Submitted by CCI on
Gli avvenimenti degli ultimi mesi hanno visto, da una parte, l’accendersi dei riflettori della pubblicità sulla Autonomia Operaia, nuova incarnazione del Maligno per i giornali borghesi, dall’altra la chiarificazione di quanto questa Area abbia perso ogni motivo di richiamarsi alla classe operaia. Nei fatti, più che di Area dell’Autonomia Operaia, si parla ornai di Area dell’Autonomia, schiumosa sommatoria di ogni tipo di frange piccolo-borghesi, dagli studenti agli attori di strada, dalle femministe ai docenti precari, tutte unite nell’esaltare il proprio “specifico” e nel rifiutare inorridite l’unicità della classe operaia in quanto classe rivoluzionaria della nostra epoca. In questo pantano gli “autonomi operai” si distinguono dalla “autonomia” grazie alla loro maggiore “durezza” nello grandi questioni politiche del momento: le molotov si usano in senso offensivo o difensivo? La P-38, questo mitico passe-par-tout per il comunismo, va puntata alle gambe dei carabinieri o più in alto?
In questo quadro di degenerazione totale si collocano, come reazione, alcuni tentativi di critica delle concezioni confusioniste ed interclassiste da parte di settori rimasti legati ad una concezione più “classista”. Per quanto questi tentativi vadano incoraggiati al massimo, bisogna denunciare il grave pericolo cui vanno incontro di considerare queste deviazioni come “incidenti di percorso” e pensare quindi che basti “ricominciare da capo”.
In questo nostro contributo alla discussione abbiamo al contrario analizzato le basi teoriche stesse dell’Autonomia Operaia, mostrando come esse si basino in fondo sul rigetto del materialismo marxista e lascino la porta aperta a tutte le degenerazioni poi manifestatesi. Per fare questo siamo partiti dalle posizioni espresse negli anni ‘50 dal gruppo “Socialisme ou Barbarie” fino a quelle proprie in Italia di “Potere Operaio”, che sono poi passate in eredità all’Area dell’Autonomia.
Abbiamo poi analizzato le conseguenze di questi errori di fondo, con particolare riferimento alla teoria delle multinazionali, al marginalismo e terrorismo, e cercheremo di fare il bilancio dei tentativi di riflessione autocritica che in alcuni settori sembrano manifestarsi.
Ascesa e caduta dell’Autonomia Operaia
“Il secondo pericolo, il ‘modernismo’, il gusto del ‘nuovo’, molto spesso non è che l’altra faccia dell’attivismo; si sviluppa quindi nei periodi di riflusso della lotta e porta al ripiego su se stessi, alla teorizzazione della demoralizzazione, fino all’abbandono della concezione del proletariato come classe rivoluzionaria. Illuminante a questo proposito è la traiettoria dei resti dell’Area dell’Autonomia Operaia in Italia, partiti dall’esaltazione della lotta per la lotta, della guerriglia di fabbrica, del picchetto duro, questi nuclei si sono presto trovati col sedere per terra, di fronte a un riflusso che non sapevano né prevedere, né capire. Invece di trarre le dovute conseguenze sull’impossibilità per la lotta operaia di crescere in maniera lineare in questa fase, si sono quindi limitati ad adeguarsi alla moda del giorno e ad individuare nella lotta per l’aborto, per la musica dei giovani, negli atti di terrorismo disperato ... il ‘nuovo livello’ della lotta operaia! Tutto questo gran parlare del nuovo modo di fare politica, del rifiuto dei ruoli, della ‘pratica del comunismo’ in breve di tutta la vecchia schiuma piccolo-borghese, sollevata dal ‘68, non esprime altro che la fuga di fronte alla rea1tà storica della lotta operaia.” (Introduzione alla Piattaforma della C.C.I., maggio 1976).
Con l’ingresso del capitalismo nella sua fase di decadenza anche il manifestarsi delle lotte operaie risulta profondamente modificato, poiché le lunghe battaglie durate a volte anni, per ottenere miglioramenti come la giornata di otto ore, etc., non hanno più senso, data l’impossibilità di ottenere qualunque miglioramento di fondo in un sistema che non ha più niente da offrire. Le lotte operaie nel periodo della decadenza sono invece caratterizzate da esplosioni imprevedibili e spesso altissime, seguite da lunghi periodi di. apparente calma, mentre si preparano nuove esplosioni.
