Nelle ultime settimane di marzo degli atroci atti di violenza hanno scioccato il mondo.
All’inizio di marzo, nella provincia afghana di Kandahar, il sergente americano Robert Bales ha sparato freneticamente sulla gente. E’ andato di casa in casa, sparando metodicamente sui civili afghani. Ha ucciso 16 persone, la maggior parte donne e bambini. A metà marzo c’era stato il massacro a Toulouse, in Francia, per mano di Mohammed Merah[1] che ha detto voleva vendicarsi del divieto di portare il burqa in Francia, dell’invio dell’esercito francese in Afghanistan e dell’oppressione dei palestinesi da parte dello Stato di Israele.
La ragione del delirio omicida di Robert Bales è ancora sconosciuta. In ogni casso egli ha perso ogni controllo e nella sua cieca sete di distruzione voleva uccidere più gente possibile.
Non vogliamo soffermarci sulla traiettoria particolare di questo soldato americano che ha affilato gli artigli omicidi “legalizzati” agli ordini dei suoi capi. Né vogliamo qui soffermarci sulle sofferenze infinite che vivono le popolazioni vittime delle molteplici guerre in tutto il mondo. Non è una novità che la guerra apre la porta ai peggiori abusi, collettivi e individuali. Tutta la storia delle società di classe, e al primo posto quella della borghesia e del capitalismo, è piena di prove in tal senso. Le due guerre mondiali del 20° secolo, ma anche tutti gli altri orrori e abomini che hanno puntellato la barbarie dei massacri che si sono moltiplicati negli ultimi 60 anni, hanno dimostrato che questa tendenza non fa che accelerarsi. Vogliamo invece qui soprattutto illustrare attraverso il soldato Bales (e Mohamed Merah) fino a che grado di lavaggio del cervello gli individui vengono spinti in un contesto di nazionalismo esacerbato e di sottomissione alla logica dell’omicidio pianificato e giustificato da e per un’ideologia dell'odio alimentata quotidianamente da tutti i campi della borghesia.
“Voglio aiutare il mio paese....”
Il New York Times del 17 marzo ha riferito che Bales si era arruolato nell’esercito subito dopo l’11 settembre. “Voglio aiutare il mio paese” era stata la sua motivazione. Tuttavia quando è stato inviato sul campo di battaglia, ha preso coscienza che la vita dei soldati americani (come quella di tutte le truppe dell’ISAF[2]) era in pericolo 24 ore su 24. Ogni giorno dovevano aspettarsi un attacco odioso e criminale in qualsiasi momento, spesso a sorpresa. Il giorno prima del massacro, Bales era stato testimone di una scena orrenda in cui uno dei suoi colleghi aveva perso una gamba su una mina. Non sappiamo quante vittime civili o tra combattenti nemici ha visto né a quante fucilazioni ha dovuto partecipare. Ma il caso di Robert Bales non è un’eccezione.
È provato che la guerra crea terribili danni psicologici. “Più di 200.000 persone (cioè un quinto di tutti i veterani della guerra in Iraq e in Afghanistan) fin dall’inizio della guerra in questi paesi, hanno subito un trattamento negli ospedali militari - tutti in trattamento per turbe da stress post traumatiche (PTSD). ‘USA Today’ ha pubblicato dei dati nel novembre 2011 che si rifanno agli archivi dell’Associazione dei Veterani. La stima del numero di casi non riportati di veterani di guerra ammalati è probabilmente molto più elevata. (…) L’esercito riconosce solo 50.000 casi di PTSD (Post Traumatic Syndrom Disorder)”[3].
Circa un terzo dei soldati della guerra del Vietnam tornò a casa con disturbi psicologici molto importanti. Anche se solo l’1% della popolazione ha prestato servizio nell’esercito americano, il suicidio di soldati rappresenta il 20% di tutti i suicidi. Quasi 1.000 veterani tentano di suicidarsi ogni mese. Come loro stessi dicono: “È un orrore. La guerra cambia il tuo cervello. Tra la guerra e la vita a casa c’è un abisso. Tu cambi, che lo voglia o no. Una volta ritornato a casa, non puoi più trovare un equilibrio”[4].
Il caso di Robert Bales nè è un’illustrazione: se ci si fa prendere dal patriottismo e il nazionalismo si viene catturati da un ingranaggio di distruzione che non fa che danneggiare o distruggere la vita del nemico e della sua popolazione civile, ma i soldati stessi ne vengono dilaniati, mutilati mentalmente ed emotivamente destabilizzati, profondamente feriti. Mentre la classe dominante e suoi ideologi abbelliscono le guerre parlando di “missione umanitaria”, di “missioni di stabilizzazione”, la realtà sul teatro di guerra è completamente diversa.
Sul campo di guerra i soldati vengono precipitati nell’abisso, dove la loro inevitabile diffidenza iniziale evolve in odio e paranoia. Se non erano già inclini al facile uso della violenza prima dell’arruolamento, o se non erano già psicologicamente instabili, molti di loro ritorno a casa profondamente destabilizzati. Quello che viene dipinto come intervento “umanitario” si dimostra essere in realtà l’esercizio del terrore sulla popolazione, con l’umiliazione e la tortura. I soldati sviluppano un senso di soddisfazione/compensazione se possono sfigurare o distruggere i simboli che la popolazione locale ha in grande considerazione, o se possono umiliare degli esseri umani direttamente e apertamente. La popolazione locale che è stata spinta in un impasse spesso non sente che disprezzo per i “liberatori” e, tra essa, molti possono essere facilmente mobilitati per degli attacchi suicidi. In breve, la macchina per uccidere gira a pieno regime.
Dopo tante esperienze traumatiche il soldato Bales non poteva più dire “voglio aiutare il mio paese” perché era particolarmente indignato del fatto che dopo 4 campagne era stato di nuovo mandato in Afghanistan. Secondo la sua compagna le truppe avrebbero preferito essere inviate in paesi più pacifici, Germania, Italia o Hawaii. Il corpo e lo spirito di così tanti soldati vengono mutilati. La brutalità si sviluppa. Una volta tornati a casa, la maggior parte di loro devono affrontare la disoccupazione e la sensazione di non essere a casa da nessuna parte. Il caso della città di Los Angeles è rivelatore: “A Los Angeles ci sono molti veterani senza domicilio. Hanno perso tutto: il loro lavoro, il loro partner, la loro casa. Tutto questo a causa dei loro problemi psicologici e perché non ricevono nessun aiuto. Quasi un terzo di tutti i senzatetto di Los Angeles sono dei veterani”[5].
La NAPO (Associazione Nazionale Britannica degli Agenti di libertà vigilata) stima che “12.000 (soldati precedentemente impiegati) sono in libertà vigilata e altri 8.500 dietro le sbarre in Inghilterra e nel Galles. Questo totale di più di 20.000 è più del doppio del numero di militati attualmente in servizio in Afghanistan”[6].
Il soldato Bales può essere condannato alla pena di morte per la legge americana. Invece di cercare e di spiegare perché il patriottismo e il nazionalismo portano necessariamente a orge di violenza e alla distruzione delle vittime, il sistema giudiziario americano, che ne è l’istigatore, agisce da giudice e fa “giustizia”. Vuole lavarsi le mani della sua responsabilità dopo che la guerra e l’esercito hanno talmente danneggiato i soldati da far loro perdere l’auto controllo e “collassare”. Il “benessere” per gli psicologi dell’esercito ha un unico scopo: i soldati devono essere idonei a combattere. Lo psicologo e regista Jan Haaken ha mostrato nel suo documentario “Mind Zone” il ruolo che giocano gli psicologi: “Non siamo qui per ridurre il numero di soldati. In caso di dubbio i soldati sono dichiarati idonei al combattimento, per tutto il tempo che possono fare il lavoro”6.
Mentre la maggior parte dei soldati (che si vedono all’inizio come chi contribuisce alla “liberazione” del paese dal giogo dei talebani), come pure la popolazione locale sottoposta a grande sofferenza fisica e psicologica, lo stesso sistema, dal canto suo, è asfissiato dall’onere economico della guerra. Gli Stati Uniti, che hanno scatenato la guerra più lunga nella loro storia, hanno accumulato una spesa enorme per questa. “La fattura finale sarà almeno di 3,7 miliardi di dollari, secondo il progetto di ricerca ‘Costs of War’(Spese di guerra) dell’Istituto Watson degli Studi Internazionali dell’Università Brown”[7].
La guerra, in quanto meccanismo di “sopravvivenza” del sistema richiede un prezzo sempre più alto. La sopravvivenza di questo modo di produzione decadente diventa una cosa totalmente irrazionale.
Combattere la barbarie con dei mezzi barbari?
La spirale di violenza, la macchina di distruzione, che eliminano tutto ciò che è umano, non possono essere rotti con gli strumenti del sistema capitalista. Per rovesciare questo sistema disumano il fine e i mezzi devono essere in armonia l’un l’altro.
“La rivoluzione proletaria non ha bisogno del terrore per raggiungere i suoi obiettivi. Odia e aborre l’assassinio. Non ha bisogno di questi strumenti, perché lotta non contro gli individui, ma contro le istituzioni, perché non scende in campo con ingenue illusioni da vendicare con il sangue allorquando vengano deluse. Non è il tentativo disperato di una minoranza che con la violenza vuole modellare il mondo secondo il suo ideale, ma l’azione della grande massa di milioni di uomini che compongono il popolo, chiamati ad assolvere al loro compito storico e fare della necessità storica una realtà” (Rosa Luxemburg, Cosa vuole la Lega Spartakus?)
DV (25 marzo)
[1] Vedi “Les drames de Toulouse et Montauban sont des syptômes de l’agonie barbare de la société capitaliste”, https://fr.internationalism.org/icconline/2012/la_folie_meurtriere_du_soldat_bales_en_afghanistan_reflete_la_folie_du_monde_capitaliste.html [1]
[2] . International Security Assistance Force (ISAF) è una forza speciale internazionale che impiega circa 58.300 militari provenienti da una quarantina di nazioni in missione di supporto al governo dell’Afghanistan.
[3]https://www.spiegel.de/politik/ausland/amoklaeufer-bales-litt-offenbar-unter-posttraumatischem-stress-a-822232.html [2]
Se le responsabilità sono ancora tutte da verificare, e chissà se saranno mai accertate, quello che invece sembra da subito chiaro è l’uso di questo attentato che lo Stato ha deciso di fare. Subito dopo lo scoppio, a partire da un video che ritrae un uomo che preme un telecomando, il procuratore di Brindisi avanzava l’interpretazione che si trattasse di un gesto isolato di una personalità distorta che aveva qualche motivo per avercela con il mondo, e sulla base di questa ipotesi il quotidiano Repubblica di lunedì 21 pubblicava tutto un articolo per spiegare che i motivi del gesto erano legati alla scuola. Contemporaneamente però il procuratore antimafia di Lecce e quello nazionale cominciavano a parlare di gesto terroristico con finalità stragiste, e questo a prescindere dal fatto che il gesto “provenga dalla mafia, o da un folle isolato o da un’organizzazione eversiva” (parole del procuratore nazionale antimafia Grasso). Insomma sin dal primo momento gli organi dello Stato ai più alti livelli hanno imposto che la bomba di Brindisi venisse etichettata come atto di terrorismo, e questo a prescindere dalle responsabilità precise. Pochi giorni dopo, l’inchiesta è stata tolta al procuratore di Brindisi e affidata alla procura antimafia di Lecce, a conferma che bisognava continuare sulla strada della strage terroristica. Dietro questa generica definizione ci si può mettere quello che si vuole, ma quello che è chiaro è che con questa caratterizzazione si vuole creare un clima di paura, un clima in cui anche i semplici cittadini si sentano in pericolo, in qualsiasi luogo e senza motivo apparente, come è stato per la scuola di Brindisi. Creato questo clima[4], da un lato si spingono i settori più deboli della popolazione[5] a stringersi intorno allo Stato, dall’altro si può cominciare ad additare il nemico pubblico nel terrorismo, mescolando in questo termine le vicende più diverse: il gesto di un folle, le stragi di mafia, gli atti dimostrativi del terrorismo politico …, fino agli scontri di piazza.
