Febbraio-marzo 2012
La volontà di cambiare il sistema capitalista si è affermata e propagata nel mondo durante questi ultimi mesi molto velocemente, in particolare tra i giovani, attraverso il movimento degli Indignati e degli Occupy. Questo movimento di contestazione, di dimensione internazionale, è segnato profondamente dalla violenza della crisi economica e dal degrado brutale delle condizioni di vita. In Spagna, in Grecia, in Portogallo, in Israele, in Cile, negli Stati Uniti, in Gran Bretagna … ai quattro angoli del globo, una stessa angoscia di fronte all’avvenire è presente in tutte le discussioni. Ma ben più della disoccupazione o della precarietà, quello che genera tanta inquietudine è indiscutibilmente l’assenza di alternativa. Che fare? Come lottare? Contro chi? La finanza? La destra? I dirigenti? E soprattutto, un altro mondo è possibile?
Oggi, una delle risposte che emerge è la necessità di riformare, di “democratizzare” il capitalismo. Soprattutto i media, gli intellettuali e la sinistra borghese fanno grande pubblicità a questa “lotta per la democrazia”. Il movimento partito dalla Spagna si è chiamato “Indignati” in riferimento all’opuscolo Indignatevi! di Stéphane Hessel, che si è affrettato a pubblicare una seconda parte, Impegnatevi!, per veicolare il malcontento verso le urne ed allontanarlo così dalla strada. Anche le organizzazioni altermondialiste hanno orientato il movimento verso una lotta per “più democrazia”. La rappresentanza ufficiale del movimento degli Indignati è stata presa da DRY, ¡Democracia real Ya ! (democrazia reale adesso). Questa battaglia democratica ha ottenuto realmente un certo successo. Ad inizio gennaio, gli Occupy del villaggio di tende di Saint-Paul a Londra hanno brandito un immenso striscione che reclamava la democratizzazione del capitalismo.
Perché la parola d’ordine per “un capitalismo più democratico” ha avuto tanto successo? La “primavera araba” ha reso evidente agli occhi di tutti che le cricche al potere in Tunisia, Egitto, Siria, Libia … da decenni depredavano le popolazioni, mantenendo il loro dominio con la paura e la repressione. La contestazione, prodotta dall’aumento della miseria, è riuscita a sollevare questa cappa di piombo ed ha rappresentato un forte incoraggiamento per gli sfruttati del mondo intero. Anche in Europa, se pure culla della democrazia occidentale, il malcontento si è concentrato su una “élite dirigente” incapace, disonesta … ma ricca. In Francia, la cricca del presidente Sarkozy è stata denunciata da numerosi libri, come il Presidente dei ricchi, e da altre recenti opere come l’Oligarchia degli incapaci, scritte da giornalisti, ricercatori o intellettuali, che mostrano come la borghesia francese è fatta da clan che spogliano tutta la società in nome dei loro interessi particolari. Questi comportamenti da malavitosi non possono che generare indignazione e disgusto. Da Bush a Berlusconi, è stata emessa la stessa condanna. Ma è in Spagna che questo rigetto delle élite ha preso una piega più politica. All’inizio del movimento degli Indignati quello che è stato particolarmente sorprendente è il fatto che in piena campagna elettorale, periodo tradizionalmente di attesa e privo di lotte, si è sviluppato un largo movimento di contestazione. Mentre tutti i media e i responsabili politici focalizzavano l’attenzione sul potere delle urne, le strade rifiorivano di AG (Assemblee Generali) e di discussioni di ogni genere. Del resto, era particolarmente diffusa l’idea che “destra e sinistra, sono la stessa merda”. Talvolta si sentiva echeggiare anche “tutto il potere alle assemblee!”. Un nostro compagno ha sentito una donna rispondere a quelli che volevano “far pressione sul governo” che una simile pratica politica era contraddittoria rispetto alla parola d’ordine di “tutto il potere alle assemblee!”.
Che cosa significa ciò? Che cresce l’idea che, dappertutto, sotto qualsiasi governo, è effettivamente “la stessa merda”. Che cosa hanno cambiato le elezioni democratiche in Egitto ed in Spagna? Niente! Che cosa è cambiato in Italia ed in Grecia in seguito alle rispettive dimissioni di Berlusconi o di Papandreu? Niente! I piani di austerità sono diventati più duri ed oggi sono diventati ancora più insopportabili. Elezioni o meno, la società è diretta da una minoranza dominante che mantiene i suoi privilegi sulle spalle della maggioranza. È del resto questo il significato profondo del famoso “1% e 99%” ideato e gridato dal movimento degli Occupy negli Stati Uniti. Nei fatti, fondamentalmente, c’è una volontà crescente di non subire più, di prendere le cose in mano … l’idea che devono essere le masse ad organizzare la società … A partire da “tutto il potere alle AG”, c’è una reale aspirazione a costruire una società in cui non è più una minoranza a dettare le nostre vite.
Ma la domanda è: questa nuova società può veramente essere realizzata da una lotta per “democratizzare il capitalismo?”
Il capitalismo, dittatoriale o democratico, resta un sistema di sfruttamento
Sì, essere diretti da una minoranza di privilegiati è insopportabile. Sì, tocca a “noi” prendere in mano le nostre vite … Ma chi è, questo “noi”? Nella risposta data dai movimenti attuali, in modo maggioritario, “noi” è “tutti”. “Tutti” dovrebbero dirigere la società attuale, in altre parole tutti dovremmo dirigere il capitalismo, attraverso una reale democrazia. Ma è qui che appaiono i veri problemi: il capitalismo non appartiene … ai capitalisti? Questo sistema di sfruttamento non costituisce l’essenza stessa del capitalismo? Se la democrazia, come esiste oggi, è la gestione del mondo da parte di un’élite, non è proprio perché questo mondo e questa democrazia appartengono a questa stessa élite? Andiamo fino in fondo al ragionamento, immaginiamo per un istante una società capitalista animata da una democrazia perfetta ed ideale dove “tutti” deciderebbero su tutto collettivamente. Del resto in Svizzera o in certi villaggi autogestiti in Spagna, o nel programma del 2007 di Ségolène Royal[1], si trova la presenza di questa “democrazia partecipativa”. Ed allora? Gestire una società di sfruttamento non significa sopprimere questo sfruttamento… Negli anni 1970, molti operai hanno sostenuto una rivendicazione di autogestione nella quale credevano fortemente: “Non più padroni, noi stessi produciamo e noi stessi ci paghiamo!” Gli operai della Lip in Francia l’hanno imparato a loro spese: hanno gestito collettivamente ed in modo egualitario la “loro” impresa. Ma seguendo le leggi imprescindibili del capitalismo, hanno finito per accettare la logica del mercato … l’auto-licenziamento e ciò in modo “libero” e molto “democratico”. Vediamo dunque che oggi, nel capitalismo, la democrazia più vicina alla perfezione non cambierebbe niente rispetto alla costruzione di una nuova società. La democrazia, nel capitalismo, non è un organo del potere di conquista del proletariato o di abolizione del capitalismo … è un modo politico di gestione del capitalismo! Per mettere fine allo sfruttamento, non c'è che una sola soluzione: la rivoluzione.
Chi può cambiare il mondo? Chi può fare la rivoluzione?
Siamo sempre più numerosi a sognare una società in cui l’umanità possa gestire la sua vita con le proprie mani, in cui sarebbe padrona delle sue decisioni, in cui non sarebbe divisa tra sfruttatori e sfruttati, ma unita ed egualitaria … Ma la questione è: “Chi può costruire questo mondo? Chi può permettere che domani l’umanità prenda in mano la società?” “Tutti”? Ebbene, no! Perché non “tutti” hanno interesse alla fine del capitalismo. Evidentemente, la grande borghesia lotterà sempre con le unghie e con i denti per mantenere il suo sistema e la sua posizione dominante sull’umanità, pronta a versare abbondante sangue, ivi compreso nelle “grandi democrazie”. Ed in questo “tutti”, ci sono anche gli artigiani, i notabili, i proprietari terrieri …, in breve la piccola borghesia che o vuole conservare il tenore di vita che le offre questa società o è presa dalla nostalgia di un passato idealizzato quando viene minacciata dal declassamento. La fine della proprietà privata non fa certamente parte dei suoi progetti.
Per diventare padrona della sua vita, l’umanità deve uscire dal capitalismo. Ora, solo il proletariato può rovesciare questo sistema. La classe operaia raggruppa i salariati di fabbriche e degli uffici, del privato e del pubblico, i pensionati ed i giovani lavoratori, i disoccupati ed i precari[2]. Questo proletariato costituisce la prima classe storica che è al tempo stesso sfruttata e rivoluzionaria[3]. In precedenti epoche storiche sono stati i nobili a condurre la lotta rivoluzionaria contro lo schiavismo e poi i borghesi contro il feudalismo. Ogni volta, un sistema di sfruttamento è stato cacciato ed è stato sostituito da … un nuovo sistema di sfruttamento. Oggi sono gli stessi sfruttati che possono abbattere il sistema dominante e costruire così un mondo senza classi e senza frontiere. Senza frontiere perché la nostra classe è internazionale; subisce ovunque lo stesso giogo capitalista, ha ovunque gli stessi interessi. Del resto, fin dal 1848, la nostra classe si è data questo grido di raggruppamento: “I proletari non hanno patria. Proletari di tutti i paesi, unitevi!”. Tutti i movimenti di questi ultimi mesi, quelli del Medio Oriente, degli Indignati, degli Occupy ... si richiamano gli uni agli altri, da un paese all’altro, da un continente all’altro, mostrando ancora una volta che non ci sono frontiere per la lotta degli sfruttati e degli oppressi. Ma questi movimenti di contestazione hanno anche una grande debolezza: la forza viva degli sfruttati, la classe operaia, non ha ancora coscienza di sé, della sua esistenza, della sua forza, della sua capacità ad organizzarsi come classe … e per questo essa si diluisce nel “tutti” ed è ancora vittima della trappola ideologica che si proclama “per un capitalismo più democratico”.
Per far trionfare la rivoluzione internazionale e costruire una nuova società, occorre che la nostra classe sviluppi la Sua lotta, la Sua unità, la Sua solidarietà … e soprattutto la Sua coscienza di classe. Occorre per ciò che riesca ad organizzare al suo interno il dibattito, discussioni le più ampie, le più vive, le più effervescenti possibili per sviluppare una propria comprensione del mondo, di questo sistema, della natura della sua lotta … I dibattiti devono essere liberi ed aperti a tutti coloro che vogliono provare a rispondere alle molteplici domande che si pongono agli sfruttati: come sviluppare la lotta? Come organizzarci? Come far fronte alla repressione? Ed essi devono essere chiusi a quelli che vengono a sostenere ed a propagandare l’ordine costituito. Certamente non si tratta di salvare o riformare questo mondo agonizzante e barbaro! Questi momenti devono essere, in un certo senso, lo specchio della democrazia ateniese, la sua immagine speculare: nella Grecia antica, ad Atene, la democrazia era il privilegio dei proprietari di schiavi, dei cittadini maschi, gli altri strati della società ne erano esclusi. Ebbene, nella lotta rivoluzionaria del proletariato esiste la massima libertà al suo interno ma ne sono esclusi quelli che hanno come unico interesse mantenere lo sfruttamento capitalista.