In Italia è stato particolarmente difficile comprendere questa natura discontinua della risposta operaia alla crisi, per la straordinaria continuità del processo di lotte apertosi nel ‘69 con l’Autunno Caldo, continuate nel 70-71 con l’Autunno strisciante e terminante con l’ultimo colpo di coda dell’Autunno ’72 - marzo ‘73 (occupazione di Mirafiori). In questa ultima impennata di lotte i gruppi extra-parlamentari si sono chiaramente caratterizzati come cani da guardia dei cani da guardia (sindacati) del capitale, perdendo” buona parte dell’influenza acquistata nel ‘69 sugli strati operai più combattivi.
“I contratti del ’72-73 sono da questo punto di vista l’estremo limite oltre il quale i gruppi semplicemente sopravvivono a se stessi”. (Potere Operaio, n. 50, Novembre ‘73).
I gruppi autonomi di fabbrica hanno origine da questo senso di sfiducia nei confronti dei gruppetti, che non arriva però a farsi contrapposizione nei contenuti politici. Per quanto varie siano le motivazioni dei gruppi e degli individui che si sono riconosciuti nell’Area dell’Autonomia, c’è un punto che accomuna tutti, la spinta a rimettere al centro il punto di vista operaio.
Ed è proprio da questo punto di vista, dal punto di vista del richiamo ad una concezione classista della lotta politica che l’Area della Autonomia deve registrare il suo fallimento più clamoroso. Alla scomparsa o peggio alla trasformazione in vuote sigle della schiacciante maggioranza dei gruppi autonomi operai ha corrisposto la proliferazione incredibile di una Autonomia che, lungi dall’essere operaia, trova il suo unico momento unificante nella negazione della centralità della classe operaia.
Femministe ed omosessuali, studenti in ansia per lo sfumare del miraggio di un posticino tranquillo alla Regione o nell’insegnamento ed artisti alternativi in crisi per mancanza di acquirenti, sono un solo fronte compatto nel rivendicare la centralità del proprio “specifico” e la propria preziosa autonomia dal soffocante predominio operaio all’interno di gruppi extraparlamentari (?!!). Contrariamente a quanto scrivono i giornali borghesi, Lotta Continua in testa, questi movimenti marginali non sono i cento fiori della primavera rivoluzionaria, ma alcune delle cento e cento piaghe purulente di questa società in degenerazione.
I militanti operai che hanno partecipato all’esperienza dell’Autonomia operaia e che ancora conservano la testa sulle spalle non a caso si sentono spaesati e fuori posto in questa armata Brancaleone: la loro estraneità è l’estraneità storica di una classe che non ha più neanche un metro di strada da percorrere con l’interclassismo piccolo-borghese.
Nell’ultimo anno il processo degenerativo ha raggiunto livelli tali da costringere alcuni settori più “classisti” a prendere per certi versi le distanze dall’insieme dell’Area ed iniziare un processo di critica delle esperienze passate. Se questi tentativi sono in ogni caso positivi, essi hanno in sé un limite profondo: quello di andare a rintracciare e denunciare il filone più facilmente criticabile, perché marginalista in partenza (Rosso, etc.), per contrapporgli il filone “classista” come filone di classe. In una parola per non mettere in discussione nessuno dei presupposti su cui l’Area fu costruita e rimanere pronti a ripartire, sulla onda della prossima spallata operaia, con lo stesso ciclo di coordinamenti, volantoni, ecc..
Scopo di questo articolo è quindi fare i conti con i presupposti teorici dell’Autonomia e mostrare come il marginalismo anche operaio non ne sia un figlio bastardo e degenere, ma la sua conclusione legittima ed inevitabile. Per questo analizzeremo la teoria della “crisi del comando” che è alla base di tutte le posizioni politiche dell’Area.
Alle origini della “crisi del comando”: il rigetto del catastrofismo economico marxista
Se il lungo periodo di prosperità durato dalla fine del 1800 ai primi del ‘900 aveva potuto dare fiato a tutta una serie di teorie sul passaggio graduale dal capitalismo al socialismo, grazie all’elevazione cosciente dei lavoratori, l’entrata del sistema nella sua fase decadente con la prima guerra mondiale segna la conferma storica delle vecchie formulazioni “catastrofiche” di Marx sul crollo inevitabile dell’economia mercantile. Fu allora chiaro che una sola alternativa si poneva all’umanità: rivoluzione o reazione e la prima non era “ciò che questo o quel proletario o anche l’intero proletariato ritiene in un certo momento di dover fare, ma ciò che sarà storicamente costretto a fare” (Marx).
