Aprile-maggio 2012
Misure di austerità senza precedenti in una situazione di vicolo cieco per la borghesia
L’ultimo treno di misure imposte dalla “troika” (Fondo Monetario Internazionale, Unione Europea e Banca Centrale Europea) è proprio inammissibile. Tutti i manifestanti lanciavano lo stesso grido: non è più possibile nutrire la nostra famiglia né curare i nostri bambini, non siamo più disposti a farci strangolare.
Il tasso di disoccupazione ufficiale nel novembre 2011 era del 20,9%, aumentato del 48,7% in un anno. Il tasso di disoccupazione dei giovani tra i 18 e 25 anni rasenta il 50%.
In due anni il numero dei senza-tetto è aumentato del 25% ed incombe la carestia: la fame è diventata una preoccupazione quotidiana per molti, come al tempo dell’occupazione subita dal paese durante la Seconda Guerra mondiale.
Nel quotidiano Libération del 30 gennaio 2012 viene riportata la testimonianza di un medico di un’ONG: “Ho cominciato a preoccuparmi quando nel consultorio ho visto uno, poi due, poi dieci bambini che venivano a farsi curare il ventre vuoto, e che non avevano pranzato il giorno prima”
Il numero di suicidi è raddoppiato in due anni, soprattutto tra i giovani, una persona su due soffre di depressione, il super indebitamento delle case esplode.
Il rigetto quasi unanime dell’ultimo piano di austerità è stato tale che al momento del voto, un centinaio di deputati si sono astenuti o si sono opposti, compresi una quarantina appartenenti alle due grandi formazioni maggioritarie di destra e di sinistra, dissociandosi così dalla disciplina di voto del loro partito. In questo clima generale, la borghesia sta avendo enormi difficoltà ad organizzare le prossime elezioni legislative annunciate per il mese di aprile.
Tanto che la decisione di sbloccare i 130 miliardi di euro previsti dal piano di aiuto che doveva corredare il voto delle misure di austerità da parte del parlamento greco, è stata rinviata dai ministri delle finanze dell’UE alla settimana seguente. Questo perché le pressioni e le reticenze dei 3 paesi dell’UE ancora dotate della tripla A, in particolare la Germania che preferirebbe vedere la Grecia dichiararsi in fallimento e lasciare l’UE piuttosto che trascinarsela come una palla al piede, si fanno sempre più forti.
E la Grecia non è che un anello di questa catena di austerità brutale che strangola già numerosi paesi europei. Non c’è nessuna illusione da farsi! Dopo la Grecia, la “troika” si è già spostata in Portogallo per inviare lo stesso ultimatum. L’Irlanda sarà tartassata in corsa. Poi sarà la volta della Spagna e dell’Italia; anche il nuovo presidente del Consiglio italiano Monti, andato al potere per far ingoiare la stessa pozione amara, si preoccupava per l’avvenire riservato all’Italia quando ha contestato la “durezza con cui la Grecia viene trattata”. La Francia, la cui economia vacilla sempre più, prossimamente si troverà presto sull’elenco. Nella stessa Germania, di cui si vantano la salute e la solidità economica, una parte crescente della sua popolazione, specialmente gli studenti, affonda nella precarietà. L’Europa non è e non sarà la sola zona colpita ed nessun paese nel mondo sarà risparmiato. Non c’è soluzione ad una crisi mondiale che mostra apertamente il fallimento totale del sistema capitalista.
Come battersi contro gli attacchi?
Un’insegnante esasperata dichiarava: “Prima della crisi, arrivavo a 1200 euro, oramai arrivo a 760. Ad ogni giorno di sciopero, mi prelevano 80 euro e le misure sono retroattive: questo mese non ho percepito che 280 euro. Non vale più la pena lavorare, tanto vale manifestare e rompere tutto affinché comprendano che non siamo disposti a farci sconfiggere”.
Questa esasperazione e questa collera si sono diffuse e si sono rafforzate di fronte alla sterilità accertata e l’impotenza nel fare arretrare i piani di rigore con le giornate di sciopero generale di 24 o 48 ore indette a ripetizione da 2 anni dai sindacati che in perfetto accordo lavorano per dividere i lavoratori, per controllarli e far sfogare il loro malcontento.
In questa situazione, l’agitazione sociale in Grecia è intensa e la solidarietà tenta di organizzarsi. Nei quartieri vengono organizzate assemblee, nelle città e nei villaggi vengono costituite mense e centri di distribuzioni di cibo, l’occupazione dell’università di Novicki si è data come scopo servire da luogo di scambio e di dibattiti. Ci sono state occupazioni di ministeri (Lavoro, Economia, Salute), di consigli regionali (nelle isole Ioniche o in Tessaglia), della centrale elettrica di Megalopolis, del municipio di Holargos, mentre alcuni produttori hanno distribuito latte e patate alla popolazione.
Tuttavia, la reazione più significativa, quella che mostra la determinazione del movimento in Grecia, illustra anche in modo concentrato tutte le sue debolezze e le sue illusioni. Ci riferiamo a quanto avvenuto all’ospedale di Kilkis in Macedonia centrale nel nord del paese, dove il personale ospedaliero riunito in assemblea generale ha deciso di mettersi in sciopero e di occupare l’ospedale per richiedere gli stipendi non pagati pur prendendo l’iniziativa di continuare a far funzionare le emergenze ed a prodigare cure gratuite ai più indigenti. Questi lavoratori hanno lanciato un appello[1]1 diretto agli altri lavoratori con cui si proclamava che “la sola autorità legittima per prendere le decisioni amministrative sarà l’assemblea generale dei lavoratori”. Abbiamo riprodotto sul nostro sito la traduzione di questo appello perché manifesta una chiara volontà di non restare isolati chiamando, non solo gli altri ospedali ma tutti i lavoratori di tutti i settori a raggiungerli nella lotta. Tuttavia, quest’appello traduce anche molte illusioni democratiche laddove si vuole appoggiare su di “una reazione cittadina” e su un’indistinta “unione popolare”, “con la collaborazione di tutti i sindacati ed organizzazioni politiche progressiste ed i media di buona volontà”. L’appello è anche pesantemente impregnato di patriottismo e di nazionalismo: “Siamo determinati a continuare finché i traditori che hanno venduto il nostro paese se ne vadano”, che sono dei veri veleni per l’avvenire della lotta. Sono questi, in effetti, i principali fattori di deterioramento di questo movimento “popolare” in Grecia che resta arenato ed invischiato nella trappola del nazionalismo e delle divisioni nazionali tesa e sostenuta con ogni mezzo dai politici e dai sindacati. Al centro delle manifestazioni si vedono ovunque sventolare bandiere greche. Tutti i partiti ed i sindacati spingono ad inasprire un sentimento di “fierezza nazionale offesa”. Al vertice di questa demagogia populista, il Partito comunista greco, il KKE, che gioca lo stesso ruolo della Lega nostrana e di varie frange di destra e di sinistra, continua a diffondere questa propaganda sciovinista largamente attizzata dai principali partiti, spingendo verso il vicolo cieco della difesa degli interessi del paese: il governo è accusato di vendere, ed anche di svendere, il paese all’estero, di essere un traditore della difesa della nazione. Si inocula l’idea che il responsabile della situazione non è il sistema capitalista in sé ma che la colpa sarebbe dell’Europa, della Germania o degli Stati Uniti. Questo autentico veleno che devia la lotta di classe sul campo putrido delle divisioni nazionali, dove si esercita a pieno la concorrenza capitalista, rappresenta non solo un vicolo cieco ma anche uno dei maggiori ostacoli all’indispensabile sviluppo dell’internazionalismo proletario.
Noi non abbiamo interessi nazionali da difendere. La nostra lotta deve svilupparsi ed unificarsi al di là delle frontiere. E per questo è vitale che i proletari degli altri paesi entrino in lotta dimostrando nel concreto che la risposta degli sfruttati del mondo intero di fronte agli attacchi del capitalismo non è e non può avvenire sul campo nazionale.
W. (8 febbraio)
[1] “L’ospedale di Kilkis in Grecia sotto il controllo dei lavoratori”, https://it.internationalism.org/node/1156 [1]
Una crisi da paura!
Ormai la crisi economica non è più soltanto un argomento importante di discussione. La crisi è diventata qualcosa che si vive e si patisce ogni giorno, con i licenziamenti e la mancanza di lavoro per i giovani, con l’aumento di qualunque genere di prima necessità e la riduzione al lumicino degli ammortizzatori sociali, con un governo che sforna una legge dopo l’altra per togliere il pane di bocca a famiglie già allo stremo e con il controcanto di partiti e sindacati che fanno finta di fare opposizione per giustificare la propria esistenza ma che, alla fine, fanno passare qualunque porcheria. Come giustamente ha ricordato più volte la Fornero, questo è un governo che è stato chiamato a svolgere un compito preciso, quello di fare la pelle alla povera gente per rimettere in sesto un capitalismo ormai barcollante. Insomma esattamente come avviene per i killer assoldati per compiere il lavoro sporco che altri non vogliono o non possono fare. I lavoratori precari e le partite iva “mascherate”, utilizzati ormai al posto dei dipendenti in numerosi settori, sono oggi più che mai sotto ricatto e ridotti alla pura sopravvivenza; quelli “disdettati” dall’oggi al domani sono ridotti alla fame perché non è per loro previsto nessun tipo di ammortizzatore sociale e sempre più cadono in profonda disperazione alimentata anche dalle condizioni di isolamento e concorrenza nelle quali abitualmente lavorano. Gli “esodati”, ovvero quei lavoratori (da 130.000 a 300.000) che avevano accettato di lasciare le aziende in crisi pensando di poter andare in pensione dopo pochi mesi, si sono ritrovati tra capo e collo una riforma previdenziale che ha aumentato l’età di pensionamento, finendo incredibilmente in una situazione sociale che non prevede per loro né una pensione né uno stipendio fino a maturazione della nuova età pensionabile prevista dalla nuova legge, ovvero tra 2, 3, 4… anni.