Il movimento degli Indignati e degli Occupy portano l’impronta caratteristica di questa volontà di dibattere, di questa incredibile effervescenza, di questa creatività delle masse in azione che caratterizzano la nostra classe quando lotta, come è stato possibile vedere, per esempio, nel maggio 68, dove si discuteva ad ogni angolo di strada. Ma oggi la sua forza creatrice è diluita, addirittura paralizzata, per la sua incapacità ad escludere dalla sua lotta e dai suoi dibattiti coloro che in realtà lavorano anima e corpo alla sopravvivenza del sistema attuale. Se vogliamo un giorno mandare nelle pattumiere della storia parole come profitto, sfruttamento, repressione ed essere infine i padroni della nostra vita, la strada da seguire dovrà separarsi necessariamente da questi appelli illusori per “democratizzare il capitalismo” e da tutti i sostenitori di un “capitalismo più umano”.
CCI, 28 gennaio.
[1] Candidata alle elezioni presidenziali francesi del 2007, per conto del Partito socialista.
[2] Vedi il nostro articolo “Chi è la classe operaia?” in lingua francese sul nostro sito [1].
[3] Vedi “Perché la classe operaia è la sola classe rivoluzionaria” sul nostro sito (https://fr.internationalism.org/ri330/comm.html [2]).
Venerdì 13 gennaio l’agenzia di rating americana Standard & Poor’s (S& P) declassa la nota di credito di 9 paesi della zona euro. È il “black Friday”! La Francia, l’Austria, Malta, la Slovacchia e la Slovenia cadono di una tacca, l’Italia, la Spagna, il Portogallo e Cipro di due. Questa decisione mette l’Italia allo stesso livello del Kazakhstan (BBB+) e pone il Portogallo nella categoria ad alto rischio! Inoltre S& P mette 14 paesi della zona in posizione di prospettiva negativa (in totale 15 paesi su 17 sono in prospettiva negativa). In sintesi, solo la Germania ha ancora il bollino “AAA - prospettiva stabile” in una zona euro alla deriva.
Un naufragio economico mondiale
La perdita della tripla A francese è l’indice più rivelatore della gravità della situazione economica in Europa. La Francia formava insieme alla Germania la colonna vertebrale della zona euro. Sono soprattutto questi due paesi che hanno alimentato i fondi di aiuto alla Grecia, all’Italia ed alla Spagna. Ma, non avendo più la sua AAA, la Francia non può essere più un garante credibile e la Germania si trova da sola a dover sopportare il carico dell’indebitamento europeo. Anche perché lo stesso Fondo europeo di stabilità finanziaria (FESF) è stato declassato dalla S& P.
Per la borghesia il quadro è catastrofico. Dal 2008 il sistema bancario è alla frutta, deve la sua sopravvivenza solo alla trasfusione permanente di denaro fresco delle banche centrali. Ad esempio, in Germania, che si presume essere il paese più solido della zona euro, tutte le banche sono super indebitate e nessuno sa come incasseranno i prossimi ineluttabili colpi, quali il fallimento annunciato della Grecia. Oggi, banche, fondi d’investimento, grandi industriali, Stati, banche centrali, istituzioni internazionali (come il FMI)… tutti si sostengono l’un l’altro come degli ubriachi che, uscendo da un bar, si sorreggono spalla a spalla per tentare di andare diritto e non cadere. Il risultato è prevedibile: un cammino tortuoso ed improbabile, poi… la caduta collettiva. La borghesia stessa ha, in parte, coscienza dei giorni scuri che aspettano la sua economia. Per Ben May, del Capital Economics, “il Portogallo e la Grecia subiranno delle recessioni assai severe qualunque cosa intraprendano i dirigenti nelle settimane o i mesi prossimi per salvare la zona euro”[1]. L’economia portoghese, secondo lui, si contrarrà l’anno prossimo dell’8%! La situazione dell’Italia e della Spagna non sono migliori: il loro PIL dovrebbe arretrare del 2,2% e l’1,7%!
E la crisi non devasta soltanto la zona euro. L’economia britannica si è contratta dello 0,2% all’ultimo trimestre 2011 e teme di perdere a sua volta la famosa tripla A. Anche il Giappone dovrebbe conoscere la recessione (-0,4% per l’anno fiscale in corso).
Più in generale, il FMI ha rivisto al ribasso le previsioni di crescita mondiale per il 2012. Il suo scenario più ottimista prevede il 3,3% di crescita (non più il 4% come veniva avanzato nel settembre scorso) ma, secondo il parere del suo capo economista Olivier Blanchard, “se la crisi della zona euro peggiora, il mondo ricadrà nella recessione”.
L’impossibile annullamento dei debito
Il marasma economico attuale è chiamato dagli specialisti “la crisi del debito”. La montagna di crediti accumulati nei fatti dagli anni 60 da tutti i protagonisti dell’economia mondiale, dalle imprese alle banche, dagli Stati ai privati, ha creato una sorta di iper-indebitamento generalizzato che spinge l’economia mondiale verso il fallimento[2].
Di fronte a questa situazione la borghesia non ha alcuna soluzione. Quando tenta di sdebitare la sua economia, la recessione è immediata e brutale. L’attività è come paralizzata, tutto si ferma. E, alla fine dei conti, i disavanzi aumentano. Quando tenta di rilanciare la crescita iniettando in maniera massiccia denaro, i disavanzi… aumentano. Due percorsi, una stessa destinazione: il fallimento.
In Europa, in particolare in Grecia e in Portogallo, l’austerità è violenta, i tagli netti nei bilanci sono fatti con l’accetta. Risultato? Dei paesi sul bordo del baratro. Oggi il FMI richiede alle banche europee di accettare perdite importanti sulla Grecia (e questo minaccerà a sua volta questi istituti di bancarotta) ed auspica che la zona euro aggiunga 1000 miliardi alla FESF ed al MES (Meccanismo europeo di stabilità) per salvare l’Irlanda, il Portogallo, la Spagna e l’Italia che stanno per mollare a loro volta. Naturalmente la Germania si è fin d’ora posta contro una tale possibilità poiché spetta ad essa il privilegio di fornire la maggior parte della somma.
Negli Stati Uniti, nonostante le migliaia di miliardi iniettati dal 2008, l’economia nazionale si intestardisce a non decollare. Lo Stato dunque dovrà continuare a mantenere l’attività sotto iniezione di denaro “a basso costo”. La Riserva federale ha appena annunciato che non prevedeva di aumentare i suoi tassi prima della fine del 2014, che mantiene questi vicino a zero (tra lo 0% e lo 0,25%), e molti analisti restano persuasi che la Banca centrale non sfuggirà al lancio di un nuovo ciclo “di rilancio quantitativo” (“QE3”)[3], sotto forma di 500 miliardi di dollari di riacquisto di “mortgage-backed securities”[4] e di buoni del Tesoro, in aprile o in giugno. In breve, altro debito sarà ancora aggiunto al debito e in grande, grande quantità! Tutto questo denaro creato colerà a fiotti ma senza generare alcun rilancio reale e duraturo, un po’ come se fosse versato “nel barile delle Danaidi”[5]. La borghesia potrà versare tutto il denaro che vuole nel barile dell’economia mondiale, non servirà a nulla. Il suo sistema è moribondo, condannato. Ma il raffronto con le Danaidi si ferma qui. Se nella mitologia un supplizio può durare eternamente, nel mondo reale tutto ha una fine e quella del capitalismo si avvicina.
L’Esplosione della disoccupazione
La Spagna in crisi ha appena superato il livello “storico” di 5 milioni di disoccupati. Tra chi ha di meno di 25 anni, più di uno su due (il 51,4%) è senza lavoro. In soli 4 anni il paese ha moltiplicato per 3 il tasso di disoccupazione!
La Francia conta ufficialmente quasi 2,8 milioni di disoccupati senza alcuna attività. Con i dipartimenti d’oltremare, il numero di richiedenti lavoro arriva a 4,5 milioni. Anche qui l’aumento è vertiginoso[6].
I proletari di tutti i paesi sono confrontati a questa stessa realtà drammatica. Tutti? No! La Germania farebbe eccezione … se si vuol credere ai bugiardi che ci governano. Mai, oltre Reno, il tasso di disoccupazione è stato così basso dopo la riunificazione (6,9%). Un vero “miracolo economico”. Tranne se si tiene conto dei milioni di disoccupati eliminati dalle liste o dei precari che dipendono dall’aiuto sociale… Il lungo estratto che segue dell’articolo “Disoccupazione: la faccia nascosta del miracolo economico tedesco” è edificante al riguardo:
“Nel 2001, il Cancelliere socialista Schröder (…) fa appello a Peter Hartz, direttore delle risorse umane della Volkswagen, che pensa di aver trovato la soluzione allo sperpero del sistema dei sussidi. Si tratterà delle famose leggi Hartz, delle quali la più conosciuta e la più contestata è la Legge Hartz IV. Colui che tutta la Germania chiama ben presto “Doktor Hartz”, vuole combattere la “disoccupazione volontaria” ed organizza un sistema coercitivo di ricerca di posti di lavoro. Instaura i famosi “mini-lavori”, pagati 400 euro al mese senza contributo sociale e dunque senza assicurazione, ed i “lavori da 1 euro”, essenzialmente lavori d’interesse pubblico. Tutto il sistema tedesco di sussidio viene ridotto in pezzi. (…) Si conosce il seguito: risultati impressionanti, ma illusori. Come Brigitte Lestrade, autrice di uno studio sulle riforme Hartz IV, alcuni vi vedono la messa in atto di un sistema che, per vasi comunicanti, avrebbe gradualmente fatto passare diversi milioni di tedeschi dalle liste di disoccupazione a quelle “di quasi-disoccupazione” o lavoratori poveri. La ricercatrice stima a 6,6 milioni di persone - di cui 1,7 milioni di figli - “i beneficiari” della Hartz IV. I 4,9 milioni di adulti sono nei fatti dei disoccupati, dei “quasi-disoccupati„ (che lavorano meno di 15 ore alla settimana) o dei precari. (…) Un responsabile dell’Arbeitsagentur di Amburgo (l’ufficio di collocamento tedesco), che desidera conservare l’anonimato, non nasconde la sua rabbia: ‘Che la si smetta di parlare di miracolo economico. Oggi, il governo ripete che siamo intorno a 3 milioni di disoccupati, il che sarebbe effettivamente una cosa storica. La realtà è molto diversa, 6 milioni di persone ricevono la Hartz IV, sono tutti disoccupati o grandi precari. La vera cifra non è di 3 milioni di disoccupati ma di 9 milioni di precari’”[7].