Gli interventi che vanno in questo senso si susseguono con ritmo crescente: dapprima Monti ha detto che il pericolo principale era il terrorismo, e questo a partire dal semplice agguato al dirigente Ansaldo gambizzato dai sedicenti anarchici della FAI (Federazione Anarchica Informale, raggruppamento di cui si sa molto poco), poi si è aggiunto il capo della polizia Manganelli a lanciare lo stesso allarme, con i giornali borghesi pronti a raccogliere il segnale: “Ma come se non bastasse il terrorismo anarchico, anche le proteste violente (Napoli) contro Equitalia, oltre che i pacchi esplosivi, è poi arrivato l’attentato di Brindisi, la morte di Melissa.” (La Stampa, 26/5/2012), e la settimana precedente il TG3 (sì, quello dell’estrema sinistra) in un servizio dedicato alla gambizzazione del dirigente Ansaldo mostrava … le immagini degli scontri di Napoli davanti alla sede di Equitalia![6]
Così il cerchio si chiude! Per quelli che non accettano di schierarsi dietro lo Stato, è pronta l’etichetta di terrorista, e perché no, anche di stragista, visto che tutto viene messo sullo stesso piano.
Non ci si deve meravigliare di questo uso cinico della morte di una ragazzina[7]: un sistema in piena crisi economica, sociale e politica, non arretra di fronte a nessuna nefandezza pur di sopravvivere; un sistema che non esita a bombardare civili inermi, come in Iraq e in Afganistan, chiamando questi interventi “missioni di pace” o di ristabilimento della democrazia, un sistema in cui leader affermati e rispettati nel resto del mondo non esitano a bombardare le loro stesse popolazioni per difendere il loro potere, un sistema ridotto così non ha nessun rispetto né per le vite umane, né per le sofferenze delle persone che vedono distrutte le loro vite, che sia per la crisi o per la morte dei propri cari. Un sistema così è già la barbarie dispiegata, e in un sistema così non ci si deve meravigliare nemmeno che una ragazzina possa morire senza motivo, mentre entra a scuola.
Helios, 02/06/2012
[1] Nel 1993-94 la mafia fece scoppiare bombe a Roma e a Firenze, con morti e feriti tra i passanti. Le indagini più recenti affermano che era in atto una trattativa tra mafia e Stato, su quali fossero i limiti della prima che il secondo avrebbe sopportato, e che perciò la mafia, con le bombe, cercava di spingere il braccio di ferro dalla propria parte. In realtà la questione era un po’ più complessa perché il braccio di ferro era tra diverse frazioni della borghesia, con la mafia che appoggiava l’una piuttosto che l’altra, e quindi gli attentati facevano parte di questa guerra tra gang borghesi. Vedere in proposito gli articoli: Attentati di mafia: I regolamenti di conti tra capitalisti [9], su Rivoluzione Internazionale n°77 di ottobre 1992, e “Bombe di Roma e Firenze: nessuna solidarietà con lo Stato borghese”, su Rivoluzione Internazionale n°81 di giugno 1993.
[2] Repubblica di lunedì 21 maggio faceva generici riferimenti ad una possibile responsabilità di “anarchici greci” nella strage. Checché se ne pensi degli anarchici greci, che interesse potrebbero avere a fare strage di ragazzine innocenti? Ma quando si tratta di spargere veleno la logica se ne va a farsi benedire.
[3] La strategia della tensione fu il clima creato contro le lotte di lavoratori e studenti di fine anni sessanta, inizio anni settanta, un clima creato con bombe e stragi (Piazza Fontana, Milano 1969, Piazza della Loggia, Brescia 1974, Stazione di Bologna 1980, …) di cui non sono mai stati trovati dei responsabili certi… Nelle indagini su queste stragi, si è spesso parlato di “forze oscure” che avrebbero manovrato gli esecutori di queste stragi, in genere settori di servizi segreti, definiti per comodo “settori deviati”.
[4] A meno di una settimana dalla bomba di Brindisi alla preside di un liceo romano è arrivato un sms che minacciava un attentato anche lì. Che si sia trattato del gesto sconsiderato di qualche irresponsabile o di apparati dello Stato che hanno il compito di alimentare questo clima di paura, il dato di fatto è che questo clima si sta sviluppando.
[5] Cioè quei settori più suscettibili di essere influenzati dalla propaganda borghese: piccola borghesia, quelli che vedono solo la televisione e non hanno la possibilità di confrontarsi in una riflessione più approfondita, e così via.
[6] En passant va detto che quelli di Napoli non sono stati nemmeno dei veri scontri, ma una semplice violenza della polizia contro dei lanci di uova e scritte sulle mura.
[7] Poiché non ci piace lanciarci in speculazioni, ci limitiamo a parlare di uso, ma niente esclude che lo zampino dello Stato possa esserci stato fin dall’inizio.
Presentazione del testo
Questo testo, che noi condividiamo nella sua impostazione e nei suoi contenuti, è stato prodotto da un nostro simpatizzante che ci segue da moltissimo tempo e che ha voluto in questo modo offrire il suo prezioso contributo all’attività dell’organizzazione. Noi non possiamo che incoraggiare questa pratica di sostegno che viene da compagni che, pur non militando. almeno nell’immediato, nella nostra organizzazione, ne condividono gli obiettivi e la politica condotta in generale. E’ quanto abbiamo espresso anche nel nostro recente articolo Come aiutare la CCI [13]. Per quanto riguarda l’articolo, le tematiche affrontate al suo interno risultano di particolare attualità in un momento in cui l’Italia viene attraversata ancora una volta dal terrore delle bombe. Sull’analisi della strage di Brindisi torneremo appena possibile, ma intanto questo articolo ci può aiutare a ricordare cosa è e cosa è stata la mafia nella storia d’Italia e non solo.
I primi rapporti Stato/mafia
Le connivenze tra mafia e Stato hanno un’origine lontana nel tempo e hanno inizio dal periodo compreso tra la fine del regno delle Due Sicilie e l’inizio dello Stato unitario. In una condizione storica di depressione economica, legata ad un tipo di economia latifondista ed ancora semifeudale, quale si presentava in particolare l’arretrato sud Italia durante l’ultimo periodo del regno delle due Sicilie, i notabili feudali e la semi-nobiltà siciliana, per assicurare i propri interessi e la salvaguardia delle rispettive proprietà terriere, solitamente, assoldavano certi individui appartenenti ad un particolare ceto sociale: massari, fattori, gabellotti (Fonte: Wikipedia). Questi, nello svolgimento di tale lavoro, ed anche per avere loro stessi ulteriori vantaggi economici, tendevano ad ottenere dagli ultimi servi della gleba, poveri contadini e braccianti in genere, un aumento della loro produttività lavorativa.
E ciò era possibile tenendoli costantemente sotto controllo con l’uso di metodi coercitivi e violenti, avvalendosi di scagnozzi prezzolati, proprio come i bravi di manzoniana memoria. Questi, trasformandosi ben presto in gruppi semisegreti e permanenti, assunsero per l’appunto il nome di sette, confraternite e cosche. Alcuni storici attribuiscono la nascita di tale fenomeno ad una scarsa presenza dello Stato sul territorio, e ciò è vero, ma questa era soprattutto prodotta dalla depressione economica alla cui origine troviamo principalmente, come precedentemente detto, l’arretratezza economica della zona.
È da notare come queste primitive organizzazioni malavitose, che vivevano, come su detto, estorcendo gran parte dei loro privilegi economici agli sfruttati, ai braccianti o a piccoli artigiani, e spesso anche “derubando” gli stessi proprietari terrieri, nella misura in cui la stessa zona evolveva verso una certa modernizzazione, da fenomeni prettamente locali subiscono un processo di trasformazione che le porta ad acquisire una crescente ed importante dimensione nazionale ed addirittura internazionale: diventano veri e propri organismi di controllo sociale al servizio diretto dello Stato, e di conseguenza anche degli imperialismi, pur mantenendo, almeno nelle loro diramazioni più periferiche, comportamenti organizzativi da manovalanza malavitosa (cosa nostra).
Le “collusioni” tra Stato e mafia sono poi proseguite nel corso dell’Italia del XX secolo, dall’era giolittiana al fascismo, dallo sbarco degli alleati in Sicilia e fino ai nostri giorni.
Nel 1910 Gaetano Salvemini, socialista meridionalista, denunciò il malcostume politico e le gravi responsabilità del democratico socialisteggiante Giovanni Giolitti accusando quest’ultimo di essere: "Il ministro della malavita" nel suo omonimo libro (Fonte: Wikipedia).
Nella metà degli anni 20 Mussolini dichiarò guerra alla Mafia. “Io la prosciugherò come ho prosciugato le paludi pontine” afferma. Le truppe del prefetto Cesare Mori hanno proprio questo incarico in Sicilia. Ma dopo i primi successi contro i residui di un brigantaggio rurale il prefetto di ferro, come fu nominato per i suoi modi risolutivi, scontrandosi con i santuari dello stesso PNF (Partito nazionale fascista) in Sicilia, coinvolgendo anche il federale e deputato del PNF Alfredo Cucco, uno dei massimi esponenti del fascio dell’isola, verrà promosso senatore dallo stesso duce e quindi rimosso dall’incarico. Per più dettagli leggere La menzogna dello Stato "democratico". L'esempio degli organismi segreti nello Stato italiano [14] su Rivista Internazionale n°18.
Con l’entrata in guerra nel 1941, gli USA riconoscono l’importanza strategica della Mafia, che renderà effettivamente servizi molto importanti allo Stato americano durante la guerra. Dopo aver piazzato le sue carte in entrambi i campi, quando a metà del 1942 il rapporto di forze pende nettamente a favore degli Alleati, la Mafia mette le sue forze a disposizione degli Stati Uniti. Sul piano interno, impegna i suoi sindacati nello sforzo di guerra. Ma è soprattutto in Italia che mostra il suo ruolo. Durante lo sbarco del 1943 in Sicilia le truppe americane beneficiano dell’efficace sostegno della Mafia locale. Sbarcati il 10 luglio, i soldati americani fanno una vera passeggiata, incontrano poca opposizione e dopo solo sette giorni Palermo è sotto il loro controllo. Per maggiori dettagli leggere: La menzogna dello Stato "democratico". L'esempio degli organismi segreti nello Stato italiano [14] su Rivista Internazionale n°18.