Anche dopo la sconfitta dell’ondata degli anni ‘20 ed il conseguente passaggio alla controrivoluzione dell’Internazionale Comunista, i gruppi rivoluzionari superstiti tennero fede al principio marxista che “una nuova ondata rivoluzionaria potrà aversi solo in seguito ad una nuova crisi” (Marx). Ma la mancata ripresa proletaria nel secondo dopoguerra - secondo il previsto schema dell’Ottobre rosso - ed il. periodo di benessere legato alla ricostruzione, ebbero ragione anche di queste minuscole frazioni, condannandole alla scomparsa o alla degenerazione in sterili sette. Contemporaneamente si ha, sulle rovine del movimento rivoluzionario, il risorgere di “nuove” teorie per far fronte alla analisi dei problemi di un preteso neo-capitalismo ignorato da Marx, teorie che in campo “marxista” vengono elaborate principalmente dal gruppo francese Socialisme ou Barbarie ([1]), nato nel 1945 da una scissione nella IV Internazionale Trotskysta.
Le posizioni caratteristiche che questo raggruppamento è andato elaborando sono fondamentalmente tre:
1) Invece di partire dalla rottura organizzativa con la controrivoluzione trotskysta per riallacciarsi all’esperienza storica della classe, salvaguardata ed approfondita dalle frazioni di sinistra comunista, Socialisme ou Barbarie proclama il suo alto disprezzo per tutti questi “souvenirs storici” e si rifugia nel culto della propria “originalità” ed unicità come “continuazione vivente del marxismo”.
2) Pur rigettando il mito trotskysta dello stato operaio degenerato, Socialisme ou Barbarie non arriva a caratterizzare l’URSS come capitalismo di stato, e si toglie dall’imbarazzo inventando un terzo sistema sociale, il capitalismo burocratico moderno, che se non è socialismo, non è neanche più capitalismo, e che tende ad affermarsi in tutto il mondo. E’ un capitalismo in cui “le crisi economiche classiche di sovrapproduzione corrispondono ormai ad una fase storicamente sorpassata di disorganizzazione della classe capitalista”; infatti:
“Non c’è nessuna impossibilità per il capitalismo “privato” o totalmente burocratizzato di continuare a sviluppate le forze produttive, né alcuna contraddizione economica insormontabile nel suo funzionamento. Più in generale, non ci sono contraddizioni tra lo sviluppo delle forze produttive e le forme economiche capitalistiche o i rapporti di produzione capitalistici.” (Socialisme ou Barbarie, n. 35).
Come si vede è bastata la temporanea ripresa legata ai fenomeni di ricostruzione del II dopoguerra perché i continuatori viventi del marxismo iniziassero a farneticare sulla “società senza crisi
3) Una volta negata l’insanabilità delle contraddizioni economiche, non si capisce perché mai dovrebbe essere proprio la classe operaia, che è definita dalla sua collocazione nella sfera economica, l’unico soggetto rivoluzionario della nostra epoca. Difatti:
“Il concetto tradizionale di classe corrispondeva alla relazione di individui e gruppi sociali con la proprietà dei mezzi di produzione, e noi l’abbiamo a giusto titolo sorpassato in questa forma, insistendo sulla situazione di individui e gruppi nei rapporti reali della produzione ed introducendo i concetti di dirigenti e diretti.”
Per cui:
“… l’unica distinzione che abbia un valore pratico valido è quella che esiste a quasi tutti i livelli della piramide, salvo evidentemente i vertici, tra quelli che accettano il sistema e quelli che, nella realtà quotidiana della produzione, lo combattono.” (Socialisme ou Barbarie n. 35)
Il risultato di queste tre grandi scoperte non poteva che essere uno: nel 1964 esce una specie di piattaforma del gruppo, da cui sono prese le precedenti citazioni, in cui il marxismo viene esplicitamente rigettato come vecchia fesseria superata. Due anni dopo, nel 1966, Socialisme ou Barbarie, portata a termine la sua storica opera, si dissolve in quanto gruppo.
Ma “le idee dominanti sono quelle della classe dominante” e le conclusioni anti-marxiste di Socialisme ou Barbarie si sono propagate attraverso una miriade di gruppi fra cui il più noto è l’Internationale Situationiste, che alla frittata socialbarbara aggiunse, negli anni precedenti al ‘68, dei piccanti contorni sulla critica della vita quotidiana. E’ sintomatico del mutare della situazione e del volgere alla fine del periodo di prosperità che l’Internationale Situationiste non sia mai arrivata a liquidare apertamente il marxismo, rifugiandosi dietro i giochi di parole tipo “come diceva Marx, noi non siamo marxisti”, ecc..