Nessuna meraviglia che questa situazione porti allo sconforto più profondo. Già nel 2010[1]ben 392 disoccupati si erano tolti la vita. E, a dimostrazione del fatto che la crisi non è un escamotage degli imprenditori per tenere sotto ricatto i lavoratori ma l’espressione di un processo oggettivo, fa dolorosamente da contrappunto la notizia che nello stesso anno 336 imprenditori hanno a loro volta deciso di suicidarsi. Insomma in media ogni giorno un lavoratore dipendente e un imprenditore decidono che non riescono più a sopportare le sofferenze che comporta questa società. E il governo che fa? Continua nella sua marcia di stritolamento della popolazione come se niente fosse, affrontando adesso la riforma del lavoro e la modifica dell’articolo 18. Certo, l’abolizione dell’articolo 18 sarebbe una vera porcheria. Ma c’è da chiedersi come mai i media, i politici, i sindacati, soprattutto quelli di "sinistra", hanno dato tanta enfasi all'articolo 18. Forse che questo è servito in passato a difendere dei posti di lavoro, a bloccare il dilagare della precarizzazione o a restituire ai giovani e meno giovani una prospettiva di vita decente? Non ci pare proprio! Ed allora, perché la Camusso solo in questa occasione ha fatto la tosta, “minacciando” una lotta “durissima”?[2] La realtà è che l’attacco serio è già passato o sta passando, ma attraverso altre forme, mentre l’articolo 18 può far comodo sia per veicolare tutto lo scontento su una singola questione che per creare un elemento di divisione all’interno del mondo del lavoro. Nel 2010 sono “quasi 7 milioni i “protetti”, circa 6 milioni e 400 mila gli “esclusi”. (…) Tra gli esclusi (…) 4 milioni e 640 mila dipendenti in aziende con meno di 15 dipendenti, 825 mila dipendenti a termine delle aziende medio-grandi e poco più di 900 mila collaboratori e partite iva con un unico committente. (…) Scendendo lungo lo stivale il rapporto tra lavoratori protetti e non diminuisce, anche perché sale la proporzione di lavoratori in aziende con meno di 15 dipendenti. Solo per il 45% delle donne vale il reintegro sul posto di lavoro, ed il divario tra giovani ed adulti in protezione dal licenziamento è di quasi 20 punti percentuali, a causa anche dell’elevata incidenza di contratti a termine tra gli Under 30.”[3] Si capisce bene dalle cifre riportate come la focalizzazione su questo punto possa essere utilizzata per creare una spaccatura a vari livelli all’interno della classe tra chi è coinvolto dalla misura e chi, non essendo toccato, può essere indotto a pensare che forse è addirittura meglio che ci sia un unico destino per tutti, che nessuno venga protetto dalla legge e così via. Inoltre il ridimensionamento dell’articolo 18, anche se non ha un significato economico immediato, tornerà utile in certe occasioni per liberarsi di lavoratori “scomodi”; infatti, con la nuova versione dell’art.18, sarà più facile trovare un “pretesto” economico per licenziare chi dà fastidio; stanno usando insomma la gravità della crisi sia per dare mazzate che servono nell’immediato, sia per aumentare ancora di più la ricattabilità dei lavoratori.
D’altra parte, di fronte alla necessità di procedere ad ulteriori attacchi (“Sacrifici fino al 2013, ci battiamo per evitare il destino della Grecia”, Monti, 18 aprile 2012) e di fronte alla prospettiva più che probabile di scossoni sociali sempre più forti, la borghesia non ha altra carta da giocarsi che quella di confondere l’avversario, appunto cercando di dividerlo. Così si mettono dipendenti privati contro dipendenti pubblici, impiegati a tempo indeterminato contro precari e partite iva, come già per le pensioni sono stati messi anziani contro giovani, dipendenti contro autonomi o come per la lotta all'evasione sono stati contrapposti dipendenti contro autonomi, commercianti ecc., il tutto con la partecipazione attiva del Presidente della Repubblica, ex-“comunista”, dei sindacati e dei partiti di “sinistra”.
Almeno servisse a qualcosa tutto questo sacrificarsi!
Eppure ci avevano raccontato che questa crisi era di natura finanziaria e che la sua origine era colpa di qualche banchiere e di pochi “furbetti”, e che se si era aggravata era per colpa di politici incapaci e dediti solo a fare festini e bunga-bunga, che non erano capaci di intervenire contro l’aumento della disoccupazione, l’evasione fiscale, ecc. E’ per questo che è stato chiamato, con un’insistenza da parte di tutti i paesi europei, il nuovo governo composto da tecnici, professori ed esperti che dovevano, con onestà e rigore, rimettere le cose a posto. Oggi da questo governo, appoggiato dai tre partiti più rappresentativi, ci viene detto che per “salvarci”, per non fare la fine della Grecia, dobbiamo fare ancora “sacrifici”, e che non c’è altra via di salvezza; che il rigore e l’onestà ci riporteranno ad essere un paese solido e “virtuoso”; che finalmente questo governo farà pagare le tasse a tutti; che grazie alle manovre (fatte di tagli ed aumenti di tasse) fin qui approvate è sceso lo spread ed è aumentata la credibilità del nostro paese nel panorama mondiale, grazie anche alla migliore ”immagine” di questo governo rispetto al precedente.
C’è pure il discorso secondo il quale se tutti pagassero le tasse, allora il povero imprenditore non sarebbe arrivato al suicidio. Per cui i blitz fatti dalla guardia di finanza nelle ricche città del turismo di lusso servono per mostrare che la situazione è difficile ma che “ci stiamo dando da fare”.
Ci raccontano anche che gli italiani, anche se molto preoccupati, hanno capito e sono solidali con questo governo formato da gente seria ed onesta, e ci sentiamo dire da più parti che se il Professor Monti si dovesse presentare alle prossime elezioni politiche del 2013 prenderebbe la maggioranza schiacciante dei voti.
Ma dopo cinque mesi di governo “tecnico” del Professor Monti, non solo la crisi continua, ma le previsioni a livello internazionale sono decisamente critiche mentre il famoso spread, che è stato l’espediente per far fuori Berlusconi, torna a puntare su quota 400 e le borse crollano. Possibile che dopo tutto quanto abbiamo fatto siamo ancora al punto di partenza?
La disoccupazione è in notevole aumento, le tariffe lievitano, le tasse aumentano vistosamente così come i prezzi dei generi di prima necessità, a fronte di una diminuzione dei redditi, insomma quel tanto decantato miglioramento dov’è?
Assistiamo semmai ad un crescente impoverimento generale!
In risposta a questa situazione abbiamo finora assistito a reazioni e a lotte da parte dei lavoratori, già descritte in precedenti articoli[4]4, con i sindacati a farla da padrone nel frenare e dividere eventuali spinte dal basso.
La situazione alla quale stiamo in questo momento assistendo è quella di una borghesia del tutto incapace di dare una risposta credibile a questa crisi per il semplice motivo che non c’è una risposta, che mette a rischio la sopravvivenza del suo stesso sistema e che tira mazzate alla cieca, tentando di dividere ed isolare e portando sempre più larghi strati di popolazione alla disperazione.
Ma tutto ciò dimostra solo che questo sistema è alla frutta e che la borghesia, nonostante la sua palese incapacità di trovare vie di uscita, piuttosto che lasciare è disposta a distruggere tutto, il che rende evidente che senza l’abbattimento di questo sistema ci aspetta la barbarie. Per questo oggi più che mai è necessario che il proletariato si unisca e prenda coscienza del compito che lo aspetta.
Tommaso, 20/4/2012
[1] Dato Istat riportato dalla stampa il 18 aprile scorso.
[2] Cioè 16 ore di sciopero, mamma mia che paura per i padroni.
[4] “Lotta di classe in Italia: perché le lotte non riescono ad unirsi in un unico fronte contro il capitale?” https://it.internationalism.org/node/1125 [5] e “Tolto Berlusconi, venuto Monti, restano la crisi e le batoste sulla pelle dei proletari. Come possiamo rispondere?”, https://it.internationalism.org/node/1147 [6]
Ma lo scoppio degli scandali non corrisponde certo a un sussulto di moralità di una parte dell’apparato. Al contrario, gli scandali non sono altro che un modo di regolare i conti fra queste bande di gangster, tutte unite quando si tratta di tenere sotto controllo gli oppressi, ma pronte a scannarsi fra loro appena è possibile, o necessario per aggiustare un po’ di carte per il proprio capitale[1].
Ed è anche questo il caso per l’attuale scandalo che coinvolge la Lega. La Lega è sempre stata un partito anomalo nel quadro politico classico, un partito regionale senza un’etnia di riferimento (la Padania non è mai esistita), che con la sua politica localista metteva in difficoltà la stabilità del regime, con un linguaggio poco politically correct (anche se efficace verso i propri seguaci), ma che tuttavia è stata utile per assicurare la resistenza dei governi di centrodestra fino a che l’irresponsabilità e l’incapacità di Berlusconi non hanno convinto la borghesia a metterlo da parte e formare un governo che fosse più capace di far fronte alla tempesta della crisi economica attuando una feroce politica di austerità. Fino ad allora (e stiamo parlando di cinque mesi fa) nemmeno veniva ipotizzato che nella Lega ci potesse essere corruzione, eppure l’elezione di un personaggio come Renzo Bossi era un bel segno di quel nepotismo che è un parente stretto della corruzione, la villa di Gemonio della famiglia Bossi era già stata ristrutturata con i soldi della Lega, la casa che una simpatizzante aveva lasciato in eredità alla Lega Bossi se l’era già venduta trattenendosi i soldi; insomma tutti gli atti oggi sotto accusa e che hanno già causato un terremoto interno alla Lega erano già stati commessi e non è possibile che nessuno sapesse o sospettasse. La questione è che cinque mesi fa la Lega tornava comoda ed oggi non è più così.
L’operazione governo Monti non serve solo ad affrontare con energia diversa la crisi economica, serve anche a cercare di rinnovare la politica italiana, a mettere fine a quel teatrino politico che, a dispetto di tutte le alchimie sul sistema elettorale, o non garantisce una stabilità ai governi, o comunque non garantisce un sufficiente senso di responsabilità verso gli interessi generali del capitale nazionale (che è l’accusa vera che la borghesia fa a Berlusconi, anche se i giornali preferiscono parlare del suo scarso senso etico): insomma il governo Monti è un monito a tutti i partiti ad essere più seri e più responsabili.