In realtà, non ci sono isole paradisiache su questa terra dominata dal capitalismo. L’inferno dello sfruttamento regna ovunque e lacera la nostra schiena con la frusta della crisi economica. Secondo l’Organizzazione internazionale del lavoro, 1,1 miliardo di persone nel mondo sono disoccupati o vivono sotto la soglia di povertà. 450 milioni di lavoratori poveri sopravvivono con meno di 1,25 dollari al giorno! E questa situazione drammatica non smette di peggiorare.
Il sistema di sfruttamento attuale sta agonizzando, non c’è alcun dubbio. C’è solo un’incertezza: l’umanità si estinguerà con esso o sarà capace di generare un altro mondo? In altre parole, noi, gli sfruttati, accetteremo ancora per molto le mille sofferenze che il capitalismo ci fa patire?
Pawel (28 gennaio)
[1] Fonte: lexpansion.lexpress.fr/actualite-economique [3].
[2] Vedi: “La catastrofe economica mondiale è inevitabile”, Rivista Internazionale n.33 (https://it.internationalism.org/node/1134 [4]); “Crisi economica: accusano la finanza per risparmiare il capitalismo!”, Rivoluzione Internazionale n. 173 (https://it.internationalism.org/node/1122 [5]).
[3] I QE 1 e 2 sono stati dei piani di rilancio dell’economia americana, entrambi sono stati inefficaci. Concretamente, attraverso questi, dal 2008 sono stati iniettati 2000 miliardi di dollari cosa che ha giusto permesso alla “crescita” di non crollare.
[4] Si tratta di titoli garantiti da un insieme di prestiti ipotecari. Essi derivano da un processo di securization, processo che trasforma i debiti ipotecari in titoli negoziabili sui mercati.
[5] Nella mitologia greca le Danaidi erano le cinquanta figlie del re Danaos. Questo re accettò di far sposare le sue figlie con i cinquanta figli di suo fratello, col quale era in contrasto, ma fece promettere alle figlie di uccidere i loro mariti subito dopo le nozze. Tutte lo fecero, eccetto Ipermestra, che salvò il suo sposo Linceo il quale però uccise le altre 49 ragazze per vendicare i suoi fratelli. Agli inferni, le Danaidi come punizione furono condannate a riempire eternamente d’acqua un barile bucato.
[6] Per l’Italia l’Istat segnala che a dicembre 2011 il tasso di disoccupazione è salito all’8,9%, con 2 milioni e 243mila disoccupati, circa 20mila in più rispetto a novembre. Fonte: Economia e Finanza, del 31 gennaio 1012 (economiaefinanza.blogosfere.it/2012/01/disoccupazione-giovanile-e-record-negativo-in-italia.html).
[7] Fonte: fr.myeurop.info/2011/10/04/chomage-la-face-cachee-du-miracle-economique-allemand-3478.
In tutti i paesi le imprese stanno licenziando massicciamente, la disoccupazione sta esplodendo a livello mondiale. Sono all’ordine del giorno le notizie di chiusura di aziende o di ridimensionamento del personale.
Ovunque nel mondo assistiamo ad attacchi senza precedenti contro la classe operaia; dappertutto governi di destra o di sinistra stanno imponendo manovre che comportano tagli di bilancio brutali.
Il licenziamento di 15.000 statali, la riduzione degli stipendi minimi del 20%, i tagli alle pensioni superiori a 1200 euro e a quelle integrative, la vendita di beni pubblici e il taglio della spesa sanitaria sono solo l’ultima tessera in Grecia di un puzzle internazionale che si stringe sempre di più intorno agli strati sociali più deboli.
E nonostante tutto questo, dappertutto resta l’impossibilità per i giovani di poter contare su una prospettiva che dia loro la possibilità di mettere su una famiglia, avere dei figli, vivere la propria vita.
Tutto ciò sta determinando un degrado crescente nelle condizioni di vita di milioni di famiglie in tutto il mondo. Sempre più questa società regala precarietà e miseria, non essendo in grado di assicurare a nessuno un futuro e una vita degna di questo nome.
Dopo una lunga campagna contro le banche, contri gli uomini della finanza, gli Stati e le popolazioni spendaccione di qua o di là, ormai la borghesia comincia ad ammettere che la crisi che stiamo vivendo è una crisi sistemica, come per dire che è qualcosa che viene dall’alto, che non è colpa di nessuno e che pertanto ce la dobbiamo tenere. Ma il suo acutizzarsi sta provocando problemi non solo sul piano economico, ma anche politico, minando ulteriormente la coerenza della classe politica borghese, favorendo un andare ognuno per proprio conto, quello che noi riferiamo come decomposizione, provocando la caduta di governi di destra e di sinistra, come in Spagna, in Grecia e in Italia (oltre a quello che ha provocato nel nord Africa e in medio oriente), scuotendo fortemente anche quelli statunitense e francese.
La borghesia italiana e la crisi
Da noi, la gravità della crisi è diventata tale da costringere l’Europa a fare pressione sull’Italia per un cambio di governo vista la perdita di credibilità sui mercati finanziari del governo Berlusconi; cambio orchestrato dal capo dello Stato che ha prima nominato Monti senatore a vita e poi gli ha conferito l’incarico per formare un nuovo governo, come chiesto dall’Europa e dai mercati finanziari.
Caso del tutto inedito questo, visto che il governo Berlusconi non è mai stato sfiduciato dal Parlamento ed era dunque legittimato a rimanere in carica nonostante le cose andassero sempre peggio.
Tutto ciò, lo ripetiamo, è proprio l’espressione della situazione di decomposizione in cui versa la borghesia italiana, come abbiamo potuto constatare, nostro malgrado, nelle ultime fasi del governo Berlusconi. Ormai questo governo aveva fatto il suo tempo e una serie di settori della borghesia l’avevano ormai lasciato (tra cui la stessa chiesa, la Confindustria e i sindacati ufficiali), tanto che lo stesso Berlusconi è stato costretto a fare un passo indietro per non rischiare di perdere il proprio consenso politico presso l’elettorato.
Ciò detto, c’è da chiedersi in che misura l’intermezzo del governo Monti sarà capace di aiutare l’apparato politico della borghesia a ritrovare una coerenza e un senso dello Stato, tali da fargli reggere le redini del paese in momenti che saranno anche più drammatici di quelli attuali. A giudicare da quello che succede, si può dire che l’appoggio forzato di PD e PDL al governo Monti li mette in una situazione di stallo, che certo non li favorisce, mentre dei due partiti che si sono messi all’opposizione, IDV e Lega Nord, solo il primo sta recuperando qualcosa mentre la Lega continua a perdere colpi ed è stata anche vicina ad una spaccatura, pagando così il pedaggio di un appoggio forzato anche questo al precedente governo Berlusconi.
E’ questo il motivo per cui, anche se non possiamo certo escludere colpi di scena, la parte più responsabile del capitale italiano ha interesse che il governo Monti duri fino a fine legislatura, e non solo per promuovere gli interventi di economia per “salvare” l’Italia, ma anche per permettere ai “politici” di recuperare una credibilità. Da questo punto di vista il governo Monti si conferma per essere un governo pienamente politico e non tecnico, un governo espressione degli interessi della borghesia italiana e non solo il “governo dei banchieri”, come da più parti si va dicendo.
Ma è veramente credibile che con il governo Monti le cose si possano sanare? Che si possa avere un “rilancio dell’economia italiana”, che sia possibile riottenere il posto di lavoro perduto o trovarne uno nuovo, avere un salario decente, avere una prospettiva migliore, che si possa avere un minimo di “giustizia sociale”? A giudicare da quello che sta facendo il governo Monti, fase 1 e fase 2 comprese, il risultato non è soltanto deludente, ma assolutamente deprimente, facendo svanire anche quelle deboli aspettative alimentate dai partiti di sinistra che avevano per anni attribuito tutte le difficoltà economiche della gente comune al governo Berlusconi. Ma la permanenza della crisi e le misure prese da Monti stanno minando questa situazione di attesa e le critiche al governo sono già presenti ed esplicite, nonostante che Monti sia là da soli poci mesi. Questo potrebbe favorire una riflessione più di fondo all’interno della classe. Peraltro ci si aspettava una maggiore equità delle misure, una mazzata anche alle caste e ai privilegi, laddove Monti invece si è limitato ad attaccare i soliti noti.
La risposta dei proletari alla crisi
Di fronte a tutto questo, quale è la situazione della classe operaia e qual è lo stato d’animo dei proletari?
Se si fa una ricerca su internet si scopre un’Italia pervasa da lotte e da situazioni di effervescenza sociale. Basti qui fare solo un rapidissimo cenno ad alcune delle più note: i ferrovieri del binario 24 a Milano, i lavoratori della Esselunga di Pioltello a Milano, quelli della FIAT di Termini Imerese, delle Ceramiche Ricchetti di Mordano/Bologna, della Jabil, ex Siemens Nokia a Cassina de’ Pecchi, Milano, la petroliera Marettimo Mednav, a Trapani, i precari della ricerca dell’Ospedale Gaslini di Genova, e ci fermiamo qui, ma sono decine di migliaia i proletari che stanno cercando di difendere il posto di lavoro ed il loro futuro con le unghie e con i denti. A queste lotte va poi aggiunto tutto il fermento che esiste nella società e che tocca tante altre figure di lavoratori non necessariamente proletarie ma comunque portate alla fame dalla crisi attuale, come tassisti, camionisti, pescatori, piccoli commercianti, partite IVA, artigiani, contadini, allevatori, pastori, ecc. ecc.
Tuttavia queste lotte non riescono ad avere un esito positivo anche perché non riescono ad unirsi in un fronte unico. Perciò dobbiamo cominciare proprio da questo punto. Come mai le manifestazioni di solidarietà e i momenti di incontro tra lavoratori in lotta, che pure ci sono, non riescono a rompere l’isolamento dei proletari nel proprio posto di lavoro, nella propria fabbrica, nella propria torre? Quali sono i problemi che incontrano i proletari, quali sono gli ostacoli che hanno di fronte?
Come abbiamo detto in precedenti occasioni, il proletariato ha ancora da recuperare la fiducia in sé stesso, deve ancora riconoscersi come classe, deve riallacciare la sua storia a quella delle generazioni che l’hanno preceduto. Uno degli elementi importanti che giocano da freno sulla classe operaia è in particolare il sindacato e la logica sindacale. Infatti, che significa lotta sindacale? Significa anzitutto dare la delega della propria lotta ad una squadra di esperti che si incaricano per la classe di portare avanti la vertenza. E quando la delegazione del sindacato tratta col padrone, ai lavoratori tocca aspettare i risultati e sperare che questi siano i migliori possibili. In conclusione il sindacato, ammesso (e non concesso) che riesca a fare un buon lavoro, in ogni caso espropria la classe della sua iniziativa, della sua capacità di portare avanti la lotta. Ma, ancora, che significa oggi lottare? E’ possibile ottenere qualcosa stando chiusi nelle proprie fabbriche in 100, 500 o finanche in 10.000? O non è molto più efficace una lotta che, pur utilizzando la fabbrica come punto di appoggio, si porti all’esterno alla ricerca di altri compagni di lotta che, pur facendo parte di altre fabbriche, altri settori o che siano addirittura senza lavoro, avvertano l’esigenza di unirsi alla lotta perché si riconoscono alla fine negli stessi obiettivi? Nella misura in cui, come detto, questa società ci sottopone ad attacchi sempre più massicci e generalizzati, non è possibile pensare di poter resistere rimanendo divisi fabbrica per fabbrica, città per città, paese per paese, ... E’ per questo che la logica sindacale è perdente, perché è intrinsecamente votata alla trattativa locale, settoriale e non parte invece dalla necessaria unità dei lavoratori, non intesi come somma delle singole situazioni di lotta ma come unico soggetto agente che lotta per un futuro diverso.