Prima ancora che la seconda guerra mondiale fosse finita, quando il destino delle forze dell’Asse era già segnato, il nuovo antagonismo che si sviluppa tra gli Stati Uniti e l'URSS polarizza l'attività degli stati maggiori e dei servizi segreti. In Italia, la situazione è particolarmente delicata per gli interessi occidentali. Vi è il Partito stalinista più forte dell’Europa occidentale che esce dalla guerra con un’aureola di gloria per il suo determinante ruolo nella resistenza contro il fascismo. Mentre si preparano le elezioni del 1948, in conformità alla nuova costituzione nata con la Liberazione, aumenta l’inquietudine tra gli strateghi occidentali, perché nessuno è certo del risultato, ed una vittoria del PCI sarebbe una catastrofe. La campagna elettorale che dovrebbe santificare la nuova repubblica democratica è al suo culmine. L’apparato finanziario ed industriale, l’esercito, la polizia, che erano stati i principali sostenitori del regime fascista, si mobilitano e, di fronte al pericolo “comunista”, abbracciano la causa della difesa della democrazia occidentale. La Mafia, nel sud Italia, si impegna attivamente nella campagna elettorale, finanziando la Democrazia Cristiana, dando indicazioni di voto alla sua clientela.
Uno degli episodi più significativi di questo periodo è quello della La strage di portella delle ginestre dove lo Stato impara a far eseguire il lavoro sporco alla mafia per non compromettere la sua immagine democratica.
Il 1°maggio 1947, nell'immediato dopoguerra, si tornava a festeggiare la festa dei lavoratori, spostata al 21 aprile durante il regime fascista. Circa duemila lavoratori della zona di Piana degli Albanesi, in prevalenza contadini, si riunirono nella vallata di Portella della Ginestra per manifestare contro il latifondismo, a favore dell'occupazione delle terre incolte, e per festeggiare la vittoria del Blocco del Popolo nelle recenti elezioni per l'Assemblea Regionale Siciliana, svoltesi il 20 aprile di quell’anno e nelle quali la coalizione PSI-PCI aveva conquistato 29 rappresentanti (con il 29% circa dei voti) contro i soli 21 della DC (crollata al 20% circa). Sulla gente in festa partirono dalle colline circostanti numerose raffiche di mitra che lasciarono sul terreno, secondo le fonti ufficiali, 11 morti (9 adulti e 2 bambini) e 27 feriti, di cui alcuni morirono in seguito per le ferite riportate. La CGIL proclamò lo sciopero generale, accusando i latifondisti siciliani di voler “soffocare nel sangue le organizzazioni dei lavoratori”. Solo quattro mesi dopo si seppe che a sparare materialmente erano stati gli uomini del bandito separatista Salvatore Giuliano, colonnello dell’E.V.I.S (Esercito Volontario per l’Indipendenza della Sicilia). Il rapporto dei carabinieri sulla strage faceva chiaramente riferimento ad “elementi reazionari in combutta con i mafiosi locali” (Fonte: Wikipedia).
Da quel momento lo Stato italiano, i suoi servizi segreti con l’organizzazione clandestina GLADIO, insieme ad ambienti legati alla destra estrema ed a cosa nostra sono andati a braccetto e sotto la regia dell’imperialismo USA si sono divisi i compiti per affrontare sia problemi inerenti alla contrapposizione dell’altro blocco imperialista, l’URSS, e sia per affrontare quelli di ordine interno. Questo connubio si è protratto fino a quando non è crollato alla fine degli anni 1980 ed all’inizio degli anni 1990 il blocco dell’Est. Per maggiori dettagli leggere: La menzogna dello Stato "democratico". L'esempio degli organismi segreti nello Stato italiano [14] su Rivista Internazionale n°18.
In breve, fin dalle loro origini, se ci riferiamo all’Italia, tali organizzazioni non sono che parti organiche dello Stato, prima borbonico e poi sabaudo post unitario. Tuttavia, attribuire questo fenomeno solo al sud Italia sarebbe comunque un errore perché è la borghesia mondiale di tutte le nazioni che, costretta dal suo sistema di sfruttamento, in un modo o nell’altro, ha dovuto fare lo stesso percorso costituendo una sua componente illegale e mafiosa, come è dimostrato dall’esistenza della potente Yakuza (mafia) giapponese, quella russa, albanese, messicana, cinese, americana, ecc.
Specifica ai sistemi sociali classisti di sfruttamento dell’uomo sull’uomo, la mafia è inscritta nelle basi genetiche (DNA) dello Stato borghese ....
L’11 maggio del 1860 i Mille sbarcarono a Marsala e, sbaragliando la prima resistenza borbonica, avanzarono verso Palermo, che fu presa dai garibaldini il 30 maggio. Presto tutta l’isola sarà governata dalle truppe garibaldine e da notabili siculi che avevano appoggiato la loro impresa. In questa occasione, secondo lo storico Giacinto de’ Vivo, si segnalarono scorribande in tutta l’isola di camorristi armati di coltelli, pistole e persino fucili inneggiando all’Italia, Vittorio e Garibaldi.
“Nel 1860, mentre con la spedizione dei Mille si apriva la fase finale del regno delle due Sicilie, Liborio Romano, nonostante sia stato un ex carbonaro e per questo condannato al carcere e poi all’esilio, venne nominato dal re Francesco II prefetto di Polizia. Il 14 luglio 1860 Romano venne nominato ministro di polizia e, avendo capito in anticipo l'ineluttabilità della fine del regno, iniziò a prendere contatti segreti con Camillo Benso conte di Cavour e con Giuseppe Garibaldi e a preparare il traghettamento del Mezzogiorno dai Borbone ai Savoia. (fonte: Wikipedia). Risale a questo momento il coinvolgimento diretto della camorra da parte sua, «in virtù della sua organizzazione e del suo potere di controllo territoriale».[1]
“Nel suo domicilio privato [Romano] ospita l’uomo più potente della camorra di quei tempi Salvatore de Crescenzo detto Tore’ e Crescienzo. Romano convince il re a firmare alcuni decreti di amnistia ad personam per Crescienzo ed i suoi accoliti. In cambio costoro vengono arruolati nella polizia per far fronte ai gravi disordini di quei giorni. Alla fine i delinquenti si trasformano in “collaboratori di giustizia”. I ladri fanno le guardie … Quel patto Romano lo conclude subito … D’altronde quella condotta non scandalizza l’uomo politico italiano più influente in quel momento, ossia il conte Camillo Benso di Cavour. Lui manifesta espressamente il suo plauso a Romano per come si comporta da ministro della polizia a Napoli”.[2] “Sempre nel 1860 a Caserta i camorristi vengono incaricati dall’ex governatore Pizzi della gestione dell’ordine pubblico in occasione dell’arrivo in città dei garibaldini. Nelle strade di Caserta, Marcianise, e Santa Maria Capua Vetere c’erano duemila affiliati. … [dice Morosini] Se la mafia e la camorra fossero solo bande criminali non sarebbero presenti sul territorio nazionale a partire dall’unità d’Italia. La loro longevità è sintomo di alcune gravi fragilità istituzionali del nostro Paese. Le associazioni mafiose, soprattutto nelle regioni del Sud, si sono progressivamente rafforzate con la “frequentazione” di politici, amministratori, uomini delle forze dell’ordine, magistrati. Lo dicono le nostre origini” [3].
In realtà era il governo che aveva bisogno della mafia, della malavita organizzata, di questo suo braccio armato illegale per difendere l’ordine pubblico del nuovo Stato unitario, come affermò coraggiosamente il parlamentare calabrese Diego Tajani in un suo clamoroso intervento denuncia tenuto alla camera il 12 giugno 1875:
“La mafia che esiste in Sicilia non è pericolosa, non è invincibile di per sé, ma perché è strumento di governo locale. Questa è la prima verità incontrastabile. [...] L'altro insegnamento è questo: che le leggi non funzionano completamente per la mancanza di fiducia degli amministratori nell'amministrazione. Imperocché, o Signori, che cosa è mai una legge? Una legge è un pezzo di carta: essa sarà buona, sarà pessima, sarà ottima, se sono buoni, se sono pessimi, se sono ottimi i funzionari! Che le devono infondere l'anima”[4].
Alla fine del suo discorso l'aula di Montecitorio si trasforma in una bolgia. Tajani viene accerchiato dai colleghi della maggioranza. Lo vogliono aggredire. Sono inviperiti. Il deputato calabrese non si scompone. È una sfinge. Fisico asciutto e vigoroso, calvizie incipiente e occhiali sul naso, li guarda con un freddo sorriso. Il calabrese Tajani non ha paura. Punta il dito verso il governo del nuovo Stato. Lo accusa di utilizzare i mafiosi per difendere l’ordine pubblico. E parla a ragion veduta. Prima di essere eletto alla Camera, è stato per quattro anni (1868-1872) Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Palermo. Sa tante cose su come la Destra ha governato la Sicilia agli albori dell’Italia unita, sugli strumenti utilizzati per fronteggiare il banditismo e garantire l’ordine pubblico. (Fonte: Attentato alla giustizia - Piergiorgio Morosini - Rubettino)
Un altro eclatante episodio che mette in chiaro i rapporti tra Stato e mafia è legato all’omicidio di uno stimato uomo delle istituzioni, Emanuele Notarbartolo, avvenuto il 1° febbraio del 1893 su una carrozza ferroviaria di un treno che stava percorrendo la linea Termini Imerese Palermo. Dell’omicidio fu accusato come mandante il deputato Salvatore Palizzolo, mentre come esecutori materiali furono accusati due esponenti della cosca di Villabate, Matteo Filippelli e Giuseppe Fontana. Nonostante che la testimonianza diretta del questore di Palermo, Ermanno Sangiorgi, ed i vari accertamenti di polizia inchiodassero al muro il mandante e gli esecutori materiali, costoro alla fine vennero assolti. Il Sangiorgi, intanto, dovette far fronte ad accuse infamanti che una certa regia di stampo governativo, attraverso la stampa dell’epoca, gli aveva lanciato contro durante appunto le fasi processuali. Chiaramente queste accuse risultarono successivamente infondate, ma intanto erano servite a rendere nulle le sue testimonianze. Tuttavia, i giudici della Corte di Appello di Palermo il 26 ottobre del 1891 assolvono Albanese per l’omicidio Termini e per gli altri reati con una motivazione alquanto discussa: “Verosimile che il Questore il quale conoscea Termini un facitore di lettere di scrocco si fosse mostrato soddisfatto della morte di lui, ed avesse fatto ogni insistenza, perché risultandone indiziata la forza pubblica oculatamente si procedesse”. (Fonte: Attentato alla giustizia - Piergiorgio Morosini - Rubettino).
Questa ricostruzione storica è essenziale per capire che, come da sempre sostenuto dalla CCI, occorre sfatare il luogo comune diffuso strumentalmente dai media borghesi secondo cui, pur ammettendo la stretta collusione che ci può essere stata o che ci sta ancora tra mafia e Stato, queste due organizzazioni restano comunque distinte. Invece mafia e Stato borghese, oggi come oggi, nel periodo di decadenza e decomposizione della società borghese, si confondono perfettamente, tanto che si fa sempre più fatica ad individuare negli apparati portanti dello Stato (politica, giustizia, interni, esercito, servizi pubblici e privati, industriali, ecc.) settori che non abbiano direttamente o indirettamente avuto rapporti organici con quella che viene in genere definita malavita organizzata (mafia/cosa nostra, ‘ndrangheta, camorra o sotto qualsiasi nome la si voglia definire), o che non lo siano loro stessi in prima persona.