In questo quadro un partito come la Lega (che peraltro non serve ad assicurare la maggioranza al governo) non andava più bene, almeno non andava più bene così come si era presentato finora[2]. Perciò scoppia lo scandalo, che non necessariamente ha l’obiettivo di farla sparire, anzi molto più probabilmente ha il doppio obiettivo di ridimensionarla e soprattutto di costringerla a rientrare nei canoni di comportamenti politici più seri. Non a caso ci sono frange interne alla Lega stessa che spingono per un cambiamento radicale, un cambiamento che ovviamente deve anche significare una rimozione dei rappresentanti più importanti della Lega partito folcloristico e populista[3]3. E quello delle denunce e della messa in evidenza delle malefatte è ovviamente il metodo più rapido e sicuro per portare a termine l’operazione di rinnovamento. Un ulteriore elemento che lascia pensare che l’obiettivo sia un ridimensionamento e non la sparizione della Lega è la preoccupazione con cui anche il principale alfiere del rinnovamento e dell’operazione di pulizia, Maroni, sta ben attento a salvare il gran capo, Bossi, a dispetto del fatto che molti dei soldi sottratti alle case del partito siano stati spesi per la famiglia di Bossi e per quelli che gli erano più vicini. Maroni non cerca di salvare Bossi per affetto (tra questi banditi questi sentimenti non esistono), ma perché il coinvolgimento fino in fondo di Bossi sarebbe probabilmente fatale per la sopravvivenza stessa della Lega.
Questi scandali, se hanno come primo obiettivo di regolare i conti interni alle forze politiche borghesi, vengono utilizzati contro i proletari seminando l’illusione che ci possano essere campagne moralizzatrici in questo sistema si sfruttamento e di ruberie, mentre deve essere chiaro che questo sistema non conosce né morale, né scrupoli, e può solo aumentare il degrado della società, dal punto di vista morale oltre che economico.
Helios, 25/4/2012
[1] . Il caso più famoso di queste operazioni di pulizia tutte a profitto dei piani del capitale è stato Mani Pulite, un sistema per fare fuori un partito ormai non più utile dopo il crollo del blocco sovietico, e cioè quella DC che aveva garantito per 40 anni la fedeltà dell’Italia all’alleanza con gli USA contro il pericolo “rosso”.
[2] . La Lega ha comunque svolto, e può continuare a svolgere, un ruolo utile al mantenimento del sistema, nella misura in cui riesce a controllare settori importanti di popolazione (anche di lavoratori) in una regione cruciale dal punto di vista produttivo come il nord Italia.
[3] . Sembra addirittura che le indagini siano partite con denunce di militanti della Lega, militanti evidentemente ben guidati da quei dirigenti che sapevano e non volevano esporsi in una denuncia.
La storia potrebbe finire qui, aspettando il verdetto della magistratura indiana e avendo a disposizione le poche ma chiare informazioni: non c’è stato uno scontro a fuoco ma una incapacità dei marò nel controllare la situazione e non premere il grilletto. Ma i due Stati, il Kerala e l’Italia, ne hanno approfittato per tirare acqua al proprio mulino.
Ambedue, infatti, nell’illustrare i fatti, non si sono preoccupati affatto dei due pescatori uccisi e del grave pericolo che corrono le piccole imbarcazioni, come quella dei pescatori, quando vengono avvicinate da petroliere e portacontainer con uomini armati a bordo. Ambedue invece hanno utilizzato argomenti giuridici relativi al processo ai due marò, a favore o contro la loro punizione, facendo di tutta la storia solo una questione di dignità nazionale, di solidarietà nazionale.
In più, in Italia, è stata scatenata una campagna di orgoglio nazionale che ha trovato sbocco non solo sulle prime pagine dei quotidiani, ma anche nelle pagine dei social network con frasi come “sosteniamo i nostri marò”, “non compriamo prodotti indiani” e simili. Non sappiamo cosa dicono i giornali del Kerala, ma potremmo immaginarlo pensando a quante ne sono state dette in Italia contro i piloti americani che nel febbraio ’98, volando a bassa quota, tranciarono i cavi di una funivia facendo 20 vittime, tra cui tre italiani. In quel caso le parti erano rovesciate, ma gli Stati Uniti riuscirono ad imporsi. Di casi analoghi se ne possono trovare a decine.
Il governo italiano solleva la questione che “l’incidente” sarebbe avvenuto, in acque internazionali per poter affidare alla magistratura italiana il giudizio sulla vicenda, non avendo fiducia nella magistratura indiana. E qui ci sarebbe da ridere, sapendo come vanno le cose in casa nostra, con i delinquenti che la fanno sempre franca e i poveri cristi lasciati a marcire nelle patrie galere. In breve, si vorrebbe incolpare i pescatori indiani di abbordaggio e far pagare all’India le spese processuali e i danni economici per il blocco della nave. Nessuno si meraviglia del fatto che dei soldati pagati da noi lavoratori vengano incaricati del controllo della sicurezza di navi di società private. L’armatore paga per l’utilizzo di questi soldati? E a chi? Nessuno si meraviglia dell’armamento trovato a bordo, 8 tra fucili mitragliatori e simili solo per due soldati!
I due soldati, che in un primo momento hanno ammesso di aver sparato, hanno poi mantenuto il più stretto silenzio tranne che proclamare il loro “orgoglio italiano!”, come hanno ampiamente riportato i giornali di quei giorni. E dov’è l’orgoglio nello sparare con un mitra col cannocchiale addosso a della gente senza accertarsi prima di chi si tratta?
Il governo del Kerala, da parte sua, ha usato la mano dura contro i due soldati e ha trattenuto la nave, non per fare giustizia ma perché è in periodo elettorale e non può dimostrare una debolezza nei confronti di uno Stato estero. Nei fatti ci sono anche trattative segrete dove sicuramente si faranno proposte di pagamento come risarcimento, ma ben poco finirà alle famiglie dei pescatori uccisi. Il governo centrale dell’India, che non può permettersi di portare avanti per le lunghe questa storia perché nuoce ai suoi interessi commerciali con l’Italia, farà di tutto per far liberare i due soldati.
Difficilmente i governi si preoccupano di fare chiarezza e giustizia su storie come questa, per loro la vita degli uomini non conta nulla, soprattutto quella dei “semplici” lavoratori, e quando se ne occupano, lo fanno per ben altri interessi.
I funerali di Stato, le onorificenze, i bei discorsi sui giovani soldati italiani che muoiono per la pace in Afghanistan, servono a giustificare e a cercare la complicità con lo Stato italiano nel massacro quotidiano di decine e decine di esseri umani in questo paese. E chi muore sul lavoro, chi si toglie la vita perché disoccupato, perché pieno di debiti, perché esasperato dal fatto di non poter mantenere la famiglia, non ha diritto neanche ai funerali di Stato né a qualsiasi altro riconoscimento, anzi, se si è dato fuoco perché pieno di debiti, questi li devono comunque pagare i suoi famigliari. Questi sono solo fatti di cronaca o tutt’al più vengono usati come dato in qualche statistica.
Per questo, da parte nostra nessuna solidarietà allo Stato del Kerala, allo Stato italiano né tantomeno ai rispettivi eserciti e tribunali. Noi siamo per lo smantellamento di tutti gli eserciti e tutti gli Stati. La nostra solidarietà va tutta alle famiglie dei due pescatori uccisi, ai proletari indiani che per sopravvivere devono rischiare la vita ogni giorno, così come ai proletari di tutto il mondo.
Oblomov
Pubblichiamo qui un volantino internazionale, che la CCI sta diffondendo ovunque è presente, dove si fa un primo bilancio dei movimenti degli Indignati e degli “Occupy” che si sono sviluppati nel 2011, per contribuire al dibattito sul loro significato e la loro importanza.
I due eventi più significativi del 2011 sono stati la crisi globale del capitalismo[1] ed i movimenti sociali in Tunisia, in Egitto, in Spagna, in Grecia, in Israele, in Cile, negli Stati Uniti, in Gran Bretagna …
L’indignazione ha preso una dimensione internazionale
Le conseguenze della crisi capitalista sono estremamente dure per l’immensa maggioranza della popolazione mondiale: deterioramento delle condizioni di vita, disoccupazione che si prolunga per anni, precarietà che rende impossibile la benché minima esigenza vitale di stabilità, situazioni estreme di povertà e di fame …
Milioni di persone si rendono conto con preoccupazione del fatto che ogni possibilità di “una vita stabile e normale”, di “un futuro per i loro figli” diventa irraggiungibile. Questo ha provocato un’indignazione profonda, ha portato a rompere la passività, a scendere nelle strade e nelle piazze, a porsi delle domande sulle cause di una crisi che, nella sua fase attuale, dura già da oltre cinque anni.
L’indignazione è montata ancora di più per l’arroganza, la voracità e l’indifferenza rispetto alle sofferenze della maggioranza della popolazione di banchieri, politici e altri rappresentanti della classe capitalista. Ma anche a causa dell’incompetenza dei governi di fronte ai gravi problemi della società: le misure che questi prendono non fanno che aumentare la miseria e la disoccupazione senza darvi la minima soluzione.
Il movimento d’indignazione si è esteso a livello internazionale. È nato in Spagna dove il governo socialista aveva realizzato uno dei primi e più duri piani d’austerità; in Grecia, diventata il simbolo della crisi economica mondiale attraverso l’indebitamento; negli Stati Uniti, tempio del capitalismo mondiale; in Egitto ed in Israele paesi situati in uno dei peggiori e più acuti fronti del conflitto imperialista, quello del Medio Oriente.
La coscienza che si tratta di un movimento globale inizia a svilupparsi, nonostante il peso distruttivo del nazionalismo (presenza di bandiere nazionali nelle manifestazioni in Grecia, in Egitto e negli Stati Uniti). In Spagna, la solidarietà con i lavoratori in Grecia si è espressa al grido di “Atene resisti, Madrid si solleva!”. Gli scioperanti di Oakland (California, novembre 2011) proclamavano la loro “solidarietà con i movimenti di occupazione a livello mondiale”. In Egitto è stata approvata una Dichiarazione del Cairo di sostegno al movimento negli Stati Uniti. In Israele, gli Indignati hanno gridato “Netanyahu, Mubarak, El Assad, sono la stessa cosa” ed hanno preso contatto con i lavoratori palestinesi.
Oggi, il punto culminante di questi movimenti è dietro di noi, anche se si vedono apparire nuove lotte (Spagna, Grecia, Messico). E allora molta gente si chiede: a cosa è servita tutta quest’ondata d’indignazione? Abbiamo guadagnato qualcosa?
“Prendi la strada!”, slogan comune ai vari movimenti
Erano più di trent’anni che non si vedevano le folle occupare le strade e le piazze per provare a lottare per i propri interessi, al di là delle illusioni e delle confusioni che possono esistere.
Quelle persone, i lavoratori, gli sfruttati, tutti quelli che sono stati dipinti come indolenti falliti, gente senza iniziativa o incapace di fare qualcosa in comune, sono arrivati ad unirsi, a condividere, a creare e rompere l’asfissiante passività che ci condanna alla sinistra normalità quotidiana di questo sistema.
