di proletari, con al fondo un lento ma significativo recupero della combattività. Identificava un allargamento ed un approfondimento, ancora embrionale ma percettibile, della maturazione sotterranea della sua coscienza. Insisteva sull'importanza della tendenza a lotte più massicce per il recupero da parte della classe operaia della propria identità di classe e della fiducia in sé stessa,. Metteva in esergo il fatto che con l'evoluzione obiettiva delle contraddizioni del sistema, la cristallizzazione di una coscienza di classe sufficiente - in particolare, per ciò che riguarda la riconquista della prospettiva comunista - diventa la questione sempre più decisiva per l'avvenire dell'umanità. Metteva l'accento sull'importanza storica dell'emergere di una nuova generazione di rivoluzionari, riaffermando che un tale processo è già in marcia dal 1989, a dispetto del riflusso della combattività e della coscienza della classe nel suo insieme. Il rapporto mostrava quindi i limiti di questo riflusso, affermando che il corso storico agli scontri di classe massicci si era mantenuto e che la classe operaia era capace di superare il riflusso che aveva subito. Allo stesso tempo, esso affrontava la capacità della classe dominante a cogliere tutte le implicazioni di questa evoluzione della situazione ed a farvi fronte; e ricollocava questa evoluzione nel contesto degli effetti negativi dell'aggravamento della decomposizione del capitalismo. Infine concludeva sull'enorme responsabilità delle organizzazioni rivoluzionarie di fronte agli sforzi della classe operaia per andare avanti, di fronte ad una nuova generazione di lavoratori in lotta e di rivoluzionari che si producevano in questa situazione.
Quasi subito dopo il 15° Congresso e nel periodo successivo alla guerra in Iraq, la mobilitazione degli operai in Francia (tra le più importanti in questo paese dalla Seconda Guerra mondiale) ha rapidamente confermato queste prospettive. Traendo un primo bilancio di questo movimento, la Revue internationale n°114 fa notare che queste lotte hanno smentito categoricamente la tesi della pretesa scomparsa della classe operaia. L'articolo afferma che gli attacchi attuali "costituiscono il fermento di una lenta maturazione delle condizioni per lo sviluppo di lotte massicce che sono necessarie alla riconquista dell'identità della classe proletaria e per fare cadere a poco a poco le illusioni, particolarmente sulla possibilità di riformare il sistema. Sono le stesse azioni di massa che permetteranno il riemergere della coscienza di essere una classe sfruttata portatrice di un'altra prospettiva storica per la società. Perciò, la crisi è l'alleata del proletariato. Tuttavia, la strada che deve aprirsi la classe operaia per affermare la propria prospettiva rivoluzionaria non è affatto lineare, essa sarà terribilmente lunga, tortuosa, difficile, seminata di insidie, di trappole che il suo nemico non mancherà di ergerle contro". Le prospettive tracciate dal rapporto sulla lotta di classe del 15° Congresso della CCI si sono così trovate confermate, non solo per lo sviluppo a scala internazionale di una nuova generazione di elementi in ricerca, ma anche per le lotte operaie.
Perciò, il presente rapporto sulla lotta di classe si limita ad un aggiornamento ed ad un esame più preciso del significato a lungo termine di certi aspetti delle ultime lotte proletarie.
Le mobilitazioni a grande scala della primavera 2003 in Francia ed in Austria rappresentano una svolta nelle lotte di classe dal 1989. Esse sono un primo passo significativo nel recupero della combattività operaia dopo il periodo più lungo di riflusso dal 1968. Già negli anni ‘90 si erano viste delle manifestazioni sporadiche ma importanti di questa combattività. Tuttavia la simultaneità dei movimenti in Francia ed in Austria ed il fatto che, subito dopo, i sindacati tedeschi abbiano organizzato la sconfitta degli operai metallurgici all'Est (3) per contrastare in modo preventivo la resistenza proletaria, mostrano l'evoluzione della situazione dell'inizio del nuovo millenario. In realtà questi avvenimenti hanno messo in evidenza che la classe operaia è sempre più costretta a lottare di fronte all'aggravamento drammatico della crisi ed al carattere sempre più massiccio e generalizzato degli attacchi, e ciò a dispetto della persistente mancanza di fiducia in sé stessa.
Questo cambiamento tocca non solo la combattività della classe operaia ma anche il suo stato d'animo, la prospettiva nella quale si iscrive la sua attività. Esistono attualmente dei segni di una perdita di illusioni che riguardano non solo le mistificazioni tipiche degli anni '90 ("la rivoluzione delle nuove tecnologie", "l'arricchimento individuale attraverso la Borsa", ecc.), ma anche di quelle che la ricostruzione del dopo guerra (Seconda Guerra mondiale) aveva suscitato, e cioè la speranza di una vita migliore per la nuova generazione e di una pensione decente per quelli che riusciranno a sopravvivere alla prigione del lavoro salariato.
Come ricorda l'articolo della Révue Internationale n°114, il ritorno massiccio del proletariato sullo scenario storico nel 1968 ed il riemergere di un prospettiva rivoluzionaria costituivano non solo una risposta agli attacchi su di un piano immediato, ma soprattutto una risposta al crollo delle illusioni in un avvenire migliore che il capitalismo del dopo guerra sembrava offrire. Contrariamente a quello che una deformazione volgare e meccanicista del materialismo storico potrebbe farci credere, tali svolte nella lotta di classe, anche se scatenate da un aggravamento immediato delle condizioni materiali, sono sempre il risultato di cambiamenti soggiacenti nella visione dell'avvenire. La rivoluzione borghese in Francia non è esplosa con l'apparizione della crisi del feudalesimo (che era già ben avanzata), ma quando è diventato chiaro che il sistema del potere assoluto non poteva più far fronte a questa crisi. Allo stesso modo, il movimento che doveva sfociare nella prima ondata rivoluzionaria mondiale non è cominciato nell'agosto 1914, ma quando si sono dissipate le illusioni su di una soluzione militare rapida alla guerra mondiale. Pertanto il compito principale che le lotte recenti ci impongono è la comprensione del loro significato storico, a lungo termine.
Ogni svolta nella lotta di classe non ha lo stesso significato e la stessa portata del 1917 o del 1968. Queste date rappresentano dei cambiamenti del corso storico; il 2003 segna semplicemente l'inizio della fine di un fase di riflusso all’interno di un corso generale a degli scontri di classe massicci. Dal 1968, e prima del 1989, il corso della lotta di classe era già stato segnato da uno certo numero di riflussi e di riprese. In particolare, la dinamica iniziata alla fine degli anni ‘70 culminò rapidamente negli scioperi di massa dell'estate 1980 in Polonia. L'importanza del cambiamento della situazione costrinse allora la borghesia a cambiare rapidamente il orientamento politico ed a mandare la sinistra all'opposizione per poter meglio sabotare le lotte dall'interno (4). Inoltre è necessario distinguere tra il cambiamento attuale nel recupero sul piano della combattività da parte della classe operaia e le riprese negli anni 1970 e '80.
Più in generale, è necessario saper distinguere tra quelle situazioni in cui, per così dire, il mondo si sveglia una mattina e non è più lo stesso mondo, e dei cambiamenti che avvengono in modo quasi impercettibile attraverso il mondo, come il cambiamento quasi invisibile che si produce tra l’alta e la bassa marea. L'evoluzione attuale è sicuramente del secondo tipo. In tal senso, le mobilitazioni recenti contro gli attacchi sulle pensioni non significano affatto un cambiamento immediato e spettacolare della situazione tale da richiedere uno spiegamento rapido e importante delle forze politiche della borghesia.
Siamo ancora lontani dal doverci confrontare con un'ondata internazionale di lotte massicce. In Francia il carattere massiccio della mobilitazione nella primavera 2003 è restato circoscritto essenzialmente ad un settore, quello dell'educazione. In Austria la mobilitazione è stata più larga, ma fondamentalmente limitata nel tempo ad alcune giornate di azione, principalmente nel settore pubblico. Lo sciopero degli operai metallurgici in Germania dell'Est non è stato affatto espressione di una combattività operaia immediata, ma una trappola tesa ad una delle parti meno combattive della classe (ancora traumatizzata dalla disoccupazione massiccia apparsa quasi dall'oggi al domani dopo la "riunificazione" della Germania) per far passare l’idea che la lotta non paga. In più, le notizie sui movimenti in Francia ed in Austria hanno subito parzialmente un blackout in Germania, eccetto alla fine del movimento, quando sono state utilizzate per veicolare un messaggio che scoraggiava alla lotta. In altri paesi centrali per la lotta di classe come l'Italia, la Gran Bretagna, la Spagna o i paesi del Benelux, non ci sono state recentemente mobilitazioni massicce. Espressioni di combattività, che possono sfuggire al controllo delle grandi centrali sindacali, come lo sciopero selvaggio del personale di British Airways a Heathrow, di Alcatel a Tolosa o a Puertollano in Spagna l'estate scorsa (cf.Révolution internationale n°339) restano circoscritte ed isolate.
Nella stessa Francia lo sviluppo insufficiente e soprattutto l'assenza di una combattività più diffusa hanno fatto sì che l'estensione del movimento al di là del settore dell'educazione non fosse immediatamente all'ordine del giorno.
Tanto a scala internazionale che in ciascun paese, la combattività è dunque ancora allo stato embrionale e molto eterogenea. La sua attuale manifestazione più importante, la lotta degli insegnanti in Francia della scorsa primavera, è in prima istanza il risultato di una provocazione della borghesia consistente nell'attaccare più pesantemente questo settore in modo che la risposta contro la riforma delle pensioni, che riguardava tutta la classe operaia, si polarizzasse solo su questo settore (5).
Di fronte alle manovre su grande scala della borghesia, bisogna notare la grande ingenuità, addirittura la cecità della classe operaia nel suo insieme, includendovi gruppi in ricerca, parti del campo politico proletario (fondamentalmente i gruppi della Sinistra comunista) ed anche molti nostri simpatizzanti. La classe dominante, per il momento, è non solo capace di contenere ed isolare le prime manifestazioni dell'agitazione operaia, ma può, con più o meno successo (più in Germania che in Francia), rivolgere questa volontà di lotta, ancora relativamente debole, contro lo sviluppo della combattività generale a lungo termine.
Ancora più significativo di tutto ciò che precede è il fatto che la borghesia non sia ancora obbligata a ricorrere alla strategia della sinistra all'opposizione. In Germania, il paese in cui la borghesia ha ampia libertà di scelta tra un'amministrazione di sinistra ed un'amministrazione di destra, in occasione dell'offensiva "agenda 2010" contro gli operai, il 95% dei delegati, tanto del SPD che dei verdi, si sono pronunciati in favore di un mantenimento della sinistra al governo. La Gran Bretagna che, con la Germania, negli anni ‘70 ed '80 è stata "all’avanguardia" della borghesia mondiale nell'applicazione di politiche di sinistra nell'opposizione tra le più adattate a fare fronte alla lotta di classe, è anch’essa capace di gestire il fronte sociale con un governo di sinistra.
A differenza della situazione che prevaleva alla fine degli anni ‘90, oggi non possiamo più parlare della messa in campo di governi di sinistra come orientamento dominante della borghesia europea. Mentre cinque anni fa l'ondata di vittorie elettorali della sinistra era legata ancora alle illusioni sulla situazione economica, di fronte alla gravità attuale della crisi, la borghesia deve preoccuparsi di mantenere una certa alternanza governativa e giocarsi così la carta della democrazia elettorale (6). Dobbiamo ricordare, in questo contesto che già l'anno scorso la borghesia tedesca, pur salutando la rielezione di Schroeder, ha mostrato che si sarebbe anche soddisfatta di un governo conservatore con Stoiber.
Il fatto che le prime scaramucce della lotta di classe, in un processo lungo e difficile verso lotte più massicce, abbiano avuto luogo in Francia ed in Austria non è forse tanto fortuito come potrebbe sembrare. Se il proletariato francese è conosciuto per il suo carattere esplosivo, il che spiega in parte come nel 1968 si sia trovato alla testa della ripresa internazionale delle lotte di classe, si può dire difficilmente altrettanto della classe operaia austriaca del dopoguerra. Ciò che questi due paesi hanno in comune, tuttavia, è il fatto che gli attacchi massicci riguardavano in modo centrale il problema delle pensioni. È anche da notare come il governo tedesco, che attualmente è quello che nell’Europa occidentale sta scatenando l'attacco più generale, proceda ancora in modo estremamente prudente sul problema delle pensioni. Mentre la Francia e l'Austria sono tra i paesi dove, in grande parte a causa della debolezza politica della borghesia, della destra in particolare, le pensioni sono state fino ad ora attaccate meno che altrove. Per questo qui l'aumento del numero di anni lavorativi necessari per andare in pensione e la diminuzione dalle pensioni sono stati avvertiti con maggior amarezza.
Il peggioramento della crisi costringe la borghesia, con l’aumento dell’età pensionabile, a sacrificare un ammortizzatore sociale che gli permetteva di fare accettare alla classe operaia i livelli insopportabili di sfruttamento imposti negli ultimi decenni e di mascherare la reale entità della disoccupazione.
Di fronte al ritorno massiccio di questo flagello a partire dagli anni 1970, la borghesia aveva risposto con misure di capitalismo di Stato assistenziale, misure che sono un non senso dal punto di vista economico e che oggi costituiscono una delle principali cause dell'incommensurabile debito pubblico. Lo smantellamento del Welfare State attualmente in opera porta a porsi degli interrogativi di fondo sulle reali prospettive che il capitalismo offre per il futuro della società.
I diversi attacchi capitalisti non suscitano identiche reazioni di difesa da parte della classe operaia. In genere è più facile scendere in lotta contro le diminuzioni di salario o l'allungamento della giornata di lavoro che contro la diminuzione del salario relativo, il quale è il risultato dell'incremento della produttività del lavoro, a causa dello sviluppo della tecnologia, e dunque dello stesso processo di accumulazione del capitale. Questa realtà veniva descritta da Rosa Luxemburg in questi termini: "Una diminuzione di salario, che comporti una compressione del tenore di vita reale degli operai, è un attentato visibile dei capitalisti contro i lavoratori, e di regola […] ne riceve una immediata risposta, nei casi più favorevoli è anche respinta. Per contro, la diminuzione del salario relativo si effettua ostentatamente senza la minima responsabilità personale del capitalista, e contro di essa, gli operai,all’interno del sistema salariale, cioè sul terreno della produzione mercantile. non hanno alcuna possibilità di lotta e di difesa ".
L'aumento della disoccupazione pone lo stesso tipo di difficoltà alla classe operaia dell'intensificazione dello sfruttamento (attacco sullo stipendio relativo). In effetti, l'attacco capitalista costituito dalla disoccupazione, quando colpisce i giovani che non hanno lavorato ancora, non comporta la dimensione esplosiva dei licenziamenti, per il fatto che non è necessario licenziare nessuno. L'esistenza di una disoccupazione massiccia costituisce anche un fattore di inibizione delle lotte immediate della classe operaia, perché rappresenta una minaccia permanente per un numero crescente di operai al lavoro, ma anche perché questo fenomeno sociale pone delle domande la cui risposta non può evitare di affrontare la necessità del cambiamento di società. Sempre per quanto riguarda la lotta contro l'abbassamento del salario relativo, Rosa Luxemburg aggiunge: "La lotta contro la caduta del salario relativo significa perciò anche lotta contro il carattere di merce della forza di lavoro, cioè contro la produzione capitalista nel suo complesso. La lotta contro la caduta del salario relativo non è dunque più una lotta sul terreno dell'economia mercantile, bensì un assalto rivoluzionario, sovvertitore, contro il sussistere di questa economia, è il movimento socialista del proletariato".
Gli anni 1930 rivelano come, con la disoccupazione di massa, esplode il depauperamento assoluto. Senza la sconfitta che fu precedentemente inflitta al proletariato, la legge "generale, assoluta dell'accumulazione del capitale" rischiava di trasformarsi nel suo contrario, la legge della rivoluzione. La classe operaia ha una memoria storica e, con l'approfondirsi della crisi, questa memoria comincia lentamente ad attivarsi. Attualmente la disoccupazione massiccia ed i tagli ai salari fanno sorgere il ricordo degli anni '30, e visioni di insicurezza e di depauperamento generalizzate. Lo smantellamento del Welfare State confermerà le previsioni marxiste.
Quando Rosa Luxemburg scrive che gli operai, sul terreno della produzione dei beni di consumo, non hanno la minima possibilità di resistere all'abbassamento del salario relativo, ciò non è né rassegnazione fatalista, né pseudo-radicalismo dell'ultima tendenza di Essen del KAPD, "la rivoluzione o niente", ma la consapevolezza che la loro lotta non può restare nei limiti delle lotte di difesa immediata e deve essere intrapresa con la più larga visione politica possibile. Negli anni ‘80, le questioni della disoccupazione e dell'intensificazione dello sfruttamento erano già poste, ma spesso in modo ristretto e locale, ristrette per esempio alla salvaguardia dei propri posti di lavoro dai minatori inglesi. Oggi l'avanzata qualitativa della crisi può permettere che problemi come la disoccupazione, la povertà, lo sfruttamento siano posti in modo più globale e politico, come quelli delle pensioni, della salute, del mantenimento dei disoccupati, delle condizioni di vita, della lunghezza della vita lavorativa, dell'avvenire delle generazioni future. Sotto una forma molto embrionale, è questo il potenziale che è stato rivelato negli ultimi movimenti in risposta agli attacchi contro le pensioni. Questa lezione di lungo termine è di gran lunga la più importante. È di una portata ben più grande di quella del ritmo con cui la combattività immediata della classe va a ripristinarsi. In effetti, come Rosa Luxemburg spiega, essere direttamente confrontati agli effetti devastanti dei meccanismi obiettivi del capitalismo (disoccupazione massiccia, intensificazione dello sfruttamento relativo), rende sempre più difficile entrare in lotta. E' per tale motivo che, anche se ne risulta un ritmo rallentato ed un avanzamento più tortuoso delle lotte, quest’ultime diventano tanto più significative sul piano della politicizzazione.