Come si è potuto vedere, oltre alle fonti su citate, gran parte dei riferimenti storici riportati in questo testo, sono da attribuirsi, come è segnalato ad ogni fine citazione, al libro del magistrato Piergiorgio Morosini: Attentato alla giustizia. Tuttavia, in questo suo libro ricerca, l’autore, pur dimostrando con una dettagliata ricchezza di documentazioni storiche tutta una serie di collusioni tra mafia e Stato e fin dai tempi dello Stato borbonico, resta essenzialmente - ed oserei dire ingenuamente convinto - che la mafia, per quanto possa essersi infiltrata nei gangli statali, resti qualcosa di estraneo allo Stato e che pertanto, combattuta dalle forze sane di quest’ultimo, potrebbe essere debellata e sconfitta. Ma non è così!
... di conseguenza per distruggere la mafia è necessario distruggere il capitalismo e proprio a partire dal suo Stato
In ogni società classista di sfruttamento dell’uomo sull’uomo, ed in particolar modo nel capitalismo, è prevalente il carattere mafioso specifico degli sfruttatori. Anche se quest’ultimo, nei periodi di prosperità economica, possa essere alquanto mascherato da certe politiche di falsa trasparenza dal forte sapore “moralistico” con cui si cerca di far passare la borghesia come un “sistema democratico libero ed uguale per tutti”. Ed è per tale motivo che la forma di dominio della borghesia risulta essere la più subdola e perniciosa organizzazione (mafiosa) di tutte le classi sociali dominanti della storia, perché non solo sfrutta gli operai, ma sa anche ostacolarne la presa di coscienza, mascherando bene la sua natura brigantesca.
La borghesia è una classe sociale che, quando ha potuto, proprio per non sporcare la propria immagine più di quanto non faccia il suo barbaro sfruttamento sulle classi subalterne, ha preferito lavare i suoi panni sporchi in famiglia. Tuttavia, oggi, questa classe non si fa troppi scrupoli a parlare diffusamente e con una certa insistenza della escalation mafiosa e della malavita organizzata nei vari settori della vita sociale italiana (politici, imprenditoriali ecc.) ed addirittura fino a vertici statali. E parla in particolare del presunto patto Stato/mafia avvenuto nel 1993, che avrebbe prodotto ingenti danni alla società civile che si sono protratti, aggravandosi ulteriormente, fino ai giorni nostri.
Intanto, questo patto ci viene presentato come un gravissimo evento, il cui contenuto può essere essenzialmente così riassunto: “Sicuramente la mafia, per continuare il suo sporco lavoro illegale, i suoi business legati ad appalti pubblici, privati ecc, si è sempre preoccupata di ricercare delle impunità in alcuni settori statali, e per certi versi, in certi periodi, le ha trovate persino negli apparati verticistici di quest’ultimo, in cambio chiaramente di appoggi elettorali, di controllo territoriale e di altri favori; tuttavia, fino ad ora, non si era mai spinta a chiedere attraverso il papello[5] un vero patto con lo Stato: quest’ultimo, in cambio della fine della strategia del terrore (1992/1993)[6] e della restaurazione di una certa stabilità politica, avrebbe dovuto impegnarsi a garantire certe impunità agli aderenti di cosa nostra e a non ostacolarne gli affari”.
E’ chiaro che “questi panni sporchi lavati pubblicamente” servono a farci intendere che, nonostante ci sia stata tra loro una presenza costante di complessi e stretti rapporti, Stato e malavita organizzata essenzialmente sono rimasti sempre e comunque distinti. Viceversa essi sono stati, come abbiamo visto sopra, intrinsecamente e funzionalmente legati fin dalla nascita dello Stato borghese, e se si arriva ad un momento di frizione come l’episodio del patto, questo bisogna vederlo solo come una delle tante espressioni delle molteplici rese dei conti tra diversi settori contrapposti della borghesia, ispirati ognuno da padrini imperialisti antagonisti, proprio come avviene tra organizzazioni malavitose quando si rompono gli equilibri sul “controllo” territoriale.
Tuttavia, questa resa dei conti del 1993 assume una particolare importanza rispetto a tutte le altre che l’hanno preceduta perché, essendo espressione di un periodo storico inedito nella storia del capitalismo mondiale, ha rappresentato un significativo avanzamento nella decomposizione dei rapporti imperialisti internazionali.
In effetti, alla fine degli anni ′80 ed all’inizio degli anni ′90, in seguito all’ennesima e gravissima crisi economica internazionale, il blocco dell’Est, detto falsamente socialista, crollava implodendo su se stesso. Ciò determinò la rottura dei vecchi equilibri imperialisti e lo sconvolgimento dei rapporti politici ad essi legati. Infatti, gli avvenimenti politici che si svolsero all’indomani di tale evento videro la borghesia europea ed in particolare quella italiana rimettere in discussione la stretta obbedienza agli USA non essendoci più il comune nemico sovietico da combattere. In Italia ciò si concretizzò innanzitutto attraverso la distruzione del vecchio quadro politico, incentrato sul partito della Democrazia Cristiana, ormai sempre più impantanato in un sistema di corruzione, concussione e finanziamento illecito ai partiti, denominato “tangentopoli”[7], ad opera di un’azione giudiziaria condotta da un pugno di magistrati che è passata alla storia con il nome di “mani pulite”[8]. Questa operazione fu stimolata, sebbene in un modo abbastanza trasversale e caotico, da quelle forze politiche che, a fatica, cercavano di ricomporsi raggruppandosi tendenzialmente intorno ad interessi filo-europei (asse franco-tedesco). In quel particolare momento storico, quest’ultime, in tal modo, si contrapponevano a quelli del rimanente partito filoamericano espresso ancora e soprattutto da quei ranghi politici ed economici ancora legati a cosa nostra. Tuttavia, questo vecchio quadro politico, che andava sempre più sgretolandosi, non avrebbe potuto svolgere quei compiti di risanamento dei conti pubblici e quelle riforme strutturali draconiane, necessarie già allora alla borghesia italiana per evitare il rischio di fallimento della propria economia. Ed, infatti, all’epoca, proprio per far digerire alla classe operaia i nuovi sacrifici richiesti dalla crisi economica, come oggi accade con il governo Monti[9], si ebbe bisogno, di un governo tecnico - governo Amato - e di un patto sociale sottoscritto da governo, sindacato e Confindustria.
In quel periodo, il partito filo-americano sembrava il più debole, dilaniato anche da una serie di eventi sorprendenti e sanguinosi. Tra questi ricordiamo alcuni tra i più significativi: l’uccisione il 12 marzo del 1992 a colpi di pistola, come regolamento di conti tra ex alleati mafiosi, dell’europarlamentare democristiano Salvo Lima, proconsole di Andreotti in Sicilia, eletto a Strasburgo con circa 300.000 preferenze, ma già accusato di Mafia; l’arresto il 24 dicembre 1992 di Bruno Contrada, capo in Italia meridionale di quella componente dei servizi segreti denominata SISDE (Servizio per le Informazioni e la Sicurezza Democratica), accusato di concorso esterno in associazione di stampo mafioso, e per questo reato condannato il 24 settembre 2011 a 10 anni di reclusione.
Sentendosi minacciato nei propri gangli vitali (politica, affari ecc.) il partito filo-americano, sotto la regia dei servizi segreti dello zio Sam (USA), approntò, attraverso la strategia delle stragi il terreno adatto per proporre il famoso patto. Questo favorì, com’è ormai noto, la nascita nel 1994 del primo governo Berlusconi.
Ora perché dunque la borghesia insiste tanto su un patto tra Stato e mafia?
C’è un’opinione artatamente diffusa dai media borghesi, secondo la quale a minare ed ad aggravare l’economia nazionale, sarebbero una parte di settori politici corrotti, imprenditori, finanzieri, lobbisti, massoni piduisti, evasori fiscali ecc., che a diversi livelli incrocerebbero i loro affari con quelli della malavita organizzata. Per cui se si riuscisse a combattere ed a sconfiggere questi mali sociali, rafforzando la partecipazione dei cittadini alle istituzioni democratiche, magari eleggendo forze politiche sane, responsabili di fronte allo Stato ed alle sue esigenze di “organo nazionale al di sopra delle parti”, sarebbe possibile dare all’azienda Italia una sterzata verso il risanamento economico e quindi sociale[10]. Ed in questo particolare momento di ennesima richiesta di sacrifici è necessariamente importante per la borghesia italiana far credere ai lavoratori occupati, ai disoccupati, ai precari, ai pensionati, ecc. che, se ci si vuole salvare, è proprio lo Stato come un tutto che deve essere liberato da questi pesanti mali che ne minano la ripresa. Ciò dovrebbe servire a rendere, insieme ad altre mistificazioni economiche (cattiva gestione dell’economia da parte dell’ultraliberismo, finanziarizzazione dell’economia, consumo oltre il consentito ecc.), più docili i lavoratori ad accettare i sacrifici ed ad evitare che essi possano comprendere che l’appello a sostenere quella parte sana dello Stato che potrebbe dare un importante contributo ad aggiustare le cose, è tutto solo trucco, al di là di reali sentimenti di buona fede che possono albergare in questo o quel servitore dello Stato. In altri termini, sfruttando i miasmi della sua decomposizione, la borghesia cerca di impedire agli sfruttati di comprendere che è il capitalismo come un tutto ad essere, lui, un vero sistema di gangster.
Che lo Stato borghese, Stato di capitalisti, sia uno strumento per far funzionare al meglio le leggi del capitale, non è più una novità per alcuno, e come tale, questo Stato, lungi dall’essere un organo sovra partes, non è altro che uno strumento di sfruttamento della classe borghese sul proletariato, e cioè su quella parte della popolazione mondiale che, pur essendo la più importante produttrice di ricchezza sociale, ne risulta la più alienata. Tuttavia, come classe dominante, organizzata in uno Stato di sfruttatori, la borghesia per governare o, più esplicitamente, per far funzionare al meglio l’organizzazione di sfruttamento sulla classe subalterna, ha bisogno di mostrarsi quanto più democratica possibile, deve cioè avere il consenso di quest’ultima, ed è per tale motivo che sostiene ancora con forza e determinazione la sua mistificatoria trappola elettorale. E ciò, oggi, è tanto più necessario in quanto quest’ultima, sotto il peso della crisi economica permanente, che spinge la società in una condizione avanzata di decomposizione, risulta sempre più screditata agli occhi dei lavoratori, come lo dimostra l’alta percentuale - circa il 40% - del cosiddetto “partito” degli astensionisti.
La borghesia non ha scelte, non può rinunciare allo Stato e pertanto lo deve riorganizzare necessariamente, anche a costo di scendere a livelli ancora più apertamente compromettenti con il malaffare organizzato. Ed, infatti, nel 1993 lo Stato e le sue istituzioni, sempre più prede di un processo di decomposizione avanzata, per mantenere ancora a galla ciò che rimaneva della loro “migliore” forma di governo, sono stati costretti a mediare con una delle espressioni più avanzate della loro decomposizione e soprattutto con quella parte di borghesia italiana ancora legata direttamente all’imperialismo USA. E ciò è stato espresso con il diretto passaggio dell’esercizio del governo, anche se ancora “sotto una forma democratica”, nelle mani di settori sociali che, per motivi storici, tradizionalmente risultavano ai margini della legalità e delle istituzioni (governo Berlusconi). Non a caso ad Arcore, residenza del presidente del consiglio Silvio Berlusconi abbiamo trovato come “stalliere” un famoso boss mafioso, Vittorio Mangano, o che al senato troviamo Marcello Dell’Utri, co-fondatore di Forza Italia e senatore poi del PDL, condannato il 29 giugno 2010 presso la Corte d'appello di Palermo a sette anni di carcere per concorso esterno in associazione di tipo mafioso e che ha patteggiato anche una pena di due anni e tre mesi per frode fiscale; ed ancora un Totò Cuffaro, esponente politico dell’UDC, ex governatore della Sicilia, condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, e la lista potrebbe continuare ancora per un bel po’.