Per capire più precisamente come passa la logica sindacale, vogliamo fare alcuni esempi raccolti da una recente assemblea di avanguardie di lotta tenuta il 24 gennaio alla stazione di Milano (e riportata sul forum Napolioltre[1]) dove erano presenti numerosi sindacalisti di base. Questa assemblea, pur nella importanza che riveste come tentativo di andare oltre l’isolamento delle singole lotte, mostra tutti i limiti presenti attualmente nella classe.
Occorre ancora premettere che questa assemblea è stata tenuta per coordinare le varie azioni di lotta presenti nella provincia di Milano, anzi, secondo i termini utilizzati dagli stessi proletari intervenuti, per unire queste lotte. Questa premessa è importante per capire come il processo di unificazione delle lotte non sia una questione di slogan, ma di contenuti.
Il primo elemento che vogliamo sollevare è il riferimento, fatto all’interno di questa assemblea, alle “fabbriche di eccellenza” che, essendo tali, non dovrebbero mai essere chiuse. Il ferroviere che parlava, facendo riferimento in particolare alla Jabil, decantava tutta la “professionalità, i macchinari così all’avanguardia lasciati marcire, lasciati andare solo per motivi di profitto”, aggiungendo che anche nelle ferrovie “non è possibile che un servizio come quello (dei treni notte) (…) che era utile come l’acqua, il fuoco, (…) che serviva il paese, sia stato tolto solo per una guerra commerciale per il profitto …”. Ora, al di là di quale sia stata la logica sindacale alla Jabil o per la Compagnia dei treni notte, la questione è come si può sentire un altro lavoratore che ascolti questo intervento e che appartenga ad una fabbrica o un’impresa decotta, fatiscente? Che deve concludere? Che è giusto che la fabbrica chiuda e che si perda il lavoro?
Un secondo elemento, che ha caratterizzato una fetta significativa di episodi di lotta di questi ultimi anni e che è stato recentemente riproposto dai ferrovieri dei treni notte è l’idea che si possa stabilire un rapporto di forza con la controparte mandando un certo numero di persone su una torre, una gru o altro con la minaccia di buttarsi giù in caso di tentato sgombero. Questo tipo di lotta, che ha come punto di riferimento più significativo la lotta dell’INSSE del 2008-2009[2], lotta peraltro vittoriosa, ma solo perché la fabbrica, che non era completamente decotta, ha trovato un acquirente che l’ha fatta ripartire, si basa sulla logica secondo cui pochi individui si sacrificano e rischiano la vita rimanendo giorno e notte in condizioni assolutamente precarie su qualche cosa in alto mentre gli altri si danno da fare per propagandare questo atto di sacrificio. Con tutto il rispetto per gli uni e per gli altri, quello che ci pare è che la logica sia quella della ricerca del pietismo dei padroni che, prima o poi, dovranno pur accorgersi della situazione e intervenire. E’ dunque una lotta che parte, evidentemente, dall’idea che la controparte - il padrone, lo Stato o chicchessia - possa essere sensibilizzato da queste occupazioni di torri e di gru e quindi cedere alle richieste. C’è dunque dietro una incomprensione della gravità del livello di crisi a cui siamo arrivati e che fa sì che non è una questione di buona o cattiva volontà ma solo una valutazione strettamente economica che spinge i padroni a prendere delle misure. Va ancora notato che questo tipo di lotta porta necessariamente alla concorrenza tra iniziative parallele dello stesso tipo. Non è un caso che ancora il lavoratore delle ferrovie faccia riferimento con rammarico al fatto che, mentre loro se ne stanno “pacifici, in un angolino, senza dare fastidio a nessuno, da 44 giorni, altre categorie in tre giorni hanno fatto un po’ di casino e sono stati ricevuti al tavolo ministeriale”. Concludendo in maniera piccata che “probabilmente in Italia funziona così: più fai casino, più fai l’arrogante, più vieni ricevuto.”
Per fortuna, almeno questo secondo aspetto, ha ricevuto una forte critica già all’interno della stessa assemblea. Ma il problema è che anche chi si batte per l’unità, lo fa in maniera parziale, incompleta. Infatti si parla di mettere assieme le lotte, di fare delle azioni comuni, di individuare degli obiettivi comuni e di formulare una piattaforma comune. Ma al fondo la proposta è più che altro quella di creare una federazione di lotte piuttosto che di promuovere un’unica lotta. Di conseguenza il marciare assieme è visto essenzialmente nell’ottica che ogni singola lotta possa guadagnare visibilità dall’appoggio ricevuto dalle altre lotte e non che la lotta degli altri sia vista come la propria lotta. Questa debolezza viene poi accentuata dal fatto che i vari sindacati presenti veicolano i contatti con altre fabbriche in lotta preferenzialmente in funzione delle proprie influenze sindacali nelle altre aziende, finendo così per competere tra vari tipi di “coordinamenti”, quello del Si Cobas, quello dello Slai-Cobas, ecc. ecc.
Queste debolezze, presenti nella classe ed alimentate dalle pratiche del sindacalismo di base, sono in grande misura responsabili delle attuali difficoltà a lottare. Nel loro insieme queste difficoltà, al di là di tutti i passi avanti fatti dal proletariato in questo periodo, fanno riferimento ad un elemento maggiore di debolezza che presenta il proletariato in questa fase che è lo smarrimento della propria identità di classe, cioè lo spirito di fratellanza, la consapevolezza di appartenere alla stessa classe perché sottoposti allo stesso sfruttamento, la comprensione della necessità di sostenersi reciprocamente nella lotta perché la solidarietà è una fondamentale arma di lotta.
Beninteso, questa non è una debolezza del solo proletariato italiano, ma di tutta la classe a livello internazionale. Ma il superamento di questa debolezza si può avere soltanto nella lotta, ed in particolare nei momenti di lotta aperta, di massa, di piazza, perché è lì che i proletari misurano la forza di essere una classe unità, la potenzialità di portare avanti la stessa lotta, la forza di mettere a confronto delle esperienze diverse. Da questo punto di vista il fallimento della manifestazione del 15 ottobre scorso a Roma, fallimento provocato in buona misura dalle operazioni di provocazione della polizia, ha impedito che il proletariato in Italia potesse avere un momento importante di raggruppamento e di contatto in piazza e che potesse da lì sviluppare delle possibili ulteriori potenzialità di lotta. Così come la debolezza del movimento degli indignati in Italia ha mancato di fornire quello scenario di assemblee di piazza, capannelli, commissioni, collegamenti tra posti di lavoro, che viceversa si è presentato in altri paesi, non permettendo alle lotte evocate in precedenza di poter fare riferimento a questa dinamica più ampia e di uscire di conseguenza dal chiuso della loro lotta.
Ma i tempi che viviamo sono di un carattere particolare e non è strettamente necessario che le cose si vivano in casa propria per essere conosciute e riconosciute. Oggi, tramite i social network, soprattutto la giovane generazione viene a conoscenza in tempo reale di quello che succede e l’effetto contagio che ha avuto la primavera maghrebina prima, Puerta del sol dopo fino alle varie occupy, mostrano che la situazione si sta riscaldando significativamente a livello internazionale. Per cui, se in questa presentazione abbiamo particolarmente insistito sulle debolezze che presenta in questo momento la classe in Italia, non é per rimanere su queste difficoltà ma per tradurle in armi di lotta per il futuro.
11 febbraio 2012 CCI
Gli esperti della borghesia includono la Cina nella loro collezione di potenze che hanno espresso di recente un avanzato sviluppo economico. Questa categoria, riferita con l’acronimo “BRIC” e che include anche il Brasile, la Russia e l’India, si presume possa costituire la salvezza del capitalismo in crisi. Questi paesi vengono dipinti come l’opposto di quelli che formano il “PIIG” (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna). In realtà, non sono che l’altra faccia della stessa medaglia. I PIIGS sono sprofondati velocemente nella crisi economica aperta, i BRIC sono in procinto di farlo, spegnendo le deboli speranze della classe dominante in un miracolo economico capace di superare la crisi mortale del capitalismo. Come riportato nella Rivista Internazionale n. 148[1]: “I paesi emergenti, come l’India e il Brasile, stanno vedendo una rapida riduzione di attività. Anche la Cina, che dal 2008 è stata presentata come la nuova locomotiva dell’economia mondiale, ufficialmente sta andando sempre peggio. Un articolo apparso sul sito del China Daily il 26 dicembre afferma che due province (tra cui quella di Guangdong, che è certamente una delle più ricche del paese poiché ospita gran parte del settore manifatturiero per i prodotti di grande consumo) hanno notificato a Pechino che esse avrebbero ritardato i pagamenti degli interessi sul loro debito. In altre parole, il fallimento minaccia anche la Cina”
Nello sviluppo minaccioso per l’economia cinese - e per il capitalismo più in generale - vi è una massiccia bolla speculativa legata al boom delle costruzioni che si gonfia e che, come quelle negli USA, in Irlanda, Spagna ed altrove, può solo scoppiare con delle conseguenze terribili. A Shanghai c’è una vasta capacità di spazio abitativo inutilizzato ed invendibile valutato in centinaia di milioni di metri quadrati. Qui ed a Pechino gli alloggi hanno un prezzo circa 20 volte superiore a quello della paga annuale media di un lavoratore. L’85% dei lavoratori che ne hanno bisogno, non può permettersi una nuova casa. Il regime ha frenato il credito a causa di un aumento dell’inflazione così, proprio come per Gran Bretagna, Stati Uniti, Irlanda, Spagna, ecc., lo sgonfiamento della bolla minaccia il sistema bancario, in particolare la versione cinese dei “sub-prime”, un sistema di mercato bancario al nero, non ufficiale, finanziato da grandi imprese statali del regime. Queste perdite a loro volta hanno un impatto negativo su importanti amministrazioni locali dello Stato che saranno quindi incapaci di soddisfare i loro obblighi. Lungi dall’essere un faro di speranza, lo sviluppo della crisi globale del capitalismo significa ancora di più che l’economia cinese è solo un ulteriore fattore di disperazione per il capitalismo.