E’ stata un’iniezione di incoraggiamento, l’inizio di uno sviluppo della fiducia nella nostra capacità, della riscoperta della forza che dà l’azione collettiva di massa. La scena sociale sta cambiando. Il monopolio sulle questioni pubbliche esercitato dai politici, gli esperti, i “grandi di questo mondo” inizia ad essere messo in discussione dalle folle anonime che vogliono farsi ascoltare[2].
Certo è un punto di partenza fragile. Le illusioni, le confusioni, l’inevitabile va e vieni degli stati d’animo, la repressione, i pericolosi vicoli ciechi verso i quali spingono le forze d’inquadramento dello Stato capitalista (i partiti di sinistra ed i sindacati) imporranno passi dietro e amare sconfitte. E’ è un cammino lungo e difficile, disseminato di ostacoli e sul quale non si ha nessuna garanzia di successo, ma il fatto stesso di mettersi in marcia è già una vittoria.
Le Assemblee generali sono il cuore del movimento
Le folle non si sono limitate a gridare passivamente il loro malessere ma hanno preso l’iniziativa di organizzarsi in assemblee. Le assemblee di massa sono la concretizzazione dello slogan della Prima Internazionale (1864) “L’emancipazione dei lavoratori sarà opera dei lavoratori stessi o non sarà”. Esse si iscrivono nella continuità della tradizione del movimento operaio che prende inizio con la Comune di Parigi e assume la sua espressione più elevata in Russia nel 1905 e nel 1917, continuando nel 1918 in Germania, 1919 e 1956 in Ungheria, 1980 in Polonia.
Le assemblee generali ed i consigli operai sono le forme distintive dell’organizzazione della lotta del proletariato ed il nucleo di una nuova organizzazione della società.
Assemblee per unirsi in massa ed iniziare a rompere le catene che ci legano alla schiavitù salariale: l’atomizzazione, il ciascuno per sé, la chiusura nel ghetto del settore o della categoria sociale.
Assemblee per riflettere, discutere e decidere, diventare collettivamente responsabili di quello che viene deciso, partecipando tutti sia alla decisione che alla messa in opera di quello che è stato deciso.
Assemblee per costruire la fiducia reciproca, l’empatia, la solidarietà, che non sono soltanto indispensabili per portare avanti la lotta ma saranno anche i pilastri di una società futura senza classi né sfruttamento.
Il 2011 ha conosciuto un’esplosione della vera solidarietà, che non ha niente a che vedere con la “solidarietà” ipocrita ed interessata che ci predicano: a Madrid ci sono state manifestazioni per esigere la liberazione degli arrestati o impedire che la polizia fermasse gli emigrati; azioni di massa contro gli sfratti in Spagna, in Grecia e negli Stati Uniti; a Oakland, “l’assemblea degli scioperanti ha deciso di inviare dei picchetti o occupare qualsiasi impresa e scuola che in qualche modo prenda sanzioni contro dipendenti e studenti che hanno partecipato allo sciopero generale del 2 novembre”. Si sono potuti vivere momenti, certo ancora molto episodici, dove chiunque poteva sentirsi protetto e difeso dai suoi simili, cosa che è in forte contrasto con quella che è la “normalità” in questa società, cioè il sentimento angosciante di essere senza difese e vulnerabile.
La cultura del dibattito illumina il futuro
La coscienza necessaria perché milioni di lavoratori trasformino il mondo non si acquisisce in corsi universitari o seguendo le consegne geniali di capi illuminati, ma è il frutto di un’esperienza di lotta accompagnata e guidata da un dibattito che analizza ciò che si sta vivendo, tenendo conto del passato e proiettandosi sempre verso il futuro perché, come diceva un cartello in Spagna “Non c’è futuro senza rivoluzione!”.
La cultura del dibattito, cioè la discussione aperta che parte dal rispetto reciproco e dall’ascolto attento, è iniziata a germogliare non solo nelle assemblee ma anche intorno ad esse: sono state messe su biblioteche ambulanti, sono state organizzati incontri, discussioni, scambi … Nelle strade e nelle piazze si è improvvisata una vasta attività intellettuale con mezzi precari che, come per le assemblee, ha significato un ricollegarsi all’esperienza passata del movimento operaio: “La sete d’istruzione, non soddisfatta per tanto tempo, è diventata con la rivoluzione un vero delirio. Dall’Istituto Smolny ogni giorno, durante i primi sei mesi, sono uscite tonnellate di letteratura che, in carri o in treni, si sono riversate sul paese. La Russia assorbiva, insaziabile, come la sabbia calda assorbe l’acqua. E non dei romanzi grotteschi, della storia falsificata, della religione diluita, tutta questa letteratura a buon mercato che perverte, ma teorie economiche e sociali, filosofia, opere di Tolstoj, di Gogol, di Gorki”[3]. Di fronte alla cultura di questa società che propone di lottare per dei “modelli di successo”, il che è alla base di milioni di fallimenti, contro i falsi e alienanti stereotipi che l’ideologia dominante ed i suoi mass media martellano giorno dopo giorno, migliaia di persone hanno iniziato a ricercare una cultura popolare autentica, costruita da loro stessi, provando a forgiare dei propri valori, in modo critico ed indipendente. In questi assembramenti si è parlato della crisi e delle sue cause, del ruolo delle banche, ecc. Si è parlato di rivoluzione, anche se in questo concetto sono state versate molte cose differenti, a volte disparate; si è parlato di democrazia e di dittatura, il tutto sintetizzato nei due slogan complementari: “La chiamano democrazia e non lo è!” e “E’ una dittatura e non si vede!”[4].
Si sono fatti i primi passi perché emerga una vera politica della maggioranza, distante dal mondo degli intrighi, delle menzogne e delle torbide manovre che sono propri della politica dominante. Una politica che abborda tutti gli argomenti che ci toccano, non soltanto l’economia o la politica, ma anche l’ambiente, l’etica, la cultura, l’istruzione o la salute.
Il proletariato ha tra le sue mani le chiavi del futuro
Se tutto quello che abbiamo detto fa del 2011 l’anno dell’inizio della speranza, dobbiamo tuttavia avere una visione lucida e critica sui movimenti che abbiamo vissuto, i loro limiti e le loro debolezze che sono ancora numerosi.
Anche se sempre più gente in tutto il mondo è convinta che il capitalismo sia un sistema obsoleto, che “perché l’umanità possa vivere, il capitalismo deve morire”, si tende però a ridurre il capitalismo ad un pugno di “cattivi” (finanzieri senza scrupoli, dittatori senza pietà) mentre c’è una complessa rete di relazioni sociali che deve essere attaccata nella sua totalità e non bisogna disperdersi dietro le sue espressioni multiple e variegate (la finanza, la speculazione, la corruzione dei poteri politico-economici).
Se il rigetto di una violenza di cui il capitalismo trasuda da tutti i pori (repressione, terrore e terrorismo, barbarie morale) è più che giustificato, ciò non toglie che questo sistema non potrà essere abolito dalla semplice pressione pacifica e cittadina. La classe minoritaria non abbandona volontariamente il potere, essa si protegge dietro uno Stato che, nella sua versione democratica, è legittimato da elezioni ogni 4 o 5 anni, con partiti che promettono quello che non faranno mai e fanno quello che non avevano mai detto, e con dei sindacati che mobilitano per smobilitare e finiscono per firmare tutto quello che la classe dominante gli mette sul tavolo. Solo una lotta di massa, dura e tenace, potrà dare agli sfruttati la forza necessaria per distruggere i mezzi di repressione di cui dispone lo Stato e rendere reale la parola d’ordine così spesso ripresa in Spagna: “Tutto il potere alle Assemblee”.
Anche se lo slogan “Siamo il 99% contro l’1%”, popolare nei movimenti di occupazione negli Stati Uniti, manifesta un inizio di comprensione del fatto che la società è crudelmente divisa in classi, la maggioranza dei partecipanti a questi movimenti si vede come “cittadini attivi” che vogliono essere riconosciuti in una società di “cittadini liberi ed uguali”.
E tuttavia la società è divisa in classi, una classe capitalista che possiede tutto e non produce niente ed una classe sfruttata, il proletariato, che produce tutto e possiede sempre meno. Il motore dell’evoluzione sociale non è il gioco democratico della “decisione di una maggioranza di cittadini” (questo gioco è piuttosto la maschera che copre e legittima la dittatura della classe dominante) ma la lotta di classe.
Il movimento sociale ha bisogno di articolarsi intorno alla lotta della principale classe sfruttata, il proletariato, che produce collettivamente l’essenziale delle ricchezze e garantisce il funzionamento della vita sociale: le fabbriche, gli ospedali, le scuole, le università, i porti, gli uffici, gli uffici postali … In alcuni movimenti nel 2011 la forza di questa classe sfruttata ha iniziato ad apparire: a partire dal momento in cui è scoppiata in Egitto l’ondata di scioperi, il potere è stato costretto a sbarazzarsi di Mubarak. A Oakland (California), gli “occupiers”[5] hanno chiamato ad uno sciopero generale, sono andati al porto e sono riusciti ad avere il sostegno attivo dei lavoratori del porto e dei camionisti. A Londra, gli elettrici in sciopero e gli occupanti di Saint-Paul sono confluiti in azioni comuni. In Spagna, le assemblee di piazza ed alcuni settori in lotta hanno teso ad unificarsi.
Non esiste alcuna opposizione tra la lotta del proletariato moderno ed i bisogni profondi degli strati sociali ridotti in miseria dall’oppressione capitalista. La lotta del proletariato non è un movimento particolare o egoista ma la base del “movimento autonomo dell’immensa maggioranza a beneficio dell’immensa maggioranza” (Manifesto Comunista).
Riprendendo in modo critico le esperienze di due secoli di lotta proletaria, i movimenti attuali potranno trarre vantaggio dai tentativi di lotta e di liberazione sociale del passato. Il cammino è lungo e pieno di ostacoli, cosa insita in uno slogan ripetuto spesso l’anno scorso in Spagna “l’essenziale non è andare veloce, ma andare lontano”. Sviluppando un dibattito il più ampio possibile, senza alcuna restrizione e senza scoraggiamento, per preparare coscientemente nuovi movimenti, possiamo agire perché diventi realtà questa speranza: un’altra società è possibile!
CCI, 12 marzo 2012
[1] In stretta relazione alla crisi globale del sistema, il gravissimo incidente alla centrale nucleare di Fukushima in Giappone ci mostra i grandi pericoli in cui incorre l’umanità.