Però bisogna ben interpretare questi arresti e queste inquisizioni giudiziarie perché, fondamentalmente, restano espressioni degli scontri dovuti ad interessi contrapposti tra bande borghesi. Tuttavia, in un’epoca di decadenza e decomposizione avanzata, quale oggi si trova a vivere il nostro sistema sociale, è proprio vero il contrario e cioè che non esistono più settori borghesi che non ricorrono al malaffare per continuare a fare profitti. In realtà quando gli spazi dell’economia reale si chiudono (crisi da sovrapproduzione generalizzata aggravata da una caduta verticale del saggio del profitto) solo l’economia illegale può essere ancora “conveniente”, essendo legata a profitti parassitari come traffico d’armi, droga, devastazione della pubblica amministrazione, finanza illecita, speculazione edilizia, ecomafia, ecc. Pertanto, se la borghesia continua ad esistere come classe dominante, con il suo Stato, i suoi apparati e le sue istituzioni, non può che essere compromessa con il malaffare diffuso, quindi è come insieme che essa deve comportarsi da vera e propria organizzazione mafiosa. Nonostante ciò, si sforza di selezionare quei settori, quei personaggi o gruppi che, almeno nell’immediato, apparentemente risultano i meno collusi nel tentativo di ridare credibilità ad istituzioni ormai marce. Proprio come fa la chiesa quando sfrutta la “santità” di alcuni uomini (vedi per esempio Francesco d’Assisi) per ridarsi una veste divina ormai compromessa di fronte ai fedeli, così fa la borghesia che cerca di costruirsi una verginità democratica attaccando proprio la sua espressione “illegale”, anche se ogni tentativo, pur ricevendo un incerto credito iniziale, risulta sempre meno convincente. D’altra parte è quasi impossibile trovare un San Francesco nei ranghi della borghesia decadente e decomposta. È veramente difficile credere, per esempio, in un governo Monti che, mentre prepara nuovi attacchi vigorosi alle già disastrose condizioni di vita di tutti i lavoratori italiani, a Montecitorio si esprime contro l’arresto del sottosegretario di Stato all'Economia e alle Finanze del quarto Governo Berlusconi, on. Nicola Cosentino, accusato di essere il referente politico dei casalesi, gruppo camorristico campano ma con diramazioni internazionali.
Nessuna illusione per i proletari: non è combattendo affianco ad alcun settore dello Stato borghese che è possibile distruggere la mafia, la malavita organizzata, il malcostume imperante e palese tra alcuni settori politici, imprenditoriali, finanziari della borghesia ecc. per sperare che si possa uscire dalla crisi. E’ solo con lo sviluppo della nostra lotta autonoma, unita ed a livello internazionale contro gli attacchi della borghesia che noi lavoratori, precari, disoccupati, pensionati possiamo dare a tutta l’umanità una concreta prospettiva di un mondo senza crisi, senza più mafia e Stato, e soprattutto senza più classi sociali da sfruttare.
R.
[2] Piergiorgio Morosini, Attentato alla giustizia, Rubettino.
[3] Piergiorgio Morosini, op. cit.
[4] Idem
[5] Denominazione dialettale sicula per indicare una lista di richieste, nel nostro caso, compilata da capi di cosa nostra.
[6] Tra le più note: 23 maggio 1992, attentato a Giovanni Falcone; 19 luglio 1992, attentato a Paolo Borsellino; 27 maggio 1993, bombe di via dei Georgofili a Firenze; 27 luglio 1993, bombe in via Palestro a Milano; 28 luglio 1993, bombe a Roma a S. Giovanni in Laterano e a S. Giorgio a Velabro. Per maggiori approfondimenti leggere i seguenti articoli: “Attentati di mafia: i regolamenti di conti tra capitalisti” su Rivoluzione Internazionale n°77; “Stragi, mafia, Tangentopoli, massoneria: lotta tra fazioni borghesi e alleanze imperialiste” su Rivoluzione Internazionale n°78; “Bombe a Roma ed a Firenze” su Rivoluzione Internazionale n°81.
[7] Tangentopoli, bombe, scandali: la sanguinosa lotta intestina della borghesia italiana. Rivoluzione Internazionale n°83.
[8] Idem.
[9] Vedere per maggiori dettagli sul ruolo dei governi tecnici l’articolo pubblicato su Rivoluzione Internazionale n°173 “Tolto Berlusconi resta la crisi e le batoste sulla pelle dei proletari”.
[10] Vedere articolo su Rivoluzione Internazionale n°163 [15] “A proposito degli appelli di Saviano. Se la malavita avvelena la società”, la risposta non è più democrazia!”
Tra le caratteristiche costanti si può ricordare:
o esprime questo divenire attraverso la formulazione di obiettivi della classe e del cammino da seguire per raggiungerli;
o raccoglie le posizioni essenziali che l’organizzazione deve difendere nella classe;
o serve da base di adesione;
Tra le caratteristiche più circostanziali si possono mettere in evidenza:
2) Il modo in cui la CCI é organizzata corrisponde direttamente a questi diversi criteri sopra citati:
Ma il carattere unitario a livello internazionale é tanto più marcato per la CCI che, contrariamente alle organizzazioni sorte in precedenza durante il periodo di decadenza (Internazionale Comunista, frazioni di sinistra), non ha alcun legame organico con le organizzazioni provenienti dalla II Internazionale, dove la struttura per paese era più marcata. E’ perciò che la CCI è sorta immediatamente come organizzazione internazionale, stimolando progressivamente l’apparizione di sezioni territoriali, e non come risultato di un processo di avvicinamento di organizzazioni già formate a livello nazionale.
Questo elemento più “positivo” risultante dalla rottura organica é tuttavia controbilanciato da tutta una serie di debolezze legate a questa rottura e riguardanti la comprensione di questioni organizzative. Debolezze che non sono specifiche alla CCI ma che riguardano l’insieme dell’ambiente politico rivoluzionario. Sono queste debolezze che si sono manifestate ancora una volta nella CCI e che hanno richiesto la tenuta di una Conferenza Internazionale e il presente testo.
3) Al centro delle incomprensioni che pesano sulla CCI figura la questione del centralismo. Il centralismo non é un principio astratto o facoltativo della struttura dell’organizzazione. E’ la concretizzazione del suo carattere unitario: esso esprime il fatto che é una sola e stessa organizzazione che prende posizione e che agisce nella classe. Nei rapporti tra le diverse parti dell’organizzazione e il tutto, é sempre il tutto che prevale. Non é concepibile che, nei confronti della classe, vi siano posizioni politiche o concezioni dell’intervento specifiche di questa o quella sezione territoriale o locale. Queste devono sempre concepirsi come parte di un tutto. Le analisi e le posizioni che si esprimono nella stampa, nei volantini, nelle riunioni pubbliche, nelle discussioni con i simpatizzanti; i metodi impiegati nella nostra propaganda come nella nostra vita interna, sono quelli dell’organizzazione nel suo insieme, anche se esistono dei disaccordi su questo o quel punto, in questo o quel luogo, o da parte di questo o quel militante e anche se l’organizzazione porta all’esterno i dibattiti politici che si sviluppano al suo interno. La concezione secondo cui questa o quella parte dell’organizzazione può adottare, di fronte alla classe o all’organizzazione, delle posizioni o degli atteggiamenti che le sembrano corretti al posto di quelli dell’organizzazione ritenuti sbagliati, è del tutto fuori luogo perché:
Nell’organizzazione, il tutto non é la somma delle singole parti. Queste sono delegate a compiere una specifica attività particolare (pubblicazioni territoriali, interventi locali, ecc.) e sono dunque responsabili davanti all’insieme dell’organizzazione del mandato che hanno ricevuto.
4) Il momento privilegiato in cui si esprime in tutta la sua ampiezza l’unità dell’organizzazione è il suo Congresso Internazionale. E’ al Congresso Internazionale che viene definito, arricchito, rettificato il programma della CCI, che sono stabilite, modificate o precisate le sue modalità di organizzazione e di funzionamento, che vengono adottate le sue analisi e gli orientamenti generali, che viene fatto un bilancio delle sue attività passate ed elaborate le sue prospettive di lavoro per il futuro. E’ per questo che la preparazione del Congresso deve essere presa in carica con la più grande cura ed energia da parte dell’insieme dell’organizzazione. E’ perciò che gli orientamenti e le decisioni del Congresso devono servire da riferimento costante all’insieme della vita successiva dell’organizzazione.
5) Tra un congresso e l’altro, l'unità e la continuità dell'organizzazione si esprimono attraverso l’esistenza di organi centrali nominati dal Congresso e responsabili nei suoi confronti. Tocca agli organi centrali la responsabilità (a seconda del livello di competenza: internazionale o territoriale) di:
L’organo centrale é una parte dell’organizzazione e come tale é responsabile nei suoi confronti quando questa é riunita in Congresso. Tuttavia è una parte che ha la specificità di esprimere e di rappresentare il tutto; per questo fatto le posizioni e le decisioni dell’organo centrale prevalgono sempre su quelle delle altre parti dell’organizzazione prese separatamente.
Contrariamente a certe concezioni, particolarmente quelle dette “leniniste”, l’organo centrale é uno strumento dell'organizzazione e non il contrario. Esso non è il vertice di una piramide, secondo una visione gerarchica e militare dell’organizzazione dei rivoluzionari. L’organizzazione non é formata da un organo centrale più i militanti, ma costituisce un tessuto stretto e unito all’interno del quale trovano posto e agiscono tutte le sue componenti. Occorre dunque vedere l’organo centrale piuttosto come il nucleo di una cellula che coordina il metabolismo di una entità vivente.
In questo senso, l’insieme dell’organizzazione é implicata costantemente dalle attività dei suoi organi centrali, i quali sono tenuti a fare dei rapporti regolari sulla loro attività. Anche se il mandato viene reso solo in occasione del Congresso, gli organi centrali sono tenuti a tenere sempre le orecchie aperte alla vita dell’organizzazione e a tenere costantemente conto di questa.
Secondo le necessità e circostanze, gli organi centrali possono essere condotti a designare al loro interno delle sottocommissioni a cui tocca la responsabilità di eseguire e di fare eseguire le decisioni adottate in occasione delle riunioni plenarie degli organi centrali così come di compiere ogni altro compito (particolarmente le prese di posizione) che si renda necessario tra una riunione plenaria e l’altra.
Queste sottocommissioni sono responsabili di fronte a queste riunioni plenarie. Più in generale, i rapporti che si stabiliscono tra l’insieme dell’organizzazione e gli organi centrali valgono anche tra questi e le loro sottocommissioni permanenti.