A causa dell'approfondirsi della crisi, il capitale non può più basarsi sulla sua capacità di fare delle concessioni materiali importanti in modo da ridare credito all'immagine dei sindacati, come è stato fatto nel 1995 in Francia (8). A dispetto delle attuali illusioni degli operai, esistono dei limiti sulla capacità della borghesia ad utilizzare la combattività nascente attraverso manovre su vasta scala. Questi limiti sono rivelati dal fatto che i sindacati sono obbligati a ritornare gradualmente al ruolo di sabotatori delle lotte: "si adotta oggi uno schema molto più classico nella storia della lotta di classi: il governo attacca, i sindacati in un primo tempo si oppongono ed esaltano l'unione sindacale per reclutare massicciamente gli operai dietro essi e sotto il loro controllo. Poi il governo apre dei negoziati ed i sindacati si disuniscono per meglio dividere e disorientare le file operaie. Questo metodo che gioca sulla divisione sindacale di fronte all'avanzamento della lotta di classe, è quello più sperimentato dalla borghesia per preservare globalmente l'inquadramento sindacale, concentrando per quanto possibile il discredito e la perdita di alcune penne su uno o l'altro apparato designato in anticipo. Questo significa anche che i sindacati sono di nuovo sottomessi alla prova del fuoco e che lo sviluppo inevitabile delle lotte a venire porrà alla classe operaia di nuovo il problema dello scontro con i suoi nemici per potere affermare i propri interessi di classe ed i bisogni della sua lotta". (9)
Se a fino ad ora la borghesia non si è posta tanti problemi nel mettere in atto le sue manovre contro la classe operaia, il deterioramento della situazione economica tenderà a provocare con maggior frequenza scontri spontanei, parziali, isolati tra gli operai ed i sindacati. La ripetizione di uno schema classico di scontro con il sabotaggio sindacale, ormai all'ordine del giorno, favorisce la possibilità per gli operai di rifarsi alle lezioni del passato. Ma questo non deve condurre ad un atteggiamento schematico basato sul quadro ed i criteri degli anni '80 per capire le lotte future ed intervenire al loro interno. Le lotte attuali sono quelle di una classe che deve ancora riconquistare, anche in modo elementare, la sua identità di classe. La difficoltà a riconoscere di appartenere ad una classe sociale ed il fatto di non realizzare che si ha di fronte un nemico di classe, sono le due facce dello stessa medaglia. Sebbene gli operai abbiano ancora un senso elementare del bisogno di solidarietà (perché ciò è inscritto nei fondamenti della condizione proletaria), hanno però ancora da riconquistare una visione di ciò che è veramente la solidarietà di classe.
Per far passare la sua riforma delle pensioni, la borghesia francese non ha avuto bisogno di ricorrere al sabotaggio dell'estensione del movimento attraverso i sindacati. Il centro della sua strategia è consistita nel fare in modo che gli insegnanti adottassero come obiettivi primari delle rivendicazioni specifiche. A tal fine, questo settore già pesantemente colpito dagli attacchi precedenti, ha dovuto subire non solo l'attacco generale sulle pensioni ma anche un altro supplementare, specifico: il progetto di decentramento del personale non insegnante, contro il quale ha polarizzato effettivamente la sua mobilitazione. Far proprie delle rivendicazioni che condannano di fatto una lotta alla sconfitta è sempre un segno di una debolezza importante della classe operaia, che essa deve superare per potere avanzare significativamente. Un esempio che illustra al contrario una tale necessità è dato dalle lotte in Polonia nel 1980, dove sono state le illusioni sulla democrazia occidentale a permettere che la rivendicazione di "sindacati liberi" arrivasse al primo posto nell'elenco di rivendicazioni presentate al governo, aprendo così la porta alla sconfitta ed alla repressione del movimento.
Nelle lotte della primavera 2003 in Francia, è stata la perdita dell'identità di classe e la perdita di vista della nozione di solidarietà operaia a portare gli insegnanti ad accettare che le loro rivendicazioni specifiche passassero sopra al problema generale degli attacchi contro le pensioni. I rivoluzionari non devono temere di riconoscere questa debolezza della classe e di adattare di conseguenza il loro intervento. Il rapporto sulla lotta di classe del 15° Congresso insiste molto sull'importanza del riemergere della combattività per permettere al proletariato di avanzare. Ma ciò non ha niente in comune con un culto operaista della combattività. Negli anni '30 la borghesia è stata capace di deviare la combattività operaia sulla strada della guerra imperialista. L'importanza delle lotte attuali è che esse possono costituire il crogiolo dello sviluppo della coscienza della classe operaia. Se la posta in gioco oggi della lotta di classe, la riconquista dell'identità di classe da parte del proletariato, è di per sé molto modesta, essa costituisce tuttavia la chiave per la riattivazione della memoria collettiva e storica del proletariato e per lo sviluppo della sua solidarietà di classe. Questa è l'unica alternativa alla pazza logica borghese di competizione, del ciascuno per sé.
La borghesia, da parte sua, non si permette di farsi illusioni sul carattere secondario di questa questione. Fino ad adesso ha fatto ciò che ha potuto per evitare l’esplosione di un movimento che potrebbe ricordare agli operai la loro appartenenza ad una stessa classe. La lezione del 2003 è che, con l'accelerazione della crisi, la lotta operaia può solo svilupparsi. Non è tanto questa combattività di per sé che inquieta la classe dominante, ma proprio il rischio che i conflitti vanno ad alimentare la coscienza della classe operaia. La borghesia oggi è ancora più preoccupata da questa questione che in passato, proprio perché la crisi è più grave e più globale. Quando le lotte non possono essere evitate, la sua principale preoccupazione è limitarne gli effetti positivi sulla fiducia in sé, sulla solidarietà e la riflessione nella classe operaia, e fare in modo che la lotta sia fonte di false lezioni. Durante gli anni ‘80, di fronte alle lotte operaie, la CCI ha imparato ad identificare, per ciascun caso concreto, quale era l'ostacolo all'avanzamento del movimento ed intorno al quale dovevano essere polarizzati lo scontro con i sindacati e la sinistra del capitale. Spesso era la questione dell'estensione. Delle mozioni concrete presentate nelle assemblee generali, che chiamavano ad andare verso gli altri operai, costituivano la dinamite con la quale tentavamo di sgombrare il campo per favorire l'avanzamento generale del movimento. Le questioni centrali poste oggi - che cosa è la lotta di classe, i suoi scopi, i suoi metodi, chi sono i suoi avversari, quali sono gli ostacoli che dobbiamo superare - sembrano costituire l'antitesi di quelle degli anni '80. Sembrano più "astratte" perché meno immediatamente realizzabili, addirittura costituiscono un ritorno al punto di partenza delle origini del movimento operaio. Metterle in avanti esige più pazienza, un visione a più lungo termine, capacità politiche e teoriche più profonde per l'intervento. Ma in realtà, le questioni centrali attuali non sono più astratte, sono più globali. Non c'è niente di astratto o di arretrato nel fatto d'intervenire, in un'assemblea operaia, sulla questione delle rivendicazioni del movimento o per denunciare il modo in cui i sindacati impediscono ogni prospettiva reale di estensione. Il carattere globale di queste questioni mostra la via da seguire. Prima del 1989 il proletariato si è arenato proprio perché poneva le questioni della lotta di classe in modo troppo limitato. Proprio perché nella seconda metà degli anni ‘90, il proletariato ha cominciato a sentire il bisogno, attraverso delle minoranze al suo interno, di una visione più globale, la borghesia, cosciente del pericolo che ciò poteva rappresentare, ha sviluppato il movimento alter-mondialista in modo da fornire una falsa risposta ad a questo bisogno.
Inoltre, la sinistra del capitale, specialmente la più "raicale", è diventata maestra nell'arte di utilizzare gli effetti della decomposizione della società contro le lotte operaie. Se la crisi economica favorisce una problematica che tende ad essere globale, la decomposizione ha l'effetto contrario. Durante il movimento della primavera 2003 in Francia e lo sciopero dei metallurgici in Germania, abbiamo visto come gli attivisti sindacali, in nome de "l'estensione" o della "solidarietà" hanno alimentato una certa mentalità presente in una minoranza di lavoratori tendente a voler imporre la lotta ad altri lavoratori, allo scopo di gettare su questi ultimi la responsabilità di una sconfitta del movimento quando questi si rifiutavano di essere trascinati nell'azione.
Nel 1921, durante l'Azione di marzo in Germania, le scene tragiche dei disoccupati che cercavano di impedire agli operai di rientrare nelle fabbriche, erano un'espressione di disperazione di fronte al riflusso dell'ondata rivoluzionaria. I recenti appelli delle forze della sinistra borghese francese agli studenti di non sostenere i loro esami, lo spettacolo dei sindacalisti tedeschi dell'Ovest che volevano impedire ai metallurgici dell’Est – che non volevano più fare un lungo sciopero per le 35 ore - di riprendere il lavoro, sono degli attacchi pericolosi contro l'idea stessa di classe operaia e di solidarietà. Attacchi pericolosi anche perché alimentano l'impazienza, l'immediatismo e l'attivismo insensato prodotti dalla decomposizione. Siamo avvertiti: se le lotte a venire sono potenzialmente un crogiolo per la coscienza, la borghesia fa di tutto per trasformarle in sepolcro della riflessione proletaria.
Qui vediamo dei compiti che sono degni dell'intervento comunista: "spiegare pazientemente" (Lenin) perché la solidarietà non può essere imposta ma richiede una fiducia reciproca tra le differenti parti della classe; spiegare perché la sinistra borghese, in nome dell'unità operaia, fa di tutto per distruggere proprio questa unità.
Tutte le componenti del campo politico proletario riconoscono l'importanza della crisi nello sviluppo della combattività operaia. Ma la CCI è la sola corrente esistente attualmente a considerare che la crisi stimola la coscienza di classe delle grandi masse. Gli altri gruppi riducono il ruolo della crisi al fatto che questa semplicemente spinge fisicamente alla lotta. Per i consiliaristi, la crisi costringe in modo più o meno meccanico la classe operaia a fare la rivoluzione. Per i bordighisti, il risveglio de"l'istinto" di classe porta al potere il detentore della coscienza di classe che è il partito. Per il BIPR, la coscienza rivoluzionaria viene dall'esterno, dal partito. All’interno dei gruppi in ricerca, gli autonomi (che si rifanno al marxismo per quanto riguarda la necessità dell'autonomia del proletariato rispetto alle altre classi) e gli operaisti credono che la rivoluzione è il prodotto della rivolta operaia e di un desiderio individuale di una vita migliore. Queste impostazioni erronee sono state rafforzate dall'incapacità di queste correnti a comprendere che l'insuccesso del proletariato a rispondere alla crisi del '29 fu il risultato della sconfitta precedente dell'ondata rivoluzionaria mondiale. Una delle conseguenze di questa debolezza è la teorizzazione, ancora presente, secondo la quale la guerra imperialista produce delle condizioni più favorevoli alla rivoluzione rispetto alla crisi (Cf. il nostro articolo "Perché l'alternativa guerra o rivoluzione" della Revue internationale n°30).
All'opposto di queste visioni, il marxismo pone la questione come segue: "Il fondamento scientifico del socialismo poggia infatti notoriamente su tre risultati dello sviluppo del capitalistico: innanzitutto sull'anarchia crescente dell'economia capitalista che rende la sua scomparsa risultato inevitabile, in secondo luogo sulla progressiva socializzazione del processo produttivo, che crea le condizioni positive dell'ordinamento sociale futuro, e in terzo luogo sull’organizzazione e lla coscienza di classe crescenti del proletariato, che costituisce il fattore attivo del rivolgimento imminente" (10).
Sottolineando il legame tra questi tre aspetti ed il ruolo della crisi, Rosa Luxemburg scrive: "la socialdemocrazia non fa discendere il suo scopo finale dalla forza vittoriosa della minoranza né dal sopravvento numerico della maggioranza, ma dalla necessità economica e dalla comprensione di questa necessità, che porta al superamento del capitalismo per mezzo delle masse popolari e che si esprime innanzitutto nell'anarchia capitalista"(11).
Mentre il riformismo (ed oggigiorno la sinistra del capitale) promette dei miglioramenti grazie all'intervento dello Stato, a leggi che proteggerebbero i lavoratori, la crisi mette in luce che "il sistema salariale non è un rapporto legale, ma un rapporto puramente economico".
E' attraverso gli attacchi che subisce che la classe, come insieme, comincia a comprendere la natura reale del capitalismo. Questo punto di vista marxista non nega affatto l'importanza del ruolo dei rivoluzionari e della teoria in questo processo. Nella teoria marxista gli operai troveranno la conferma e la spiegazione di ciò di cui essi stessi fanno esperienza.
Ottobre 2003
1. Questo testo, redatto in vista della discussione interna all'organizzazione, può contenere alcune formulazioni poco esplicite per il lettore. Pensiamo tuttavia che queste carenze non impediscono di afferrare l'essenza dell'analisi contenuta in questo rapporto.
2. Per mancanza di spazio non abbiamo pubblicato questo rapporto nella nostra stampa. In compenso abbiamo pubblicato, nella Revue internationale n°113, la risoluzione adottata da questo congresso che riprende la maggior parte delle insistenze del rapporto.
3. Il sindacato IG Metal aveva spinto gli operai metallurgici dei Lander dell'Est a mettersi in sciopero per l'applicazione immediata delle 35 ore mentre la loro attuazione era pianificata per il 2009. La manovra della borghesia risiede nel fatto che non solo le 35 ore costituiscono un attacco contro la classe operaia a causa della flessibilità che introducono, ma la mobilitazione da parte dei sindacati per il loro ottenimento era destinata, in quel momento, a deviare dalla risposta necessaria contro le misure di austerità del piano "Agenda 2010".
4. La carta della sinistra all'opposizione è stata giocata dalla borghesia alla fine degli anni ‘70 ed all'inizio degli anni ‘80. Consiste in una divisione sistematica dei compiti tra i differenti settori della borghesia. Spetta alla destra, al governo, "parlar chiaro" e applicare senza sotterfugi gli attacchi richiesti contro la classe operaia. Spetta alla sinistra, e cioè alle sue frazioni borghesi, per il loro linguaggio e la loro storia, il compito specifico di mistificare ed inquadrare gli operai, di deviare, sterilizzare e soffocare, grazie alla loro posizione nell'opposizione, le lotte e la presa di coscienza provocata da questi attacchi in seno al proletariato. Per altri elementi riguardanti l'attuazione di una tale politica da parte della borghesia leggere la risoluzione pubblicata nella Revue internationale n°26.
5. Per un'analisi più dettagliata di questo movimento vedi il nostro articolo "Di fronte agli attacchi massicci del capitale, il bisogno di una risposta massiccia della classe operaia" nella Revue internationale n°114.
6. Esiste un'altra ragione della presenza della destra al potere, e cioè che questa disposizione era la più adatta a contrastare l'avanzata del populismo politico, legato allo sviluppo della decomposizione i cui partiti che l'incarnano sono in genere inabili alla gestione del capitale nazionale.
7. Rosa Luxemburg, Introduzione all'economia politica (il lavoro salariato).
8. Nel dicembre 1995 i sindacati avevano costituito l'avanguardia di un manovra dell'insieme della borghesia contro la classe operaia. Di fronte ad un attacco massiccio contro la sicurezza sociale, il piano Juppé, ed un altro attacco più specifico sulle pensioni dei ferrovieri che per la sua violenza costituiva una vera provocazione, i sindacati non avevano avuto difficoltà a fare partire massicciamente la lotta operaia sotto il loro controllo. La situazione economica non era allora sufficientemente grave da imporre alla borghesia di mantenere nell’immediato l’attacco contro le pensioni dei ferrovieri, così il ritiro di questa misura è stata presentata come una vittoria della classe operaia mobilitata dietro i sindacati. Nella realtà, il piano Juppé passò integralmente ma la sconfitta più grossa stava nel fatto che la borghesia riuscì a ridare credito ai sindacati ed a far passare la sconfitta per una vittoria. Per altri dettagli leggi gli articoli dedicati alla denuncia di questa manovra nei n° 84 e 85 della Revue internationale.
9. Vedi il nostro articolo dedicato ai movimenti sociali in Francia,"Di fronte agli attacchi massicci del capitale, il bisogno di una risposta massiccia della classe operaia" nella Revue internationale n°114.