Gli sviluppi nella lotta di classe in Cina mostrano che questa fa pienamente parte dell’ondata generale globale di lotta di classe e proteste sociali che si sta sviluppando dal 2003. Inoltre, l’estensione e la profondità delle lotte, che ora coinvolgono una nuova generazione di proletari in gran parte migranti e altamente istruiti, fanno degli avvenimenti in Cina un grande potenziale. Non come espressione di illusione borghese in una qualche “ripresa economica” ma come importante segnale per il proletariato mondiale nello sviluppo della lotta di classe.
Migliaia e migliaia di notizie di “incidenti” di scioperi e proteste nelle città, insieme ad agitazioni nelle campagne che stanno aumentando di numero e di intensità. Gli scioperi stanno diventando più ampi: lo sciopero di tre giorni nel gennaio scorso nella zona industriale di Chengdu, è stato, secondo The Economist (02/02/12) “… insolitamente grande per un’impresa di proprietà del governo centrale”. Gli operai hanno guadagnato un piccolo aumento di circa 40 dollari mensili che, conquistato a furia scioperi e con un’aperta repressione, presto non sarà più sufficiente. Il black-out mediatico su questa agitazione non è durato a lungo grazie all’uso di internet. Anche nel settore privato la frequenza degli scioperi è aumentata nello scorso anno.
Nel delta del Pearl River, che produce circa un terzo delle esportazioni cinesi, migliaia di lavoratori a Dongguan, lo scorso novembre, sono scesi in piazza per protestare contro i tagli salariali e si sono scontrati con la polizia. Su internet sono apparse le foto dei lavoratori feriti. In queste ultime settimane la protesta si è estesa. The Economist, osservando le recenti proteste ed il loro sviluppo nell’intera provincia del Guangdong, sottolinea come queste stiano assumendo una forma diversa, in contrasto con gli scioperi ordinati e pacifici che hanno avuto luogo sempre qui nel 2010: “... attualmente, piuttosto che chiedere di migliorare la loro sorte, gli operai stanno soprattutto protestando per i tagli ai salari ed ai posti di lavoro. Gli scioperanti sembrano più militanti... Un rapporto pubblicato questo mese dall’Accademia cinese delle scienze sociali, dice che, rispetto al 2010, gli scioperi del 2011 sono stati meglio organizzati, più conflittuali e più probabilmente un innesco per azioni simili. ‘Gli operai questa volta non sono disposti ad accettare di fare sacrifici e, in secondo luogo, ancor meno sono disposti a mollare e tornare a casa’” (idem).
La repressione è ancora l’arma principale dello Stato cinese – la polizia in borghese è dappertutto. Ma questa politica può essere pericolosa. Quando una lavoratrice incinta è stata recentemente malmenata dalla polizia nel Guangdong, migliaia di lavoratori hanno attaccato gli edifici del governo e della polizia.
E’ improbabile che questi lavoratori ritornino indietro a fare i contadini, in particolare quando la campagna sta sollevando una propria forma di protesta contro gli effetti della crisi – come di recente nel villaggio di Wukan. Ci sono 160 milioni di lavoratori immigrati (20 milioni hanno perso il lavoro quando l’onda d’urto della crisi economica del 2008 ha colpito la Cina) e adesso vivono nelle città. Non c’è nulla per loro nelle campagne che possa spingerli a tornare indietro e, dato che come migranti devono pagare anche l’istruzione per i loro figli e la sanità per la famiglia (che dovrebbero pagare le imprese che però in larga parte non fanno per i salari minimi), si apre un’altra area del conflitto di classe.
La crisi economica mondiale sta peggiorando e questo avrà un effetto significativo sulla Cina e la sua economia. Dato il livello attuale e in via di sviluppo della lotta di classe in questo paese, possiamo aspettarci ulteriori sviluppi nelle lotte dei lavoratori in Cina, a partire dalla serie di scioperi e proteste che abbiamo visto nel mese di gennaio.
Baboon, 2-2-2012
[1] In Inglese, francese e spagnolo sul nostro sito: www.internationalism.org [14]
È particolarmente significativo che queste grandi mobilitazioni si producano nel paese epicentro della controrivoluzione mondiale da decenni (dalla metà degli anni 1920), dove lo schiacciamento fisico e ideologico del proletariato da parte dello stalinismo in nome del comunismo è stato assoluto. In più, il crollo e lo smembramento dell’URSS negli anni 90, uno dei fenomeni che hanno segnato l’entrata del capitalismo decadente nella sua fase ultima di decomposizione, hanno spinto al parossismo il disorientamento e la demoralizzazione di questa parte del proletariato mondiale. Questi movimenti sono oggi inevitabilmente fortemente segnati da questa storia e sono soprattutto portatori d’importanti illusioni sulla democrazia. Eppure, sono innanzitutto un’espressione della dinamica internazionale che, partita dai paesi arabi e dilagata in numerosi paesi (come attualmente in Romania) vede la protesta di tutti gli strati e classi vittime del capitalismo sollevarsi contro un presente di miseria ed un avvenire catastrofico a cui li condanna questo sistema in fallimento. Al di là dell’immediato esplosione contro la frode elettorale, è la profonda insoddisfazione della propria condizione di vita e di lavoro che spinge così larghi settori della popolazione e di sfruttati in Russia ad esprimere il loro malcontento ed ad uscire da quella passività che la cricca di Putin amava far passare per approvazione al suo regime di terrore e di sfruttamento senza freno. Per questo motivo l’emergere di questi movimenti costituisce un avvenimento di grande portata.
Il 4 dicembre 2011 ci sono state le elezioni parlamentari in Russia. Le frodi elettorali sono state così spudorate ed insolenti che hanno indignato centinaia di migliaia di cittadini. Decine di migliaia di persone hanno preso parte alle manifestazioni di protesta svoltesi in diverse città del paese “per elezioni oneste”. Ma bisogna notare che la gran maggioranza degli indignati conserva delle illusioni democratiche e lotta per migliorare il sistema capitalista, invece di combatterlo con la lotta di classe.
Ricchi e poveri insieme in strada
Le manifestazioni più grandiose si sono svolte a Mosca, il 10 dicembre a piazza Bolotnaïa ed il 24 in corso Sakharov dove, secondo diverse stime, il numero di partecipanti ha raggiunto parecchie decine di migliaia di persone. Le contestazioni hanno visto forze politiche diverse, le insegne dei liberali accanto alle bandiere rosse, i gonfaloni dei nazionalisti accanto agli striscioni rossi e neri degli anarchici. Ma la maggior parte dei manifestanti non apparteneva a nessuna organizzazione o tendenza politica.
La rivendicazione principale della manifestazione era quella di “elezioni oneste”. Allo stesso tempo, molte persone non impegnate politicamente insistevano a non voler nient’altro che sottomettere le autorità alla legge e fare delle trasformazioni democratiche pacifiche. In generale, la grande massa era sorda agli appelli alla rivoluzione o ad ogni azione radicale.
Bisogna notare anche il forte contrasto nella composizione sociale dei manifestanti. Da una parte si trovavano uomini d’affari, vecchi membri del governo (compreso l’ex-primo ministro Mikhaïl Kassianov), star dello show, celebri giornalisti ed anche una mondana, come Xénia Sobtchak, il cui padre Anatoli Sobtchak passa per essere il “padrino” politico di Putin. Dall’altra, c’era invece molta gente comune: impiegati di ufficio, studenti, operai, pensionati, disoccupati ... Secondo alcuni osservatori la composizione sociale dei manifestanti in provincia (cioè praticamente l’insieme della Russia salvo San Pietroburgo e Mosca) era più proletaria che nella capitale.
Le ragioni delle contestazioni e la reazione del Cremlino
Non c’è alcun dubbio che la crisi economica mondiale abbia avuto un ruolo catalizzatore delle proteste in Russia. Nonostante l’ottimismo ostentato delle autorità, questa crisi viene avvertita sempre di più dalla gente comune. Gli imbrogli elettorali durante le elezioni parlamentari del 2011 sono servite solo da pretesto allo scoppio di manifestazioni di massa. La rivendicazione di “elezioni oneste” è stata il leitmotiv di quasi tutte le azioni di massa, dall’Estremo Oriente alle due metropoli, Mosca e San Pietroburgo.
Le reti Internet sono diventate la principale arma ideologica dell’opposizione a Putin. Sullo schermo si possono trovare centinaia, se non migliaia di video dove sono registrate, secondo i loro autori, le violazioni alla legge elettorale. Del resto, nessuno ne ha verificato la credibilità perché l’indignazione ha piuttosto trovato nelle falsificazioni elettorali un pretesto formale, mentre, come abbiamo detto, la sua causa principale è stato il malcontento generale di milioni di persone poste di fronte alla loro situazione.
A loro volta, le autorità pretendono che le accuse di falsificazione durante le elezioni sono in gran parte infondate. Inoltre, il Cremlino porta avanti una campagna mediatica che mira a presentare i manifestanti come sotto l’influenza di agenti dell’Occidente al servizio dello Zio Sam e del Dipartimento di Stato. Tuttavia, temendo questo malcontento generalizzato, il regime di Putin è costretto a fare delle concessioni. Per esempio, Medvedev ha appena promesso alcune riforme democratiche alla popolazione, in particolare quella di ristabilire l’elezione diretta dei governatori di regione, abolita qualche anno fa da Putin col pretesto della lotta contro il terrorismo.
Le illusioni democratiche
Non c’è dubbio che il malcontento abbia delle ragioni sociali. La Russia, come parte dell’economia mondiale, è interessata dalla stessa crisi degli altri paesi. La gente comune in Russia, alla stessa stregua dei milioni di lavoratori ovunque nel mondo, cominciano a comprendere che il capitalismo non assicura loro nessun “avvenire radioso”. Ma questo sentimento non si è ancora trasformato in coscienza di classe. E le illusioni democratiche imposte dalla propaganda borghese in larga misura serviranno sicuramente a qualcosa. Purtroppo, molta gente non capisce ancora che le elezioni non sono che il diritto degli oppressi a scegliere un rappresentante della classe dirigente ad intervalli regolari (secondo l’espressione di Marx). E qualunque sia il volto del potere, la sua natura sarà sempre la stessa, capitalista e sfruttatrice. Che importa se si ha questo o quel presidente, questo o quel deputato, i proletari, i salariati manuali ed intellettuali privati dei mezzi di produzione e del potere politico rimarranno sfruttati. I lavoratori otterranno l’emancipazione sociale solo organizzandosi (sull’esempio della Comune di Parigi del 1871 e dei Consigli operai del 1905 e 1917) e rovesciando il sistema capitalista, perché è solamente un cambiamento di sistema che permetterà loro di porre fine allo sfruttamento.
Chi ha preso la testa dell’opposizione a Putin?
I liberali, la “sinistra” (soprattutto gli stalinisti) ed i nazionalisti si sono messi alla testa del movimento. Insieme hanno formato il Centro di coordinamento “Per delle elezioni oneste”. Tra i leader dell’opposizione si vedono personaggi come Boris Nemtsov, vice primo ministro sotto Eltsin che ha “contribuito” non poco al saccheggio sulle spalle dei lavoratori della Russia.