6) La preoccupazione della più grande unità all’interno dell’organizzazione presiede ugualmente alla definizione dei meccanismi che permettono le prese di posizione e la nomina degli organi centrali. Non esiste alcun meccanismo ideale che garantisca la migliore scelta sulle decisioni da prendere, sulle orientazioni da adottare e sui militanti da nominare negli organi centrali. Tuttavia, il voto e l’elezione sono la migliore garanzia per l’unità dell’organizzazione e la più ampia partecipazione dell’insieme di questa alla sua propria vita.
In generale, le decisioni a tutti i livelli (Congresso, organi centrali, sezioni locali) sono prese (quando non c’è unanimità) a maggioranza semplice. Tuttavia, certe decisioni che possono avere una ripercussione diretta sull’unità dell’organizzazione (modifica della piattaforma o degli statuti, integrazione o esclusione di militanti) sono prese con criteri di maggioranza più forti della maggioranza semplice (3/5, 3/4, ecc.).
Viceversa, nella stessa preoccupazione dell’unità, una minoranza dell’organizzazione può portare alla convocazione di un Congresso straordinario a partire dal momento in cui assume una certa consistenza (per esempio i 2/5): per regola generale, tocca al Congresso pronunciarsi sulle questioni essenziali, e l’esistenza di una forte minoranza che chiede la tenuta di un congresso è evidentemente l’indice dell’esistenza di problemi importanti all’interno dell’organizzazione.
Infine, é chiaro che il voto non ha senso se non nel caso in cui i membri che restano in minoranza si impegnano ad applicare le decisioni prese e che diventano quelle dell’organizzazione.
Nella nomina degli organi centrali é necessario prendere in considerazione i tre elementi che seguono:
E’ in questo senso che si può dire che l’assemblea, (Congresso o altro), che deve designare un organo centrale, nomina una equipe: è perciò che, in generale, l’organo centrale uscente fa una proposta di candidati. Tuttavia tocca a questa assemblea (ed é diritto di ogni militante) proporre altre candidature se viene ritenuto necessario e, in ogni caso, eleggere individualmente i membri degli organi centrali. Solo questo tipo di elezione permette all’organizzazione di dotarsi di organi in cui riporre il massimo di fiducia.
L’organo centrale ha la responsabilità di applicare e di difendere le decisioni adottate dal Congresso che lo ha eletto. In questo senso, é opportuno che figuri al suo interno una forte proporzione di militanti che, in occasione del Congresso, si siano pronunciati a favore di queste decisioni e orientamenti. Ciò non vuol dire tuttavia che solo quelli che hanno difeso nel Congresso le posizioni maggioritarie, posizioni che sono divenute dopo il Congresso quelle dell’organizzazione, possano far parte dell’organo centrale. I tre criteri definiti sopra restano validi indipendentemente dalle posizioni difese in occasione dei dibattiti da questo o quel candidato eventuale. Ciò non vuol dire neanche che debba esistere un principio di rappresentanza - per esempio proporzionale – delle posizioni minoritarie all’interno dell’organo centrale. Questa è una pratica vigente nei partiti borghesi, particolarmente i partiti socialdemocratici, in cui la direzione é costituita dai rappresentanti delle diverse correnti o tendenze in proporzione dei voti raccolti nei Congressi. Un tal modo di designare l’organo centrale corrisponde al fatto che, in un’organizzazione borghese, l’esistenza di divergenze é basata sulla difesa di questa o quella visione di gestione del capitalismo, o più semplicemente sulla difesa di questo o quel settore della classe dominante o di questa o quella cricca, orientamento o interessi che si mantengono in maniera durevole e che occorre conciliare attraverso una “ripartizione equa” dei posti tra rappresentanti. Niente di tutto questo appartiene ad un’organizzazione comunista in cui le divergenze non esprimono per niente la difesa di interessi materiali, personali o di gruppi di pressione particolari, ma sono la traduzione di un processo vivente e dinamico di chiarificazione dei problemi che si pongono alla classe e sono destinati come tali ad essere riassorbiti con l’approfondimento della discussione e alla luce dell’esperienza. Una rappresentazione stabile, permanente e proporzionale delle diverse posizioni che sono apparse sui diversi punti all’ordine del giorno di un Congresso volgerebbe dunque le spalle al fatto che i membri degli organi centrali:
7) L’utilizzazione dei termini "democratico" o "organico" per qualificare il centralismo dell’organizzazione dei rivoluzionari è da evitare perché:
In effetti, il “centralismo democratico” (termine che si deve a Lenin) é segnato oggi dal marchio dello stalinismo che l’ha impiegato per mascherare e ricoprire il processo di soffocamento e di liquidazione di tutta la vita rivoluzionaria all’interno dei partiti dell’Internazionale, processo nel quale d’altra parte lo stesso Lenin porta una responsabilità per aver chiesto ed ottenuto al 10°Congresso del PCUS (1921) il divieto delle frazioni che lui riteneva, a torto, necessario (anche se a titolo provvisorio) di fronte alle terribili difficoltà attraversate dalla Rivoluzione. D’altra parte non ha ugualmente alcun senso la rivendicazione di un “vero centralismo democratico” che sarebbe stato praticato nel partito bolscevico nella misura in cui:
In un certo qual modo, il termine “organico” (che si deve a Bordiga), sarebbe più corretto per qualificare la natura del centralismo che esiste nell’organizzazione dei rivoluzionari. Tuttavia, l’uso che ne fa la corrente bordighista per giustificare un modo di funzionamento che esclude ogni controllo sugli organi centrali e sulla sua vita da parte dell’insieme dell’organizzazione, lo squalifica e rende necessario ugualmente rigettarlo. In effetti per il bordighismo, il fatto – giusto in sé – che l’esistenza di una maggioranza a favore di una posizione non garantisce che questa sia quella corretta, o che l’elezione degli organi centrali non sia un meccanismo perfetto che possa impedire una loro qualunque degenerazione, viene utilizzato per difendere una concezione dell’organizzazione in cui il voto e le elezioni sono banditi. In questa concezione, le posizioni corrette e i “capi” si impongono “da soli” attraverso un processo cosiddetto “organico”, ma che in pratica, significa affidare al “centro” il compito di decidere da solo su tutte le questioni, di decidere su qualsiasi dibattito, e conduce questo “centro” ad allinearsi sulle posizioni di un “leader storico”, che sarebbe investito di una sorta di infallibilità divina. Combattendo ogni forma di spirito religioso e mistico, i rivoluzionari non possono rimpiazzare il pontefice di Roma con quello di Napoli o di Milano.
Ancora una volta, il voto e le elezioni, per quanto imperfette possano essere, sono ancora il mezzo migliore, nelle condizioni attuali, per garantire il massimo di unità e di vita nell’organizzazione.
8) Contrariamente alla visione bordighista, l’organizzazione dei rivoluzionari non può essere “monolitica”. L’esistenza di divergenze al suo interno é la manifestazione che é un organo vivente che non ha delle risposte sempre pronte da fornire immediatamente ai problemi che si pongono alla classe. Il marxismo non è né un dogma, né un catechismo. E’ lo strumento teorico di una classe che, attraverso la sua esperienza e con la prospettiva del suo divenire storico, avanza progressivamente, con degli alti e dei bassi, verso una presa di coscienza che è la condizione indispensabile della sua emancipazione. Come qualunque riflessione umana, quella che presiede allo sviluppo della coscienza proletaria non è un processo lineare e meccanico, ma piuttosto contraddittorio e critico. Essa suppone necessariamente il confronto tra argomenti diversi. Di fatto, il famoso “monolitismo” o la famosa “invarianza” dei bordighisti sono una chimera (come si può verificare facilmente dalle prese di posizione di questa organizzazione e delle sue diverse sezioni); o l’organizzazione è completamente sclerotizzata e non ha più alcun contatto con la vita della classe, oppure non è monolitica e le sue posizioni non sono invarianti.
9) Se l’esistenza di divergenze all’interno dell’organizzazione é un segno della sua vita, solo il rispetto di un certo numero di regole nella discussione di queste divergenze permette che queste contribuiscano al rafforzamento dell’organizzazione e al miglioramento dei compiti per i quali la classe l’ha fatta nascere.
Possiamo enumerare alcune di queste regole:
Nella misura in cui i dibattiti che attraversano l’organizzazione riguardano in generale l’insieme del proletariato, è opportuno che questa li porti all’esterno, rispettando le seguenti condizioni:
10) Le divergenze esistenti nell’organizzazione dei rivoluzionari possono condurre all’apparizione di forme organizzate di posizioni minoritarie. Se, di fronte ad un tale processo, nessuna misura di tipo amministrativo (come il divieto di tali forme organizzate) potrebbe sostituirsi alla discussione più approfondita possibile, occorre ugualmente che questo processo sia preso in carica in maniera responsabile, il che suppone:
La tendenza é anzitutto l’espressione della vita dell’organizzazione per il fatto che il pensiero non si sviluppa mai in maniera rettilinea, ma attraverso un processo contraddittorio e di confronto delle idee. Come tale, una tendenza é destinata in generale a riassorbirsi nella misura in cui una questione diventa sufficientemente chiara perché l’insieme dell’organizzazione possa dotarsi di un’analisi unica, sia come risultato della discussione, sia per l’apparizione di dati nuovi che vengano a confermare una delle visioni e a confutare l’altra.
D’altra parte, una tendenza si sviluppa essenzialmente su dei punti che condizionano l’orientamento e l’intervento dell’organizzazione. La sua costituzione non ha dunque come punto di partenza delle questioni di analisi teorica. Una tale concezione della tendenza comporterebbe un indebolimento dell’organizzazione e a una parcellizzazione ad oltranza delle energie militanti.
La frazione è l’espressione del fatto che l’organizzazione é in crisi per l’apparizione di un processo di degenerazione al suo interno, per la capitolazione di fronte al peso dell’ideologia borghese. Contrariamente al caso della tendenza, che si applica solo a delle divergenze su come orientarsi rispetto a delle questioni circostanziali, la frazione si riferisce al caso di divergenze programmatiche che non possono trovare soluzione che nell’esclusione della posizione borghese o attraverso l’uscita dall’organizzazione della frazione comunista ed è nella misura in cui la frazione porta in sé la separazione delle due posizioni divenute incompatibili all’interno dello stesso organismo che essa tende a prendere una forma organizzata con dei suoi propri organi di propaganda.
Proprio perché l’organizzazione della classe non é mai garantita contro una possibile degenerazione, il ruolo dei rivoluzionari è di lottare in ogni momento per l’eliminazione delle posizioni borghesi che possono svilupparsi al suo interno. Ed è quando si trovano in minoranza in questa lotta che il loro ruolo é di organizzarsi in frazione, o per guadagnare l’insieme dell’organizzazione alle posizioni comuniste ed escludere la posizione borghese oppure, quando questa lotta sia divenuta sterile per l’abbandono del terreno proletario da parte dell’organizzazione – generalmente in occasione di un riflusso della classe - di costituire il ponte verso la ricostituzione del partito di classe che non può dunque sorgere che in una fase di rimonta delle lotte.
In ogni caso, la preoccupazione che deve guidare i rivoluzionari è quella che esiste all’interno della classe in generale. Quella di non disperdere le deboli energie rivoluzionarie di cui dispone la classe. Quella di vegliare senza sosta al mantenimento e allo sviluppo di uno strumento tanto indispensabile quanto fragile com’è l’organizzazione dei rivoluzionari.