Maggio ‘68 è stato il canto del cigno di queste posizioni: il riaffacciarsi del movimento operaio sulle scena della storia, quando la crisi economica non si era ancora mostrata in tutta la sua ampiezza, ha potuto far credere a questi sciagurati che il movimento non avesse basi economiche, ma partisse. dal rifiuto della “noia di vivere”:
“L’eruzione rivoluzionaria non è sorta da una crisi economica, ma AL CONTRARIO HA CONTRIBUITO A CREARE UNA SITUAZIONE DI CRISI NELL’ECONOMIA.., quella che è stata attaccata frontalmente in Maggio è stata l’economia capitalista FUNZIONANTE BENE”.([2])
“Quanto ai resti della vecchia ultrasinistra non trotskysta..., avendo riconosciuto in Maggio una crisi rivoluzionaria, dovevano quindi provare l’esistenza nella primavera ‘68 di questa crisi economica “invisibile”. Essi si prodigano senza tema di ridicolo, nel produrre schemi sull’aumento della disoccupazione e dei prezzi.”([3])
Effettivamente per i teorici della “società dello spettacolo” solo una crisi spettacolare poteva essere visibile. I marxisti, invece, non hanno bisogno di aspettare che l’evidenza delle cose si imponga sulle copertine dell’Espresso o arrivi a penetrare il cervello di Guido Carli, per riconoscere e salutare l’imminenza e la portata della nuova crisi. Nonostante la loro lontananza dai centri del mondo capitalista, un pugno di compagni venezuelani, “ultrasinistri” potevano scrivere nel gennaio 1968 sulla loro rivista, Internacionalismo:
“L’anno ‘67 ci ha lasciato la caduta della sterlina ed il ‘68 ci porta le misure di Johnson... Noi non siamo dei profeti e non pretendiamo di sapere quando e come avranno luogo gli avvenimenti futuri. Noi siamo certi, per contro, che sia impossibile arrestare il processo che il capitalismo subisce attualmente con riforme e svalutazioni ed altre misure economiche capitalistiche e che inevitabilmente questo processo lo porta verso la crisi. Attraverso ciò, il processo inverso che si sviluppa attualmente, quello delle crescita delle combattività di classe, porterà il proletariato alla lotta sanguinosa e diretta in vista della distruzione degli Stati borghesi.”
L’irruzione sulla scena storica della classe operaia a partire dal ‘68 toglie ai fautori dalla “festa rivoluzionaria” ogni possibilità di parlare in suo nome: nel corso del 1970 l’Internationale Situationiste si dissolve in un’orgia di esclusioni reciproche; da allora le cicliche esplosioni di ribellismo che esprimono lo sfacelo della piccola-borghesia non sono mai arrivate neanche a costituire un’Internationale Situationiste.
Per quanto si pitturino la faccia e si mettano penne fra i capelli, gli indiani metropolitani non possono nascondere né le rughe né la calvizie: il proletariato “giovanile”, prima ancora di nascere, era già un cadavere che ancora cammina.
Il volontarismo in versione operaia e la crisi del comando
L’entrata in campo della classe, oltre alla liquidazione dei situazionisti e contestatari vari, impone un riaggiustamento delle teorie sul controllo della crisi che tenga conto della nuove realtà. Invece di negare semplicemente la possibilità della crisi (come si fa, ora?) si rivaluta il lato attivo della tesi: dato per scontato che il capitalismo controlla la crisi economica, è la crisi di questo controllo in seguito all’iniziativa operaia che apre la via alla crisi economica vera e propria.([4])
Questo tema che già iniziava ad affacciarsi negli ultimi testi situazionisti, in mezzo alle pastorali sulla “critica della vita quotidiana”, diventa il centro delle posizioni dei nuovi social-barbari, che saranno quindi “marxisti” ed “operai”. E’ significativo che in Francia il tentativo abortito di creazione su questa base di una Gauche Marxiste pour le pouvoir des conseils des travailleurs nel 1971, sia partito dal gruppo Pouvoir 0uvriere, discendente “marxista” di Socialisme ou Barbarie.