10. Rosa Luxemburg, Riforma o rivoluzione?
11. Rosa Luxemburg, idem.
Da più di due anni e mezzo la borghesia annuncia la ripresa ed è poi obbligata ad ogni trimestre a rinviarne la scadenza. Da più di due anni e mezzo le stime economiche sono sistematicamente al di sotto delle previsioni costringendo la classe dominante a rivederle sempre al ribasso. Cominciata nel secondo semestre del 2000, la recessione attuale è tra le più lunghe dalla fine degli anni '60 e, se dei segni di ripresa si annunciano oltre l'atlantico, questi sono ancora lontani dall'Europa e dal Giappone. Inoltre bisogna ricordare che, se gli Stati Uniti risalgono la china, ciò è dovuto essenzialmente ad un interventismo statale tra i più vigorosi di questi ultimi quaranta anni e ad una fuga in avanti nell’indebitamento che fa temere lo scoppio di una nuova bolla speculativa, questa volta immobiliare. Per quanto riguarda l'interventismo statale che mira a sostenere l'attività economica, bisogna notare come il governo americano abbia lasciato correre senza freni il deficit di bilancio. Da attivo che era nel 2001, circa 130 miliardi di dollari, il saldo di bilancio è arrivato ad un deficit stimato a 300 miliardi nel 2003 (il 3,6% del PNL). Oggi l'ampiezza di questo deficit, come anche le sue previsioni di aumento tenuto conto del conflitto iracheno e della diminuzione delle riscossioni fiscali relative all'abbassamento delle tasse, inquietano sempre di più la classe politica e l'ambiente affaristico degli Stati Uniti.
Per quanto riguarda l'indebitamento, l'abbassamento drastico dei tassi di interesse da parte della Riserva Federale ha avuto non solo per obiettivo quello di sostenere l'attività, ma ha mirato soprattutto al mantenimento della domanda di alloggi grazie alla rinegoziazione dei mutui ipotecari. L'alleggerimento del peso dei rimborsi dei prestiti immobiliari ha permesso così un sovrappiù di indebitamento concesso dalle banche. Il debito ipotecario delle case americane è così aumentato di 700 miliardi di dollari (più di due volte il deficit pubblico!). L'aumento triplicato del debito americano, dello Stato, degli alloggi ed estero spiega in che modo gli Stati Uniti hanno potuto effettuare questo salto economico più velocemente degli altri paesi. Tuttavia, tale salto potrà mantenersi solo se l’attività economica resta sostenuta nel medio termine, con il rischio di ritrovarsi come il Giappone poco più di una decina di anni, con lo scoppio di una bolla speculativa immobiliare e con un blocco dei pagamenti di fronte a tutta una serie di crediti non recuperabili.
L'Europa non può pagarsi un tale lusso poiché i suoi deficit erano già imponenti al momento dello scoppio della recessione e le conseguenze di questa ultima li hanno solo peggiorati ancora di più. La Germania e la Francia, che rappresentano il cuore economico dell'Europa, sono oggi gli ultimi della classe, con i deficit pubblici che si vanno al 3,8% per la prima ed il 4% per la seconda. Questi livelli sono già al di sopra del tetto fissato dal trattato di Maastricht (il 3%) e sottopongono questi paesi ai rimproveri della Commissione europea e alle multe previste per i contravventori. Ciò restringe alquanto le capacità dell'Europa a condurre una politica conseguente di rilancio all'altezza della posta in gioco. Inoltre, determinando l'abbassamento del Dollaro di fronte all'Euro per ridurre il loro deficit commerciale, gli Stati-Uniti vanno a pesare sul rilancio in una Europa che fa sempre più fatica a liberarsi delle eccedenze con l'esportazione. Non stupisce il fatto che i paesi dell'asse centrale europeo come la Germania, la Francia, l'Olanda e l'Italia siano in recessione e che gli altri non ne siano lontano.
Quelli che, all'epoca della caduta del muro di Berlino, hanno creduto ai discorsi della borghesia sull'avvento di una nuova era di prosperità e di apertura del "mercato dei paesi dell'Est" ne hanno solo pagato le spese. La riunificazione della Germania, lungi dal rappresentare un trampolino per il "dominio tedesco", ha costituito e costituisce ancora un pesante fardello per questo paese. La Germania che era la locomotiva dell'Europa è diventata il vagone di coda che fatica a seguire il ritmo del treno. L'inflazione è bassa e sfiora la deflazione, gli elevati tassi di interessi reali deprimono ancora di più l'attività e l'esistenza dell'Euro ormai impedisce delle politiche di svalutazione competitiva della moneta nazionale. La disoccupazione, la moderazione salariale e la recessione hanno per effetto una stagnazione del mercato interno mai vista durante i precedenti periodi di congiuntura in questo paese. Allo stesso modo, la futura integrazione dei paesi dell'Est in Europa peserà ancora più sulla congiuntura economica.
Tutto ciò ha per ineluttabile conseguenza un incremento drastico degli attacchi contro le condizioni di lavoro ed il livello di vita della classe operaia. Misure di austerità, licenziamenti massicci ed aggravamento senza precedenti dello sfruttamento sono all’ordine del giorno di tutte le borghesie nel mondo. Secondo le statistiche ufficiali, largamente sottostimate, la disoccupazione avrebbe raggiunto i 5 milioni in Germania, il 6,1% negli Stati Uniti ed i 10% in Francia alla fine del 2003. In Europa l'asse franco-tedesco, col piano Raffarin e l'agenda 2010 di Schröder, da il tono della politica che è condotta un po' dovunque: erosione del deficit di bilancio, riduzione delle tasse per gli alti redditi, facilità del diritto di licenziamento, riduzione delle indennità di disoccupazione e sussidi vari, diminuzione del rimborso delle cure sanitarie ed innalzamento dell'età pensionabile. Oggi in particolare i pensionati pagano i costi dell'austerità che distrugge definitivamente l'idea della possibile esistenza di un "ben meritato riposo" dopo una vita di duro lavoro. Negli Stati Uniti, ad esempio, col fallimento o la perdita di numerosi fondi di pensione in seguito al crac borsista, si assiste all’entrata massiccia di pensionati sul mercato del lavoro, costretti a rimettersi a lavorare per sopravvivere. La classe operaia deve far fronte ad una vasta offensiva di austerità fino all’osso, che del resto sul piano economico avrà come conseguenza il prolungamento ulteriore della recessione e quindi nuovi attacchi.
Il declino ininterrotto del tasso di crescita dalla fine degli anni '60 (Cf. Il nostro articolo "Gli orpelli della 'prosperità economica' apportati dalla crisi" nella Revue internationale n°114 ed il grafico che segue) smaschera bene l'immenso bluff saggiamente effettuato dalla borghesia durante tutti gli anni '90 sulla pretesa prosperità economica ritrovata dal capitalismo grazie alla "nuova economia", la mondializzazione e le ricette neo-liberali. Ed a ragione, la crisi non è per niente un affare di politica economica: se le ricette keynesiane degli anni '50-'60 poi neo-keynesiane degli anni '70 sono arrivate ad esaurirsi e se le ricette neo-liberali degli anni '80 e '90 non hanno potuto risolvere niente è proprio perché la crisi mondiale non è frutto di una "cattiva gestione dell'economia" ma dell'approfondirsi delle contraddizioni di fondo che caratterizzano la dinamica del capitalismo. Se la crisi non è un affare di politica economica, è ancora meno un affare di squadra governativa. Di sinistra o di destra, i governi hanno utilizzato uno dopo l'altro tutte le ricette disponibili. Gli attuali governi americano ed inglese, identificati come i più neo-liberali e pro-mondializzatori sul piano economico, sono di colori politici differenti ed utilizzano vigorosamente oggi le ricette neo-keynesiane lasciando correre i loro deficit pubblici. Allo stesso modo, a guardare più da vicino i programmi di austerità del governo Schröder (socialdemocratico-ecologista) e Raffarin (destra liberale), è facile constatare che si assomigliano come due gocce d'acqua e mettono in atto le stesse misure.
Di fronte a questa spirale di crisi e di austerità ininterrotta da più di 35 anni, una delle responsabilità maggiori dei rivoluzionari è dimostrare che essa trova le sue radici nel vicolo cieco storico del capitalismo, nell'obsolescenza di ciò che è al centro del suo rapporto di produzione fondamentale, il lavoro salariato (1). In effetti, quest'ultimo concentra contemporaneamente su di sé tutti i limiti sociali, economici e politici alla produzione del profitto capitalista e, per il modo con cui esso funziona, pone anche gli ostacoli alla realizzazione piena ed intera di questo ultimo (2). La generalizzazione del salariato fu alla base dell'espansione del capitalismo nel 19o secolo e, a partire dalla prima guerra mondiale, dell'insufficienza dei mercati solvibili rispetto alle necessità dell'accumulazione.
Contro ogni falsa spiegazione mistificatrice della crisi, è responsabilità dei rivoluzionari indicare questo vicolo cieco, mostrare come il capitalismo, anche se è stato un modo di produzione necessario e progressivo, è oggi storicamente superato e conduce l'umanità alla sua scomparsa. Come per tutte le fasi di decadenza dei modi di produzione precedenti (antico, feudale ecc.) questo vicolo cieco sta nel fatto che il rapporto sociale di produzione fondamentale è diventato troppo stretto e non è più da impulso come prima allo sviluppo delle forze produttive (3). Per la società di oggi, il salariato costituisce ormai un freno al pieno sviluppo dei bisogni dell'umanità. Solo l’abolizione di questo rapporto sociale e l'instaurazione del comunismo permetteranno all'umanità di liberarsi dalle contraddizioni che l'assalgono.
Ora, dalla caduta del muro di Berlino, la borghesia non si è fermata un solo istante nel condurre delle campagne su "l'inanità del comunismo", "l'utopia della rivoluzione" e la "diluizione della classe operaia" in una massa di cittadini la cui sola forma di azione legittima sarebbe la riforma "democratica" di un capitalismo presentato oramai come il solo orizzonte, insuperabile, dell'umanità. In questa vasta truffa ideologica, agli alter-mondialisti è stato devoluto il monopolio della contestazione. La borghesia dà loro un ruolo di primo piano come interlocutori critici privilegiati: un largo spazio è lasciato dai media alle analisi ed alle azioni di questa corrente, i loro più eminenti rappresentanti sono invitati in occasione di vertici ed altri incontri ufficiali, ecc. Ed a ragione, le tesi degli altermondialisti sono il complemento alla campagna ideologica della borghesia su "l'utopia del comunismo" dato che partono dagli stessi postulati: il capitalismo sarebbe il solo sistema possibile e la sua riforma l'unica alternativa. Per questo movimento, con l'organizzazione ATTAC in testa ed il suo consiglio "di esperti economici", il capitalismo potrebbe essere umanizzato a condizione che il "buon capitalismo regolarizzato" cacci via il "cattivo capitalismo finanziario". La crisi sarebbe la conseguenza della dérégulation neo-liberale e del dominio del capitalismo finanziario che impone la sua dittatura del 15% come rendimento obbligatorio al capitalismo industriale... tutto questo deciso in un'oscura riunione tenuta nel 1979 chiamata "il consenso di Washington". L'austerità, l'instabilità finanziaria, le recessioni, ecc. sarebbero solamente le conseguenze di questo nuovo rapporto di forze che si sarebbe stabilito in seno alla borghesia a profitto del capitale usurario. Da cui le idee di "regolamentare la finanza", "ridimensionarla" e di "indirizzare nuovamente gli investimenti verso la sfera produttiva", ecc.
In questa confusione generale sulle origini e le cause della crisi, è compito dei rivoluzionari ristabilire una comprensione chiara delle basi di questa e, soprattutto, mostrare che essa è il prodotto del fallimento storico del capitalismo. In altri termini, si tratta per essi di riaffermare in questo campo la validità del marxismo. Purtroppo, a guardare le analisi della crisi proposta dai gruppi del campo politico proletario come il PCInt. Programma Comunista o il BIPR, è facile constatare che sono lontani da una tale riaffermazione e particolarmente di non essere capaci di demarcarsi dall'ideologia corrente e sostenuta dall'alter-mondialismo. Chiaramente questi due gruppi appartengono indiscutibilmente al campo proletario e si distinguono fondamentalmente dall'area alter-mondialista per le loro denunce sulle illusioni riformistiche e per la difesa della prospettiva della rivoluzione comunista. Tuttavia la loro analisi della crisi è largamente presa in prestito dall'estremismo smesso di questa corrente.
Pezzi scelti: "I guadagni prodotti dalla speculazione sono così importanti che attraggono solo le imprese "classiche" ma anche molte altre, citiamo tra le altre, le compagnie di assicurazione o i fondi pensione di cui Enron è un eccellente esempio (…) La speculazione rappresenta il mezzo complementare, per non dire principale, per la borghesia, di appropriarsi di plusvalore (…) Una regola si è imposta, che fissa al 15% l'obiettivo minimo di rendimento per i capitali investiti nelle imprese. Per raggiungere o superare questo tasso di crescita delle azioni, la borghesia ha dovuto aumentare le condizioni di sfruttamento della classe operaia: i ritmi di lavoro sono stati intensificati, i salari reali abbassati. I licenziamenti collettivi hanno colpito centinaia di migliaia di lavoratori". (BIPR in Bilan e Perspective n°4, p.6). Possiamo già rilevare che questo è un curioso modo di porre i problemi per un gruppo che si proclama "materialista" e che considera la CCI "idealista". "Una regola si è imposta" ci dice il BIPR. Si è imposta da sola? Non faremo il torto al BIPR di attribuirgli una tale idea. È una classe, un governo o un'organizzazione umana data che ha imposto questa nuova regola; ma perché? Perché alcuni potenti di questo mondo sono improvvisamente diventati più rapaci e cattivi del solito? Perché i "cattivi" l'hanno imposto ai "buoni" (o ai "meno cattivi")?. O semplicemente perché, come considera il marxismo, le condizioni obiettive dell'economia mondiale hanno obbligato la classe dominante ad intensificare lo sfruttamento dei proletari?. Purtroppo il problema non è posto così in questo passaggio.
In più, ed è ancora più grave, questo è un discorso che potremmo leggere in qualsiasi opuscolo alter-mondialista: è la speculazione finanziaria che è diventata la principale sorgente del profitto capitalista (!), è la speculazione finanziaria che impone la sua regola del 15% alle imprese, è la speculazione finanziaria che è responsabile dell'aggravamento dello sfruttamento, dei licenziamenti massicci e dell'abbassamento degli stipendi ed è anche la speculazione finanziaria che è all'origine di un processo di deindustrializzazione e della miseria sull'insieme del pianeta "L'accumulazione dei profitti finanziari e speculativi alimenta un processo di deindustrializzazione che produce disoccupazione e miseria sull'insieme del pianeta"(idem p. 7).
In quanto al PCInt - Programma Comunista, le sue analisi non sono migliori anche se dette in termini più generali e ricoprendosi dell'autorità di Lenin: "Il capitale finanziario, le banche diventano in virtù dello sviluppo capitalista i veri attori della centralizzazione del capitale, aumentando il potere dei giganteschi monopoli. Allo stadio imperialistico del capitalismo, è il capitale finanziario che domina i mercati, le imprese, tutta la società, e questo dominio conduce esso stesso alla concentrazione finanziaria fino al punto in cui"il capitale finanziario, concentrato in poche mani ed esercitando un monopolio di fatto, preleva benefici enormi sempre crescenti sulla costituzione di ditte, le emissioni di valori, i prestiti di Stato, ecc., affermando il dominio delle oligarchie finanziarie e colpendo la società tutta intera di un tributo al profitto dei monopolisti" (Lenin, in L'imperialismo stadio supremo del capitalismo). Il capitalismo che nacque dal minuscolo capitale usurario, termina la sua evoluzione sotto forma di un gigantesco capitale usurario" (Programma Comunista n°98, p.l). Ecco di nuovo una denuncia senza appello del capitale finanziario parassitario che potrebbe piacere al più radicale degli alter mondialisti (4).
Si cercherebbe invano in questi brani una qualsiasi dimostrazione che è proprio il capitalismo come modo di produzione che ha fatto il suo tempo, che è il capitalismo come un tutto che è responsabile delle crisi, delle guerre e della miseria del mondo. Si cercherebbe invano la denuncia dell'idea centrale degli alter-mondialisti secondo la quale sarebbe il capitale finanziario il responsabile delle crisi mentre è il capitalismo come sistema che è al centro del problema. Riprendendo interi pezzi dell'argomentazione alter-mondialista, questi due gruppi del Sinistra Comunista lasciano la porta spalancata all'opportunismo teorico verso le analisi estremiste. Queste presentano la crisi come la conseguenza dell'instaurazione di un nuovo rapporto di forze che si sarebbe instaurato in seno alla borghesia tra l'oligarchia finanziaria ed i capitali industriali. Gli oligopoli finanziari avrebbero preso il sopravvento sul capitale delle imprese al momento della decisione presa a Washington di rialzare bruscamente i tassi di interesse.
In realtà, non c'è stato molto "trionfo dei banchieri sugli industriali", è la borghesia come un tutto che è passata ad una velocità superiore nella sua offensiva contro la classe operaia.
I "profitti finanziari" come base di un capitalismo usurario?