Tutto sommato, i rivali di Putin non ottengono nessuna simpatia da parte dei proletari russi. Le persone si ricordano bene la povertà, la miseria, i ritardi nel pagamento dei salari e delle pensioni, quando alcuni oppositori attuali erano al potere. I leader dell’opposizione non si sono fatti scrupoli ad utilizzare il malcontento delle masse a fini elettorali. Questa volta si tratta della futura presidenza. Nelle manifestazioni di protesta, si chiamano gli elettori a votare “come si deve”. Ma è chiarissimo che anche se “l’opposizione” attuale dovesse succedere a Putin ed al suo regime, i lavoratori non ne trarrebbero alcun beneficio.
I compiti dei rivoluzionari
Sappiamo bene che la rivendicazione di elezioni oneste non ha niente a che vedere con la lotta di classe. Ma bisogna rendersi conto che tra le decine di migliaia dei manifestanti ci sono molti nostri compagni di classe. In una tale situazione, dobbiamo criticare apertamente le illusioni democratiche, anche se questo non contribuirà ad aumentare la simpatia per le nostre posizioni tra i sostenitori di “elezioni oneste”. Senza la comprensione che alla base di tutti i problemi contemporanei c’è la natura del sistema capitalista, non ci sarà sviluppo della coscienza di classe rivoluzionaria. E’ per tale motivo che, nonostante il battage mediatico che circonda le elezioni, i rivoluzionari devono smascherare instancabilmente la falsità e l’illusione delle “libertà” borghesi. Pur criticando gli errori dei partecipanti alle manifestazioni per oneste elezioni, non bisogna dimenticare mai la differenza tra “l’opposizione” borghese che vuole utilizzare il malcontento delle masse per guadagnare dei posti comodi all’interno degli organi del potere e le persone comuni che s’indignano sinceramente di fronte all’insolenza, all’impudenza ed alla perfidia delle attuali autorità del Cremlino.
E come mostra la stessa esperienza di tali proteste, per quanto sterili ed insignificanti possano essere le manifestazioni a Mosca per il potere, uno stato d’animo radicale in seno alla società può emergere molto rapidamente. Ancora un mese fa, prima di queste azioni di massa, nessuno avrebbe potuto supporre che decine di migliaia di persone sarebbero scese in strada a protestare contro il regime di Putin.
Il nostro dovere di rivoluzionari consiste nello smascherare la vera natura della cricca di Putin e dei suoi oppositori politici. Dobbiamo spiegare ai lavoratori che solo la lotta di classe autonoma per il capovolgimento del capitalismo e la costruzione di una nuova società senza sfruttamento potranno risolvere realmente i loro problemi personali e quelli dell’intera umanità.
Dei simpatizzanti della CCI nell’ex-URSS (gennaio 2012)
Il 29 novembre, degli studenti hanno fatto irruzione nell’edificio, causando danni agli uffici dell’ambasciata e a dei veicoli. Dominick Chilcott, l’ambasciatore britannico, in un’intervista alla BBC, ha accusato il regime iraniano di essere dietro questi attacchi “spontanei”. Per rappresaglia, il Regno Unito ha espulso l’ambasciata iraniana di Londra. Questi avvenimenti sono un nuovo episodio della crescente tensione in Medio Oriente tra l’Occidente e l’Iran, sulla questione delle armi nucleari della Siria. Il recente rapporto dell’AIEA (International Atomic Energy Agency) sul nucleare iraniano ha dichiarato che l’Iran aveva sviluppato un programma nucleare militare. In risposta, la Gran Bretagna, il Canada e gli Stati Uniti hanno introdotto delle nuove sanzioni. In questi ultimi giorni l’Iran ha affermato di aver abbattuto un drone americano che tentava di raccogliere informazioni militari. Rispetto alla Siria, l’articolo menziona la collaborazione tra il regime di Assad e la Guardia Rivoluzionaria Iraniana nel massacro della popolazione siriana. Nell’attacco all’ambasciata britannica, si è visto ugualmente un colpo di mano da parte della sezione giovanile del Basij, teleguidato da El-Assad.
Oltre alle rivalità interimperialiste, non dobbiamo mai dimenticare le rivalità interne all’interno delle stesse borghesie nazionali. L’estate scorsa è risultato chiaro che stava aumentando la distanza tra il presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad e l’ayatollah Ali Khamenei. Malgrado le sue diatribe antisemite e la sua retorica piena di vaneggiamenti, Ahmadinejad rappresenta una frazione della borghesia iraniana che vuole mantenere qualche legame con l’Occidente. Khamenei aveva arrestato alcuni dei più stretti alleati di Ahmadinejad nel governo silurato. In risposta, Ahmadinejad si è messo “in sciopero” per 11 giorni, rifiutandosi di svolgere le sue funzioni di capo del governo. I recenti eventi relativi al saccheggio dell’Ambasciata britannica sono considerati da alcuni analizzatori politici come facenti parte di questa querelle. Si pensa che Khamenei e i suoi sostenitori conservatori siano dietro gli attacchi per minare la politica più conciliante di Ahmadinejad e fargli perdere credibilità in vista delle prossime elezioni del 2012.
Con l’aggravarsi delle tensioni tra l’Iran e l’Occidente, alcuni prevedono lo scoppio di una Terza Guerra Mondiale. La questione è un’altra e bisogna chiedersi: i lavoratori del Medio Oriente e dell’Occidente sono pronti ad essere mobilitati a sostegno di un’altra grande guerra? In realtà i lavoratori di tutto il mondo sopportano il peso della crisi sulle loro spalle e cominciano a rispondere. La guerra significherebbe ancor più austerità, più violenza contro i lavoratori, più disperazione. I lavoratori non hanno alcun interesse in questi massacri imperialisti sanguinari e non sono disposti ad esservi arruolati in massa.
CCI (28 gennaio)
Contributo del compagno
Dopo otto mesi di proteste, nate all’interno di un movimento regionale e internazionale contro l’oppressione, la disoccupazione e la miseria, che ha coinvolto drusi, sunniti, cristiani, curdi, uomini, donne e bambini, gli avvenimenti in Siria hanno preso un aspetto sinistro. Se rispetto alla difesa dei propri interessi e della loro strategia, gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e la Francia diffidano di un attacco diretto contro l’Iran, tuttavia possono contribuire a un’aggressione al suo più stretto alleato, il regime di Assad in Siria, nella logica delle rivalità inter-imperialiste. Le brutali forze di sicurezza di Assad, con il supporto logistico di “300-400 Guardiani della Rivoluzione” d’Iran (The Guardian, 17 novembre 2011), hanno massacrato migliaia di persone e dato nascita alla falsa e ipocrita “preoccupazione per i civili” da parte delle tre maggiori potenze del fronte anti-iraniano citate sopra. Come nel caso della Libia, anche adesso gli Stati Uniti sono i “registi occulti” dell’operazione, questa volta spingendo la Lega araba, di cui la Siria era una potenza importante, a sospendere l’adesione di questo paese e sottomettendolo a delle ulteriori umilianti scadenze. Al contempo spinge la Lega araba a distaccarsi dagli alleati algerini, iracheni e libanesi di Assad. In prima fila tra i sostenitori di questa preoccupazione-bidone per la vita e l’integrità fisica della popolazione si trova il regime assassino dell’Arabia Saudita che, qualche tempo fa, aveva inviato circa 2.000 soldati delle sue truppe scelte, formate dalla Gran Bretagna, per schiacciare le dimostrazioni nel Bahrain e per proteggere gli interessi e le basi statunitensi e britanniche. Per colmo dell’ipocrisia, la conferma della sospensione da parte della Siria del suo “bagno di sangue” è stato fatto dalla riunione della Lega Araba nella capitale marocchina, Rabat, il 16 novembre, mentre le forze di sicurezza di questo paese stavano per attaccare e reprimere migliaia di suoi manifestanti. Esistono delle ramificazioni imperialiste più ampie rispetto all’azione della Lega araba, nel senso che le sue decisioni sono state condannate dalla Russia, ma sostenute dalla Cina.
La Gran Bretagna e gli Stati Uniti spingono in avanti in questa direzione non solo la Lega Araba, ma anche la potenza regionale che è la Turchia, che ha anche partecipato alle riunioni a Rabat. Dopo aver apparentemente scoraggiato lo Stato turco a stabilire una sorta di zona cuscinetto o una “no-fly zone” al confine tra la Turchia e la Siria, l’amministrazione americana ha cambiato idea. Così, Ben Rhodes, consigliere di Obama per la sicurezza nazionale, la settimana scorsa ha detto: “Salutiamo con forza l’atteggiamento di fermezza preso dalla Turchia ...”. Il leader in esilio dei Fratelli Musulmani in Siria ha anche dichiarato la settimana scorsa ai giornalisti che l’azione militare turca (“per proteggere i civili”, naturalmente) sarebbe accettabile (The Guardian, 18 novembre 2011). La possibilità di una zona cuscinetto lungo il confine pesantemente militarizzato turco-siriano permetterebbe al misterioso “Esercito siriano libero”, ben impiantato in Turchia (e in Libano) e, per ora numericamente inferiore all’esercito siriano, di muoversi con un armamento molto più pesante. In questa convergenza di interessi imperialisti si trovano gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, la Francia, la maggior parte della Lega Araba, vari esponenti della sinistra, i Fratelli Musulmani ed gli jihadisti salafiti della Siria che hanno assunto un ruolo maggiore nell’opposizione ad Assad. Inoltre, la destabilizzazione della regione e la prospettiva di un aggravamento dei problemi sono ben evidenti in due cose: sia nel monito del presidente turco Gul rivolto alla Siria, che precisava che questa avrebbe dovuto pagare per il fatto di creare problemi nel sud-est curdo della Turchia; sia nella “rinnovata volontà di Washington di ignorare le incursioni militari turche contro le basi della guerriglia curda nel nord dell’Iraq” (The Guardian, 18 novembre 2011). Tutta questa instabilità, alimentata da queste potenze e questi interessi, rendono molto probabile l’intervento militare da parte della Turchia in territorio siriano. “L’esercito siriano libero” è stato anch'esso implicato in uccisioni settarie e di civili in Siria (Newsnight, 17 novembre 2011) e, poiché opera a partire dai suoi rifugiati al di fuori del paese, per combattere e uccidere le forze governative e la polizia, le rappresaglie ricadono sulla popolazione civile. Il Consiglio Nazionale Siriano, che ha fatto la sua comparsa il mese scorso, ha fatto appello ad un intervento militare contro le forze di Assad, mentre un’altra forza di opposizione, il Comitato di Coordinamento Nazionale, ha denunciato questa posizione. Il ministro francese degli Affari Esteri, Alain Juppé, ha già incontrato le forze di opposizione a Parigi e il segretario del Foreing Office inglese, Hague, li ha incontrati a Londra il 21 novembre. Non è stato precisato quali fossero queste “forze di opposizione” nè se includessero l’Esercito siriano libero, il Consiglio Nazionale siriano, il Comitato di Coordinamento Nazionale, l’opposizione curda, i Fratelli Musulmani e gli jihadisti salafiti. Inoltre, le coalizioni di opposizione includono degli stalinisti, undici organizzazioni curde, delle strutture tribali e di clan, più una quantità sconcertante di settori dagli interessi contrastanti. In ogni caso, Hague ha fatto appello ad un “fronte unito” ed ha nominato un “ambasciatore designato” per loro (BBC News, 21 novembre)!