In Italia queste posizioni vengono espresse fondamentalmente dal gruppo Potere Operaio, e quindi analizzeremo in particolare le sue concezioni.([5])
Si parte dal riconoscimento dell’onnipotenza del “cervello teorico del capitale” manipolatore esperto di una società senza crisi:
“Dopo il ‘29, il capitale impara a controllare il ciclo, a impadronirsi dei meccanismi della crisi, a non restarne stritolato ed a usarli in modo tutto politico contro la classe operaia”. ([6])
Per proporre l’antidoto:
“L’obiettivo strategico della lotta operaia - più soldi e meno lavoro - martellato contro lo sviluppo, ha verificato il teorema dal quale eravamo partiti dieci anni fa: introdurre un concetto nuovo di crisi dello stato del capitale, non più crisi economica spontanea, per le sue contraddizioni interne, ma crisi politica, determinata dai movimenti soggettivi della classe operaia, dalle sue lotte economiche d’attacco”.([7])
Una volta negato che “una nuova ondata rivoluzionaria potrà aversi solo in seguito ad una nuova crisi”, bisogna ancora spiegare perché mai questa soggettività operaia abbia deciso di risvegliarsi nel 1968-69 e non, mettiamo, nel ‘54 o nell’82. Le spiegazioni sulle origini del ciclo di lotte rivelano tutta l’incomprensione, o meglio l’ignoranza, da parte di Potere Operaio, della storie del movimento operaio.
Mentre gli anni ‘20 furono la risposta operaia all’entrata del capitalismo nella sua fase di decadenza, il che rendeva impossibile la lotta per le riforme ed esigeva la presa del potere politico, Potere Operaio la identifica con “l’organizzazione comunista basata sulle professionalità… si pensi alle velleità autogestionali contenute nell’esperienza ordinovista” di. Gramsci e Togliatti (!), prestando fede cieca alle ricostruzioni “a posteriori” degli storici stalinisti.
La sconfitta dei primi anni ‘20, l’espulsione e poi lo sterminio dei compagni da parte dell’Internazionale passata alla controrivoluzione, tutto ciò non esiste per Potere Operaio, dato che esce dai limiti della fabbrica. Per loro il fatto centrale è l’introduzione della catena di montaggio che “dequalificò tutti gli operai, respingendo indietro l’ondata rivoluzionaria” ed è solo negli anni ‘30, per non aver compreso la ristrutturazione dell’apparato produttivo avvenuta sulle base delle teorie economiche di Keynes, che le organizzazioni storiche della classe operaia si sarebbero trovate “dentro il progetto capitalistico”. Niente di strano poi, che la Cina capitalista e stalinista sia accettata come “faro ideale”, “limite oltre il quale la espressione capitalistica non è riuscita a pianificare il proprio intervento”:
“Siamo anzi certi che l’irriducibilità del movimento rivoluzionario cinese (sarebbero i burocrati maoisti, NdR) al comando capitalistico al livello mondiale possa dare un grande impulso all’opera di unificazione operaia e proletaria sul piano internazionale.” ([8])
Messa così la questione, rigettata l’esperienza storica della classe, non vale la pena di chiedersi perché mai solo nel ‘68 “gli operai hanno appreso... che una nuova società ed una nuova vita sono possibili, che un nuovo libero mondo è alla portata della lotta”. Basterà rispondere:
“E dove sono queste “circostanze obiettive” se non nella volontà politica soggettiva, organizzata, di percorrere fino in fondo la via rivoluzionaria?” ([9])
Su questa base la proposta organizzativa che Potere Operaio rivolge a tutte le avanguardie non potrà che fondarsi sul disprezzo più assoluto sull’autonomia reale della classe operaia, considerata molle cera nelle mani del partito che, a gran consolazione, “è dentro le classe”:
“Abbiamo sempre combattuto la feccia opportunista che chiamava “spontaneismo” la spontaneità invece di chiamare impotenza la propria incapacità di dirigerla e di piegarla ad un progetto organizzativo, ad una direzione di partito” (sottolineatura nostra, NdR) ([10]).
Le lotte operaie diventano una sorta di saliva del cane di Pavlov, che è possibile suscitare suonando un campanello:
“Quello a cui miriamo è la costruzione organizzata, soggettiva, di un nuovo ciclo di lotta di classe...”. ([11])
“Un nuovo ciclo di lotte operaie va messo in piedi perché l’organizzazione in esso forzi il suo programma politico, verso il programma di potere.” ([12])
Il nodo centrale delle contraddizioni di Potere Operaio è che quando parla del partito come frazione della classe, non intende parlare dell’organizzazione che raggruppa intorno a un chiaro programma, quindi su base politica, gli elementi più coscienti che si vanno formando nelle lotte operaie, quale che sia la loro origine sociale; vuole parlare di uno strato, di una percentuale della classe che viene addirittura sociologicamente additato nell’“operaio-massa, l’avanguardia di massa della lotta contro il lavoro”. Il menscevico Martov difendeva contro il bolscevico Lenin la tesi che “membro del partito è ogni scioperante”. I “bolscevichi” di Potere Operaio hanno rimesso a nuovo Martov: “membro del partito è ogni scioperante duro”.