La denuncia della finanziarizzazione è oggi un tema comune a tutti gli economisti detti "critici". La spiegazione in voga tra questi "critici del capitalismo" è pretendere che il tasso di profitto è aumentato effettivamente ma che è stato confiscato dall'oligarchia finanziaria così che il tasso di profitto industriale non si è ristabilito significativamente, spiegando con ciò l'assenza di ripresa della crescita (cf. grafico sotto). È esatto che dall'inizio degli anni 80, in seguito alla decisione presa nel 1979 di aumentare i tassi di interesse, una parte importante del plusvalore estratto non è più accumulato attraverso l'autofinanziamento delle imprese ma è distribuito sotto forma di redditi finanziari. La risposta dominante a questa constatazione è presentare questa crescita della finanziarizzazione come un salasso sul profitto globale tale da impedire il suo investimento in maniera produttiva. La debolezza della crescita economica si spiegherebbe, dunque, attraverso il parassitismo della sfera finanziaria, con l'ipertrofia del "capitale usurario". Da ciò le "spiegazioni" pseudo marxiste che si appoggiano sulla debolezza di Lenin "il capitale finanziario, concentrato in poche mani ed esercitando un monopolio di fatto, preleva benefici enormi sempre crescenti sulla costituzione di ditte, le emissioni di valori, i prestiti di Stato, ecc., affermando il dominio delle oligarchie finanziarie e colpendo la società tutta intera di un tributo al profitto dei monopolisti", secondo le quali i profitti finanziari eserciterebbero un vero "salasso" sulle imprese (il famoso 15%).
Questa analisi è un ritorno all'economia volgare dove il capitale potrebbe scegliere tra l'investimento produttivo e gli spostamenti finanziari in funzione del livello del tasso di profitto dell'impresa e del tasso di interesse. Su un piano più teorico, questi approcci della finanza come elemento parassitario rinviano a due teorie del valore e del profitto.
Una, marxista, dice che il valore esiste prima ancora della sua ripartizione ed è esclusivamente prodotto nel processo di produzione attraverso lo sfruttamento della forza lavoro. Nel Libro III del Capitale, Marx precisa che il tasso di interesse è "... una parte del profitto che il capitalista attivo deve pagare al proprietario del capitale, invece di mettersela in tasca". In ciò Marx si distingue radicalmente dell'economia borghese che presenta il profitto come somma dei redditi relativi ai vari fattori (redditi del fattore lavoro, redditi del fattore capitale, redditi del fattore fondiario, ecc.). Lo sfruttamento sparisce poiché ciascuno dei fattori è remunerato secondo il suo contributo alla produzione: "per gli economisti volgari che tentano di presentare il capitale come fonte indipendente dal valore e dalla creazione di valore, questa forma è evidentemente una fortuna, poiché maschera l'origine del profitto" (Marx). Il feticismo della finanza consiste nell'illusione che la detenzione di una parte di capitale (un'azione, un Buono del Tesoro, un obbligo, ecc.) va, in senso proprio del termine, a "produrre" degli interessi. Detenere un titolo è comprarsi un diritto a ricevere una frazione del valore creato, ma ciò non crea in sé nessuno valore. È solo ed esclusivamente il lavoro che conferisce del valore a ciò che è prodotto. Il capitale, la proprietà, un'azione, un libretto di risparmio, una scorta di macchine non producono alcunché per essi stessi. Sono gli uomini che producono (5). Il capitale "riporta", come un cane da caccia riporta la selvaggina. Non crea niente, ma dà al suo proprietario il diritto ad una parte di ciò che ha creato colui che se ne è servito. In questo senso il capitale designa più un rapporto sociale che un oggetto: una parte del frutto del lavoro di alcuni finisce nelle mani di chi possiede il capitale. L'ideologia alter-mondialista inverte l'ordine delle cose confondendo l'estrazione del plusvalore con la sua ripartizione. Il profitto capitalista trae esclusivamente la sua origine dallo sfruttamento del lavoro, non esistono profitti speculativi per l'insieme della borghesia (anche se questo o quel settore particolare può guadagnarci nella speculazione); la Borsa non crea valore.
L'altra teoria, che flirta con l'economia volgare, concepisce il profitto globale come la somma di un profitto industriale da un lato e di un profitto finanziario dall’altro. Il tasso di accumulazione sarebbe debole perché il profitto finanziario sarebbe superiore al profitto industriale. È una visione ereditata dai defunti partiti stalinisti che hanno propagandato una critica "popolare" del capitalismo visto come la confisca di un profitto "legittimo" da parte di un'oligarchia parassitaria (le 200 famiglie, ecc.). L'idea è la stessa: essa si basa su un vero e proprio feticismo della finanza secondo il quale la Borsa sarebbe un mezzo per creare del valore allo stesso titolo dello sfruttamento del lavoro. In ciò risiede tutta la mistificazione sulla tassa Tobin, la regolamentazione e l'umanizzazione del capitalismo propagandato dagli alter-mondialisti. Tutto ciò che trasforma una contraddizione susseguente (la finanziarizzazione) nella contraddizione principale porta in sé il pericolo di uno scivolamento tipicamente gauchista che consiste nel separare il grano buono dal loglio: da un lato il capitalismo che investe, dall'altro quello che specula. Ciò conduce a vedere la finanziarizzazione come una specie di parassita su un corpo capitalista sano. La crisi non sparirà, anche dopo l'abolizione del "gigantesco capitale usurario" così caro a Programma Comunista. In un certo modo, insistere sulla finanziarizzazione del capitalismo conduce a sottovalutare la profondità della crisi lasciando intendere che essa prenderebbe origine dal ruolo parassita della finanza che esigerebbe tassi di profitto troppo elevati alle imprese impedendo loro di realizzare investimenti produttivi. Se fosse proprio questa la natura della crisi, allora una "eutanasia dei beneficiari delle rendite" (Keynes) basterebbe a risolverla.
Questi slittamenti gauchisti a livello di analisi portano a presentare un certo numero di dati economici che, citando delle cifre da capogiro, cercano di dimostrare questo dominio assoluto della finanza e l'enormità dei salassi che opera: "… le grandi imprese tendono ad orientare i loro investimenti verso i mercati finanziari, supposti essere più "redditizi" (...) Questo mercato fenomenale si sviluppa ad una velocità molto superiore a quella della produzione (...) Per quanto riguarda la speculazione monetaria su 1300 miliardi di dollari che si spostavano nel 1996, ogni giorno tra le differenti monete, dal 5 all’ 8% al massimo corrispondevano al pagamento di merci o di servizi venduti da un paese all'altro (è conveniente aggiungervi le operazioni di cambio non speculative). L'85% di questi 1300 miliardi corrispondevano alle operazioni quotidiane puramente speculative dunque! Le cifre vanno riviste, scommettiamo che l'85% è attualmente superato" (BIPR, Bilan e Perspective n°4, p.6). Si, esse sono state superate e l’ammontare ha raggiunto i 1500 miliardi di dollari, cioè quasi la totalità del debito del Terzo Mondo... ma queste cifre non fanno paura che agli ignoranti perché non hanno nessuno senso! In realtà questo denaro non fa che girare e le somme annunciate sono tanto più importanti quanto più la giostra va veloce. Basta immaginare una persona che converte 100 ogni mezz'ora per speculare tra le monete; alla fine delle 24 ore le transazioni totali si saranno elevate a 4800, e se specula ogni quarto d'ora le transazioni totali avranno raddoppiato... ma questa somma è puramente virtuale perché la persona possiede sempre 100, più 5 o meno 10 a secondo del suo talento nell'arte della speculazione. Purtroppo questa presentazione mediatica dei fatti, ripresa dal BIPR, rende credibili le interpretazioni della crisi come un prodotto dell'azione parassitaria della finanza.
In realtà è l'aumento della sfera finanziaria che si spiega attraverso l’aumento del plusvalore non accumulato. È la crisi di sovrapproduzione e dunque la rarefazione dei luoghi di accumulazione redditizi che genera la retribuzione di plusvalore sotto forma di redditi finanziari, e non la finanza che si oppone o si sostituisce all'investimento produttivo. La finanziarizzazione corrisponde all'aumento di una frazione del plusvalore che non riesce più ad essere reinvestita con profitto (6). La distribuzione di redditi finanziari non è automaticamente incompatibile con l'accumulazione basata sull'autofinanziamento delle imprese. Quando i profitti estratti dall'attività economica "attraggono capitale", i redditi finanziari sono reinvestiti e partecipano in modo esterno all'accumulazione delle imprese. Ciò che bisogna spiegare, non è il fatto che i profitti escono dalla porta sotto forma di distribuzione di redditi finanziari, ma che questi ultimi non ritornano per la finestra per essere reinvesti produttivamente nel circuito economico. Se una parte significativa di queste somme fosse reinvestita, ciò dovrebbe manifestarsi con un aumento del tasso di accumulazione. Se ciò non si produce è perché c'è crisi da sovrapproduzione e dunque rarefazione dei luoghi di accumulazione redditizio.
Il parassitismo finanziario è un sintomo, una conseguenza delle difficoltà del capitalismo e non la causa alla radice di queste difficoltà. La sfera finanziaria è la vetrina della crisi perché è là che nascono le bolle borsiste, i crolli monetari e le turbolenze bancarie. Ma questi sconvolgimenti sono la conseguenza di contraddizioni che hanno la loro origine nella sfera produttiva.
Che cosa è successo da una ventina anni? L'austerità e l'abbassamento degli stipendi (7) hanno permesso di ristabilire il tasso di profitto delle imprese ma questo aumento dei profitti non ha portato ad un rialzo del tasso di accumulazione (l'investimento) e dunque della produttività del lavoro. La crescita è restata così in depressione (Cf. grafico sotto). In breve, la frenata del costo salariale ha ristretto i mercati, nutrito i redditi finanziari e non il re-investimento dei profitti. Ma perché oggi c'è un così debole re-investimento mentre i profitti delle imprese sono stati ristabiliti? Perché non riparte l'accumulazione in seguito alla risalita del tasso di profitto da più di vent'anni? Marx, ed in continuità con lui Rosa Luxemburg, ci hanno insegnato che le condizioni della produzione (l'estrazione del plusvalore) sono una cosa e che le condizioni per la realizzazione di questo pluslavoro cristallizzato nelle merci prodotte ne sono un'altra. Il pluslavoro cristallizzato nella produzione diventa del plusvalore sonante e traboccante, del plusvalore accumulabile, solo se le merci prodotte vengono vendute sul mercato. È questa differenza fondamentale tra le condizioni della produzione e quelle della realizzazione che ci permette di comprendere perché non c'è legame automatico tra i tassi di profitto e la crescita.
Medie ponderate secondo il PIL per i <<G6>> (Stati Uniti, Giappone, Germania, Francia, Regno Unito, Italia) Fonte: OCDE, Prospettive economiche, 2003
Il grafico sopra riassume bene l'evoluzione del capitalismo dalla Seconda Guerra mondiale. L'eccezionale fase di prosperità dopo la ricostruzione vede tutte le variabili fondamentali del profitto, dell'accumulazione, della crescita e della produttività del lavoro aumentare o fluttuare a dei livelli elevati fino alla riapparizione della crisi aperta a cavallo degli anni 1960-70. L'esaurimento dei guadagni di produttività che comincia fin dagli anni '60 trascina le altre variabili in una caduta d’insieme fino all'inizio degli anni '80. Da allora il capitalismo è in una situazione completamente inedita sul piano economico contrassegnata da una configurazione che associa un tasso di profitto elevato con una produttività del lavoro, un tasso di accumulazione e dunque un tasso di crescita mediocre. Questa divergenza tra le evoluzioni del tasso di profitto e le altre variabili da più di 20 anni non può comprendersi se non nel contesto della decadenza del capitalismo. Non è così per il BIPR che reputa oggi che il concetto di decadenza è da relegare nella pattumiera della storia: "Quale ruolo gioca dunque il concetto di decadenza sul terreno della critica dell'economia politica militante, e cioè dell'analisi approfondita dei fenomeni e delle dinamiche del capitalismo nel periodo che viviamo? Nessuno. (...) Non è col concetto di decadenza che si possono spiegare i meccanismi della crisi, né denunciare il rapporto tra la crisi e le finanziarizzazioni, il rapporto tra questa e le politiche delle superpotenze per il controllo della rendita finanziaria e delle sue fonti" (BIPR, "Elementi di riflessione sulle crisi della CCI"). Il BIPR preferisce abbandonare il concetto chiave di decadenza su cui fondava le proprie posizioni (8) per sostituirlo con i concetti in voga nel campo alter-mondialista di "finanziarizzazione" e di "rendita finanziaria" per "comprendere la crisi e le politiche delle supepotenze". Arriva anche ad affermare che "...questi concetti [in particolare quello di decadenza] sono estranei al metodo ed all'arsenale della critica dell'economia politica", idem.
Perché il quadro della decadenza è indispensabile per comprendere la crisi oggi? Perché il declino ininterrotto dei tassi di crescita dalla fine degli anni '60 in seno ai paesi dell'OCSE, con rispettivamente il 5,2%, il 3,5%, il 2,8%, 2,6% e 2,2% per i decenni '60, '70, '80, '90 e 2000-02, confermano il ritorno progressivo del capitalismo alla sua tendenza storica aperta dalla Prima Guerra mondiale. La parentesi dell'eccezionale fase di crescita (1950-75) si è definitivamente chiusa (9). Come una molla rotta che, dopo un estremo sussulto, ritrova la sua posizione di origine, il capitalismo ritorna inesorabilmente ai ritmi di crescita che prevalevano nel 1914-50. Contrariamente a ciò che gridano ai quattroventi i nostri censori, la teoria della decadenza del capitalismo non è per niente un prodotto specifico della stagnazione degli anni trenta (10). Costituisce l’essenza stessa del materialismo storico, il segreto infine trovato della successione dei modi di produzione nella storia e, a questo titolo, dà il quadro di comprensione per analizzare l'evoluzione del capitalismo e, in particolare, del periodo che si è aperto al momento della Prima Guerra mondiale. Essa ha una portata generale; è valida per tutta un'era storica e non dipende affatto da un periodo particolare o da una congiuntura economica momentanea. Del resto, anche integrando l'eccezionale fase di crescita tra il 1950 ed il 1975, due guerre mondiali, la depressione degli anni '30 e più di trentacinque anni di crisi e di austerità presentano un bilancio senza appello della decadenza del capitalismo: appena 30 - 35 anni, contando largo, di "prosperità" per 55 - 60 anni di guerra e/o di crisi economica, ed il peggio deve ancora venire. La tendenza storica al freno della crescita delle forze produttive, per dei rapporti capitalisti di produzione divenuti obsoleti costituisce la regola, il quadro che permette di comprendere l'evoluzione del capitalismo, ivi compresa l'eccezione della fase di prosperità che ha fatto seguito alla seconda guerra mondiale (vi ritorneremo in prossimi articoli). Invece, come per la corrente riformistica che si è lasciata imbambolare dalle performance del capitalismo della Belle Époque, è l'abbandono della teoria della decadenza che è un puro prodotto degli anni di prosperità.
Peraltro il grafico ci mostra chiaramente che il meccanismo che è alla base della risalita del tasso di profitto non è né un rifiorire della produttività del lavoro, né uno sgravio in capitale. Ciò ci permette di spazzare via anche le chiacchiere sulla pretesa "nuova rivoluzione tecnologica". Alcuni universitari, stupefatti dall'informatica e caduti nella rete delle campagne della borghesia sulla "nuova economia"... confondono la velocità del loro computer con la produttività del lavoro: non è perché il Pentium 4 gira più velocemente della prima generazione di questo processore che l'impiegato batterà duecento volte più rapidamente alla sua macchina e potrà quindi accrescere di altrettanto la produttività. Il grafico mostra chiaramente che la produttività del lavoro continua a diminuire dagli anni '60. Ed a ragione. Malgrado il ristabilimento dei profitti, il tasso d'accumulazione (gli investimenti alla base di possibili guadagni di produttività) non si è ripreso. La "rivoluzione tecnologica" esiste solamente nei discorsi delle campagne borghesi e nell'immaginazione di quelli che li bevono. Più seriamente, questa constatazione empirica del rallentamento della produttività (del progresso tecnico e dell'organizzazione del lavoro) ininterrotto dagli anni '60, contraddice l'immagine mediatica, ben ancorata nelle teste, di un cambiamento tecnologico crescente, di una nuova rivoluzione industriale che sarebbe portata oggi dall'informatica, le telecomunicazioni, Internet ed il multimediale. Come spiegare la forza di questa mistificazione che ribalta la realtà nelle nostre teste?
Innanzitutto, bisogna ricordare che i progressi di produttività all'indomani della Seconda Guerra mondiale erano ben più spettacolari di quelli che ci vengono presentati attualmente come "nuova economia". La diffusione dell'organizzazione del lavoro in tre squadre di 8 ore, la generalizzazione della catena mobile nell'industria, i veloci progressi nello sviluppo e la generalizzazione dei trasporti di ogni tipo (camion, treno, aereo, automobile, navi), la sostituzione del carbone per un petrolio più conveniente, l'invenzione delle materie plastiche e la sostituzione di queste a materiali più costosi, l'industrializzazione dell'agricoltura, la generalizzazione del raccordo all'elettricità, al gas naturale, all'acqua corrente, alla radio ed al telefono, la meccanizzazione della vita domestica con lo sviluppo dell'elettrodomestico, ecc. sono molto più spettacolari in termini di progresso di produttività di tutto ciò che apportano gli sviluppi nell'informatica e nelle telecomunicazioni. Da allora, i progressi di produttività del lavoro non hanno fatto che decrescere dai Golden Sixties.