11) Se l’organizzazione non può utilizzare alcun mezzo amministrativo o disciplinare di fronte a dei disaccordi, ciò non vuol dire che essa debba privarsi di questi mezzi in ogni caso. E’ viceversa necessario ricorrere a tali mezzi, come la sospensione temporanea o l’esclusione definitiva, quando si ha a che fare con degli atteggiamenti, dei comportamenti o dei modi di fare che possono costituire un pericolo per la sua esistenza, la sua sicurezza o la sua capacità di far fronte ai suoi compiti. Ciò si applica a dei comportamenti all’interno o all’esterno dell’organizzazione che sarebbero incompatibili con l’appartenenza ad una organizzazione comunista.
D’altra parte occorre che l’organizzazione prenda tutte le disposizioni necessarie alla sua protezione di fronte a tentativi di infiltrazione o di distruzione da parte degli organi dello Stato capitalista o di elementi che, senza essere direttamente manipolati da questi organi, hanno dei comportamenti che finiscono per favorirne il lavoro.
Quando dei tali comportamenti sono messi in evidenza, é dovere dell’organizzazione prendere delle misure non solo a favore della propria sicurezza, ma anche a favore della sicurezza delle altre organizzazioni comuniste.
12) Una condizione fondamentale dell’attitudine di una organizzazione a far fronte ai suoi compiti nella classe é una comprensione corretta al suo interno dei rapporti che si stabiliscono tra i militanti e l’organizzazione. E’ questa una questione particolarmente difficile da comprendere nella nostra epoca, tenuto conto del peso della rottura organica con le frazioni del passato e dell’influenza della componente studentesca nelle organizzazioni rivoluzionarie del dopo ‘68 che hanno favorito il risorgere di una delle tare del movimento operaio del l9° secolo: l’individualismo.
In generale, i rapporti che si stabiliscono tra i militanti e l’organizzazione fanno riferimento agli stessi principi evocati prima e concernenti i rapporti tra le parti e il tutto.
Più precisamente, è opportuno affermare a questo proposito quanto segue:
[1] Questa affermazione non é soltanto ad uso interno; essa non riguarda solo le scissioni che si sono prodotte (o che potranno ancora prodursi) nella CCI. Nel campo politico proletario abbiamo sempre difeso questa posizione. In particolare, nel caso della scissione della sezione di Aberdeen dalla “Communist Workers' Organisation” e della scissione del Nucleo Comunista Internazionalista da “Programma Comunista”. Noi abbiamo criticato all’epoca il carattere frettoloso delle scissioni basate su divergenze apparentemente non fondamentali e che non avevano avuto l’occasione di essere chiarificate da un dibattito interno approfondito. In generale, la CCI si oppone alle “scissioni” senza principi basate su divergenze secondarie (anche quando i militanti implicati pongono in seguito la loro candidatura alla CCI, come fu nel caso di Aberdeen). Le scissioni su questioni secondarie esprimono in realtà una concezione monolitica dell’organizzazione che non tollera alcuna discussione né divergenza al suo interno. E’ il caso tipico delle sette.
Mercoledì 15 febbraio, la polizia ha represso i liceali e gli studenti che avevano bloccato la circolazione in via Xativa a Valencia in occasione della manifestazione contro i tagli di bilancio. Un giovane minatore è stato fermato. Da allora sono seguite manifestazioni ed assembramenti e lo Stato ha risposto con una vera e propria escalation della repressione: 17 persone fermate e trattate in modo umiliante, in particolare le ragazze, insultate rudemente, trascinate per terra … Quelli che si sono raggruppati di fronte al palazzo di polizia di Zapadores sono state vittime di una trappola e sono stati schedati uno ad uno.
Di fronte a tali atti, vogliamo esprimere la nostra solidarietà con tutti gli imprigionati, il nostro sostegno a tutte le manifestazioni di solidarietà che ci sono state, come pure all’atteggiamento degli abitanti della zona di Zapadores che “hanno dimostrato il loro sostegno a quelli che si erano raggruppati lasciando scivolare dai loro balconi delle bottiglie d’acqua ed altre bevande rinfrescanti, cosa che ha provocato gli applausi dei dimostranti”[1].
Perché usare una repressione così brutale contro dei giovani liceali?
Una prima pista è che questi metodi sono stati usati in modo reiterato in altri paesi per affrontare le proteste sociali di massa: si può dunque dire che i governanti spagnoli seguono l’esempio. In Francia, in occasione delle manifestazioni contro la riforma delle pensioni, la polizia ha teso una trappola a 600 giovani a Lione, schedandoli uno ad uno come oggi a Valencia. Ed è la stessa cosa che il governo di Cameron ha fatto in Trafalgar Square, a Londra, in occasione delle mobilizzazioni contro l’aumento delle tasse d’iscrizione all’università. L’obiettivo perseguito è prendere i giovani come testa di ponte per lanciare un avvertimento ai tanti dimostranti che occupano le strade. Ecco quello che cercano di fare anche a Valencia. Non possono permettersi di affrontare migliaia di dimostranti e quindi scelgono qualche centinaia di giovani.
Una seconda pista - che completa la prima - è volerci trascinare in una specie di spirale di azione e reazione, con arresti continui, mobilizzazioni, ancora arresti, in modo che il movimento finisca per esaurirsi e che lo scopo centrale, la lotta contro i tagli e la riforma del lavoro, passi in secondo piano. In Grecia, il governo “socialista” di Papandreu ha usato a profusione questi metodi, non esitando ad utilizzare dei poliziotti provocatori per fare atti di vandalismo che, a loro volta, servivano a giustificare le cariche della polizia e gli arresti in massa.
Un altro obiettivo è quello di creare un clima di tensione che ci spinga a dare risposte improvvisate ed incoscienti. E così, grazie al clima fomentato dal potere e la sua polizia, l’occupazione aperta a tutti i lavoratori, agli studenti, di TUTTI I SETTORI, prevista per il lunedì 20 febbraio, ha dovuto essere annullata.
Infine, uno degli obiettivi della repressione è legato alle tradizioni della destra spagnola. Questa si è distinta storicamente per la sua arroganza provocatrice e la sua brutalità repressiva. L’attuale governo di destra si crogiola senza il minimo scrupolo in quest’atteggiamento e si potrebbe dire che se ne compiace. Tutto ciò fa perfettamente comodo allo Stato ed al capitale spagnolo, preso nel suo insieme, per dirottarci verso la difesa della democrazia – che sarebbe minacciata da questa destra - e verso una lotta per alternative meno “repressive e più sociali”, mentre la sola soluzione è quella di lottare contro il capitalismo in tutte le sue forme e tutte le sue colorazioni politiche.
Le trappole politiche che bisogna evitare
Un giovane, dinanzi allo scatenarsi della repressione di Valencia, gridava: “E’ qui è la Siria!”.
Ed aveva ragione su un punto: lo Stato – che sia democratico o apertamente dittatoriale come quello della cricca di Al-Assad - non esita neanche un attimo ad applicare una repressione brutale quando sono in gioco gli interessi della classe capitalista. Tuttavia esiste una differenza tra lo Stato democratico e lo Stato dittatoriale. Il primo è capace di usare la repressione con intelligenza politica, assestando dei colpi ma accompagnati da manovre politiche per deviare, dividere e smobilitare. Questo lo rende più cinico e pericoloso, perché una repressione accompagnata da manovre di divisione e trappole politiche ed ideologiche, fa molto più male di una repressione dura e cruda.
La trappola che consiste nel mostrare la repressione come se fosse una peculiarità esclusiva della destra ha il grande vantaggio di rendere presentabile lo Stato e quello che c’è dietro, il capitale e la borghesia. Non c’è forse una continuità tra quello che ha fatto il governo del PSOE (come tagli sociali e repressione) e quello che sta facendo il governo attuale? Osservando il resto del mondo, non constatiamo forse che, indipendentemente dal tipo di governo, le cose non fanno che peggiorare?
La trappola che consiste nell’accanirsi sui giovani, cosa di per sé abietta, ha lo scopo di creare una rottura tra le generazioni, dividerle, ed a questo si sono prestati alcuni rappresentanti politici e sindacali dicendo, con tono paternalistico, che i giovani “si sono lasciati trascinare dalla passione” o che “nelle proteste hanno fatto di testa loro”.
La trappola si completa con gli “alternativi” della “fedele” opposizione (il PSOE, Izquierda Unida, etc.) che deplorano questa “repressione sproporzionata”. In altre parole questi signori propongono una repressione “proporzionata”, “controllata”, che nei fatti è un modo di legittimare la repressione. In più, hanno chiesto le dimissioni del Delegato del Governo (centrale) facendo credere così che mettendo un altro burocrate al suo posto, non ci sarebbe più repressione o almeno sarebbe più “morbida”.
Bisogna rigettare queste trappole!
Non si può rispondere alla repressione con delle “richieste di dimissioni” di questo o quel rappresentante, né reclamando “più democrazia”. Tanto meno “moderando” le rivendicazioni, facendo delle concessioni. Tutto questo non fa che rendere lo Stato ancora più determinato e più forte.
Di fronte alla repressione, bisogna rispondere rendendo le manifestazioni, i raggruppamenti e le assemblee ancora più di massa. Bisogna andare verso un’assemblea generale di lavoratori, studenti, disoccupati, che chieda il sostegno ai lavoratori del resto della Spagna, degli altri paesi, che rivendichi il ritiro della Riforma del lavoro e l’annullamento dei tagli, rigettando al tempo stesso le azioni della polizia e chiedendo la liberazione immediata di tutti i prigionieri.
Dobbiamo mobilitarci tutti, giovani e meno giovani, disoccupati e attivi, dipendenti del pubblico e del privato, tutte le generazioni insieme. La sola possibilità che abbiamo di farli retrocedere sta in un’azione congiunta, di massa e solidale. Sappiamo bene, tuttavia, che qualsiasi arretramento che riusciremo ad imporre sarà soltanto temporaneo perché il potere ritornerà alla carica con nuove teste e nuovi metodi. Abbiamo visto che si è cambiato il PSOE con il PP, il quale ha continuato a colpire ancora ed ancora, come si è visto in Grecia dove il Partito cosiddetto socialista è stato sostituito da un governo di Unione nazionale, che comprende dei neofascisti.
Di fronte a tutto ciò, potremo avanzare verso una soluzione dei problemi molto gravi che ci assillano, solo se la nostra lotta prenderà il cammino della trasformazione rivoluzionaria di questa società.
Accion Proletaria (19 febbraio)
In occasione di una conferenza stampa, alla domanda sul numero di poliziotti impiegati per reprimere gli studenti, il capo supremo della polizia della regione di Valencia ha risposto: “Non è prudente, dal punto di vista della tattica e delle forze di polizia messe in campo, che io dica al nemico quali sono le mie forze e le mie debolezze”[1].
Bisogna ringraziare questo alto funzionario della polizia per la grande lezione di marxismo che ci sta dando: primo, ci si considera come nemici, e secondo, si è implicati in una guerra nella quale bisogna avere una tattica e bisogna nascondere le proprie debolezze.
Per contro, i politici di ogni risma, i sindacalisti, gli ideologi, gli opinionisti e specialisti di ogni genere, predicano in senso opposto: secondo loro faremmo parte di una comunità di “cittadini liberi ed uguali” nella quale lo Stato e le sue diverse istituzioni - tra cui la polizia – sarebbero al “servizio di tutti”. Quando i più alti responsabili dello Stato sono costretti a prendere delle misure estremamente dure, lo farebbero per il “bene di tutti”. Così la riforma dello statuto del lavoro verrebbe fatta per “favorire i disoccupati” e, con i tagli e le altre restrizioni, questi signori non farebbero altro che tentare di salvaguardare lo “Stato assistenziale”.