[2] E’ significativo che il Times Magazine abbia designato “Uomo dell’anno” il “Protester” (l’Indignato). Vedi: time.com/time/specials/packages/article/0,28804,2101745_2102132_2102373,00.html
[3] John Reed, “10 giorni che sconvolsero il mondo”.
[4] In spagnolo: “Lo llaman democracia y no lo es” e “Es una dictadura y no se ve”.
[5]Letteralmente “Occupanti”, indica i partecipanti al movimento Occupy.
In India, il 28 febbraio scorso c’è stata una giornata di sciopero proclamata dalle undici centrali sindacali nazionali (è la prima volta dall’indipendenza del paese nel 1947 che queste agiscono insieme) e da 50.000 sindacati più piccoli, che rappresentano 100 milioni di lavoratori attraverso tutto il paese. Lo sciopero ha riguardato numerosi settori, in particolare gli impiegati di banca, i lavoratori delle poste e dei trasporti pubblici, gli insegnanti, i portuali … Questa mobilitazione è stata salutata come uno degli scioperi più grandi del mondo fino ad oggi.
Il fatto che milioni di lavoratori si siano mobilitati mostra che, nonostante tutti i discorsi sul boom economico indiano, la situazione che vive la classe operaia è tutt’altra. Ad esempio, i centri della telefonia e l’industria legata all’informatica in India, che dipendono al 70% da società americane, subiscono pesantemente il peso della crisi economica. E questo è vero per molti altri settori. L’economia indiana non è al di fuori dal resto dell’economia mondiale e dalla sua crisi.
Anche in India quindi la rabbia operaia si fa sentire. Ecco perché i sindacati si sono messi tutti d’accordo sull’appello comune allo sciopero … per far fronte, uniti, a … la classe operaia! Quale altro senso dare a quest’intesa improvvisa tra le organizzazioni sindacali, le stesse che in passato hanno al contrario sapientemente e sistematicamente mantenuto la divisione in tutte le precedenti mobilitazioni contro le misure governative.
Lungi dal mostrare che oggi la borghesia attacca senza tregua i lavoratori a causa della crisi di un sistema malato e putrescente, gli sforzi dei sindacati mirano a far credere che bisognerebbe dar fiducia a questo sistema e che la borghesia potrebbe accordare qualsiasi cosa se solo volesse. La prova è il cocktail di rivendicazioni avanzate che puntano in particolare all’ottenimento di un salario minimo nazionale, reclamando anche posti di lavoro permanenti per 50 milioni di lavoratori precari, misure governative per strozzare l’inflazione (che ha superato il 9% per buona parte di questi ultimi due anni), miglioramenti sulla previdenza sociale e sulle pensioni per tutti i lavoratori, un rafforzamento del diritto del lavoro e dei diritti sindacali, la fine della privatizzazione delle imprese statali. Queste rivendicazioni messe avanti dai sindacati poggiano tutte sull’ipotesi che il governo è capace di soddisfare i bisogni delle classi sfruttate. Così come avvalorano la falsa idea che si potrebbe ridurre l’inflazione o che smettere di vendere a privati pezzi interi dell’attività del settore pubblico, naturalmente sotto la spinta di appelli in difesa dei servizi pubblici, potrebbe in qualche modo andare a beneficio della classe operaia.
Uno “sciopero unitario” molto selettivo
I sindacati non hanno sempre richiesto ai loro membri di unirsi allo sciopero. Infatti, più di un milione e mezzo di ferrovieri e molti altri operai, la maggior parte dei quali membri di questi sindacati, non sono stati proprio chiamati a fare sciopero. Nella maggior parte delle zone industriali, in centinaia di città grandi e piccole, in tutta l’India, mentre i lavoratori del settore pubblico si mettevano in sciopero, milioni di lavoratori del settore privato continuavano a lavorare ed i loro sindacati non hanno dato nessuna indicazione di sciopero. Pur chiamando ad un “sciopero generale”, i sindacati non si sono affatto “turbati” del fatto che milioni di loro membri andassero normalmente al lavoro quel giorno.
Anche nei settori in cui i sindacati hanno chiamato allo sciopero, il loro atteggiamento è stato piuttosto quello di chiamare ad un “sciopero assenteista”. Molti lavoratori hanno fatto sciopero restando a casa. I sindacati non si sono sforzati molto per portarli in piazza tutti insieme e per organizzare delle manifestazioni, né per implicare nello sciopero i milioni di lavoratori loro iscritti del settore privato. Bisogna associare questa manovra al fatto che recentemente, e per molto tempo, gli operai del settore privato sono stati molto tra i più combattivi e meno rispettosi delle leggi della borghesia. Anche zone industriali come Gurgaon e le industrie automobilistiche vicino a Chennai, le fabbriche come la Maruti a Gurgaon e la Hyundai vicino a Chennai, dove recentemente ci sono state grandi lotte, non hanno raggiunto questo sciopero.
Perché i sindacati hanno indetto lo sciopero?
È chiaro che i sindacati non hanno usato lo sciopero per mobilitare i lavoratori, per scendere in piazza e unirsi. L’hanno usato come un rituale, come un valvola di sfogo per allentare la pressione, per dividere gli operai, incitarli alla passività e smobilitarli. Restare a casa a guardare la tv non rafforza l’unità e la coscienza dei lavoratori. Al contrario, fa solo aumentare il sentimento d’isolamento, la passività e la sensazione di aver perso un’occasione. Dato quest’atteggiamento, perché i sindacati hanno indetto lo sciopero? E cosa li ha portati ad unirsi tutti quanti, compreso il BMS[1]1 e i suoi 6 milioni e passa di iscritti? Per capirlo, dobbiamo vedere quale è la situazione reale a livello economico e sociale ed anche quello che si muove all’interno della classe operaia in India.
Il deterioramento delle condizioni di vita dei lavoratori
Nonostante i grandi discorsi sul boom economico, la situazione economica è peggiorata in questi ultimi anni. Come dappertutto l’economia è in crisi. Secondo le statistiche governative, il tasso di crescita annuale è caduto dal 9 al 6% circa. Molto industrie sono state pesantemente colpite nei settori dell’informatica, del tessile, della lavorazione dei diamanti, dei beni di consumo, dell’infrastruttura, delle società private di elettricità, dei trasporti aerei. Ciò ha portato ad intensificare gli attacchi contro la classe operaia. L’inflazione generale si attesta attorno al 10% da oltre due anni. L’inflazione a livello dei prodotti alimentari e dei beni di prima necessità è molto più alta, arrivando fino al 16%. La classe operaia affonda nella miseria.
Lo sviluppo della lotta di classe
In un tale quadro di deterioramento delle condizioni di vita e di lavoro, la classe operaia ha ripreso la via della lotta di classe. Dal 2005 si è vista un’accelerazione progressiva della lotta di classe nell’intera India, che la iscrive chiaramente nello sviluppo attuale della lotta di classe internazionale. In particolare negli anni 2010 e 2011 ci sono stati numerosi scioperi in molti settori e migliaia di lavoratori hanno preso parte ad occupazioni di fabbriche, a scioperi selvaggi e ad assembramenti di protesta. Alcuni di questi scioperi sono stati molto importanti in particolare nel settore dell’auto, come ad esempio quelli degli operai della Honda Motorcycle nel 2010 a Gurgaon e della Hyundai Motors a Chennai nel 2011, dove i lavoratori hanno più volte fermato il lavoro contro la precarietà e gli altri attacchi dei padroni ed hanno espresso un grande combattività ed una forte determinazione nello scontro con l’apparato di sicurezza dei padroni. Recentemente, tra giugno ed ottobre 2011, sempre nelle fabbriche di produzione d’auto, i lavoratori hanno agito di loro iniziativa senza aspettare le consegne sindacali mobilitandosi con una forte tendenza alla solidarietà e la volontà di estendere la lotta ad altre fabbriche.
Hanno anche espresso tendenze all’auto-organizzazione e promosso delle assemblee generali, come in occasione degli scioperi alla Maruti-Suzuki a Manesar, una città nuova legata al boom industriale nella regione di Delhi, durante i quali gli operai hanno occupato la fabbrica contro il parere del “loro” sindacato. Dopo un negoziato firmato dai sindacati all’inizio ottobre, 1.200 lavoratori sotto contratto a termine non sono stati riassunti e 3.500 operai sono quindi ripartiti in sciopero ed hanno occupato la fabbrica di assemblaggio delle automobili per esprimere la loro solidarietà. Ciò ha trainato in altre azioni di solidarietà 8.000 operai di una dozzina di altre fabbriche della regione. Per evitare il sabotaggio dei sindacati si sono creati assembramenti ed assemblee generali.
La riscoperta dell’assemblea generale, come forma più adeguata per estendere la lotta e garantire lo scambio di idee più ampio possibile, rappresenta un formidabile avanzamento per la lotta di classe. Le assemblee generali della Maruti-Suzuki a Manesar erano aperte a tutti ed incoraggiavano ognuno a partecipare alla riflessione sulla direzione e gli scopi della lotta. Oltre a quest’ondata di lotta di classe che monta lentamente, le lotte che si sono sviluppate in Medio Oriente, in Grecia, in Gran Bretagna, e l’insieme del “movimento Occupy” hanno avuto un’eco nella classe operaia indiana.
La borghesia teme il contagio della lotta di classe
Al momento dello scontro violento alla fabbrica di moto Honda e di fronte agli scioperi ripetuti alla Maruti-Suzuki, si è potuto vedere chiaramente sorgere un certo timore da parte della borghesia. I mass media hanno continuamente avanzato il fatto che gli scioperi potevano estendersi ed implicare altre compagnie automobilistiche a Gurgaon e paralizzare tutta la regione. E non era della speculazione. Quando gli scioperi principali toccavano solo poche fabbriche, altri operai sono venuti alle porte delle fabbriche in sciopero. Ci sono state manifestazioni comuni ed anche uno sciopero in tutta la città industriale di Gurgaon. Anche il governo provinciale era seriamente inquieto per la propagazione dello sciopero. Il Primo ministro ed il ministro del Lavoro dell’Haryana (uno Stato dell’India), istigati dal Primo ministro e dal ministro del Lavoro dell’Unione indiana, hanno riunito i padroni delle imprese ed i sindacati per soffocare lo sciopero.