In secondo luogo, perché viene mantenuta costantemente una confusione tra le apparizioni di nuovi beni di consumo ed i progressi di produttività. Il flusso di innovazioni, la moltiplicazione di novità per quanto straordinarie possano essere (DVD, GSM, Internet, ecc.) a livello di beni di consumo, non ricoprono il fenomeno del progresso della produttività. Quest'ultimo significa la capacità ad economizzare sulle risorse richieste per la produzione di un bene o di un servizio. L'espressione progresso tecnico deve sempre essere considerata nel senso di progresso delle tecniche di produzione e/o di organizzazione, dallo stretto punto di vista della capacità ad economizzare sulle risorse utilizzate nella fabbricazione di un bene o la prestazione di un servizio. Per quanto formidabili siano, i progressi numerici non si traducono in progressi significativi di produttività in seno al processo di produzione. Il bluff della "nuova economia" è tutto qui.
Infine, contrariamente alle affermazioni dei nostri censori che negano la realtà della decadenza e la validità degli apporti teorici di Rosa Luxemburg - e che fanno della caduta tendenziale del tasso del profitto l'alfa e l'omega dell'evoluzione del capitalismo -, il corso dell'economia dopo l'inizio degli anni '80 ci mostra chiaramente che non è perché questo tasso risale che la crescita riparte. C’è certamente un legame forte tra i tassi di profitto ed il tasso di accumulazione ma non è meccanico, né univoco: sono due variabili parzialmente indipendenti. Ciò contraddice formalmente le affermazioni di quelli che fanno dipendere obbligatoriamente la crisi da sovrapproduzione dalla caduta del tasso di profitto ed il ritorno della crescita alla sua risalita: "Questa contraddizione, la produzione del plusvalore e la sua realizzazione, appare come una sovrapproduzione di merci e dunque come causa della saturazione del mercato che si oppone al processo di accumulazione, ciò che, a sua volta mette il sistema nel suo insieme nell'impossibilità di controbilanciare la caduta del tasso di profitto. In realtà, il processo è inverso. (...) Sono il ciclo economico ed il processo di valorizzazione che rendono 'solvibile’ o ‘insolvibile’ il mercato. È partendo delle leggi contraddittorie che regolano il processo di accumulazione che si può arrivare a spiegare la 'crisi' del mercato" (Testo di presentazione di Battaglia Comunista alla prima conferenza dei gruppi della Sinistra comunista, maggio 1977). Oggi possiamo chiaramente constatare che il tasso di profitto risale da quasi una ventina di anni mentre la crescita resta depressa e la borghesia non ha mai parlato tanto di deflazione come in questo momento. Non è perché il capitalismo riesce a produrre sufficientemente profitto che crea automaticamente, attraverso questo stesso meccanismo, il mercato solvibile dove sarà capace di trasformare il pluslavoro cristallizzato nei suoi prodotti in plusvalore sonante e traboccante che gli permette di reinvestire i suoi profitti. L'importanza del mercato non dipende automaticamente dall'evoluzione del tasso di profitto: come gli altri parametri che condizionano l'evoluzione del capitalismo, il mercato è una variabile parzialmente indipendente. È la comprensione di questa differenza fondamentale tra le condizioni della produzione e quelle della realizzazione, già ben messa in evidenza da Marx ed approfondita magistralmente da Rosa Luxemburg, che ci permette di comprendere perché non c'è automatismo tra i tassi di profitto e la crescita.
Rigettando la decadenza come quadro di comprensione del periodo attuale e della crisi, individuando nella speculazione finanziaria la causa di tutte le disgrazie del mondo e sottovalutando lo sviluppo del capitalismo di Stato su tutti i piani, i due più importanti gruppi della Sinistra comunista all'infuori della CCI - Programma Comunista ed il BIPR - non possono offrire un orientamento chiaro e coerente alle lotte di resistenza della classe operaia. Basta leggere le analisi che fanno della politica della borghesia in materia di austerità e le conclusioni che traggono dalla loro analisi della crisi per rendersene conto: "Durante gli anni '50 le economie capitaliste si rimisero in rotta e la borghesia vide infine rifiorire in modo duraturo i suoi profitti. Questa espansione, che è proseguita per il decennio successivo, si è dunque appoggiata su uno sviluppato ricorso al credito e si è fatta con l'appoggio degli Stati. Essa si é tradotta innegabilmente in un miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori (sicurezza sociale, convenzioni collettive, innalzamento degli stipendi...). Queste concessioni fatte dalla borghesia, sotto la pressione della classe operaia, si traducono con una caduta del tasso di profitto, fenomeno in sé ineluttabile, legato alla dinamica interna del capitale. (...) Se all'inizio dello stadio dell'imperialismo, i profitti immagazzinati grazie allo sfruttamento delle colonie e dei loro popoli avevano permesso alle borghesie dominanti di garantire una certa pace sociale facendo beneficiare la classe operaia di una frazione dell'estorsione del plusvalore, oggi non è più così, dato che la logica speculativa implica una rimessa in causa di tutte le conquiste sociali strappate in decenni precedenti dai lavoratori dei 'paesi centrali' alla loro borghesia" (BIPR, in Bilan et perspectives n°4, p. da 5 a 7).
Anche qui possiamo constatare che l'abbandono del quadro della decadenza spalanca le porte alle concessioni verso le analisi gauchiste. Il BIPR preferisce ricopiare le favole dei gauchiste sulle "conquiste sociali (sicurezza sociale, convenzioni collettive, rialzo degli stipendi,...)" che sarebbero stati delle "concessioni fatte dalla borghesia sotto la pressione della classe operaia" e che "la logica speculativa" attuale rimette in causa, piuttosto che appoggiarsi sui contributi teorici tramandati dai gruppi della Sinistra comunista internazionale (Bilan, Communisme, ecc.), che analizzavano queste misure come mezzi messi in campo dalla borghesia per fare dipendere ed annettere la classe operaia allo Stato!
In effetti, nella fase ascendente del capitalismo, lo sviluppo delle forze produttive e del proletariato era insufficiente per minacciare il dominio borghese e permettere una rivoluzione vittoriosa a scala internazionale. E’ per questo motivo, anche se la borghesia ha fatto di tutto per sabotare l'organizzazione del proletariato, che quest’ultimo ha potuto, con le sue lotte accanite, costituirsi in "classe per sé" in seno al capitalismo mediante i propri organi che erano i partiti operai ed i sindacati. L'unificazione del proletariato si è realizzata mediante le lotte per strappare al capitalismo delle riforme che portassero a dei miglioramenti delle condizioni di esistenza della classe: riforme sul terreno economico e riforme nel dominio politico. Il proletariato ha acquisito, in quanto classe, il diritto di cittadinanza nella vita politica della società, o, per riprendere i termini di Marx nella Miseria della filosofia: la classe operaia ha conquistato il diritto di esistere e di affermarsi in modo permanente nella vita sociale in quanto "classe per sé", e cioè come classe organizzata con i propri luoghi di incontro quotidiano, le sue idee ed il suo programma sociale, le sue tradizioni ed anche i suoi canti.
All'epoca dell'entrata del capitalismo nella fase di decadenza nel 1914, la classe operaia ha dimostrato la sua capacità a rovesciare il dominio della borghesia costringendo questa a fermare la guerra e sviluppando un'ondata internazionale di lotte rivoluzionarie. Da questo momento, il proletariato costituisce un pericolo potenziale permanente per la borghesia. E’ per tale motivo che essa non può più tollerare che la classe nemica possa organizzarsi in modo permanente sul suo proprio terreno, possa vivere e crescere in seno alle sue proprie organizzazioni. Lo Stato estende il suo dominio totalitario su tutti gli aspetti della vita della società. Tutto è serrato dai suoi tentacoli onnipresenti. Tutto ciò che vive nella società deve sottomettersi incondizionatamente allo Stato o deve affrontarlo in una lotta mortale. Il tempo in cui il capitale poteva tollerare l'esistenza di organi proletari permanenti è superato. Lo Stato caccia dalla vita sociale il proletariato organizzato come forza permanente. "Dalla Prima Guerra mondiale, parallelamente allo sviluppo del ruolo dello Stato nell'economia, si sono moltiplicate le leggi che reggono i rapporti tra capitale e lavoro, creando un quadro ristretto di 'legalità' all’ interno del quale la lotta proletaria è circoscritta e ridotta all'impotenza" (estratto dal nostro opuscolo I sindacati contro la classe operaia). Questo capitalismo di Stato sul piano sociale significa la trasformazione di ogni vita della classe in surrogato del campo borghese. Lo Stato si è impadronito, attraverso i sindacati in certi paesi, direttamente in altri, delle diverse forme di solidarietà e di soccorso che erano state create ed adottate dalla classe operaia per tutta la seconda metà del diciannovesimo secolo (casse di sciopero, organizzazioni di soccorso in caso di malattia o di licenziamento). La borghesia ha strappato la solidarietà politica dalle mani del proletariato per trasferirla in solidarietà economica nelle mani dello Stato. Suddividendo il salario in una retribuzione diretta data dal padrone ed una retribuzione indiretta data dallo Stato, la borghesia ha consolidato potentemente la mistificazione che consiste nel presentare lo Stato come un organo al disopra delle classi, garante dell'interesse comune e della sicurezza sociale della classe operaia. La borghesia è riuscita a legare materialmente ed ideologicamente la classe operaia allo Stato. Tale era l'analisi della Sinistra italiana e della Frazione belga della Sinistra comunista internazionale a proposito delle prime casse di assicurazioni di disoccupazione e di soccorso reciproco messa in opera dallo Stato durante gli anni 30 (11).
Che cosa dice il BIPR alla classe operaia? Innanzitutto che la "logica speculativa" sarebbe responsabile della "rimessa in causa di tutte le conquiste sociali"... ed ecco di nuovo il male assoluto della 'fînanziarizzazione'! Il BIPR dimentica che la crisi e gli attacchi contro la classe operaia non hanno aspettato l'apparizione de "la logica speculativa" per abbattersi sul proletariato. Il BIPR crede veramente, come il suo scritto lascia intendere, che il futuro sorriderà alla classe operaia una volta che la "logica speculativa" sarà sradicata? Al contrario, questa mistificazione da estrema sinistra della borghesia che vuol fa credere che la lotta contro l'austerità dipenderebbe dalla lotta contro la logica speculativa è da combattere nella maniera più vigorosa possibile!
Ma c'è qualcosa di più grave! È una grossolana mistificazione fare credere al proletariato che la sicurezza sociale, le convenzioni collettive ed anche il meccanismo di rialzo dei salari attraverso l'indicizzazione o la scala mobile sarebbero delle "conquiste sociali strappate con la dura lotta". Sì, la riduzione oraria della giornata di lavoro, l'interdizione dallo sfruttamento dei bambini, l'interdizione del lavoro di notte per le donne, ecc. hanno costituito delle vere concessioni strappate dalla dura lotta della classe operaia nella fase ascendente del capitalismo. Ma le pretese "conquiste sociali", come la sicurezza sociale o le convenzioni collettive registrate nei Patti Sociali per la Ricostruzione non hanno niente da vedere con la lotta della classe operaia. Classe disfatta, esausta per la guerra, ubriaca e mistificata dal nazionalismo, drogata di euforia alla Liberazione, non è lei che, con la lotta, ha strappato queste "conquiste". È per iniziativa della stessa borghesia in seno ai governi in esilio che i Patti Sociali per la Ricostruzione sono stati elaborati mettendo in opera tutti questi meccanismi di capitalismo di Stato. È la borghesia che ha preso l'iniziativa, tra il 1943 e 1945, in piena guerra (!), di riunire tutte "le forze vive della nazione", tutti i "partner sociali", mediante riunioni tripartitiche costituite da rappresentanti del padronato, del governo e dei differenti partiti e sindacati, e cioè nella più perfetta delle concordie nazionali del movimento della Resistenza, per pianificare la ricostruzione delle economie distrutte e negoziare socialmente la difficile fase di ricostruzione. Non ci sono state "concessioni fatte dalla borghesia sotto la pressione della classe operaia" nel senso di una borghesia costretta ad accettare un compromesso di fronte ad una classe operaia mobilitata sul suo terreno e che sviluppa una strategia in rottura col capitalismo, ma dei mezzi messi in opera di concerto da tutti i componenti della borghesia (padronato, sindacato, governo) per controllare socialmente la classe operaia al fine di portare a termine la ricostruzione nazionale (12). Dobbiamo forse ricordare che è stata la borghesia, nell'immediato dopoguerra, a creare con determinazione ogni specie di sindacato, come la CFTC in Francia o la CSC in Belgio?
È evidente che i rivoluzionari denunciano ogni abuso sia sullo stipendio diretto che sullo stipendio indiretto, è evidente che i rivoluzionari denunciano gli attentati a livello di vita quando la borghesia riduce la sicurezza sociale ad un bene effimero, ma mai i rivoluzionari possono difendere il principio stesso del meccanismo messo in atto dalla borghesia per legare la classe operaia allo Stato (13)! I rivoluzionari devono denunciare al contrario le logiche ideologiche e materiali che sottendono questi meccanismi come la pretesa "neutralità dello Stato", la "solidarietà sociale organizzata dallo Stato", ecc.
Di fronte alla posta in gioco determinata dall’acuirsi generale delle contraddizioni del modo di produzione capitalista e di fronte alle difficoltà che incontra la classe operaia per far fronte a questa posta in gioco, tocca ai rivoluzionari sviluppare l'approfondimento necessario per rispondere ai nuovi problemi posti dalla storia. Ma questo approfondimento non può basarsi sulle false analisi propagandate dai settori dell’estrema sinistra dell'apparato politico della borghesia. Solo poggiandosi saldamente sul marxismo e sulle esperienze della Sinistra comunista, particolarmente sull'analisi della decadenza del capitalismo, che i rivoluzionari saranno all'altezza della loro responsabilità.
C.Mcl
1. Poiché, come scrive Marx, "Il capitale suppone dunque il lavoro salariato, il lavoro salariato suppone il capitale. Essi sono la condizione uno dell'altro; si creano reciprocamente". (Lavoro salariato e capitale).
2. Non possiamo, nel contesto di questo articolo, ritornare su ciò che Marx ed i teorici marxisti hanno scritto sulle contraddizioni che generano la generalizzazione del lavoro salariato, e cioè la trasformazione della forza lavoro in merce. Per maggiori precisioni su questi lavori dei marxisti, rinviamo il lettore particolarmente al nostro opuscolo "La decadenza del capitalismo" come ai nostri articoli della Revue Internationale.
3. "Ad un certo grado del loro sviluppo le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione coi rapporti di produzione esistenti o, per usare un termine giuridico, con i rapporti di proprietà nel cui ambito si erano mosse fino a quel momento. Da che erano forme di sviluppo delle forze produttive questi rapporti si tramutano in vincoli che frenano tali forze." (Karl Marx, Prefazione di "Introduzione alla critica dell'economia politica")
4. Malauguratamente Lenin non è qui di grande aiuto perché il suo studio sull'imperialismo, per decisivo che sia su certi aspetti dell'evoluzione del capitalismo e della posta in gioco inter-imperialista nella svolta tra il 19° ed il 20° secolo, dà un'importanza smisurata al ruolo del capitale finanziario e sfiora dei processi ben più fondamentali all'epoca come lo sviluppo del capitalismo di Stato (cf. Revue internatiionale n°19 "Sull'imperialismo" e Revue Internationale n°3 e 4 "Capitalismo di Stato e legge del valore"). Capitalismo di Stato che, contrariamente all'analisi di Hilferding-Lenin, restringerà drasticamente il potere della finanza a partire dall'esperienza della crisi del '29 per poi riaprire progressivamente le porte ad una certa libertà a partire dagli anni '80. Ciò che qui è decisivo, è che sono gli Stati-nazione che hanno diretto le cose e non l'internazionale fantasma dell'oligarchia finanziaria che avrebbe imposto il suo diktat una sera del 1979 a Washington.
5. Per convincersene basta immaginare due situazioni limite: in una tutte le macchine sono state distrutte e solo gli uomini rimangono e nell'altra tutta l'umanità è decimata e solo le macchine restano!
6. Del resto il fatto che da un bel po’ i tassi di autofinanziamento delle imprese sono superiori al 100% riduce questa tesi a nulla poiché ciò vuole dire che le imprese non hanno bisogno della finanza per finanziare i loro investimenti.
7. La parte degli stipendi nel valore aggiunto in Europa è passata dal 76% al 68% tra il 1980 ed il 1998 e, dato che le disuguaglianze salariali sono aumentate notevolmente durante lo stesso periodo, ciò significa che la diminuzione dello stipendio medio dei lavoratori è ben più conseguente di quanto lascia intravedere questa statistica.
8. Citiamo, tra l'altro, il testo del BIPR presentato alla prima conferenza dei gruppi della Sinistra comunista; estratto dal paragrafo intitolato "Crisi e decadenza": "Quando questa ha cominciato a manifestarsi il sistema capitalista ha cessato di essere un sistema progressivo, e cioè necessario allo sviluppo delle forze produttive, per entrare in una fase di decadenza caratterizzata da tentativi di risolvere le sue contraddizioni insolubili, dandosi delle nuove forme organizzative da un punto di vista produttivo (…) In effetti, l'intervento progressivo dello Stato nell'economia deve essere considerato come il segno dell'impossibilità di risolvere le contraddizioni che si accumulano all’interno dei rapporti di produzione ed è dunque il segno della sua decadenza".