Le dichiarazioni del capo della polizia smentiscono radicalmente questi discorsi fumosi. Quello che ne esce fuori è che, innanzitutto, non siamo cittadini liberi ed uguali ma siamo divisi tra una classe minoritaria che possiede tutto e non produce niente ed una classe maggioritaria che non ha niente e produce tutto. E, in secondo luogo, che l’immensa ragnatela burocratica che tesse lo Stato non è al “servizio dei cittadini”, ma è un patrimonio proprio ed esclusivo di questa minoranza privilegiata, il che comporta che questa considera come nemici i manifestanti che lottano e concepisce il proprio agire come una guerra contro l’immensa maggioranza.
Ci si dirà che questa alta autorità è di destra, che la destra ha una concezione patrimoniale dello Stato e che essa non nasconde il suo egoismo ed la sua natura venale. Tuttavia, guardano la carriera politica di questa persona si apprende che ha iniziato all’interno della Brigada politico-sociale alla fine del franchismo e che nel 2008 è stato nominato al suo attuale posto dall’allora ministro degli Interni, il signor Rubalcaba che, attualmente capo dell’opposizione socialista, usa toni di una radicalità altamente incendiaria. In questa funzione, il capo della polizia di Valencia era sotto il comando di un membro del partito detto “comunista” e avvocato del lavoro del sindacato CO, il signor Peralta, quando ha avuto luogo il famoso episodio di repressione contro dei manifestanti nel quartiere di pescatori El Cabanal di Valencia[2]. Si tratta quindi di una persona che ha servito lo Stato sotto governi di ogni colore. Le sue azioni non sono quindi frutto di un “riflesso fascista della destra” ma una precisa azione di Stato, che ha una logica e una continuità che va ben al di là dell’etichetta politica del partito al comando adesso.
Bisogna ricordarsi, per non parlare che della Spagna, che su 35 anni di “Stato democratico” per ben 21 anni al governo c’è stato il PSOE (Partito Socialista Operaio Spagnolo). Non vale neanche la pena parlare del mandato tra il 2004 ed il 2011 perché è sempre ben presente nelle nostre teste. Per quanto riguarda il primo governo “socialista”, quello del signor Gonzales (1982-1996), ricordiamoci che fu il responsabile dell’assassinio di 3 manifestanti operai (a Bilbao nel 1984, a Gijón nel 1985 ed a Reinosa nel 1987) e della distruzione di un milione di posti di lavoro.
L’attuale ministro dell’Interno, Fernández Díaz, ha tentato di arrangiare le cose dicendo che si era trattato di un … lapsus. Ma un lapsus consiste, appunto, nel dire involontariamente quello che si pensa … veramente!
La società capitalista si caratterizza per l’ipocrisia ed il cinismo più ripugnanti ed in questo la classe dominante è maestra. Basta guardare le campagne elettorali dove vengono fatte mille promesse da tutti i candidati per applicare, una volta eletti, la politica contraria. Nel segreto dei loro uffici gli alti mandatari della borghesia, classe che rappresenta solo una piccola minoranza della popolazione, parlano tranquillamente di tutto quello che andranno a smentire, negare o deformare davanti ai microfoni. Ma ogni tanto un lapsus scappa, è come un lieve strappo nel sipario attraverso il quale si può osservare quello che realmente pensano e quello che riflettono le loro reali motivazioni o le loro perfide macchinazioni contro la stragrande maggioranza, in particolare contro il loro peggior nemico, la classe operaia, contro la quale sono costretti a fare una guerra permanente.
CCI (23 febbraio)
I lavoratori hanno reso pubblica la seguente dichiarazione lo scorso 4 febbraio:
1. Riconosciamo che i problemi attuali e permanenti del Sistema sanitario nazionale e delle organizzazioni associate non possono essere risolti da rivendicazioni specifiche ed isolate o da nostri interessi particolari, perché questi problemi sono il risultato di una lotta più generale contro la politica antipopolare del governo e del neoliberismo globalizzato+2. Riconosciamo anche che insistendo su questo tipo di rivendicazioni, parteciperemmo al gioco implacabile del potere che, per rispondere al suo nemico - e cioè al popolo indebolito e diviso -, tenta di evitare la creazione di un Fronte popolare universale a livello nazionale e mondiale, con interessi comuni e rivendicazioni contro l’impoverimento sociale provocato dalla politica del potere.
3. Per questa ragione, poniamo i nostri interessi particolari nel quadro delle rivendicazioni politiche ed economiche espresse da una gran parte del popolo greco che oggi soffre dell’attacco brutale del capitalismo; per avere successo queste rivendicazioni devono essere portate fino in fondo, in coordinamento con le classi medie e basse della nostra società.
4. Il solo modo per arrivarci è la rimessa in causa, attraverso l’azione, non solo della legittimità politica ma anche della legalità dell’arbitrarietà autoritaria ed antipopolare di una gerarchia che si dirige a grande velocità verso il totalitarismo.
Ospedale generale di Kilkis
Qui accesso gratuito alle cure mediche
La salute pubblica gratuita è un obbligo costituzionale
5. Noi lavoratori dell’ospedale generale di Kilkis, rispondiamo a questo totalitarismo con la democrazia. Occupiamo l’ospedale pubblico e lo mettiamo sotto il nostro controllo diretto e totale. D’ora in poi l’ospedale generale di Kilkis avrà un governo autonomo e la sola autorità legittima per prendere le decisioni amministrative sarà l’Assemblea Generale dei lavoratori.
6. Il governo non è dispensato dai suoi obblighi finanziari per ciò che riguarda la dotazione e l’approvvigionamento dell’ospedale, ma se continua ad ignorare questi obblighi, dovremo informarne il pubblico e ci rivolgeremo all’amministrazione locale e, soprattutto, alla società tutta intera affinché ci sostengano con tutti i modi possibili per: (a) la sopravvivenza del nostro ospedale, (b) un sostegno generale al diritto a cure mediche pubbliche e gratuite, (c) il capovolgimento, attraverso una lotta popolare comune, del governo attuale e la cessazione di ogni altra politica neoliberista, qualunque sia la sua origine e (d) una democratizzazione profonda e sostanziale, e cioè che sia la società, e non dei terzi ad essere responsabile delle decisioni sul suo avvenire.
7. A partire dal 6 febbraio, il comitato dei lavoratori dell’ospedale di Kilkis limiterà il lavoro alle sole emergenze fino al pagamento integrale delle ore lavorate ed il ritorno ai livelli di stipendi anteriori all’arrivo della Troica (CE, BCE e FMI). Intanto, essendo ben coscienti della nostra missione sociale e dei nostri obblighi morali, baderemo alla salute dei cittadini che vengono all’ospedale fornendo cure gratuite ed un alloggio ai bisognosi e continueremo ad esigere che il governo si assuma le sue responsabilità e metta fine alla sua politica crudele, eccessiva ed antisociale.
8. Abbiamo deciso di tenere una nuova assemblea generale lunedì 13 Febbraio nell’auditorio del nuovo edificio dell’ospedale alle 11, dove decideremo delle procedure necessarie per mettere efficacemente in opera l’occupazione dei servizi amministrativi e condurre a buon fine l’autogestione dall’ospedale che comincerà nello stesso giorno. Terremo ogni giorno un’assemblea generale che sarà lo strumento fondamentale per prendere decisioni circa gli impieghi e il funzionamento dell’ospedale. Chiamiamo alla solidarietà il popolo ed i lavoratori di tutti i settori, con la collaborazione di tutti i sindacati e delle organizzazioni progressiste ed il sostegno di tutti i media che scelgono di dire la verità. Siamo determinati a continuare finché i traditori che hanno venduto il nostro paese se ne vadano. O loro o noi!
Le decisioni prese saranno rese pubbliche attraverso una conferenza stampa alla quale sono invitati tutti i media, locali e nazionali, mercoledì 15/2/2012 alle 12, 30. Le nostre AG quotidiane inizieranno il 13 febbraio. Informeremo i cittadini di tutti gli avvenimenti importanti che si svolgono nel nostro ospedale con comunicati e conferenze stampa. Inoltre, utilizzeremo tutti i mezzi disponibili per far conoscere questi fatti affinché questa mobilitazione riesca.
Noi chiamiamo:
a) i nostri concittadini a manifestare la loro solidarietà col nostro sforzo,
b) tutti i cittadini che ricevono un trattamento ingiusto nel nostro paese alla contestazione, ad opporsi ai loro oppressori,
c) i nostri compagni lavoratori di altri ospedali a prendere decisioni simili,
d) i salariati di altri rami dei settori pubblico e privato e gli aderenti delle organizzazioni di lavoratori e progressiste, ad agire nello stesso senso, affinché la nostra mobilitazione diventi una resistenza operaia e popolare universale ed un’insurrezione, fino alla nostra vittoria finale sull’élite economica e politica che oggi opprime il nostro paese ed il mondo.
Links
[1] https://fr.internationalism.org/icconline/2012/la_folie_meurtriere_du_soldat_bales_en_afghanistan_reflete_la_folie_du_monde_capitaliste.html
[2] https://www.spiegel.de/politik/ausland/amoklaeufer-bales-litt-offenbar-unter-posttraumatischem-stress-a-822232.html
[3] https://www.tagesschau.de/thema/usa
[4] https://www.dailymail.co.uk/news/article-1216015/More-British-soldiers-prison-serving-Afghanistan-shock-study-finds.html
[5] https://www.democracynow.org/2012/3/16/mind_zone_new_film_tracks_therapists
[6] http://www.reuters.com/article/2011/06/29/us-usa-war-idUSTRE75S25320110629
[7] https://it.internationalism.org/en/tag/4/92/afganistan
[8] https://it.internationalism.org/en/tag/3/48/guerra
[9] https://it.internationalism.org/content/attentati-di-mafia-i-regolamenti-di-conti-tra-capitalisti
[10] https://it.internationalism.org/en/tag/4/75/italia
[11] https://it.internationalism.org/en/tag/situazione-italiana/politica-della-borghesia-italia
[12] https://it.internationalism.org/en/tag/3/54/terrorismo
[13] https://it.internationalism.org/membro_cci
[14] https://it.internationalism.org/rint/18_statodemocratico
[15] https://it.internationalism.org/content/rivoluzione-internazionale-ndeg163
[16] https://it.internationalism.org/en/tag/2/39/organizzazione-rivoluzionaria
[17] https://it.internationalism.org/en/tag/sviluppo-della-coscienza-e-dell-organizzazione-proletaria/corrente-comunista-internazionale
[18] https://it.internationalism.org/en/tag/3/51/partito-e-frazione
[19] https://www.levante-emv.com/comunitat-valenciana/2012/02/17/seis-arrestados-nueve-heridos-dia-13003388.html
[20] https://it.internationalism.org/en/tag/4/79/spagna
[21] https://it.internationalism.org/en/tag/2/29/lotta-proletaria
[22] https://it.internationalism.org/en/tag/3/50/internazionalismo
[23] https://www.publico.es/espana/423346/el-enemigo-de-los-manifestantes
[24] https://it.internationalism.org/files/it/images/4%20kilkis_bam_html_7867e987.articleimage.jpg
[25] https://it.internationalism.org/en/tag/4/73/grecia