I sindacati erano ancora più preoccupati di perdere il controllo sugli operai se la combattività fosse continuata a crescere. La stessa ansia è stata evidente negli scioperi alla Maruti nel 2011, quando gli operai hanno intrapreso molte azioni contrarie a quello che volevano le direzioni sindacali. Questa paura ha spinto i sindacati a volersi mostrare come quelli che fanno qualcosa. Hanno quindi indetto un certo numero di scioperi rituali, tra cui uno sciopero dei bancari nel novembre 2011. Lo sciopero attuale, pur essendo senza alcun dubbio un’espressione dell’aumento della rabbia e della combattività nella classe operaia, è anche uno degli ultimi sforzi in ordine di data dei sindacati per contenerla ed incanalarla.
Prendere le lotte nelle nostre mani
I lavoratori devono capire che fare una giornata di sciopero rituale e restare a casa non ci porta da nessuna parte. Ancor meno radunarsi in un parco per ascoltare i discorsi dei capoccia sindacali e dei membri delle partiti parlamentari. I padroni ed il loro governo ci attaccano perché il capitalismo è in crisi e non hanno altra scelta. Dobbiamo capire che tutti i lavoratori vengono attaccati. Restare passivi ed isolati gli uni dagli altri non scoraggia i padroni dall’intensificare gli attacchi contro i lavoratori. Gli operai devono utilizzare queste occasioni di mobilitazione per conquistare la strada, raggrupparsi e discutere con altri lavoratori. Devono prendere le lotte nelle proprie. Questo non risolverà immediatamente i problemi ma renderà possibile un vero sviluppo della lotta. Ci aiuterà a sviluppare la nostra lotta contro il sistema capitalista e a lavorare alla sua distruzione. Come dicevano quelli che hanno occupato la facoltà di legge in Grecia nel febbraio 2012, “Per liberarci dalla crisi attuale, dobbiamo distruggere l’economia capitalista!”.
Da due articoli di Communist Internationalist, organo del CCI in India (marzo 2012)
[1] Bharatiya Mazdoor Sangh, il più grande sindacato del paese, legato al BJP, il partito religioso induista fondamentalista.
Introduzione della CCI
Durante gli anni 1990 il territorio di quello che era lo Stato della Jugoslavia fu lo scenario di una serie di orribili massacri basati sull'ideologia dello sciovinismo etnico. La guerra nei Balcani causò la più feroce carneficina avvenuta nel centro del capitalismo dal 1945. La borghesia locale fece di tutto per trascinare la popolazione in una frenesia di odio etnico e nazionalista, precondizione per il sostegno o la partecipazione alla successiva e sanguinosa carneficina.
Questi odi non sono stati eliminati con la difficile pace che regna ora nella regione, per cui è di grande incoraggiamento vedere segnali dell'esistenza di quelli che in questa regione si battono per movimenti sociali contro il capitalismo e non per qualche sogno di espansione nazionale. Abbiamo visto, per esempio, un certo numero di lotte studentesche in Serbia e in Croazia, che vanno considerate come un'altra espressione della stessa tendenza internazionale sviluppatasi nell'Europa occidentale e negli USA con i movimenti degli Indignati e di Occupy. Ed ora stiamo assistendo allo sviluppo di una minoranza politicizzata genuinamente internazionalista in entrambi i paesi, che rigetta apertamente le divisioni nazionali e cerca la cooperazione fra tutti i rivoluzionari internazionalisti.
Un’espressione di questo nuovo movimento è la Dichiarazione del collettivo Birov in Serbia, recentemente formatosi da un gruppo in crescita in questo paese (vedere il loro sito web, www.revoltlib.com [16]). La pubblichiamo qui di seguito. La cosa più interessante di questa Dichiarazione, secondo noi, è la chiarezza e l’immediatezza con cui essa afferma una serie di posizioni di classe:
Gli ultimi due punti sono particolarmente importanti dati i recenti conflitti nella regione e il crescente uso della retorica nazionalista da parte della classe dominante.
La sottolineatura di queste posizioni rivoluzionarie è un implicito riconoscimento del fatto che il capitalismo non è più nella sua fase progressiva e non può più assicurare riforme permanenti: in altre parole esso è un sistema in declino[1].
La Dichiarazione fa anche un’interessante osservazione sul periodo di transizione, riconoscendo il problema di una tendenza conservatrice insita in certi organismi di semi-stato.
Chiaramente ci sono ancora aree che meritano una discussione e una chiarificazione tra internazionalisti, come per esempio la questione dell'organizzazione, le prospettive per la lotta di classe, e il significato dell'anarcosindacalismo oggi. Comunque noi possiamo salutare il sano realismo contenuto nell'affermazione della dichiarazione per cui “nessuna organizzazione può essere più grande o più forte di quello che stabilisce la posizione generale degli operai”. Queste ed altre questioni possono essere chiarite solo attraverso un aperto e fraterno dibattito.
CCI, febbraio 2012
Dichiarazione per l'organizzazione rivoluzionaria, Belgrado (2011)
“Seppure c'è una sola speranza, si trova fra i proletari.” - George Orwell, 1984
Consapevoli delle divisioni di classe all’interno del capitalismo, del brutale sfruttamento di cui tutti noi siamo vittime, dell’oppressione dello Stato che rende possibile questo sfruttamento, ed anche dell’insostenibile natura dell’attuale ordine militaristico che inevitabilmente ci porta verso la catastrofe, noi ci organizziamo in “Birov”, un’organizzazione il cui scopo è di opporsi radicalmente a questi fenomeni sociali e di raggiungere la loro finale eliminazione attraverso la lotta di classe.
Partendo dalla comprensione che la classe operaia, in quanto classe più colpita dall’attuale struttura sociale, possiede il più grande potenziale rivoluzionario, “Birov” organizza i lavoratori coscienti militanti di classe con l’intenzione di diffondere la coscienza di classe nella classe operaia, e per dirigerla verso la lotta organizzata attraverso i consigli operai. Noi rigettiamo tutte le mistificazioni “post-marxiste” che cianciano della sparizione o dell’inesistenza della classe operaia e quindi negano la lotta di classe e il ruolo cruciale degli operai come attori di un cambiamento rivoluzionario. Un membro della classe operaia è [per costoro] qualcuno che deve solo vendere la propria forza lavoro al capitale: come un macellaio, un operaio dell’industria sessuale o una ragazza che lavora in una tipografia.
L’azione emancipatrice deve essere basata sull’auto attività degli oppressi, e sui consigli operai autonomi, indirizzata verso la creazione di una società auto–diretta, senza uno Stato, senza classi e senza involontarie istituzioni di società civili. Ogni tentativo di superamento della vecchia società deve essere diretto verso l’organizzazione di un sistema di consigli su scala internazionale, perché solo un cambiamento radicale nei rapporti di forza sociali può dare inizio a un progressivo cambiamento sociale. La forma consiliare costruita dopo la dissoluzione della tradizionale, gerarchica macchina dello Stato capitalista non è qualcosa che la rivoluzione dovrebbe inventarsi – durante la rivoluzione può esistere solo un organo conservatore, e l’autorganizzazione ed emancipazione finali della classe operaia minaccerà il suo potere, come l’esistenza di questo ordine sociale stesso. In questo imminente conflitto i rivoluzionari devono riconoscere gli operai organizzati autonomamente come l’avanguardia rivoluzionaria nella finale e decisiva battaglia contro il vecchio ordine e per una società di liberi produttori.
Solo un’aperta e irriducibile opposizione alle divisioni create da questa società potrà liberare il potenziale sovversivo che l’attuale lotta operaia possiede oggi. La lotta degli operai deve basarsi sui luoghi di lavoro, dove gli operai si riconoscono come produttori e dove le differenze di classe vengono proiettate e risolte nella loro essenza. Noi rigettiamo il partito come completamente inadeguato per l’organizzazione rivoluzionaria della classe operaia. I vecchi partiti riformisti che sono ricordati per le vittorie sulle libertà politiche e sulla riduzione dell’orario di lavoro non erano che questo: il loro scopo primario era una lotta per riforme economiche e politiche, che era lontana da una coscienza antipolitica ed era ancora indirizzata verso forme di rappresentanza tradizionali e gerarchiche.
Noi possiamo concludere che “Birov” può essere caratterizzato come un’organizzazione di propaganda anarco-sindacalista. “Birov” spinge gli operai in lotta e i gruppi anarco-sindacalisti attivi a formare gruppi di classe militanti sui propri posti di lavoro. Questi gruppi non devono essere confusi con i sindacati perché il loro obiettivo non è crescere in numero ma partecipare ai movimenti assembleari. Essi non hanno una struttura formale e un programma politico. Questi gruppi vengono formati sui luoghi di lavoro, dove c’è già una tradizione di organizzazioni operaie autonome e dove una rete di operai tende a continuare la propria attività e sviluppa nuove strade per la lotta.
Noi pensiamo che oggi i sindacati non possono avere un programma politico che non sia reazionario, e quindi la sola possibilità di organizzazione per le masse operaie sono le assemblee; un’organizzazione di massa permanente non sarà possibile finché la rivoluzione non diventa un obiettivo immediato. I sindacati, in quanto strumenti della lotta per le riforme ed organizzazione economica separata, hanno perso la loro ragion d’essere in una situazione in cui non possono più riflettere in maniera efficace le aspirazioni della classe operaia. Oggi essi non sono altro che uno strumento incorporato allo Stato che porta la lotta operaia alla spoliticizzazione e in un ambito strettamente limitato. Essi rappresentano un tipo di prigione per la classe operaia, senza la quale gli operai potrebbero essere liberi di sviluppare la loro tendenza verso l’autorganizzazione. I burocrati sindacali stipendiati e spesso corrotti non sono altro che le guardie e i custodi di queste prigioni. In definitiva i sindacati sono solo un’arma dello Stato che implementa un altro tipo di oppressione della classe operaia. Il capitalismo non può più offrire riforme permanenti: ogni lotta in difesa degli interessi immediati e quotidiani del proletariato, quando non è sabotata da sindacati e partiti, necessariamente evolve verso una radicalizzazione delle masse e dell’azione contro le istituzioni repressive e sfruttatrici dell’ordine capitalista. Per questi motivi, oggi, ogni fenomeno tendente a depoliticizzare la lotta degli operai e a confinarla in un quadro preconfezionato è necessariamente reazionario. Le posizioni che hanno la pretesa che le organizzazioni anarco-sindacaliste dovrebbero essere “non-ideologiche” non sono alternative alle subdole divisioni imposte dal capitalismo, ma solo la riproposizione della vecchia (irrealistica) idea sulla separazione dell’organizzazione economica, e in pratica molto spesso finiscono in reti attiviste gauchiste che riproducono l’ideologia della dominante “sinistra” nazionalista. Contro queste pretese, le organizzazioni anarco-sindacaliste sono organizzazioni politiche e militanti di classe: i soli principi di anarcosindacalismo che sono accettati da tutti membri sono necessariamente a contenuto politico.