9. Rinviamo il lettore alla pubblicazione del rapporto del nostro 15° Congresso internazionale sulla crisi economica nel numero 114 della Revue Internazionale che, senza togliere niente al carattere eccezionale del periodo 1950-75, demistifica innanzitutto i tassi di crescita calcolati nel periodo di decadenza e demistifica poi quelli concernenti in particolare il periodo seguito alla Seconda Guerra mondiale che è nettamente sopravvalutato.
10. * "... la teoria della decadenza, come deriva dalle concezioni di Trotsky, di Bilan, del GCF e della CCI, oggi non è più adatta alla comprensione dello sviluppo reale del capitalismo lungo tutto il ventesimo secolo, e particolarmente a partire dal 1945 (…). Per ciò che riguarda i comunisti della prima metà del secolo, ciò può spiegarsi abbastanza facilmente: gli avvenimenti che si succedono su tre decenni, tra il 1914 e 1945, sono tali (…) che sembrano dare credito alla tesi del declino storico del capitalismo e confermare le previsioni fatte; era logico non vedere nel capitalismo che un sistema in putrefazione, all’ultimo respiro e decadente" (Circolo di Parigi in "Che non fare"?, p. 31).
* "Il concetto di decadenza del capitalismo è apparso nella 3a Internazionale, dove è stato sviluppato in particolare da Trotsky (…). Trotsky precisò la sua concezione assimilando la decadenza del capitalismo ad un arresto puro e semplice della crescita delle forze produttive della società. Questa visione sembrava corrispondere abbastanza bene alla realtà della prima metà di questo secolo (…). La visione di Trotsky fu ripresa nell’essenziale dalla Sinistra italiana raggruppata in Bilan prima della 2° guerra mondiale, poi dalla Sinistra Comunista di Francia (GCF), dopo quest’ultima". (Prospettiva Internazionalista "Verso una nuova teoria della decadenza del capitalismo").
* "L'ipotesi di un 'freno irreversibile' delle forze produttive non è che la deduzione, sul piano teorico, di un'impressione generale tramandata dal periodo che lo segna tra due guerre dove l'accumulazione capitalista ha, in modo congiunturale, difficoltà a ripartire". (Comunismo o Civiltà, "Dialettica delle forze produttive e dei rapporti di produzione nella teoria comunista").
* "Dopo la Seconda Guerra mondiale, tanto i trotskisti che i comunisti di sinistra ritornano con la convinzione rinforzata che il capitalismo era decadente e sull'orlo del crollo. Considerando il periodo che esattamente era appena trascorso, la teoria non sembrava così irrealistica, il crac del 1929 era stato seguito dalla depressione durante la maggior parte degli anni '30 ed poi da un'altra guerra catastrofica (…). Adesso, mentre possiamo dire che i comunisti di sinistra hanno difeso le verità importanti dell'esperienza del 1917-21 contro la versione leninista dei trotskisti, il loro oggettivismo economico e la teoria meccanica delle crisi e del crollo, che condividono coi leninisti, li rendono incapaci di rispondere alla nuova situazione caratterizzata da un 'boom' di lunga durata (…). Dopo la Seconda Guerra mondiale il capitalismo entra in uno dei suoi periodi di maggiore espansione, con tassi di crescita non solo più alti di quelli tra le due guerre ma anche più alti di quelli del grande 'boom' del capitalismo classico..." (Auftieben,"Sulla decadenza, teoria del declino o declino della teoria").
11. Leggi "Un'altra vittoria del capitalismo: l’assistenza disoccupazione obbligatoria" in Communisme n°15, giugno 1938; così come "I sindacati operai e lo Stato" nel n°5 della stessa rivista.
12. Delle lotte sociali ci furono durante la guerra, ma anche e soprattutto nell'immediato dopoguerra, date le catastrofiche condizioni di vita. Ma in generale, tranne alcune eccezioni notevoli come nel Nord dell'Italia o nella valle della Ruhr, queste non rappresentavano nessuna minaccia reale per il capitalismo. Queste lotte erano tutte ben inquadrate, controllate e spesso spezzettate dai partiti di sinistra e dai sindacati in nome della necessaria concordia nazionale in vista della ricostruzione.
13. Ciò che è proprio incredibile è che il BIPR pone nella categoria delle "conquiste sociali" anche le "convenzioni collettive" che sono, e non potrebbe essere più chiaro, la codificazione e l'imposizione della pace sociale della borghesia nelle imprese!
Decadenza ed orientamenti per le lotte di resistenza
Il lavoro salariato al centro della crisi da sovrapproduzione
La crisi, un'espressione dell'obsolescenza dei rapporti di produzione capitalista
Ormai da quasi mezzo secolo la classe dominante parla di costruire l’Europa. L’introduzione di una moneta comune – l’euro – è stata presentata come un primo passo fondamentale verso la costruzione degli Stati Uniti d’Europa. Questo processo è a quanto pare ben avviato se si ritiene di allargare l’Unione Europea da 15 a 25 paesi dal primo maggio 2004, mentre l’obiettivo di redigere una costituzione europea è già in atto.
Riuscirà davvero la classe dominante ad andare oltre il limite dell’idea di nazione? Sarà in grado di superare la competizione economica e i suoi antagonismi imperialisti? Saprà davvero porre fine alla guerra economica, e ai conflitti militari che hanno diviso il continente così tante volte? In altre parole, la borghesia sarà capace di offrire l’inizio di una soluzione al problema della divisione del mondo in nazioni in competizione tra loro, divisione che è stata la causa di decine di milioni di morti e che ha insanguinato l’intero pianeta, soprattutto dall’inizio del ventesimo secolo? Proprio la stessa borghesia sarà capace di abbandonare quell’ideologia nazionalista che è alla base della sua esistenza come classe, l’origine stessa di ogni sua legittimazione economica, politica, ideologica ed imperialista?
Ma se le risposte a tutte queste domande sono negative, se gli Stati Uniti d’Europa sono solo un miraggio, allora qual è il significato della costituzione e dello sviluppo dell’Unione Europea? La classe dominante è diventata così masochista da rincorrere qualcosa di impossibile? Perché dovrebbe costruire un castello di carte senza un vero scopo? E’ solo allo scopo di un’illusoria competizione con gli Stati Uniti d’America? O è semplice propaganda?
L’impossibilità di superare lo schema di nazione nella decadenza del capitalismo
Possiamo giudicare l’impossibilità di un progetto simile se prendiamo in considerazione i presupposti per la sua attuazione. Questi presupposti non solo sono del tutto assenti nel progetto attuale, sono semplicemente un’utopia nel contesto storico attuale. Dato che l’esistenza di diverse borghesie nazionali è intimamente legata alla proprietà privata e/o statale che si è storicamente sviluppata nell’ambito della struttura nazionale, qualunque reale unificazione ad un livello più alto implicherebbe togliere potere a queste nazioni. La prospettiva è del tutto irrealistica dato che la creazione di una reale Europa Unita a livello continentale potrebbe avvenire solo attraverso un processo di espropriazione delle diverse frazioni borghesi nazionali in ognuno dei paesi membri. Questo sarebbe necessariamente un processo violento, come lo furono le rivoluzioni borghesi contro l’antico regime feudale o le guerre di indipendenza delle nuove nazioni contro il potere che li teneva sotto tutela, un processo che non può essere sostituito dalla “la volontà politica dei governi” e/o “l’aspirazione popolare a costruire l’Europa”. Durante il 19° secolo, la guerra ha sempre giocato un ruolo primario nel processo di formazione di nuove nazioni, o per eliminare la resistenza interna dei settori reazionari della società, o per attestare le loro nuove frontiere a spese dei vicini. Possiamo perciò facilmente immaginare cosa costerebbe il processo dell’unificazione europea. Questo mette in evidenza quanto l’idea di una pacifica unione di diversi paesi, anche se europei, sia o utopica o ipocrita ed ingannevole. Rendere possibile questa unificazione implicherebbe la comparsa di un nuovo gruppo sociale, portatore di interessi di emancipazione soprannazionali, e capace, attraverso un reale processo rivoluzionario e con l’aiuto di propri mezzi politici (partiti, ecc.) e coercitivi (forze militari, ecc.) di espropriare gli interessi borghesi legati ai diversi capitali nazionali e di imporre loro il proprio potere.
Senza dilungarsi sulla questione nazionale, è chiaro che tutte le nazioni che si sono create dalla guerra del 1914–18 in poi – circa 100 – erano il risultato di problemi nazionali rimasti irrisolti durante il 19°sec. e fino all’inizio del 20°. Erano tutte nazioni nate morte che si dimostrarono incapaci di completare la loro rivoluzione borghese e di iniziare la loro rivoluzione industriale con sufficiente vigore, alimentando così la dinamica della miriade di conflitti che hanno avuto luogo dalla prima guerra mondiale. Solo quei paesi che si sono formati durante il 19° secolo hanno saputo raggiungere un sufficiente grado di coerenza, potere economico, stabilità politica. I sei paesi più potenti di oggi erano già tali, anche se in un ordine diverso, alla vigilia della prima guerra mondiale. Anche gli storici borghesi si accorgono di questo fenomeno, ma esso può essere spiegato davvero solo nell’ambito del materialismo storico.
Perché una nazione si formi su solide fondamenta politiche è necessario che sia fortemente radicata ad una reale centralizzazione della sua borghesia, e questa centralizzazione si forma attraverso una difficile e unificante lotta contro il feudalismo dell’antico regime. Deve avere basi economiche abbastanza solide perché la sua rivoluzione industriale trovi spazio in un mercato mondiale in via di formazione. Queste due condizioni esistevano durante il periodo dell’ascesa del capitalismo, che durò essenzialmente dall’inizio del 18° sec. fino alla prima guerra mondiale. Queste condizioni poi scomparvero e perciò non c’era più la possibilità di far emergere nuovi e fattibili progetti nazionali. Perché allora dovrebbe diventare improvvisamente possibile realizzare oggi ciò che si è dimostrato impossibile durante tutto il 20° secolo? Se nessuna delle nuove nazioni create dalla prima guerra mondiale in poi è stata in grado di raccogliere mezzi adeguati di esistenza, perché dovrebbe improvvisamente diventare possibile la comparsa di un nuovo grande potere – come sarebbero gli Stati Uniti d’Europa?
La terza conseguenza logica dell’ipotesi europea implica l’indebolimento della tendenza verso il peggioramento degli antagonismi imperialisti tra i paesi europei in competizione. Ma come fece notare Marx nella metà del 19° secolo (nel Manifesto Comunista), l’antagonismo tra ogni frazione nazionale della borghesia è una costante: “ La borghesia si trova coinvolta in una costante battaglia. All’inizio con l’aristocrazia; in seguito con quelle porzioni della stessa borghesia i cui interessi diventano antagonisti allo sviluppo dell’industria; sempre con la borghesia dei paesi stranieri”. Mentre le contraddizioni tra la borghesia e i resti del feudalismo o dei suoi settori arretrati sono stati in gran parte superate dalla rivoluzione capitalista, per lo meno nei paesi più sviluppati, al contrario gli antagonismi tra nazioni si sono solo approfonditi durante il 20° secolo. Allora perché dovremmo aspettarci di vedere rovesciarsi questo processo, quando i conflitti tra le varie frazioni della classe dominante si sono inaspriti sempre di più durante l’intero periodo di decadenza?
Invece una caratteristica inequivocabile di un sistema di produzione che entra nel suo periodo di decadenza è l’esplosione di antagonismi tra i settori della classe dominante. Quest’ultima non può più ricavare profitto sufficiente da un rapporto sociale di produzione divenuto obsoleto, e così tende a farlo depredando i suoi rivali. Ciò avvenne durante la decadenza del sistema di produzione feudale (1325-1750) quando alla Guerra dei Cent’Anni seguirono le guerre tra le grandi monarchie assolute europee. “…senza dubbio la violenza era un tratto specifico e permanente della società medioevale. Ma raggiunse una nuova dimensione tra il 13° e il 14° secolo (…) La guerra diventò un fenomeno endemico, alimentato da forti frustrazioni sociali (…) La generalizzazione della guerra era soprattutto l’espressione ultima della disfunzione di una società in preda a problemi che era incapace di padroneggiare. Che così si diede alla guerra per sfuggire dai problemi del momento”. (Guy Bois, La grande dépression médiévale). Questo periodo di decadenza del sistema di produzione medioevale contrasta fortemente con la sua ascesa (1000-1325): “Ancora più chiaramente che durante i tempi del Medioevo, il periodo tra il 1150 e il 1300 vide fasi di pace quasi completa in ampie aree geografiche, grazie alla quale l’espansione economica e demografica non poté che crescere” (P. Contamine, La guerre au Moyen Age). Lo stesso è avvenuto al termine del sistema di produzione retto sulla schiavitù, con lo smembramento dell’Impero Romano e la proliferazione di infiniti conflitti tra Roma e le sue province.
Questo fu anche il caso quando il capitalismo entrò nel suo periodo di decadenza. Per dare un’idea dell’abisso tra le condizioni di esistenza durante l’ascesa del capitalismo e la sua decadenza citiamo Il secolo breve (1994) di Eric Hobsbawm, che illustra molto bene le differenze tra ciò che lui chiama il “lungo 19°” e “breve 20°” secolo: “Come possiamo attribuire un significato al Secolo breve, cioè agli anni che vanno dall’esplosione della prima guerra mondiale fino al collasso dell’Unione Sovietica, i quali, per quanto possiamo ora considerarli retrospettivamente, formano un periodo storico coerente che è giunto al termine? (…) nel Breve 20° secolo sono stati uccisi o lasciati deliberatamente morire più essere umani che mai prima nella storia (…) è stato senza dubbio il secolo più letale di cui abbiamo traccia, sia per proporzioni, frequenza, e durata delle guerre che l’ hanno attraversato (e che a malapena hanno smesso per qualche momento dal 1920) ma anche per l’estensione delle peggiori carestie della storia, e del genocidio sistematico. A differenza del Lungo 19° secolo, che è sembrato essere, e che in effetti è stato, un periodo quasi ininterrotto di progresso materiale, intellettuale e morale, del progresso, in breve, di valori civili, dal 1914 in poi abbiamo visto una regressione notevole di quei valori che erano stati fino allora considerati normali nei paesi sviluppati (…) Tutto questo è cambiato nel 1914 (…) In breve, il 1914 ha inaugurato l’epoca dei massacri (…) in passato le guerre non-rivoluzionarie e non-ideologiche non erano condotte come lotta a oltranza fino alla morte (…) In queste condizioni, perché le potenze in campo fecero della prima guerra mondiale un gioco a somma-zero, in altre parole una guerra che si poteva o vincere totalmente o perdere totalmente? La ragione è che questa guerra, diversamente dai precedenti conflitti i cui obiettivi erano limitati e specifici, fu combattuta per fini illimitati (…) Questo fu un gioco assurdo e auto-distruttivo, che rovinò vinti e vincitori. Che trascinò i primi in una rivoluzione e i secondi nella bancarotta e nell’esaurimento fisico (…) la guerra moderna coinvolge tutti i cittadini e ne mobilita la maggior parte; è portata avanti con armi che richiedono l’impegno produttivo di tutta l’economia e che sono usate in quantità inimmaginabile; causa distruzioni colossali, ma anche domina e trasforma ogni aspetto della vita dei paesi coinvolti. Tutti questi fenomeni sono caratteristici delle guerre del 20° secolo (…) La guerra ha incoraggiato la crescita economica? In un senso, chiaramente no”.
L’entrata del capitalismo nel suo periodo di decadenza ha reso da allora in poi impossibile la comparsa di nuove nazioni capaci di un reale sviluppo. La relativa saturazione di mercati solvibili – in rapporto agli enormi bisogni di accumulazione creati dallo sviluppo delle forze produttive – che è la base della decadenza del capitalismo, impedisce ogni soluzione “pacifica” alle sue contraddizioni insormontabili. Questo è il motivo per cui le guerre commerciali tra le nazioni e lo sviluppo dell’imperialismo sono andate solo aumentando. In questo contesto, le nazioni che sono arrivate tardi sullo scenario mondiale sono incapaci di superare la loro arretratezza: anzi, il distacco con i paesi più avanzati tende inesorabilmente ad allargarsi.
L’Europa non si è formata come entità nazionale prima dell’inizio dello scorso secolo, in un’epoca pur favorevole alla comparsa di nuove nazioni, perché mancavano le pre-condizioni per questa unità; da allora è stato impossibile crearle. Per di più, nell’attuale e finale fase di decadenza, la fase della decomposizione della società capitalistica,1 non solo le condizioni per il sorgere di nuove nazioni sono ancora più sfavorevoli, ma anzi la tendenza crescente è alla lacerazione di nazioni già esistenti ma meno coese (l’Unione Sovietica, la Iugoslavia, la Cecoslovacchia, ecc.) e all’ inasprimento delle tensioni perfino all’interno dei paesi più forti e più stabili (vedi il paragrafo sull’Europa nel periodo di decomposizione).
Un parallelo storico: le monarchie assolute.