Il programma comunista non ha bisogno di fronzoli tipo sintetizzare l’esperienza storica della classe, denunciare il capitalismo di stato in Russia e Cina, le lotte di liberazione nazionale come momenti di lotta interimperialista ecc., basta che proclami: “più soldi e meno lavoro”. Il partito non è che un grande comitato di base e l’unico problema è quello di piegare all’egemonia dell’operaio massa “la vischiosità e la resistenza di certi strati della classe”.
Per smuovere questa gente bisogna servirgli il piatto organizzativo già bello e pronto:
“Perché... il sindacato ha ancora in mano la gestione delle lotte? Solo in ragione della sua superiorità organizzativa. E’ dunque un problema di gestione quello che abbiamo di fronte. Un problema di superamento di una soglia minima di organizzazione, oltre la quale è credibile, materialmente accettabile, una possibilità di gestione dello scontro.” ([13])
In una parola i compagni di Potere Operaio non fanno quello che dovrebbero (chiarificazione politica ed intervento internazionale sulla base di un programma coerente) e si rimbecilliscono nel tentativo di fare ciò che non possono (scatenare cicli di lotte operaie, accelerare i tempi dello scontro, etc.). Il noto episodio del giornale di base operaio che - per garantire un livello da partito - venne alla fine scritto da due dirigenti della sezione romana di Potere Operaio non può essere spiegato con la follia di due persone; quando si sovrappone il partite agli strati “incazzati” della classe, è inevitabile che di fronte al riflusso progressivo dell’incazzatura sia il partito a doversi sempre più sostituire non solo alla classe ma anche ai suoi strati più combattivi, in una spirale “tutta soggettiva” di ascetismo e “militarizzazione”.
Il formarsi dell’Area dell’Autonomia e lo scioglimento di Potere Operaio
L’impennata di lotte operaie dell’autunno ‘72 conclusasi con l’occupazione alla Fiat Mirafiori nel marzo ‘73 precipitano, da una parte, la credibilità dei gruppetti extra-parlamentari nei confronti della classe (ciò che porta al proliferare degli organismi autonomi), dall’altra la crisi interna di Potere Operaio.
Viene messa in questione la linea ipervolontarista e militarizzata espressa in particolare dai dirigenti di Roma, i quali:
“teorizzano la struttura militare come sola capace di svolgere un ruolo rivoluzionario, negando la lotta di classe ed il ruolo politico dei comitati operai e proletari”.([14])
Purtroppo questa denuncia non arriva ad individuare le basi teoriche di questa degenerazione, e si presenta più come una riaffermazione delle tesi di Potere Operaio che una sua critica. Non si arriva a stabilire una relazione tra l’affacciarsi della crisi economica del capitalismo e la ripresa delle lotte operaie, che resta affidata all’intervento soggettivo delle avanguardie:
“Poche decine di operai, negli anni sessanta, legati alle masse,..., erano riusciti... ad imporre un salto in avanti qualitativo, fondamentale ed irreversibile, ai comportamenti ed alle Lotte operaie”. ([15])
Nei fatti si assiste ad un semplice riaggiustamento della vecchia tesi, per spiegare in qualche modo come facesse ad aggravarsi la crisi in tutti i paesi, anche in assenza di lotte operaie: se prima si insisteva sulla crisi provocata dalle avanguardie ora inizia a prendere il sopravvento la tesi complementare - destinata a larga fortuna - della crisi provocata ad arte dai padroni:
“Certi fenomeni come la crisi, l’inflazione, il marasma monetario, la decomposizione del sistema politico esistente e via di questo passo, non possono che spiegarsi che in termini di attacco al salario relativo”([16]).
“La crisi economica i padroni la creano e la eliminano quando lo ritengono opportuno, sempre con l’obiettivo di battere la classe operaia” ([17])
Ancora una volta si rifiuta un bilancio della esperienza storica del proletariato, limitandosi ad “irridere giustamente la forma terzinternazionalista del partito”. Ora, quando la classe riflette sul proprio passato, non lo fa per farsi quattro risate o due singhiozzi, ma per comprendere gli errori fatti e, sulla base dell’esperienza, tracciare una linea che sia di classe e di demarcazione dal nemico di classe. Il proletariato rivoluzionario non “irride” al superato marxismo-leninismo di Stalin per meglio esaltare quello messo a nuovo da Mao-tse-tung, ma li denuncia entrambi come armi della controrivoluzione. Proprio quello che i nostri neo-autonomisti non hanno intenzione di fare:
“Da questo punto di vista respingiamo ogni dogmatica (?!) distinzione tra leninismo ed anarchia: il nostro leninismo è quello di “Stato e Rivoluzione”, il nostro marxismo-leninismo è quello della rivoluzione culturale cinese” ([18]).