Noi ci vediamo non come un’organizzazione che necessariamente tende alla crescita numerica considerando così se stessa come un fine, un’idea che troviamo spesso nell’attivismo radicale; né ci consideriamo come una specie di avanguardia della classe operaia che stabilisce gli interessi di quest’ultima. Il nostro obiettivo è sviluppare un’organizzazione che sia capace di intervenire nelle lotte operaie. Noi condividiamo la nostra esperienza accumulata con gli operai e mediante questo possiamo aumentare l’efficacia della lotta operaia, aiutando la sua estensione e la sua ulteriore organizzazione. Un tale tipo di relazione crea una mutua interdipendenza e quindi nessuna organizzazione rivoluzionaria può essere più grande o più forte di quello che stabilisce la posizione generale degli operai; per questo noi non siamo turbati per l’autorganizzazione degli operai o per una “perdita di controllo”; questo è, al contrario, il nostro obiettivo. Conseguentemente, la base per l’unificazione degli strati oppressi nel capitalismo non sarà stabilita da un partito o un “fronte”, né da un sindacato di massa, o da un gruppo anarchico che agisce nella fase di preparazione, la fase del raggruppamento delle forze rivoluzionarie, ma da una lotta anticapitalista organizzata nei consigli operai sotto la cui ala solo può essere costruita una vera visione di emancipazione. Quindi la strada migliore per esprimere la solidarietà con gli strati oppressi è lo sviluppo della nostra propria lotta sul posto di lavoro la costante educazione sui problemi dell’oppressione.
Noi condanniamo come completamente reazionaria ogni difesa del carattere rivoluzionario delle lotte di “liberazione nazionale”. Stabilire un parallelo con i movimenti nazionali borghesi-rivoluzionari è sbagliata e in questo periodo il rigetto del nazionalismo costituisce una linea di demarcazione tra la sinistra rivoluzionaria e quella patriottica, socialdemocratica. Nella società capitalista di oggi ogni Stato è imperialista e la crescita di una coscienza nazionale può essere vista solo come un mezzo per preservare l’ordine capitalista in una situazione di crisi permanente e di destino incerto. Ogni accettazione di discorsi populisti e nazionalisti può solo trascinare gli operai verso una sanguinosa guerra imperialista; questo è il preludio di ogni momento storico, come noi tutti abbiamo potuto verificare durante l’inizio e la metà del 20° secolo.
In contrasto totale con il movimento contro la Guerra della Prima Guerra Mondiale l’ideologia controrivoluzionaria sottomette i lavoratori alle necessità della borghesia nazionale, in nome dell’”antimperialismo” e della “liberazione dei popoli”. I risultati sono facilmente riconoscibili e possono essere visti nelle “rivoluzioni socialiste” sopraggiunte dopo la fine del periodo rivoluzionario partito con l’Ottobre ’17, che sono vittime della strumentalizzazione del partito e della soppressione di ogni forma di autorganizzazione operaia e sono sfociate in regimi imperialisti totalitari di capitalismo di Stato, i cosiddetti “socialismi reali”.
La liberazione della classe operaia sarà opera dei lavoratori stessi, o non sarà.
Belgrado, Serbia, ottobre 2011
[1] Vedere le loro their FAQ, che danno ulteriori spiegazione su questo ed altri aspetti della politica del gruppo.
Sabato 4 febbraio, un pomeriggio come un altro a Homs. Una folla immensa seppellisce i suoi morti e manifesta contro il regime di Bashar Al-Assad. Dall’inizio degli avvenimenti nell’aprile 2011, non passa un giorno in Siria senza che una manifestazione non venga repressa. In meno di un anno, ci sarebbero stati più di 2.500 morti e migliaia di feriti.
Ma nella notte tra il 4 e 5 di febbraio, la pratica dell’assassinio di massa aumenta ulteriormente. Per ore, nell’oscurità, si sentono tuonare solo i cannoni dell’esercito di Assad e le grida degli uomini che muoiono. All’alba appare tutto l’orrore di quella che oggi è chiamata “la notte rossa di Homs”: alla luce del giorno, le vie si rivelano coperte di cadaveri. Il bilancio della carneficina sarebbe di 250 morti, senza contare tutti quelli che sono morti in seguito per le ferite o che sono stati finiti dopo, a freddo, dai militari al soldo del potere. E questo massacro non si è concluso all’alba; i feriti sono stati inseguiti fin nei letti dell’ospedale per essere finiti, alcuni medici sorpresi a curare dei “ribelli” sono stati uccisi, alcuni abitanti di Homs sono stati abbattuti con un colpo alla testa semplicemente per avere commesso il crimine di trasportare dei medicinali nelle loro tasche. Né le donne né i bambini sfuggono a questa carneficina. La stessa notte, il telegiornale di Al Jazeera ha annunciato che forti esplosioni sono state sentite nella regione di Harasta, nella provincia di Rif Damasco. In questa città, situata ad una quindicina di chilometri a nord di Damasco, violenti combattimenti oppongono l’esercito siriano libero (ASL) alle forze del regime. Anche là i massacri sono abominevoli.
Come è possibile tutto ciò? Come ha potuto un movimento di protesta che ha esordito contro la miseria, la fame e la disoccupazione trasformarsi in alcuni mesi in un tale bagno di sangue? Chi è responsabile di questo orrore? Chi comanda la mano omicida dei militari e dei mercenari?
Non serve più dimostrare la barbarie del regime siriano. La cricca al potere non indietreggerà davanti a nessun sopruso, a nessun massacro per mantenersi alla testa dello Stato e conservare così i suoi privilegi. Ma chi è questo “esercito siriano libero” che si è posto al comando della “protesta del popolo”? Un’altra cricca di assassini! L’ASL, che pretende di battersi per liberare il popolo, non è che il braccio armato di una frazione borghese concorrente a quella di Bashar Al-Assad. Ed è qui il dramma dei manifestanti. Quelli che vogliono lottare contro le loro condizioni di vita insopportabili, contro la miseria, contro lo sfruttamento, sono presi tra l’incudine e il martello e vengono schiacciati, torturati, massacrati...
In Siria, gli sfruttati sono troppo deboli per sviluppare una lotta autonoma; la loro collera è stata così immediatamente deviata e strumentalizzata dalle differenti cricche borghesi del paese, i manifestanti sono diventati carne da cannone, arruolati in una guerra che non è la loro, per interessi che non sono i loro, come era capitato in Libia alcuni mesi prima.
L’ASL non ha niente da invidiare alla natura sanguinaria del regime siriano al potere. All’inizio di febbraio, ha, tra altri esempi, minacciato di bombardare Damasco, tutti i posti di comando del regime e le sue roccheforti. L’ASL ha chiesto alla popolazione di Damasco di allontanarsi da questi bersagli pur sapendo che ciò è impossibile. In effetti, gli abitanti di Damasco non hanno altra scelta che rintanarsi, terrorizzati, nelle cantine o nei sotterranei come talpe e topi, così come i loro fratelli sfruttati di Homs.
Ma la borghesia siriana non è la sola responsabile di questi massacri. Le complicità internazionali sono tanto numerose che trovano posto nelle sedi ONU. Così, Ammar AL-Wawi, uno dei comandanti dell’ASL, accusa direttamente la Russia e certi paesi vicini, come il Libano e l’Iran per la loro implicazione, ed indirettamente la Lega araba e la comunità internazionale per la loro inoperosità e di avere dato il via libera ad Assad per massacrare il popolo. Che scoperta!
La Siria sull’orlo di un conflitto imperialista generalizzato
Ogni giorno aumentano le tensioni tra l’Iran e un buon numero di potenze imperialiste nel mondo: Stati Uniti, Inghilterra, Francia, Arabia Saudita, Israele, ecc. La guerra minaccia, ma per il momento non esplode. Siamo in attesa, i rumori degli stivali si fanno sentire sempre più in direzione della Siria, amplificati ancora dal veto della Cina e della Russia in seno all’ONU riguardante una proposta di risoluzione che condanna la repressione da parte del regime di Bashar Al-Assad. Tutti questi avvoltoi imperialisti prendono il pretesto dell’infamia e dell’inumanità del regime siriano per preparare l’entrata in guerra totale in questo paese. Attraverso il mezzo di informazione russo la Voce di Russia, che riprende la rete televisiva pubblica iraniana Pess TV, sono state date notizie secondo cui la Turchia si preparerebbe col sostegno americano ad attaccare la Siria. A tale scopo, lo Stato turco ammasserebbe truppe e materiali alla sua frontiera siriana. Da allora, questa notizia è stata ripresa dall’insieme dei media occidentali. Dalla parte opposta, in Siria, dei missili balistici terra-terra di fabbricazione sovietica sono stati posti nelle regioni di Kamechi e di Deir Ezzor, alla frontiera con l’Iraq e la Turchia. Tutto ciò fa seguito ad una riunione tenuta in novembre ad Ankara che ha dato adito ad una serie di incontri. L’emissario del Qatar ha offerto ad Erdogan, Primo ministro turco, di finanziare ogni operazione militare dal territorio turco contro il presidente Al Assad. Riunioni alle quali hanno partecipato anche le opposizioni libanesi e siriane. Questi preparativi hanno portato gli alleati della Siria, in primo luogo l’Iran e la Russia, ad alzare il tono ed a proferire delle minacce appena velate contro la Turchia. Per il momento, il Consiglio nazionale siriano (CNS), che secondo la stampa borghese raggrupperebbe la maggioranza dell’opposizione in questo paese, ha fatto sapere che non chiede nessun intervento militare esterno sul suolo siriano. È sicuramente questo rifiuto che paralizza ancora le braccia armate della Turchia ed eventualmente dello Stato israeliano. Il CNS se ne infischia, come tutte le altre frazioni borghesi implicate, delle sofferenze umane che scaturirebbero da una guerra totale sul suolo siriano. Ciò che teme, è semplicemente di perdere totalmente, in caso di conflitto allargato, il poco potere che attualmente possiede.
Gli orrori che vediamo ogni giorno in televisione o sulla stampa borghese in prima pagina sono drammaticamente veri. Se la classe dominante da tempo ci mostra tutto ciò, non è né per compassione, né per umanità. È per prepararci ideologicamente agli interventi militari sempre più sanguinari e massicci. In questo genocidio in corso, Bashar Al-Assad e la sua cricca non sono i soli boia. Il boia dell’umanità è questo sistema capitalista agonizzante che secerne la barbarie di questi massacri imperialisti come gli addensamenti nuvolosi portano il temporale.