Dovremmo sorprenderci per questo processo verso l’unificazione europea nel mezzo della decadenza del capitalismo? E’ un segno che il sistema di produzione capitalistica ha riscoperto il suo antico vigore, o che sta resistendo alla sua decadenza? Più in generale, possiamo osservare fenomeni analoghi durante il declino delle società precedenti, e se così è, qual è stato il loro significato?
La decadenza del modo di produzione feudale è interessante da questo punto di vista, poiché essa fu testimone della formazione delle grandi monarchie assolute che sembrarono andare oltre i feudi sparsi così caratteristici del modo di produzione feudale. Durante il 16° secolo compare in occidente lo Stato assolutista. Le monarchie centralizzate rappresentarono una rottura decisiva con la dispersa sovranità piramidale delle formazioni sociali medioevali. Questa centralizzazione del potere monarchico fece sviluppare una forza militare e una burocrazia permanenti, una tassazione nazionale, una legislazione codificata, e l’inizio di un mercato unificato. Sebbene tutti questi elementi possano apparire come caratteristici del capitalismo, tanto più che coincisero con la scomparsa della servitù della gleba, essi rimangono ciò nonostante un’espressione del declino del feudalismo.
Infatti, l’“unificazione nazionale” portata avanti a vari livelli dalle monarchie assolute non andò oltre la struttura geo-storica del Medio Evo, mentre esprime piuttosto il fatto che quest’ultima era diventata troppo limitata per contenere il continuo sviluppo delle forze produttive. Gli stati assolutistici rappresentarono una forma di centralizzazione dell’aristocrazia feudale, rafforzando il suo potere per resistere alla decadenza del sistema di produzione feudale. Proprio la centralizzazione del potere è un’altra caratteristica della decadenza di ogni sistema di produzione – di solito attraverso un rafforzamento dello Stato che rappresenta gli interessi collettivi della classe dominante - allo scopo di offrire una più solida resistenza alle crisi rovinose del loro declino storico.
Possiamo trovare un’analogia con la formazione dell’Unione Europea, e più in generale con ogni accordo economico regionale in tutto il mondo. Sono tentativi di andare oltre la struttura troppo stretta della nazione per riuscire ad affrontare il peggioramento della competizione economica nella decadenza del capitalismo. La borghesia è perciò attanagliata da una parte dalla necessità sempre più forte di superare la struttura nazionale per difendere meglio i propri interessi economici, e dall’altra dalle fondamenta nazionali del suo potere e della sua proprietà.
L’Europa non è in nessun modo un superamento di questa contraddizione, ma un’espressione della resistenza della borghesia alle contraddizioni della decadenza del suo stesso sistema di produzione. Quando Luigi XIV invitò i grandi del regno a spostarsi presso la sua corte a Versailles, questo non fu per il loro piacere ma piuttosto per tenerli sotto sorveglianza e per impedire loro di complottare nelle loro province. In qualche modo, i calcoli strategici all’interno dell’Unione Europea non sono dissimili: la Francia preferisce tener legata la Germania all’Europa e il marco tedesco fuso nell’Euro, piuttosto che vedere la Germania libera di dare corso alle sue inclinazioni storiche a espandersi nell’Europa Centrale, dove il Deutschmark era già la valuta di riferimento; l’Inghilterra, dopo aver tentato di fondare l’EFTA in competizione con la CEE, ora preferisce unirsi al club per influenzare o perfino sabotare le politiche dell’Unione, piuttosto che trovarsi isolata nella sua isola; mentre la Germania preferisce avanzare sotto la copertura della finzione europea per sviluppare le sue reali ambizioni imperialiste di futuro leader di un blocco capitalistico capace di rivaleggiare con quello degli Stati Uniti.
L’Europa è una creazione dell’imperialismo per gli scopi della Guerra Fredda
Le radici della formazione della Comunità Europea vanno ricercate nello sviluppo della guerra fredda subito dopo la Seconda Guerra Mondiale. Destabilizzata dalla crisi economica e dalla disorganizzazione sociale, l’Europa era una preda potenziale per l’imperialismo sovietico e fu sostenuta dagli Stati Uniti allo scopo di costituire un baluardo contro l’avanzata del blocco orientale. Si ottenne questo grazie al Piano Marshall che fu proposto a tutti i paesi europei nel giugno del 1947. Allo stesso modo, la formazione della Comunità Europea per il Carbone e l’Acciaio corrispondeva al bisogno di rafforzare l’Europa nel contesto del drammatico aggravamento delle tensioni tra est e ovest con lo scoppio della guerra in Corea. La creazione della CEE nel 1957 completò questo rafforzamento del blocco occidentale sul continente. Questo sviluppo dell’Europa, essenzialmente a livello economico e militare attraverso la presenza delle truppe e delle armi della NATO, dimostra che lungi dal rappresentare la riscoperta della pace, l’Europa rimane il teatro principale del conflitto inter-imperialista, così come è sempre stata durante la storia del capitalismo.
Al contrario della propaganda della classe dominante, la pace che regna in Europa dalla fine della Seconda Guerra Mondiale non è stata la conseguenza di un processo di unificazione europea, non di una pace a cui siano alla fine giunti i rivali storici, ma la congiuntura di tre fattori economici, politici e sociali. Per cominciare, il contesto della ricostruzione economica, combinato con le misure keynesiane post-belliche, permise al capitalismo di prolungare la sua sopravvivenza senza essere costretto a ricorrere a un terzo conflitto mondiale nel breve termine, come era avvenuto tra la prima e la seconda guerra mondiale, quando dopo solo dieci anni di ricostruzione tra il 1919 ed il 1929 scoppiò nel ’29 la crisi più seria di sovrapproduzione mai avvenuta, e che continuò fino alla vigilia della seconda guerra mondiale. In seguito il nuovo contesto della Guerra Fredda vide fronteggiarsi due blocchi imperialisti continentali (la Nato e il Patto di Varsavia); gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, i rispettivi leader, furono temporaneamente in grado di spostare verso la periferia il loro confronto diretto. Questo non impedì ai conflitti locali avutisi tra il 1945 e il 1989 di provocare più vittime di quanto avessero fatto tutte le battaglie della Seconda Guerra Mondiale! Infine, il fatto che il proletariato non fosse ideologicamente preparato a combattere una guerra in seguito alla sua ricomparsa sulla scena storica nel 1968, sbarrò la strada al bellicismo dei due blocchi imperialisti proprio nel momento in cui diventava sempre più urgente per loro aprire le ostilità per la riapparizione della crisi economica.
L’Europa, un guscio vuoto e colpi bassi politici
In un contesto largamente favorevole, gli Stati europei hanno saputo raggiungere accordi essenzialmente su questioni economiche: l’Organizzazione per la cooperazione economica europea (OCEE), la Comunità europea per il carbone e l’acciaio, la Politica Agricola Comune, la creazione di una Value Added Tax europea, il Mercato Comune, e il Sistema Monetario Europeo ne sono tutti degli esempi.
Per contro, l’incomprensione politica è sempre stata una costante della politica della CEE e dell’Unione europea, a cominciare dalla questione tedesca subito dopo la sconfitta bellica della Germania. La Francia voleva una Germania debole e disarmata. Gli Stati Uniti, per le necessità della guerra fredda, imposero la ricostituzione di una Germania forte, in grado di riarmarsi, il che portò alla creazione della Repubblica Federale tedesca nel 1949. Nel 1954, la Francia si rifiutò di ratificare la Comunità di difesa europea nonostante che il trattato fosse già stato firmato nel 1952 dai suoi cinque partner sotto la pressione americana. Il Regno Unito, che non era voluto entrare nella CEE creata nel 1957, cercò di costruire una più ampia zona commerciale libera che incorporasse tutti i paesi dell’OCEE, che includesse il Mercato Comune e che così lo privasse della sua specificità. Quando la Francia rifiutò, gli inglesi si unirono agli altri paesi europei per creare l’Associazione del libero commercio europeo (EFTA) con il trattato di Stoccolma del 20 novembre 1959. In due occasioni, nel 1963 e nel 1967, la Francia rifiutò la candidatura dell’Inghilterra ad entrare nella CEE perché ne vedeva un cavallo di Troia americano. Nel 1967, la Francia ancora una volta provocò una seria crisi che durò sei mesi con la sua politica della “sedia vuota”; finì con un compromesso che permise all’Europa di sopravvivere, ma solo dopo aver stabilito la regola dell’unanimità per tutte le decisioni più importanti. Quando la Gran Bretagna alla fine entrò nella CEE nel gennaio 1973, non esitò a porre il veto ai lavori comunitari in numerose occasioni, a cominciare da una rinegoziazione del trattato di adesione un anno dopo, delle modifiche al PAC, una rinegoziazione del contributo britannico al bilancio europeo (il famoso “rivoglio indietro i miei soldi” di Margaret Thatcher) , il rifiuto di aderire alla moneta comune, ecc. Più recentemente, il disaccordo sulla data per iniziare i negoziati sull’entrata della Turchia nella UE ha rivelato le divisioni europee a livello delle politiche imperialiste: la Francia è apertamente ostile ad un paese che è sempre stato molto vicino alla Germania e agli Stati Uniti. Questi ultimi hanno esercitato pressioni fortissime perché la Turchia fosse accettata come futura candidata, sia direttamente, con telefonate presidenziali ai leader europei, sia indirettamente attraverso la pressione inglese, con la strategia sottintesa e quasi ammessa che più l’Europa si allarga, meno sarà capace di integrazione politica e soprattutto di sviluppare una politica e una strategia comuni nell’arena internazionale.
L’assenza completa di una politica estera comune o degli strumenti di questa politica (un esercito integrato), l’assenza di un bilancio europeo sostanziale (appena 1.27% del PIL europeo!) a livello dei bilanci nazionali, e la quota completamente sproporzionata di agricoltura nel budget europeo (di cui quasi metà è destinata a un settore che rappresenta non più del 4-5% del valore aggiunto annuale europeo), ecc., tutto dimostra abbastanza chiaramente che mancano gli attributi fondamentali di un reale stato europeo sopranazionale, o che laddove esistono, mancano di vero potere o autonomia. Il funzionamento politico dell’Unione Europea è una semplice caricatura tipica del sistema di funzionamento della borghesia nel periodo della decadenza: il parlamento non ha potere, il centro di gravità della vita politica è monopolizzato dal potere esecutivo, il Consiglio dei ministri, al punto che la stessa borghesia si preoccupa regolarmente della “ mancanza di legittimazione democratica”!
Questo non sorprende, in quanto la strategia politica europea era già condizionata, e inevitabilmente incappò nei limiti imposti dalla disciplina del blocco degli Stati Uniti durante la guerra fredda. Questa strategia aveva scarsa consistenza allora, ma ne ha avuta ancor meno dopo il crollo del Muro di Berlino che ha segnato la scomparsa dei due blocchi. Da allora, non c’è quasi nessun punto di politica estera su cui l’Europa sia stata capace di definire una posizione comune. E’ stata divisa tra visioni diverse e perfino opposte su Medio Oriente, Guerra del Golfo, il conflitto in Iugoslavia e in Kosovo, ecc. Lo stesso vale, forse ancora di più, per il progetto di costituire un esercito europeo. Mentre alcuni (Francia e Germania per esempio) spingono per una maggiore integrazione, compresa una maggiore indipendenza verso le restanti strutture militari della NATO, altri (l’Inghilterra e l’Olanda, per esempio) vogliono restarne all’interno.
L’Europa: un accordo essenzialmente economico
Se la formazione degli Stati Uniti d’Europa è un’illusione, se una vera integrazione europea ad ogni livello è un miraggio, se le origini della relativa unificazione europea hanno radici sulle esigenze della guerra fredda, qual è allora il significato della volontà politica di rafforzare oggi queste strutture?
Come abbiamo visto, la nascita e il potenziamento della Comunità Europea sono stati all’inizio soprattutto l’espressione del bisogno di contrastare l’espansionismo sovietico in Europa. Sebbene sia stata creata per i bisogni imperialistici del blocco americano, e perfino utile all’espansione economica di quest’ultimo (come è stato anche per il Giappone e i “nuovi paesi industrializzati”), a poco a poco è diventata un serio rivale economico per gli Stati Uniti, incluso nel settore della alta tecnologia (Airbus, Arianespace, ecc.). Questo è uno dei risultati della competizione economica durante la guerra fredda. Fino alla caduta del Muro di Berlino, l’integrazione europea è stata essenzialmente economica. Cominciando con una zona di libero commercio interno per le merci, per passare a un’unione doganale contro gli altri paesi, per diventare poi un mercato comune per i beni, i capitali e la manodopera, l’Europa alla fine ha coronato questa integrazione disponendo regolamenti politici. Lo scopo di questa integrazione economica è stato dall’inizio il rafforzamento della posizione europea nel mercato mondiale. La creazione di un mercato più vasto che permettesse economie di scala doveva offrire un trampolino per sostenere le compagnie europee di fronte alla competizione straniera, in particolare quella americana e giapponese. La stessa creazione del Single Act nel 1985-86 nacque in seguito alla valutazione completamente negativa della situazione economica europea: l’Europa aveva sofferto i dieci anni di crisi più del Giappone e degli Stati Uniti.
L’Europa di fronte al collasso e la decomposizione dei blocchi
Dall’inizio degli anni ’80, il capitalismo è stato caratterizzato da una situazione in cui le due classi fondamentali ed antagoniste nella società si confrontavano e si opponevano senza che nessuna fosse capace di imporre la sua alternativa. Comunque, per la vita sociale sotto il capitalismo sopportare un “congelamento” o una “stagnazione” è ancor meno possibile che per tutti gli altri sistemi di produzione che l’ hanno preceduto. Mentre le contraddizioni di un capitalismo in crisi vanno peggiorando costantemente, l’incapacità della borghesia di offrire la pur minima prospettiva all’insieme della società, e l’incapacità del proletariato di far prevalere la sua può solo portare al fenomeno di una decomposizione generalizzata, con la società che marcisce sui suoi piedi. Il collasso del blocco orientale nel 1989 è stato solo il più spettacolare di una serie di espressioni inequivocabili del fatto che il sistema di produzione capitalistica è entrato nella fase finale della sua esistenza.
E’ così anche per il serio aggravamento delle convulsioni politiche dei paesi periferici che sempre più impedisce alle grandi potenze di appoggiarsi su di loro per mantenere l’ordine regionale, costringendole così ad intervenire sempre più direttamente in confronti militari. Questo era già visibile negli anni ’80 nella situazione del Libano, e ancor più in Iran. Specie in Iran gli avvenimenti raggiunsero una dimensione prima sconosciuta: un paese appartenente a un blocco, anzi un membro importante di un’alleanza militare, che sfugge ampiamente dal suo controllo senza cadere sotto il dominio del blocco avversario. Questo non fu dovuto ad un indebolimento del blocco nel suo insieme, e neanche a una decisione di questo paese di migliorare la posizione del suo capitale nazionale – piuttosto il contrario, dato che questa politica lo condusse a un disastro economico e politico. Infatti, dal punto di vista degli interessi del capitale nazionale, non c’era nessuna razionalità – neanche una razionalità illusoria – nello sviluppo della situazione in Iran. Ciò che illustra meglio questo è la presa del potere da parte del clero, uno strato della società che non aveva mai avuto nessuna competenza nella gestione degli affari politici o economici del capitalismo. L’ascesa e la vittoria dell’integralismo islamico in un paese relativamente importante sono già dei primi segni di una fase di decomposizione, e da allora questo è stato solo confermato dallo sviluppo di questo fenomeno in vari paesi.
Qui vediamo la comparsa di fenomeni che attestano un cambiamento qualitativo nell’espressione delle classiche caratteristiche della decadenza capitalistica.
Storicamente le classi dominanti diventate obsolete sviluppano sempre una serie di meccanismi e di strutture per affrontare le forze che minacciano il loro potere (crescenti crisi economiche e conflitti militari, il disordine del corpo sociale, la decomposizione dell’ideologia dominante, ecc.). Per la borghesia questi meccanismi sono il capitalismo di Stato, un crescente controllo totalitario della società civile, la sottomissione dei diversi strati della borghesia a un superiore interesse nazionale, la formazione di alleanze militari per affrontare la competizione internazionale, ecc.
Finché la borghesia è in grado di controllare l’equilibrio delle forze sociali, l’espressione delle caratteristiche della decomposizione di ogni sistema di produzione può essere contenuta entro certi limiti compatibili con la sopravvivenza del sistema. Invece durante la fase di decomposizione queste caratteristiche persistono e sono peggiorate da una crescente crisi generalizzata, e l’incapacità della borghesia di imporre la sua soluzione o della classe operaia di mettere avanti la sua prospettiva lascia il campo libero a ogni genere di forze sociali e politiche disgreganti – all’esplosione dell’ognuno per sé: “Elementi di decomposizione si possono trovare in tutte le società decadenti: il disordine del corpo sociale, il disfacimento delle sue strutture politiche, economiche e ideologiche, ecc. Lo stesso è stato per il capitalismo dall’inizio del suo periodo decadente (…) in una situazione storica in cui la classe operaia non è ancora in grado di dare battaglia per la sua unica prospettiva “realistica” – la rivoluzione comunista – ma in cui neppure la classe al potere sa proporre una sua pur minima prospettiva, neanche a breve tempo, allora la precedente capacità di quest’ultima di limitare e controllare i fenomeni di decomposizione durante il periodo di declino può solo collassare sotto i colpi ripetuti della crisi” (Rivista internazionale n° 14, “Decomposizione, la fase finale della decadenza del capitalismo”). La storia mostra che quando la società è in preda alle sue contraddizioni senza essere capace di risolverle, cade in caos crescente, in lotte senza fine tra Signori della guerra. L’immagine della decomposizione è quella di un caos crescente e del ciascuno per sé. Una delle maggiori espressioni della decomposizione del capitalismo sta nell’incapacità crescente della borghesia di controllare la situazione politica su tutta una serie di livelli: la disciplina tra le diverse frazioni, la disciplina dei suoi appetiti imperialistici, ecc. L’incapacità del sistema di produzione capitalista di offrire la minima prospettiva alla società porta inevitabilmente ad una crescente tendenza ad un caos generalizzato.