Questa ammirevole capacità di evitare il dogmatismo porterà, come è noto, l’Autonomia Operaia ad esaltare contemporaneamente la guerriglia di fabbrica in Italia e la militarizzazione degli scioperanti da parte dei marxisti-leninisti di Pechino e Luanda.
Qual è in conclusione il ruolo dei rivoluzionari?
“Dobbiamo essere capaci di raccogliere e di organizzare la forza operaia, non di sostituirci ad essa”([19]).
Questa frase condensa il limite invalicabile oltre il quale l’Autonomia non è mai riuscita ad andare, quello di considerare sostituzioniste solo le concezioni per cui la rivoluzione la fanno i deputati con le riforme o gli studenti “militarizzati” con le molotov.
Sostituzionista è invece chiunque neghi la natura rivoluzionaria della classe operaia, con tutto ciò che questo comporta e quando si viene a dire che compito dei rivoluzionari è organizzare la classe si nega appunto la capacità della classe di auto-organizzarsi in contrapposizione a tutte le altre classi della società. I Consigli Operai della prima ondata. rivoluzionaria furono creati spontaneamente dalle masse proletarie, merito di Lenin nel 1905 non è stato quello di organizzarli, ma quello di riconoscerli e di difendere al loro interno le posizioni rivoluzionarie del partito.
Quando “l’organizzazione, il partito oggi è tutt’uno con lo scontro, con la lotta”, una volta finita la lotta, come si può mai giustificare la permanenza di questo partito senza cadere nel sostituzionismo? Quella che effettivamente si identifica con la lotta è l’organizzazione unitaria del proletariato, cioè l’assemblea generale degli scioperanti (di tutti, e non delle sole avanguardie) cui rende conto il comitato di sciopero. Ma questo comitato, quando sia finito lo sciopero e si sia sciolta l’assemblea, si scioglie anch’esso e non pretende di trasformarsi in Assemblea Autonoma. Solo l’entrata della lotta in una fase di permanenza e generalizzazione, cioè l’entrata in un periodo rivoluzionario, permette alla classe di creare e tenere sotto controllo un comitato di sciopero permanente, cui tutte le fabbriche inviano delegati, di organizzarsi cioè in Consiglio Operaio.
Le avanguardie, i rivoluzionari, non si raggruppano intorno alla lotta, ma intorno ad un programma politico, ed è sulla base di questo che, prodotti dalle lotte, divengono a loro volta un fattore attivo al loro interno, senza né dipendere dagli alti e bassi del movimento, né volerli colmare con la propria volenterosa opera ‘organizzativa’ ”.
L’incapacità di vedere che classe ed organizzazione rivoluzionaria sono due realtà distinte, ma non contrapposte, è alla base delle concezioni sostituzioniste che, tutte, identificano partito e classe: se i leninisti identificano la classe nel partito, gli autonomi (nipoti inconsapevoli del consiliarismo degenerato) si limitano a rivoltare la frittata, identificando il partito nella classe.
Questa incapacità è il sintomo della mancata rottura con gli errori di fondo di Potere Operaio, che si manifesta nella ricorrente affermazione della utilità avuta dai gruppi extra-parlamentari:
“Ognuno di noi era incapace di fare un giornale prima di entrare in un gruppo, ognuno di noi era incapace di raccogliere soldi prima di entrare in un gruppo”.([20])
Non si può che rimanere stupefatti di fronte alla scelta dell’efficienza di addestramento tecnico come criterio di valutazione di un gruppo politico. Per cui invece di denunciare il carattere controrivoluzionario del programma politico di questi gruppi, gli ex-aderenti di Potere Operaio ci annunciano pudicamente che i gruppi sono una forma “superata”, così come è “superato” il terzinternazionalismo di Stalin. Solo Dio (o il suo equivalente moderno, il “cervello complessivo del capitale”) può vedere una qualche differenza dal “giustificazionismo storico” alla Togliatti-Berlinguer.