Tino (16 febbraio)
Pubblichiamo la traduzione della seconda parte dell’articolo di Welt Revolution, organo di stampa della CCI in Germania, in cui viene tracciato, ad un anno dalla catastrofe nucleare di Fukushima, un primo bilancio. Nella prima parte di questo articolo [19], i nostri compagni sottolineavano la gravità dell’avvenimento e le incurie della classe dominante che al disastro in atto ha saputo opporre soltanto le sue menzogne e le sue manipolazioni. Ora, si vuole mostrare che il peggio, per il pianeta e l’umanità, deve ancora venire.
È solo un’illusione pensare che i detentori del potere, i responsabili, siano interessati ad andare alla radice del problema del nucleare nel mondo. Al contrario, sotto il peso della concorrenza e dell’aggravamento della crisi, la tendenza è al drastico abbassamento degli investimenti nella manutenzione, la sicurezza e il personale qualificato.
Oggi è noto che molte delle 442 centrali nucleari sfruttate sul pianeta sono state costruite in zone a rischio sismico. Nello stesso Giappone sono state costruite più di 50 centrali in tali zone. In Russia, parecchie centrali nucleari non dispongono neanche di un meccanismo automatico di messa fuori-tensione, in caso di incidentale nucleare. Visto il loro stato generale, probabilmente Tchernobyl non è stata un’eccezione. Pertanto una tale catastrofe può riprodursi in qualsiasi momento. La Cina, che dal punto di vista di rischio sismico rappresenta una delle zone più attive nel mondo, si è impegnata nella costruzione di 27 nuove centrali nucleari.
Il periodo di funzionamento delle vecchie centrali nucleari destinate alla chiusura è stato prolungato. Negli Stati Uniti la loro durata di sfruttamento è stata prolungata a 60 anni, in Russia a 45 anni.
Sebbene i meccanismi di controllo sull’industria nucleare da parte degli Stati, a scala nazionale si siano rivelati insufficienti, questi ultimi si sono opposti alle norme di sicurezza ritenendole troppo restrittive o troppo interventiste da parte delle organizzazioni internazionali di sorveglianza. Hanno affermato che “La sovranità nazionale prevale sulla sicurezza”.
In Germania il governo ha deciso di abbandonare l’energia nucleare dall’estate 2011 e fino al 2022. Poi, poco dopo l’esplosione di Fukushima, come misura immediata ha chiuso alcune centrali nucleari. Possiamo pensare che il capitale tedesco abbia agito in un modo più responsabile? Non del tutto! In realtà, solamente alcuni mesi prima di Fukushima, lo stesso governo aveva prolungato la durata di funzionamento di parecchie centrali nucleari. Oggi ha deciso di abbandonare l’energia nucleare, ma ciò corrisponde, da una parte, ad una tattica politica, in effetti, spera di migliorare le sue probabilità di essere rieletto, e dall’altra certamente ad un calcolo economico, legato al fatto che l’industria tedesca è molto competitiva nella produzione di energie alternative, essendo padrona in questo campo. Adesso l’industria tedesca spera di ottenere mercati molto redditizi. Tuttavia, la questione dello smaltimento delle scorie nucleari resta sempre irrisolta.
Per riassumere: malgrado Fukushima, l’umanità si trova sempre di fronte a queste bombe ad orologeria nucleari che, o per terremoti o per altri punti deboli, in parecchi posti possono scatenare nuove catastrofi.
Il profitto a detrimento della società e della natura
Spesso sentiamo dire dai difensori dell’energia nucleare che l’elettricità nucleare prodotta è meno cara, più pulita e che non c’è altra alternativa. E’ un fatto che la costruzione di una centrale ha costi giganteschi che, grazie all’aiuto di sovvenzioni da parte dello Stato, sono presi in carico dalle compagnie elettriche. Ma la maggiore parte dei costi di eliminazione delle scorie nucleari non è presa in carico dalle società di sfruttamento. Inoltre, i costi di demolizione di una centrale nucleare sono enormi. In Gran Bretagna si è calcolato che il costo di smantellamento delle centrali nucleari esistenti nel paese raggiunge i 100 miliardi di euro, ossia circa 3 miliardi di euro per centrale nucleare.
E in caso di incidente nucleare tocca allo Stato intervenire. A Fukushima i costi di demolizione e di controllo, la cui entità è ancora sconosciuta, sono stimati a circa 250 miliardi di euro. Tepco non ha potuto mettere assieme una tale somma. Lo Stato giapponese ha quindi “promesso il suo aiuto”, a condizione che gli impiegati facessero dei sacrifici: riduzione delle pensioni e dei salari e la soppressione di migliaia impieghi! Nel bilancio giapponese sono previsti anche carichi fiscali speciali. Avendo tirato le lezioni dagli incidenti precedenti, le imprese che operano in Francia hanno limitato in caso di incidente la loro responsabilità a 700 milioni di euro, con la benedizione, lautamente retribuita, dei politicanti locali e nazionali, e ciò non è niente in paragone al costo economico di una catastrofe nucleare.
Da un punto di vista economico ed ecologico, il costo reale del funzionamento delle centrali e la questione non risolta delle scorie nucleari è un pozzo senza fondo. Ad ogni modo, la potenza nucleare è un progetto irrazionale. Le società di energia nucleare ricevono massicce quantità di denaro per la produzione di energia, ma fanno ricadere i costi di gestione sull’insieme della società. Le centrali nucleari incarnano l’insormontabile contraddizione capitalista tra la ricerca del profitto e la protezione a lungo termine dell’uomo e della natura.
Ad essere minacciata e’ l’umanità tutta intera
L’energia nucleare non costituisce il solo pericolo per l’ambiente naturale. Il capitalismo pratica un impoverimento permanente della natura. Saccheggia continuamente tutte le risorse, senza preoccuparsi minimamente del futuro per l’umanità e dell’armonia con la natura, tratta quest’ultima come una gigantesca discarica.
Oggi interi lembi della terra sono diventati inabitabili e vaste zone del mare sono inquinate irreversibilmente. Questo sistema decadente è lanciato in una dinamica irrazionale, dove sono sempre più sviluppati nuovi mezzi tecnologici ma il cui sfruttamento diventa sempre più costoso e distruttivo delle risorse naturali. Quando nel 2010, sulle rive della principale potenza industriale, gli Stati Uniti, esplose la piattaforma petrolifera Deepwater Horizon, l’inchiesta sull’incidente svelò importanti carenze riguardanti le regole di sicurezza.
La pressione derivante dalla concorrenza costringe i rivali, quando questi devono investire grosse somme di denaro nella costruzione e nella gestione di siti di produzione, ad economizzare e quindi a risparmiare anche sulle norme di sicurezza. L’esempio più recente è l’inquinamento da idrocarburi a largo delle coste atlantiche del Brasile. Tutte queste negligenze non si verificano solo nei paesi tecnologicamente arretrati, ma anche in quelli più evoluti dove paradossalmente assumono proporzioni ancora più grandi proprio perché i mezzi di quest’ultimi sono infinitamente più potenti.
L’energia nucleare è stata sviluppata durante la Seconda Guerra mondiale, come strumento di guerra. In questo sistema decadente il bombardamento nucleare di due città giapponesi ha inaugurato un nuovo livello di distruzione. La corsa agli armamenti durante la Guerra Fredda, col suo dispiegamento sistematico dell’arma nucleare, ha spinto la capacità militare di distruzione al punto in cui l’umanità potrebbe essere annientata da un momento all’altro. Oggi, a più di venti anni dal 1989 e dal crollo del blocco dell’Est, che avrebbe dovuto permettere la nascita di una nuova era di “pace”, restano ancora circa 20.000 testate nucleari la cui potenzialità potrebbe annientare l’umanità e per più volte.
Non solo sulla questione dell’energia nucleare, ma anche sulla protezione dell’ambiente naturale, la classe dirigente è sempre più irresponsabile, come l’ha dimostrato il plateale insuccesso del recente vertice di Durban. Oggi la distruzione dell’ambiente naturale ha raggiunto un livello superiore e la classe dirigente è totalmente incapace di cambiare rotta e prendere misure appropriate. Il pianeta e l’umanità vengono sacrificati sull’altare del profitto.
È iniziata una corsa contro il tempo. O il capitalismo distrugge tutto il pianeta, o gli sfruttati e gli oppressi, con la classe operaia in testa, riescono a rovesciare il sistema. Poiché il capitalismo costituisce una minaccia per l’umanità a differenti livelli (crisi, guerra, ambiente), non bisogna accontentarsi di lottare solamente contro un aspetto della realtà capitalista, per esempio, contro l’energia nucleare. C’è un legame indefettibile tra queste differenti minacce e le loro radici nel sistema capitalista. Durante gli anni 1980 e 1990 ci sono stati molti movimenti che hanno poggiato la loro lotta su un solo aspetto (come la lotta contro l’energia nucleare, contro la militarizzazione, contro la penuria di alloggi, ecc.), il che ha dato come risultato la frammentazione delle lotte. Oggi più che mai, è necessario mostrare il fallimento del sistema come insieme. È vero che le connessioni tra i differenti aspetti non sono facili da comprendere, ma se non consideriamo il legame tra la crisi, la guerra e le distruzioni ecologiche, la nostra lotta si ritroverà in un vicolo cieco, credendo a torto di poter trovare delle soluzioni nel sistema, dove le cose potrebbero essere riformate mantenendo lo stesso modo di produzione. Se seguissimo questa via, la nostra lotta sarebbe destinata a fallire.
Di (gennaio 2012)
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[1] https://it.internationalism.org/content/lospedale-di-kilkis-grecia-sotto-il-controllo-dei-lavoratori
[2] https://it.internationalism.org/en/tag/4/73/grecia
[3] https://it.internationalism.org/en/tag/3/47/economia
[4] http://www.datagiovani.it/newsite/wp-content/uploads/2011/12/Comunicato-Per-chi-vale-larticolo-18.pdf
[5] https://it.internationalism.org/content/tolto-berlusconi-resta-la-crisi-e-le-batoste-sulla-pelle-degli-proletari
[6] https://it.internationalism.org/content/tolto-berlusconi-venuto-monti-restano-la-crisi-e-le-batoste-sulla-pelle-dei-proletari-come
[7] https://it.internationalism.org/en/tag/situazione-italiana/economia-italiana
[8] https://it.internationalism.org/en/tag/situazione-italiana/politica-della-borghesia-italia
[9] https://it.internationalism.org/en/tag/4/75/italia
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