La fine degli anni ’80 doveva confermare questa diagnosi nel più spettacolare dei modi. La disintegrazione del blocco orientale e dell’Unione Sovietica, la morte dello stalinismo, la minaccia di smembramento della stessa Russia, seguite subito dopo dalla Guerra del Golfo hanno manifestato in modo inequivocabile le caratteristiche di un modello di produzione in disfacimento: l’esplosione dell “ognuno per sé”, la distruzione della coesione sociale e il caos crescente.
E’ all’interno di questo contesto che dobbiamo capire la riorganizzazione della politica europea durante gli anni ’90. La direzione fino ad allora essenzialmente economica dell’integrazione europea prese una svolta più politica dopo il crollo del Muro di Berlino. Nel dicembre 1989 il Summit di Strasburgo accelerò il processo di instaurazione dell’Euro e invitò i paesi dell’est ad un tavolo negoziale. A questo punto fu chiaramente deciso che nuovi membri sarebbero stati integrati in futuro, e furono immediatamente messi in atto i mezzi materiali per raggiungere questo scopo: la creazione di una Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo (EBRD) nel maggio del 1990, investimenti in vari campi, programmi di cooperazione, ecc. Il carattere essenzialmente geo-strategico di questo allargamento dell’Europa verso i paesi dell’est fu dimostrato dal fatto che i benefici economici dell’operazione si rivelarono inesistenti o perfino negativi, come per esempio l’integrazione della Germania dell’est nella Repubblica Federale. La media del Prodotto interno lordo per abitante dei 10 paesi candidati non è neanche la metà di quella dei 15 stati europei. L’integrazione commerciale è profondamente asimmetrica. Mentre il 70% delle esportazioni dei paesi dell’Europa Orientale e Centrale è destinato all’Unione Europea, i primi assorbono solo il 4% delle esportazioni dei secondi. I paesi orientali sono perciò estremamente sensibili alla situazione economica dell’Europa occidentale, mentre non è vero il contrario. Un ulteriore motivo di vulnerabilità sta nel fatto che c’è un deficit commerciale strutturale in tutti gli stati dell’Europa centro-orientale, che li lascia molto dipendenti dall’influsso del capitale straniero. L’occupazione è diminuita del 20% nella regione dal 1990 e molti paesi sono ancora afflitti da serie difficoltà economiche.
Le ragioni reali per l’inserimento dei nuovi candidati a membri dell’UE devono essere cercate altrove. La prima è essenzialmente imperialista. Quello che è in palio è la distribuzione di ciò che rimane del defunto blocco orientale. La seconda è una conseguenza della stessa decomposizione: è stato vitale per l’Europa ristabilire una zona cuscinetto relativamente stabile nelle sue frontiere orientali per tenere lontano il contagio del caos economico e sociale risultato dalla disintegrazione del blocco orientale. Da questo punto di vista è significativo che i principali nuovi paesi membri siano i meno poveri economicamente e i più vicini geograficamente all’Europa occidentale (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Slovenia), mentre i tre stati baltici (Estonia, Lettonia e Lituana) hanno ridotto l’accesso della Russia al Mar Baltico. In effetti, la politica europea verso l’Europa orientale è il risultato della sovrapposizione di due obiettivi imperialistici. Da una parte l’Europa, con in testa la Germania, contende il possesso di ciò che rimane del blocco orientale agli Stati Uniti. Lo scopo dell’Unione Europea è di inglobare nel suo campo quanti più paesi dell’Europa centrale e orientale possibile, inclusa alla fine la stessa Russia, che nonostante l’ancoraggio attuale con gli Stati Uniti, ha nella Germania il suo principale partner commerciale. Dall’altra parte la Francia è ugualmente interessata a che l’espansione europea verso est sia portata avanti dall’Unione Europea e non da una Germania autonoma alla riscoperta dei suoi riflessi inter-war. Da parte sua, la Germania è pronta ad accettare questa strategia poiché così può portare avanti le sue propensioni imperialistiche di nascosto, non essendo ancora apertamente pronta ad assumere il ruolo di comando di un nuovo blocco opposto agli Stati Uniti.
Il significato dell’Euro
La fase della decomposizione e del collasso dei blocchi imperialisti ci offre il contesto per capire la creazione della moneta unica. Le sue fondamenta sono quadruplici:
La prima è geo-strategica. Le borghesie della Francia e della Germania hanno un interesse nell’impedire che l’alleanza franco-tedesca ceda sotto le pressioni di interessi imperialistici divergenti. Da una parte, la Francia teme una Germania unificata che possiede un campo di espansione verso est mentre la Francia non ne ha di equivalenti. La Francia è riuscita ad assicurarsi che la valuta nei paesi dell’est non sarà il marco tedesco, il che l’avrebbe esclusa economicamente da quella zona. Dall’altra, la politica della Germania dal 1989 è stata di agire sotto la copertura europea per nascondere i suoi interessi imperialistici. Ha tutto l’interesse di associarsi alla Francia e in second’ordine agli altri paesi europei nella sua politica espansionistica. E’ diventato normale sentir dire da membri della borghesia tedesca che “la Germania è riuscita a fare con l’economia quello che Hitler voleva fare con la guerra”!
La seconda è la necessità di resistere alle forze distruttive della crisi, profondamente amplificate dai fenomeni tipici della fase di decomposizione. Creando l’Euro, l’Europa ha fatto cessare la destabilizzazione speculativa di cui ha sofferto molte volte in passato (la speculazione contro la lira, il distacco forzato della sterlina inglese dallo SME, ecc.). Già nel 1979, la creazione del Sistema Monetario Europeo (SME) fu un tentativo di creare un paniere di valute che fosse più stabile nei confronti del dollaro e dello yen, per proteggere così l’Europa dall’anarchia monetaria che attualmente danneggia essenzialmente i paesi che sono alla periferia del capitalismo. Questa è una delle principali differenze con la crisi del ’29, di cui soffrirono prima gli Stati Uniti e poi i paesi europei. Sebbene le radici della crisi di sovrapproduzione, sia negli anni ’30 sia oggi, siano dentro i paesi capitalisti avanzati, nella crisi attuale questi ultimi sono riusciti finora a spostare i suoi maggiori effetti verso la periferia. Mentre a livello di tensioni inter-imperialistiche le forze centrifughe stanno sfuggendo da ogni genere di disciplina, a livello economico la borghesia è ancora capace di un minimo di cooperazione in ciò che rappresenta la vera essenza del suo dominio come classe: l’estrazione di plusvalore. Così, al contrario degli anni ’30, in campo economico la classe dominante è stata capace di coordinare i suoi sforzi per moderare i ripetuti crolli di mercato e limitare gli effetti più devastanti della crisi e della decomposizione.
Il terzo fondamento è sia economico che imperialista. Tutte le borghesie europee vogliono un’Europa forte in grado di competere a livello internazionale, specie con America e Giappone. Questo bisogno è sentito ancora di più in quanto i paesi europei hanno l’ambizione di portare nella loro sfera di influenza i paesi dell’est, inclusa la Russia, e questo sarebbe molto più difficile se le loro economie fossero dipendenti dal dollaro.
La quarta ragione è puramente tecnica: l’eliminazione dei costi di scambio di valuta dentro l’Europa, e dell’incertezza legata alla fluttuazione dei cambi (inclusi i costi per la protezione delle valute). Dato che la maggior parte del commercio dei paesi europei avviene con altri paesi europei, la sopravvivenza di diverse monete nazionali aumentava i costi di produzione rispetto agli Stati Uniti e al Giappone. La moneta unica è da questo punto di vista il naturale prolungamento dell’integrazione economica. C’erano sempre meno ragioni economiche per conservare le diverse valute nazionali in un mercato in cui i regolamenti sulle tasse e sul commercio sono stati largamente unificati.
L’Europa è la base di un nuovo blocco imperialista?
Creata come postazione avanzata in Europa del blocco imperialista americano, la CEE è diventata progressivamente una grossa entità economica in competizione con gli Stati Uniti. E’ rimasta comunque dominata politicamente da questi ultimi lungo tutto il periodo della guerra fredda e fino al crollo del Muro di Berlino. Con la scomparsa nel 1989 dei due blocchi imperialisti, l’Europa si è trovata ancora una volta al centro di appetiti rivali. Fino ad allora, paradossalmente, le configurazioni e gli interessi geo-strategici delle potenze imperialiste avevano spinto non verso una disgregazione, ma verso una maggiore integrazione dell’Europa!
A livello economico, tutte le borghesie europee sostengono il progetto di costruire un grande mercato unificato per competere con gli americani e i giapponesi. A livello di difesa dei propri interessi imperialistici, abbiamo visto come ognuna delle tre grandi potenze europee giochi le sue carte in antagonismo con le altre due. E alla fine, gli stessi americani stanno incoraggiando l’allargamento dell’Europa, ben sapendo che più integrerà componenti eterogenee e orientamenti imperialistici, meno saprà giocare un ruolo sulla scena internazionale.
Quando allora guardiamo più da vicino, non possiamo farci ingannare dal cammino dell’integrazione europea oggi. Ogni componente del processo vi prende parte solo per i propri temporanei interessi e calcoli imperialistici. Il consenso a favore dell’allargamento dell’Unione Europea è strutturalmente fragile, perché è basato su fondamenta molto eterogenee e divergenti che potrebbero dare come risultato un cambiamento nella configurazione dell’equilibrio di forze sulla scena internazionale. Nessuna delle basi dell’esistenza dell’Europa oggi giustifica la conclusione che essa già formi un blocco imperialista rivale di quello americano. Quali sono le ragioni principali che ci portano a dire questo?
1. Diversamente da un coordinamento economico basato su un contratto tra borghesie sovrane, quale è oggi l’Europa, un blocco imperialista è una camicia di forza imposta su un gruppo di stati dalla supremazia militare di una nazione dominante, e accettata a causa di un desiderio comune di resistere a una minaccia esterna o per distruggere un’alleanza militare opposta. I blocchi della guerra fredda non erano il risultato di lunghi negoziati ed accordi come è stata l’Unione Europea: essi erano la conseguenza dell’equilibrio militare tra le potenze stabilito sul campo dopo la sconfitta della Germania. Il blocco occidentale nacque perché l’Europa occidentale e il Giappone erano occupati dagli Stati Uniti, mentre il blocco orientale nacque in seguito all’occupazione da parte dell’Armata Rossa dell’Europa orientale. Allo stesso modo, il blocco orientale non è collassato a causa di cambiamenti nei suoi interessi economici o nelle sue alleanze commerciali, ma perché il suo leader, che assicurava la coesione del blocco con la forza delle armi, non fu più capace di mantenere la sua autorità con i carri armati come aveva fatto durante la rivolta in Ungheria nel 1956, o in Cecoslovacchia nel 1968. Il blocco occidentale è morto semplicemente perché il suo nemico comune era scomparso, e con esso il cemento che l’aveva tenuto insieme. Un blocco imperialista è sempre un matrimonio d’interesse, mai d’amore. Come scrisse una volta Winston Churchill, le alleanze militari non nascono per amore, ma per paura: la paura per un nemico comune.
2. Più fondamentalmente, l’Europa storicamente non ha mai formato un blocco omogeneo ed è sempre stata divisa da appetiti in conflitto: l’Europa e il Nord America sono i due centri del capitalismo mondiale. Gli USA, quale potenza dominante nell’America del Nord, era destinata a diventare, per le sue dimensioni continentali, la sua collocazione a distanza di sicurezza da potenziali nemici in Europa e in Asia, la sua forza economica, la potenza dominante del mondo. Come scrivemmo nel 1999: La posizione economica e strategica dell’Europa, al contrario, l’ ha condannata a diventare a rimanere il centro focale delle tensioni imperialistiche nel capitalismo in declino. Campo di battaglia principale di entrambe le guerre mondiali, continente diviso dalla cortina di ferro durante la guerra fredda, l’Europa non ha mai costituito un’unità, e sotto il capitalismo non lo sarà mai. A causa del suo ruolo storico di luogo di nascita del capitalismo moderno, e della sua posizione geografica di semi-penisola tra Asia e nord dell’Africa, l’Europa è diventata nel 20°secolo l’elemento chiave nella lotta imperialistica per il controllo del mondo. Allo stesso tempo, non meno della sua situazione geografica, l’Europa è particolarmente difficile da dominare da un punto di vista militare. La Gran Bretagna, anche nei tempi in cui “dominava i mari”, doveva accontentarsi di controllare l’Europa attraverso un complicato sistema di “equilibrio di forze”. Il dominio sul continente da parte della Germania di Hitler, perfino nel 1941, era più apparente che reale, con l’Inghilterra, la Russia ed il Nord Africa in mano ai nemici. Perfino gli Stati Uniti, nel pieno della guerra fredda, non riuscirono a dominare più della metà del continente. Ironicamente, dopo la “vittoria” sull’URRS, la posizione degli Stati Uniti si è parecchio indebolita per la scomparsa dell’“impero del male”. Sebbene la maggiore potenza mondiale mantenga una considerevole presenza militare nel continente, l’Europa non è un’area sottosviluppata che si possa tenere sotto il controllo di una manciata di caserme: quattro dei paesi industriali più avanzati sono europei (…) se oggi l’Europa è il centro delle tensioni imperialistiche, è soprattutto perché le stesse principali potenze europee hanno interessi militari divergenti. Non dobbiamo dimenticare che le due guerre mondiali cominciarono come guerre tra potenze europee – così come le guerre nei Balcani degli anni ’90” (“Rapporto sui conflitti imperialisti” dal 13° Congresso della CCI”, su Révue Internazionale n. 98).
3. Il marxismo ha già mostrato che i conflitti e gli interessi imperialisti non coincidono necessariamente con gli interessi economici. Mentre le due guerre mondiali opposero in effetti due poli che potevano avanzare delle pretese nell’egemonia economica, non fu più così durante la guerra fredda quando il blocco occidentale raggruppava tutte le maggiori potenze economiche contro un blocco orientale economicamente debole, la cui intera forza era basata sulla potenza atomica dell’URRS. Eurolandia illustra perfettamente che gli interessi strategici imperialisti non sono identici agli interessi commerciali mondiali degli stati nazionali. La Francia e la Germania, le due nazioni che hanno rappresentato la forza motrice dell’Europa, si sono fatte guerra tre volte in 150 anni, mentre fin dai tempi di Napoleone la Gran Bretagna ha sempre cercato di mantenere delle divisioni nell’Europa continentale: “L’economia dei Paesi Bassi, per esempio, ha una forte dipendenza dal mercato mondiale in generale, e dall’economia tedesca in particolare. Questo è il motivo per cui questa regione è sempre stata una sostenitrice tra le più ferventi in Europa della politica tedesca in favore della moneta comune. A livello imperialista, invece, la borghesia olandese, proprio a causa della sua vicinanza geografica alla Germania, si oppone come può agli interessi del suo potente vicino, e rappresenta uno degli alleati più fedeli agli Stati Uniti nel vecchio continente. Se l’Euro diventasse la base principale di un futuro blocco tedesco, l’Aja sarebbe la prima ad opporvisi. Ma in realtà l’Olanda, la Francia ed altri paesi che temono il ritorno dell’imperialismo tedesco sostengono la moneta comune proprio perché non minaccia la loro sicurezza nazionale, per esempio la loro sovranità militare” ( ibidem).
Date le rivalità imperialistiche tra le stesse nazioni europee, e dato il fatto che oggi l’Europa è proprio il centro delle tensioni inter-imperialiste del pianeta, è difficilmente realistico supporre che l’interesse economico da solo possa saldare insieme i paesi europei. Questo è tanto più vero perché mentre l’Europa è integrata a livello economico, non lo è a livello politico e ancor meno a livello di politica militare o estera. Come sarebbe possibile supporre che Eurolandia possa già essere un blocco imperialista opposto agli Stati Uniti, se non possiede neanche due attributi essenziali di un blocco imperialista: un esercito e una strategia imperialista? I fatti dimostrano ogni giorno che un’Europa unita è un’utopia, come possiamo vedere in particolare nel dissenso tra i suoi paesi membri e l’incapacità di influenzare la risoluzione di conflitti internazionali perfino quando questi avvengono alle loro porte, come in Iugoslavia.
1 Vedi “La decomposizione, fase ultima della decadenza del capitalismo”, su Rivista Internazionale n. 14
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[1] https://www.marxists.org/archive/marx/works/1881/05/07.htm
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[12] https://it.internationalism.org/en/tag/2/27/capitalismo-di-stato
[13] https://it.internationalism.org/en/tag/2/37/ondata-rivoluzionaria-1917-1923
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[22] https://it.internationalism.org/en/tag/3/49/imperialismo