Teheran, l’obiettivo finale.
Da diversi anni gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, Israele e l’Arabia Saudita hanno montato l’isteria anti-iraniana ed è questo che si nasconde dietro il loro sostegno all’opposizione siriana e la loro “preoccupazione per i civili”. Questa campagna è stata notevolmente potenziata con un recente rapporto dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (AIEA), che lasciava intravedere una “possibile” dimensione militare alle ambizioni nucleari dell’Iran. Ma gli Stati Uniti accerchiano l’Iran da qualche tempo. Sul confine orientale dell’Iran ci sono oltre centomila soldati americani in Afghanistan, a nord-est, c’è il Turkmenistan, con le sue basi militari americane. Nel sud del Bahrain ci sono le basi navali americane e britanniche. Anche nel Qatar, c’è la sede del comando delle forze statunitensi e la marionetta anti-iraniana, l’Arabia Saudita. L’unico spazio dove l’Iran può respirare ora è attorno al suo confine occidentale con l’Iraq e anche qui le forze speciali statunitensi e britanniche hanno fatto una serie di incursioni dirette o indirette: nel 2007, Bush ha ottenuto l’approvazione del Congresso per un programma di 400 milioni di dollari per sostenere i gruppi “etnici”, mentre più di recente Seymour Hersh nel The Daily Telegraph e Brian Ross della ABC hanno avuto informazioni segrete sul gruppo di gangster terroristi iraniano Jundullah.. Il leader del gruppo, Abdolmalek Rigi, catturato dai servizi segreti iraniano mentre andava a Doha, ha affermato di essersi incontrato con la CIA alla base aerea americana di Manas nel Kirghizistan per dare il suo aiuto in degli attacchi terroristici in Iran.
Al largo delle coste dell’Iran, nel Golfo Persico e in tutta la regione del Golfo, vi è un’enorme concentrazione di navi da guerra americane: gli Stati Uniti vanno così a rafforzare la loro attività in Kuwait, Bahrain ed Emirati Arabi Uniti. Recenti rivelazioni (The Guardian, 11 marzo 2011) hanno mostrato che la Gran Bretagna stava preparando dei piani di intervento con le forze americane per un possibile attacco navale ed aereo contro obiettivi in Iran.
A soli 1500 km circa di distanza si trova Israele, che possiede armi nucleari, che è stata coinvolta nell’attacco al virus Stuxnet, che è riuscita ad arrestare definitivamente all’incirca un quinto degli impianti nucleari dell'Iran, e che è coinvolta ancora nella morte di scienziati iraniani, tra cui un esperto nucleare di primo piano, il generale maggiore Moghaddam, ucciso con 16 altre persone in una enorme esplosione in una base dei Guardiani della Rivoluzionarie, nei pressi di Teheran, poco tempo fa. Ancora una volta, l’ipocrisia della democrazia supera la nostra fantasia: a dispetto della loro retorica sul disarmo, la British American Security Information Council afferma che gli Stati Uniti spenderanno 700 miliardi di dollari per l’ammodernamento dei loro impianti nucleari nel corso del prossimo decennio e che “altri paesi, tra cui Cina, India, Israele, Francia e Pakistan dovranno spendere ingenti somme per i sistemi missilistici tattici e strategici” (The Guardian, 31 ottobre 2011). La relazione prosegue affermando che “alle armi nucleari viene assegnato un ruolo che va oltre la dissuasione ... un ruolo da armi da guerra nella pianificazione militare”. Per quanto riguarda Israele, il rapporto dichiara: “... la dimensione delle testate nucleari dei missili da crociera della sua flotta sottomarina è aumentata e il paese sembra essere sulla buona strada, grazie al suo programma di lancio con il suo satellite lanciarazzi, per il futuro sviluppo di un missile balistico intercontinentale (ICBM)”.
La Gran Bretagna, che ha contribuito a fornire ad Israele delle armi nucleari, non è menzionata in questo rapporto commissionato da questo paese. Tutti sanno che un attacco all’Iran sarebbe una follia, anche il Mossad e lo Shin Bet, i servizi segreti per la sicurezza esterna ed interna di Israele. Utilizzando il loro canale abituale per produrre fughe di notizie contro i loro politici, il quotidiano kuwaitiano Al-Jarida, entrambe queste agenzie hanno espresso seri dubbi sull’attacco e il capo del Mossad, che è recentemente andato in pensione, Meir Dagan, ha definito la prospettiva di un attacco all’Iran “la più stupida delle idee” di cui avesse mai sentito parlare. Ma il fatto che sia stupida o irrazionale non la rende per questo improbabile: basta guardare le guerre in Iraq e l’incubo senza fine, del tutto irrazionale, in Afghanistan e Pakistan. La Siria è un altro passo visibile nella trasformazione della guerra segreta contro l’Iran. Ciò non ha nulla a che fare con “la protezione dei civili”, ma si identifica totalmente nel progredire degli obiettivi sempre più irrazionali imposti da un sistema capitalista in piena decadenza.
Baboon (21 novembre)
L’11 marzo 2011, uno tsunami gigantesco inonda le coste orientali del Giappone. Onde alte da 12 a 15 metri causano danni incredibili. Più di 20.000 persone vengono uccise mentre migliaia di altre vengono ancora oggi date per disperse. Un numero incalcolabile di persone ha perso la casa.
Ma il peggio doveva ancora venire con la catastrofe nucleare di Fukushima. Un anno dopo possiamo affermare che questa è una catastrofe mondiale ancora in corso.
Chernobyl, Fukushima: dappertutto l’impotenza e la mancanza di scrupoli della classe dirigente
Di fronte a questa catastrofe nucleare la classe dominante ha ancora una volta mostrato tutta la sua incuria. L’evacuazione della popolazione è cominciata troppo tardi e la zona di sicurezza vietata è stata insufficiente. Anche se si può obiettare che le misure di salvataggio e di evacuazione sono state ritardate e rese più difficili a causa delle conseguenze dello tsunami, il governo ha evitato un’evacuazione su larga scala soprattutto perché voleva minimizzare a tutti i costi i pericoli che c’erano. All’improvviso è diventato evidente che i responsabili giapponesi della società Tepco, che gestisce la centrale nucleare, così come il governo, non avevano mai previsto un simile scenario e che le misure di sicurezza in caso di terremoto e di uno tsunami di tale ampiezza erano insufficienti. Le misure di urgenza previste sono state completamente insufficienti ed hanno fatto apparire il Giappone, con una reputazione di paese di alta tecnologia, come un gigante mal equipaggiato ed impotente.
Alcuni giorni dopo la catastrofe, quando il governo ha discusso della questione dell’evacuazione, di fatto necessaria, della zona metropolitana di Tokio, con i suoi 35 milioni di abitanti, quest’idea è stata immediatamente respinta semplicemente perché non c’erano i mezzi per attuarla e avrebbe implicato il pericolo di un crollo del governo.
Nella centrale nucleare e nei suoi dintorni le radiazioni registrate hanno raggiunto un’intensità letale. Poco dopo la catastrofe il Primo ministro Kan ha reclamato la formazione di un commando-suicida di lavoratori con il compito di far abbassare il livello di radioattività nella centrale. I lavoratori che sono intervenuti sul posto erano equipaggiati molto male. Dopo poco tempo sono venuti a mancare i dosimetri e gli stivali di sicurezza adeguati e regolamentari. Un operaio ha segnalato che i lavoratori avevano dovuto attaccare dei sacchetti di plastica con il nastro adesivo intorno alle scarpe. Spesso era impossibile per i lavoratori comunicare gli uni con gli altri o con i centri di controllo. Molti lavoratori hanno dovuto dormire sul posto e non avevano che coperte al piombo per coprirsi. Il tasso critico per i lavoratori della centrale in situazioni di emergenza è stato aumentato il 15 marzo da 100 a 250 millisievert all’anno[1]. In molti casi i lavoratori hanno potuto verificare il loro stato di salute solo settimane o mesi dopo. 25 anni fa, quando ci fu Chernobyl, il regime stalinista dell’URSS, che stava ad un passo dal crollo per mancanza di risorse, non trovò altro da fare che mandare di forza un gigantesco esercito tutto fatto di reclute per combattere il disastro sul posto. Secondo l’OMS furono inviati da 600.000 a 800.000 “liquidatori”, e di questi centinaia di migliaia sono morti o si sono ammalati a causa delle radiazioni. Il governo non ha mai pubblicato cifre ufficiali affidabili.
Oggi, 25 anni dopo, un paese ad alta tecnologia e molto democratico come il Giappone ha disperatamente tentato di estinguere il fuoco e raffreddare il sito con lance antincendio e con polverizzazione d’acqua con gli elicotteri.
In contraddizione con tutti i piani precedenti, la Tepco è stata costretta ad utilizzare grandi masse d’acqua di mare per il raffreddamento della fabbrica e versare le acque inquinate nell’Oceano Pacifico. E come a Chernobyl, migliaia di lavoratori sono stati costretti a rischiare la vita (non sotto la minaccia della repressione questa volta, ma sotto quella della miseria). La Tepco, tra l’altro, ha reclutato lavoratori tra senza tetto e disoccupati nelle regioni più povere di Osaka e Kamagasaki ai quali, in molti casi, non diceva dove avrebbero dovuto lavorare, né a quali rischi sarebbero andati incontro.
Ed è stata messa in pericolo non solo la vita di questi “liquidatori”, ma della stessa popolazione civile, in particolare dei bambini della zona contaminata che sono stati esposti a quantità elevatissime di radiazioni. Da quando è stata registrata l’emissione di queste radiazioni, il governo ha deciso di alzare la soglia di non-pericolosità che riguarda l’esposizione dei bambini nella regione di Fukushima, a 20 millisievert …
Nel 1986 i dirigenti dell’URSS stalinista avevano provato, nei primi giorni, a conservare il silenzio totale sulla catastrofe nucleare di Chernobyl; nel 2011, il governo del democratico Giappone si è mostrato altrettanto determinato a nascondere l’ampiezza della catastrofe. I responsabili in Giappone non hanno mostrato meno cinismo e disprezzo per la vita umana del regime stalinista al potere all’epoca di Chernobyl.