La mancata rottura reale, cioè nei contenuti, con i gruppi extraparlamentari è espressa in termini plateali dall’Assemblea Autonoma del l’Alfa, che teorizza addirittura una specie di spartizione dei compiti, per cui i gruppi politici fanno le lotte politiche (cioè libertà politiche, diritti civili, antifascismo, in una parola tutto l’arsenale di mistificazione anti-operaia) mentre gli organismi autonomi ripartono dalle lotte di fabbrica, anzi di reparto. Concezione logica per chi pensa; che:
“la capacità di togliere Valpreda dal carcere con il voto diventava un momento di lotta vittoriosa contro lo Stato borghese (!). L’incapacità di unirsi su questo obiettivo ha provocato confusione e sfiducia in una forza alternativa al sistema capitalistico.” ([21])
Come si vede l’Autonomia Operaia partiva con delle basi un po’ più confuse di quelle con cui era partito Potere 0peraio, quando la mutata situazione ne avrebbe richiesto di cento volte più chiare. In questo quadro risultano destinate a girare a vuoto ed a perdersi tutte quelle spinte proletarie che pure si esprimevano in questo tentativo, come confusa e sana reazione alla miserabile pratica gruppettara.
L’Area è dunque stata il calderone in cui le componenti proletarie sono state prima amalgamate nel minestrone confusionista, quindi diluite con il brodo dell’interclassismo. Non riconoscerlo significa schierarsi fra i “cucinieri”, come vedremo nella parte successiva dell’articolo.
BEYLE
[1] Per una valutazione più approfondita delle sue posizioni, vedi “Un tentative de dépassement du marxisme: Socialisme ou Barbarie”, in Bulletin d’étude et discussion n° 11, suppl. a Révolution Internationale, organo della C.C.I. in Francia.
[2] René Vienet, Situationnistes et enragés dans le mouvement des occupations, ed. Gallimard.
[3] Internationale Situationniste, n° 12, dicembre 1969.
[4] Questo non significa che noi neghiamo la lotta operaia come fattore aggravante della crisi. Nella misura in cui ogni intervento di sollievo temporaneo della crisi non può che essere una misura antioperaia, è chiaro che la resistenza operaia alla degradazione delle proprie condizioni di vita, rende problematica anche l’attuazione dei patetici piani di rilancio degli economisti borghesi.
[5] Noi non vogliamo assolutamente sostenere che ci sia una discendenza diretta fra Socialisme ou Barbarie e Potere Operaio; è noto che le sue ascendenza specifiche vanno variamente cercate nei Quaderni Rossi e in riviste come la Classe Operaia, La Classe, ecc. Ci interessa invece sottolineare come le posizioni che i militanti e i seguaci di Potere Operaio hanno sempre ritenuto frutto della nuova ripresa delle classe altro non siano che versioni operaiste di vecchie degenerazioni fiorite sulla sconfitta operaia. Va d’altra parte ricordato che Potere Operaio è stato l’unico gruppo italiano ad esprimere, nel modo più confuso possibile, questa ripresa di classe e che la sua fine miserevole non deve far dimenticare che gli altri, come era giusto, sono finiti al Parlamento.
[6] Le citazioni sono dall’opuscolo “Alle avanguardie per il Partito” elaborato dalla Segreteria Nazionale di Potere Operaio, dicembre 1970.
[7] ibidem, pag. 30.
[8] Ibidem, pag. 46.
[9] Potere Operaio n° 38-39, maggio 1971, pag. 3.
[10] Potere Operaio n° 38-39, maggio 1971, pag. 4.
[11] Alle Avanguardie per il partito, pag. 28.
[12] Ibidem, pag. 76.
[13] Ibidem, pag. 34.
[14] Potere Operaio, n° 50, novembre 1973, p. 69. Si tratta dei materiali del seminario tenuto a Padova nel maggio ‘73 dal gruppo che faceva capo a Toni Negri e che vi decise la confluenza negli organismi di base dell’Autonomia operaia. Date le partecipazioni ai lavori dell’Assemblea Autonoma dell’Alfa, dei Comitati Autonomi di Roma, ecc., questo può essere considerato il Congresso di fondazione dell’Area, o quanto meno dei filone “classista” che ci interessa seguire. Le citazioni non meglio specificate sono prese da questo documento.
[15] Ibidem p. 2.
[16] Ibidem, pag. 101.
[17] “Dalle lotte allo sviluppo dell’organizzazione autonoma operaia” delle Assemblee Autonome Alfa Romeo e Pirelli e C.d.L. Sit-Siemens, maggio 1973.
[18] Potere Operaio n° 50, pag. 3.
[19] Ibidem, pag. 102.
[20] Ibidem, pag. 1O5.
[21] Alfa Romeo “Diario operaio della lotta 1972-73”, a cura dell’Assemblea Autonoma, Ottobre ‘73, p. 11.