È impossibile oggi valutare realisticamente le conseguenze che ci saranno a lungo termine. Le barre di combustibile fuse hanno formato un gigantesco grumo radioattivo che ha bucato il container sotto pressione. L’acqua di raffreddamento è diventata estremamente contaminata. Le barre di combustibile hanno bisogno di un raffreddamento permanente per cui si accumulano continuamente gigantesche masse d’acqua contaminata. Ma, a parte l’acqua, anche i reattori non protetti emettono isotopi di cesio, stronzio e plutonio. Questi vengono chiamati “particelle calde” e si trovano disseminati in tutto il Giappone. Ad oggi, non esistono mezzi tecnici disponibili per eliminare i rifiuti nucleari accumulati a Fukushima. Lo stesso processo di raffreddamento durerà anni. A Chernobyl fu necessario costruire un sarcofago che dovrebbe essere demolito, al più tardi, al termine di cento anni, giusto il tempo di essere sostituito da un altro. Per Fukushima non si intravedono ancora soluzioni. Intanto l’acqua contaminata si accumula e le autorità responsabili non sanno dove conservarla.
Gran parte dell’acqua di raffreddamento viene direttamente versata nell’oceano, dove le correnti la diffondono nel Pacifico e con delle conseguenze per la catena alimentare e per gli esseri umani che non sono ancora calcolabili. E’ già stata toccata la costa del nord-est del Giappone, che è una tra le zone di pesca più abbondanti; ben preso lo sarà lo stretto di Bering, con le sue riserve di salmoni[2].
Dato che la densità della popolazione in questa regione del Giappone è 15 volte superiore a quella dell’Ucraina, non è ancora possibile avere una stima di quali saranno le conseguenze sulla popolazione.
Questo ci dimostra che le conseguenze di questa catastrofe nucleare sono completamente fuori controllo.
Gli irresponsabili politici potevano scegliere tra peste e colera: o lasciar avvenire l’esplosione senza alcun intervento, o tentare di raffreddare il cuore dei reattori con l’acqua di mare, provocando però una maggiore propagazione della radioattività attraverso la diffusione dell’acqua nei dispositivi di estinzione. Il governo, impotente, ha optato per la contaminazione dell’acqua di mare con le acque di raffreddamento altamente radioattive.
La decontaminazione: anziché risolvere i problemi, li aggrava
I tentativi di sbarazzarsi della terra contaminata hanno mostrato una mancanza di responsabilità e di scrupolo assoluta. Fino all’agosto 2011, nella città di Fukushima, che conta 300.000 abitanti, sono stati riputi solo 334 cortili di scuole ed asili. Ma in realtà le autorità non sanno neanche dove mettere il terreno contaminato. Ad esempio a Koriyama, nella regione di Fukushima, il terreno contaminato è stato sepolto … negli stessi cortili delle scuole. 17 delle 48 zone prefettizie del Giappone, fra cui Tokio, sono considerate zone con suolo contaminato, ma le amministrazioni pubbliche non sanno cosa fare. A solo 20 km da Tokio si sono registrate forti radiazioni. Migliaia di edifici hanno bisogno di essere ripuliti. Anche le montagne boscose avranno probabilmente bisogno di essere decontaminate, cosa che potrebbe richiedere il disboscamento e un vero e proprio raschiamento del suolo. I mass media giapponesi hanno riportato che il governo deve trovare depositi provvisori per milioni di tonnellate di rifiuti contaminati.
Poiché non esiste alcuna soluzione, alcune delle discariche contaminate dalla radioattività sono state bruciate. Ma attraverso i fumi la radioattività si sparge ancora di più. Questo sentimento di impotenza riguardo ai cumuli di rifiuti nucleari getta una cruda luce sull’impossibilità della decontaminazione. Secondo le informazioni delle organizzazioni ambientaliste giapponesi, il governo prevede di distribuire i rifiuti contaminati della regione di Fukushima attraverso il paese intero e bruciarli. Il ministero giapponese dell’ambiente valuta la quantità di rifiuti da eliminare a circa 23,8 milioni di tonnellate. Come attesta Mainichi Daily News, un primo carico di 1000 tonnellate di macerie di Iwate a Tokio è stato fatto ad inizio novembre 2011. Le autorità di Iwate ritengono che queste macerie contengano 133 Becquerel[3] per chilo di materiale radioattivo. Prima del marzo 2011, quest’operazione sarebbe stata illegale, ma il governo giapponese ha stabilito nuove norme spostando il valore limite da 100 Bq/kg a 8000 Bq/kg in luglio, ed a 10.000 Bq/kg in ottobre. La città di Tokio ha annunciato che raccoglierebbe da parte sua circa 500.000 tonnellate di rifiuti radioattivi.
La decontaminazione nucleare: un’eredità disastrosa per il futuro
La caratteristica specifica della produzione di elettricità mediante l’utilizzo di energia nucleare è che il decadimento nucleare non si ferma una volta che le centrali nucleari sono alla fine della loro durata di funzionamento e sono estinte. Il processo di fissione nucleare non termina una volta estinta la centrale nucleare. Cosa fare allora dei rifiuti nucleari, di tutta questa materia che è stata in contatto con materie radioattive ed è contaminata? Secondo la World Nuclear Association, ogni anno si accumulano circa 12.000 tonnellate di rifiuti altamente radioattivi. Fino alla fine del 2010 in tutto il mondo sono stati accumulati circa 300.000 tonnellate di rifiuti altamente radioattivi. Per la sola Francia, secondo la rivista satirica Le Canard enchaîné[4] (“Nucleare, dove è l’uscita?”), più di un milione di metri cubi di suolo sono contaminati da rifiuti radioattivi.
Lo stoccaggio geologico che è stato praticato o che è previsto in molti paesi, ad esempio in vecchie miniere, non è altro che una “soluzione” di fortuna, i cui pericoli vengono più o meno passati sotto silenzio da parte dei difensori dell’energia nucleare. Ad esempio in Germania 125.000 barili di rifiuti nucleari sono depositati in una vecchia miniera ad Asse. Questi barili sono corrosi dal sale e già adesso ne fuoriesce una salamoia contaminata. I responsabili ordinano l’accumulo dei rifiuti nucleari in discariche lasciando alle generazioni future il compito di vedere cosa farsene.
Inoltre il funzionamento “normale” di una centrale nucleare non è così “impeccabile” come proclamano i difensori dell’industria nucleare. In realtà, per il raffreddamento delle barre di combustibile sono necessarie quantità enormi d’acqua, per cui le centrali nucleari devono essere costruite in prossimità di fiumi o del mare. Ogni 14 mesi, in ogni reattore, il quarto delle barre di combustibile deve essere rinnovato. Tuttavia, dato che sono estremamente calde, dopo la sostituzione devono essere messe in piscine per essere raffreddate per un periodo dai 2 ai 3 anni. L’acqua di raffreddamento che viene pompata nei fiumi o nel mare comporta un inquinamento termico che porta allo sviluppo di un’alga che fa morire i pesci. D’altra parte, in queste acque vengono espulsi prodotti chimici quali il sodio, l’acido cloridrico e l’acido borico. E infine, quest’acqua è anche inquinata dalla radioattività, anche se solo in piccole quantità[5].
(Segue…)
Di, 25 gennaio 2012
[1] Il sievert è l’unità di misura degli effetti e del danno provocato dalle radiazioni su un organismo.
[2] A nord-est di Fukushima si fondono due correnti, quella calda Kuroshio e quella fredda Oyashio. Il che fa di questa zona di mare uno dei settori più abbondanti della terra per la pesca. In questa regione le barche da pesca giapponesi prendono circa la metà della quantità di pesce consumata in Giappone. Pertanto l’approvvigionamento di pesce del Giappone potrebbe essere messo in pericolo dato che “un’emissione così elevata di radioattività nel mare non è stata mai misurata”, https://www.ippnw.de/commonFiles/pdfs/Atomenergie/Zu_den_Auswirkungen_der_Reaktorkatastrophe_von_Fukushima_auf_den_Pazifik_und_die_Nahrungsketten.pdf [21].
[3] Il becquerel (simbolo Bq) è l’unità di misura [22] del Sistema internazionale [23] dell’attività [24] di un radionuclide [25] (spesso chiamata in modo non corretto radioattività), ed è definita come l’attività di un radionuclide che ha un decadimento [26] al secondo [27]. 1 Bq equivale ad 1 disintegrazione al secondo.
[5] In Francia, se durante le stagioni secche non c’è sufficiente acqua disponibile, alcune centrali nucleari devono essere raffreddate da elicotteri, mentre le foreste bruciano! (Les dossiers du Canard enchaîné, “Nucléaire: c’est où la sortie?”, le Grand débat après Fukushima, p. 80).
Links
[1] https://fr.internationalism.org/icconline/2008/qu_est_ce_que_la_classe_ouvriere_expose_reunion_publique.html
[2] https://fr.internationalism.org/ri330/comm.html
[3] https://www.lexpress.fr/economie/
[4] https://it.internationalism.org/content/1134/la-catastrofe-economica-mondiale-e-inevitabile
[5] https://it.internationalism.org/content/crisi-economica-accusano-la-finanza-risparmiare-il-capitalismo
[6] https://it.internationalism.org/en/tag/3/47/economia
[7] https://napolioltre.forumfree.it/?t=59934540
[8] https://napolioltre.forumfree.it/?t=49613307
[9] https://it.internationalism.org/en/tag/4/75/italia
[10] https://it.internationalism.org/en/tag/situazione-italiana/lotte-italia
[11] https://it.internationalism.org/en/tag/situazione-italiana/politica-della-borghesia-italia
[12] https://it.internationalism.org/en/tag/2/29/lotta-proletaria
[13] https://it.internationalism.org/en/tag/2/30/la-questione-sindacale
[14] https://world.internationalism.org
[15] https://it.internationalism.org/en/tag/4/61/cina
[16] https://it.internationalism.org/en/tag/4/91/russia-caucaso-asia-centrale
[17] https://it.internationalism.org/en/tag/2/40/coscienza-di-classe
[18] https://it.internationalism.org/en/tag/4/84/iran
[19] https://it.internationalism.org/en/tag/3/48/guerra
[20] https://it.internationalism.org/en/tag/3/49/imperialismo
[21] https://www.ippnw.de/commonFiles/pdfs/Atomenergie/Zu_den_Auswirkungen_der_Reaktorkatastrophe_von_Fukushima_auf_den_Pazifik_und_die_Nahrungsketten.pdf
[22] https://it.wikipedia.org/wiki/Unit%C3%A0_di_misura
[23] https://it.wikipedia.org/wiki/Sistema_internazionale_di_unit%C3%A0_di_misura
[24] https://it.wikipedia.org/wiki/Attivit%C3%A0_%28fisica%29
[25] https://it.wikipedia.org/wiki/Radioisotopo
[26] https://it.wikipedia.org/wiki/Decadimento_radioattivo
[27] https://it.wikipedia.org/wiki/Secondo
[28] https://www.lecanardenchaine.fr/
[29] https://it.internationalism.org/en/tag/4/62/giappone
[30] https://it.internationalism.org/en/tag/3/42/ambiente